L’Ong Lvia in Burkina Faso: Una storia lunga 40 anni

L’Ong Lvia ha da poco festeggiato i 40 anni di presenza in Burkina
Faso. Fondata nel 1966 da don Aldo Benevelli, 7 anni dopo i primi volontari
giunsero nell’allora Alto Volta. Da quel giorno tante realizzazioni, ma soprattutto
storie di persone, incontri, relazioni. Scopriamo
questa storia positiva che lega Italia e Africa dalle parole dei protagonisti.

Riccardo Botta è tornato in Burkina Faso per
festeggiare i 40 anni di attività dell’Ong Lvia (Lay
volonteer inteational association, www.lvia.it) nel paese. Lui
è stato tra i pionieri, nel primo gruppo di volontari che con Lvia sono partiti
alla volta del Burkina Faso. A Donsè, Riccardo metteva le basi di una storia.
Erano gli anni Settanta.

«È
ancora vivo nella memoria il momento in cui nel lontano ’73, su richiesta del
cardinale Paul Zoungrana, mettemmo piede in Alto Volta, come allora era
chiamato il Burkina Faso. Trovammo un paese sconvolto dalla siccità. Partimmo
in cinque per dar vita, con la diocesi di Ouagadougou e i ministeri della Sanità
e dell’Agricoltura del Burkina Faso, al primo programma di cooperazione». Così
ricorda Riccardo Botta. Infermiere in pensione, quando era poco più che
ventenne entrava a far parte del gruppo di giovani Lvia che allora – era il
1966 – si stava costituendo sotto la guida di un carismatico don Aldo
Benevelli. Continua: «Don Aldo era un prete guru; schieratissimo contro la
guerra del Vietnam, il suo monito era “Cambiate le vostre spade in vomeri!”.
Erano anni di grande fermento, di ideali, di desiderio di prendere posizione e
attivarsi».

Anni ruggenti

«Il nascente gruppo Lvia era figlio del clima post
conciliare – spiega don Aldo Benevelli, che ricorda i primi passi dell’associazione.
Con il Concilio Vaticano II si faceva strada l’idea di una Chiesa nuova e a noi
interessava soprattutto il rinnovamento del cristiano, come uomo che sta vicino
all’uomo. Nasceva a Cuneo un gruppo di giovani eterogeneo, cattolici, laici, provenienti
dal mondo del sindacato e dell’università, ma con uno sguardo sul mondo basato
sui medesimi valori».

Nel 1972 iniziava la grande siccità nel Sahel che colpì
oltre 50 milioni di persone. Una tragedia umanitaria che per la prima volta
portava alla ribalta sui grandi mass media mondiali questa, allora poco
conosciuta, regione africana. Dal contatto tra don Aldo Benevelli e i padri
Camilliani in Burkina Faso, nasce l’impegno di Lvia nel paese per affrontare la
carestia. Continua Riccardo: «Partimmo con alcuni giovani di Ivrea, dove mons.
Luigi Bettazzi aveva fondato un gruppo come il nostro. Nel villaggio di Donsè
costruimmo la nostra sede, una modesta capanna; avevamo un solo motorino ed
eravamo distanti dalla capitale 35 km, da percorrere senza strade asfaltate.
Facevamo una vita spartana, bevevamo l’acqua del barrage (diga),
raccogliendola con i bidoni e filtrandola e mangiavamo un piatto a base di
miglio e foglie. Eravamo gli unici cooperanti in quell’area e volevamo portare
un messaggio di condivisione. Dovevamo vivere come gli altri. La differenza tra
noi e i cooperanti in capitale era abissale, tanto che eravamo soprannominati
“i mendicanti”».

Mons. Jean-Marie Untani Compaoré allora era responsabile
della Diocesi di Ouagadougou, il partner che accolse Lvia in Burkina Faso. Oggi
ancora vicino all’associazione, ricorda: «La venuta degli amici italiani era
stata annunciata nel 1972 in chiesa, nel quadro delle celebrazioni eucaristiche
in cui erano presentati i tre precursori della Lvia, dei “bianchi”. A seguito
di questa visita di conoscenza, i primi volontari cominciarono ad arrivare a
Donsè, ospitati presso il Centro di formazione dei catechisti. Non tardarono a
iniziare le attività». Cominciava così il primo programma agricolo-sanitario e
la costruzione del primo dispensario a Donsè, con due casette per il ricovero e
le consultazioni.

Africani: ruolo fondamentale

Negli anni ’80 e ‘90 le competenze locali aumentavano e le
istituzioni erano più presenti. Ezio Elia è partito per il Burkina Faso nel 1989:
«Conoscevo la Lvia da sempre, fin da bambino andavo a messa alla cappella dei
ferrovieri da don Aldo Benevelli. La mia destinazione è stata la città di
Ziniaré. Lavoravamo con le autorità governative ma anche con i villaggi. Molti
dei miei colleghi erano burkinabè e il loro ruolo era fondamentale per
accompagnare i villaggi nella scelta delle infrastrutture da costruire – una
scuola, un pozzo, un mulino – per aiutarci a capire le dinamiche in atto
indicandoci, ad esempio, se ci fosse in quel villaggio un gruppo abbastanza
coeso da poter gestire una futura struttura».

Era il 1993 quando, alla fine di un lungo programma di
sviluppo integrato promosso da Lvia, il gruppo di animatori impegnati nel
progetto decise di auto organizzarsi per proseguire e consolidare i risultati
raggiunti. Otto persone fondarono l’Associazione di Aiuto agli Agricoltori
(Ask, acronimo in lingua locale, il mooré), che oggi con 7.000 contadini associati è
un’organizzazione di riferimento per la regione del Plateau Central.

Un seme che dà frutto

I
quarant’anni di Lvia sono stati anche l’occasione per celebrare i vent’anni di
esistenza dell’Ask. Marcel Koutaba, il suo fondatore, ha iniziato negli anni
Settanta a lavorare con Lvia come autista. Accompagnava nei villaggi gli animatori,
che si occupavano di seguire i produttori nella realizzazione delle attività
agricole: «Ho potuto approfondire il ruolo dell’agricoltura nello sviluppo
dell’Europa e ho capito che dovevamo proteggere i nostri agricoltori contro la
crescente urbanizzazione, che stava sradicando la nostra cultura agricola e che
avrebbe ostacolato lo sviluppo del paese. Il mio interesse alle questioni
agricole ha portato Lvia a formarmi e quindi impiegarmi come animatore. Insieme
ad altri sette colleghi che, come me, avevano lavorato con Lvia, ho fondato
l’Ask, nel 1993 a Donsè. Già negli anni Settanta, Lvia era impegnata per lo
sviluppo di queste aree rurali, dove la popolazione viveva in piccoli villaggi
privi dei servizi di base. Questi interventi, però, non si sono limitati alla
foitura di servizi, ma Lvia ha coinvolto la popolazione, creando maggiore
consapevolezza e competenza diffusa sul territorio. Queste competenze e lo
spirito associativo ci hanno supportato e ci hanno dato forza nella nostra
scelta di fondare l’Ask. Abbiamo cioè preso coscienza del nostro ruolo di
agricoltori e ci siamo resi conto di avere l’opportunità di rispondere ai
bisogni del nostro territorio, di unire gli sforzi per aiutare i nostri
connazionali a restare nel proprio paese vivendo del proprio lavoro».

Tra i
soci onorari dell’Ask, il presidente della federazione di Ong cristiane Focsiv
– Volontari nel mondo, Gianfranco Cattai, che da molto tempo conosce
l’associazione, riflette: «Grazie alla saggezza degli anziani, il dinamismo dei
giovani, il pragmatismo delle donne, durante questi vent’anni l’Ask ha
sviluppato l’economia locale, suscitando l’entusiasmo dei giovani, creando
opportunità di impegnarsi localmente e in molti casi evitando l’esodo verso la
città o l’emigrazione. L’Ask è un insieme di buone pratiche che noi in Italia
dovremmo conoscere, un percorso di persone che hanno creduto in loro stesse e
hanno avuto la speranza delle trasformazioni del loro territorio e della qualità
della vita della propria comunità».

Motivazione e passione

Oggi
l’équipe di Lvia in Burkina Faso è costituita da sedici burkinabè e quattro
cooperanti italiani. Una di loro è Cristina Daniele. Per lei l’Ong di Cuneo è
stata una scelta professionale. Ma c’è anche altro: «Ho colto l’opportunità del
servizio civile internazionale e sono partita con Lvia, facendo una prima
esperienza di cooperazione con cui ho potuto mettermi alla prova e capire se la
vita del cornoperante potesse fare per me. Ho scelto di restare. E nello
scegliere questa strada, c’è la consapevolezza che non si tratta solo di un
lavoro ma di una passione, di una forte motivazione, un credere nella
possibilità di generare cambiamento».

Dallo
stesso spirito sono mossi Emile, Ousmane, Jean Paul, Clémence e altri burkinabè
che non solo lavorano con l’Ong, ma sono protagonisti di questo movimento
associativo.

A
problemi globali, soluzioni locali. Il mondo è un tutto e ciò che si fa in
Burkina può influenzare gli stili di vita in Italia, le decisioni che si
prendono al Nord possono avere ripercussioni anche al Sud. Così, mentre lavora
in Burkina Faso per migliorare, ad esempio, sicurezza alimentare e ambiente, in
Italia Lvia cerca di sensibilizzare i cittadini a un consumo attento e
responsabile.

Marco
Alban è l’attuale responsabile di Lvia in Burkina Faso. Per lui, la
cooperazione non è solo una questione tecnica: «Lo sviluppo non è solo
realizzare, ad esempio, un pozzo. Il vero sviluppo è la dinamica che c’è dietro
questo pozzo, ciò che ha motivato e permesso la sua realizzazione, ciò che ne
garantirà la sua conservazione e sostenibilità. Si ha la tendenza a immaginare
l’Ong del Nord che viene a lavorare in un paese del Sud come se si trattasse di
un flusso unilaterale. Invece, Lvia ha sempre messo l’accento sulla reciprocità
nel suo cammino e, in questi anni di cooperazione, i legami e le relazioni tra
gli uomini restano uno dei patrimoni più importanti. C’è una grande differenza
tra considerare le popolazioni come beneficiarie e considerarle, a tutti gli
effetti, come partner. Non si tratta di svilupparle, ma di sostenere
un’iniziativa locale. Bisogna tirarsi su le maniche per lavorare e camminare
insieme. Per fare ciò, bisogna saper ascoltare, dialogare e darsi tempo per
comprendere. Si dice che conoscere un villaggio significhi conoscere il mondo …».

Lia Curcio*
* Lia Curcio lavora all’Ufficio
Stampa Lvia in Italia.

Tag: Burkina Faso, Lvia, cooperazione, volontariato

Lia Curcio




L’oro del Karamoja

Sfruttamento intensivo del Nordest Uganda
Tra le ferite ancora aperte delle violenze armate degli anni passati, il rischio dello sfratto dalle proprie terre, la siccità che sembra
aumentare di anno in anno facendo crescere l’insicurezza alimentare.
Sui pendii del monte Moroto, nell’angolo più remoto del Nord
Est dell’Uganda, alcuni membri della tribù Karamojong, inclusi i bambini,
ricercano l’oro nell’arida terra rossa.

Un tempo allevatori di bestiame, i Karamojong
sperano di migliorare la loro situazione economica vendendo piccole quantità
d’oro che grattano dalla terra arida del Karamoja, regione a Nord Est
dell’Uganda, al confine con il Kenya e il Sud Sudan, considerata la più
emarginata del paese e una delle più povere del mondo. Terra di pastori
seminomadi, il Karamoja è stato teatro di un lungo ciclo di conflitti tra i
diversi clan di guerrieri per l’accaparramento del bestiame, la sopravvivenza,
e in lotta contro l’interferenza del governo.

Dal 2001, per un decennio, migliaia di soldati ugandesi
hanno condotto una brutale campagna di disarmo in tutta la regione. Con il
disarmo e la relativa riduzione dell’uso della pastorizia come fonte di
sostentamento principale, i Karamojong sono oggi costretti a reinventarsi in un
nuovo stile di vita, e a cercare nuove opportunità di sostentamento. A causa
degli effetti sempre più visibili del riscaldamento climatico, tra cui
l’aumento dei periodi di siccità, la vita in questa pianura semiarida diventa
sempre più difficile e l’agricoltura non può rappresentare l’unica risorsa
sostenibile. La popolazione locale si ritrova quindi con poche alternative per
sopravvivere. «L’oro è diventato ora ciò che prima le mucche rappresentavano per
noi», dice un anziano. Nonostante l’economia in Uganda abbia un enorme
potenziale di crescita per l’inaspettata scoperta del petrolio, il Karamoja
rimane una regione dimenticata ed esclusa.

Scavando a
mani nude sulle colline di Rupa

Per Lomilo, che lavora nella miniera di Rupa, la ricerca
d’oro è un business di famiglia. Ogni mattina dall’alba si reca con
moglie e figli sulle colline minerarie di Rupa per il lavoro nelle gallerie.
Lomilo passa le sue giornate scavando a mani nude profondi cunicoli nel terreno,
nei quali si cala per cercare terra sempre nuova. Regolarmente riemerge e passa
alla moglie Naduk bacinelle di terra preziosa. Naduk setaccia il raccolto
insieme alla figlia più grande, mentre allatta il piccolo e si prende cura
degli altri quattro figli. La loro giornata trascorre monotona con viaggi di 8
km a piedi per arrivare al pozzo e raccogliere l’acqua necessaria per
l’operazione di setaccio. Lavorando con strumenti primitivi e in condizioni
molto difficili, la ricerca dell’oro è un lavoro pericoloso e sfinente. Nessun
pasto è previsto durante la giornata, ci si potrà rifocillare la sera
rientrando nel villaggio, se la ricerca d’oro avrà dato qualche buon risultato.
Seduta sul bordo dello scavo, la figlia di Naduk è responsabile del lavaggio: un
lungo processo per cercare di trasformare i mucchi di terra raccolti dal padre
in qualche frammento d’oro. «Amo il mio lavoro», dice mentre lava la terra, «voglio
avere qualcosa per sopravvivere con la mia famiglia». Tutti i figli di Lomilo
sono coinvolti nella ricerca dell’oro. Il sistema scolastico in Uganda è a
pagamento, un lusso che solo il 10% della popolazione in Karamoja può
permettersi (contro il 70% a livello nazionale). È difficile andare a scuola e
studiare a stomaco vuoto, per cui molti bambini preferiscono lavorare alla
miniera e ottenere qualche spicciolo a fine giornata.

Al di sotto
dei 18 anni

Secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Ilo),
i lavoratori nelle miniere d’oro in Africa sono per un 30-40% bambini al di
sotto dei 18 anni. A causa della fame e della povertà i genitori li
incoraggiano a lavorare nelle miniere per poter comprare cibo e vestiti. Spesso
i bambini sono i più abili a muoversi negli stretti cunicoli sotto terra.
Inoltre, in tutto il continente africano si registrano alti indici di abbandono
scolastico negli istituti d’istruzione che si trovano nei pressi di giacimenti
minerari.

In Kaabong, distretto del Karamoja che registra elevati
tassi di malnutrizione e dove buona parte della popolazione si sta sempre più dedicando
al lavoro nelle miniere, l’assenteismo a scuola è un problema crescente. Il
lavoro nella miniera di Rupa è rischioso. Molte vite sono perse ogni anno a
causa del crollo di qualche tunnel. Lomilo indica uno scavo dove qualche
settimana prima ha perso un amico.

0,3 Euro al
grammo

«È un lavoro rischioso, ma non ho altra scelta per il
momento», spiega Lomilo. Il suo grande sogno, come per tutti i ricercatori
d’oro, è quello di trovare un giorno un grande pezzo d’oro, così da potersi
finalmente sistemare con la sua famiglia, mandare i figli a scuola e dedicarsi
nuovamente all’allevamento del bestiame, anch’essa attività oggi molto
rischiosa per le continue razzie da parte dei clan vicini.

A fine giornata Lomilo si reca al mercato per vendere la
polvere d’oro. Con 9 grammi guadagna 9.000 Scellini ugandesi, equivalenti a 2,7
Euro circa per una giornata di lavoro di un’intera famiglia. Anche la famiglia
di Lomilo rientra nella tanto discutibile categoria di «povertà estrema»,
definita in base al guadagno inferiore a un dollaro procapite al giorno, «the
dollar a day poverty line
». Al mercato dell’oro sono presenti numerosi
commercianti, arrivati dal Kenya o dalla capitale Kampala. Comprano
illegalmente l’oro da questi gruppi informali per rivenderlo alle grandi
compagnie minerarie, spesso multinazionali con sede all’estero. Lo scavo di
Lomilo è uno dei migliaia che ricoprono la collina di Rupa. Secondo fonti
locali sono circa 10.000 le persone che riescono a sopravvivere grazie a questa
miniera a cielo aperto. In totale, il triplo di questo numero dipende dalle
miniere d’oro in Karamoja, e la cifra non tiene conto dei lavoratori delle
miniere di marmo, gemme e pietre calcaree. La regione del Karamoja con i suoi
enormi depositi d’oro, potrebbe diventare la nuova frontiera di sfruttamento
minerario dopo il petrolio nell’Ovest dell’Uganda. Le comunità e i leader
locali temono che nuovi conflitti possano derivare dalla lotta per
l’accaparramento di queste risorse. Recentemente si stanno diffondendo notizie
di trafficanti d’oro che lavorano per conto di qualche industriale o politico
di primo piano, per lo sviluppo di un’industria mineraria nella regione.
Sfruttando la lontananza dalla capitale e il generale disinteresse politico e
mediatico per la regione, alcuni uomini d’affari potrebbero assicurarsi le zone
minerarie del Karamoja, utilizzando a proprio vantaggio i conflitti tra i vari
clan.

Comunità
locali a rischio di sfratto

L’ufficio della Ricerca Geologica e Mineraria si occupa di
concedere le licenze agli operatori interessati. Tuttavia, nonostante il
governo locale neghi la presenza di attività illegali, diverse organizzazioni
locali sostengono che l’industria aurifera manchi di trasparenza e che molti
operatori agiscano nella regione senza una vera e propria licenza o con una
concessione scaduta da anni. Secondo il Mining Act del 2003, un’azienda può
ottenere una licenza per tre anni. Il proprietario del terreno, la provincia e
il distretto, dovrebbero ricevere le royalties. Tuttavia sembra che i dividendi
dell’oro rimangano per molto tempo in una zona grigia. Nel frattempo, le
comunità locali vivono nell’incertezza e nella paura che qualcuno possa
cacciarli dalle loro terre, rinnovando il conflitto nella regione. Alla fine si
torna a un punto dolente per tutto il continente africano, e non solo per esso:
la ricchezza di pochi (i proprietari delle miniere e chi «li controlla», quasi
sempre corporazioni multinazionali senza scrupoli) accumulata con lo
sfruttamento di molti.

In un’Uganda
in piena crescita e con sempre nuovi problemi

E pensare che l’Uganda negli ultimi anni ne ha fatta di
strada da quando la ventennale guerra civile tra governo e ribelli dell’Lra (Lord
resistance army
, guidati dal famigerato Joseph Kony, cfr. MC giugno 2012),
terminata con gli accordi del 2008, non ha più depredato gli abitanti della
loro terra e della possibilità di vivere in serenità. Le famiglie sono tornate
nelle loro case, i bambini soldato (se ne stimano almeno 300mila nel mondo, che
porteranno per decenni i traumi dei combattimenti e dei soprusi) si sono man
mano reinseriti nell’ambiente originario, l’economia ha ricominciato a girare,
lentamente, in tutto il paese, che oggi registra 36 milioni di abitanti e un
tasso di crescita annuale del 3,3%. Mentre si spera che la situazione intea
rimanga tranquilla – nonostante la «sporca» corsa ai minerali -, si presenta un
nuovo problema per il Nord del paese, e in parte anche per il Karamoja: sono le
decine di migliaia di sfollati che scappano dal Sud Sudan, il più giovane stato
del mondo, staccatosi nel 2011 con un referendum dal Sudan ma da alcuni mesi in
preda, a sua volta, a un conflitto armato scatenato dall’ex vicepresidente
ribelle nei confronti dell’attuale premier. Conflitto nel quale, per ora, le
forze inteazionali stanno a guardare, ma che sta generando fughe di massa in
altri paesi, benché questi non abbiano strutture e strumenti adatti per
accoglierli, come l’Uganda.

Insicurezza
alimentare

Nel frattempo in Karamoja, oltre a quella delle miniere,
tiene banco da qualche mese la questione della sicurezza alimentare, messa a
dura prova non solo dagli eventi bellici del recente passato ma anche dalla
siccità che ogni anno sembra aumentare (nel 2013 si è calcolata una diminuzione
fino al 50% dei raccolti in tutta la regione). Il governo centrale ha lanciato
un piano speciale piuttosto originale per migliorare la situazione agricola del
Karamoja: a tutti i cittadini viene chiesto di creare un proprio orto
coltivando due generi alimentari, patate e tapioca. Nient’altro, perché questi,
spiegano le autorità, sono i cibi che resistono di più alla scarsità d’acqua.
La notizia non è stata accolta con calore dalla popolazione. Anzi, molti
mettono in dubbio l’efficacia di un’azione del genere, lamentandosi del fatto
che bisognava invece puntare sul bestiame, più redditizio. In attesa di sapere
quale sarà l’efficacia del piano governativo, Irin, l’agenzia informativa
legata all’Onu, ha comunicato che il Pam, Programma alimentare mondiale, ha
pianificato di consegnare cibo ad almeno 155mila persone da febbraio 2014, di
rafforzare azioni che da qualche anno stanno migliorando altri aspetti della
società locale, come il programma food for work (cibo in cambio di
lavoro) che comprende 390mila beneficiari, di mettere in atto una forte
iniziativa scolastica per 100mila bambini a rischio dispersione e un programma
di salute e nutrizione per 38mila giovani madri e i propri piccoli, di
raccogliere più scorte di cibo per almeno 25mila bambini denutriti.

Anche in questo caso, però, ci sono dei problemi: il Pam
ha reso noto che non sa se nel 2014 avrà i fondi per sostenere tutti i
programmi, una sorta di pre allerta a non fare troppo affidamento su di essi.
Una notizia negativa, che potrebbe essere controbilanciata solo da una
rivoluzione culturale: dalle miniere del Karamoja ai campi dei sette distretti
regionali, la voce del popolo spesso è univoca nel sostenere che non basta
indicare cosa coltivare e cosa no. È tutto l’approccio che deve cambiare.
Ovvero, bisogna mettere in grado le persone di gestire non solo la coltivazione
diretta ma anche la lavorazione del cibo dalla materia prima, l’acqua potabile,
le strutture sanitarie e la protezione sociale. Così facendo, la regione, e non
solo essa, farebbe quel salto di qualità che oggi manca e che proietterebbe la
gente del luogo verso un futuro migliore, più legato all’autonomia,
all’imprenditorialità e meno all’assistenzialismo.

Anna Giolitto e
Daniele Biella


Anna Giolitto e Daniele Biella




Passione per Gesù e il suo popolo

Celebrare cent’anni di chiesa locale e un nuovo vescovo.

Il 27 gennaio scorso a Manzini, città principale
del regno dello Swaziland e sede dell’unica diocesi cattolica, c’è stata una
doppia celebrazione: si sono ricordati i cento anni dall’arrivo dei primi
missionari, ed è avvenuta l’installazione del nuovo vescovo, mons. José Luis
Ponce de Leon, missionario della Consolata. Seguiamo l’avvenimento con gli
occhi dello stesso vescovo.

La
preparazione

Alla fine del 2013 sono stato nominato vescovo della diocesi di
Manzini, nel regno dello Swaziland, di cui ero amministratore, dalla morte del
vescovo Ncamiso Ndlovu il 27 agosto 2012. La diocesi è la «mamma» del vicariato
di Igwavuma di cui ero vescovo, e subito mi ero reso conto che a genanio 2014
sarebbero stati cento anni dall’inizio dell’evangelizzazione cattolica del
regno, un’occasione eccellente per rinnovare l’impegno missionario della
diocesi. I preparativi per le celebrazioni erano già avviati quando è arrivata
anche la notizia della mia nomina. Passato il primo momento di panico, con i
miei collaboratori abbiamo pensato che la celebrazione del centenario avrebbe
ospitato anche la mia installazione.

Così abbiamo iniziato a organizzare e a mandare inviti, cominciando
dai vescovi del Sudafrica, che non solo hanno accettato di partecipare ma hanno
anche deciso di fare a Manzini l’incontro annuale di tutta la Conferenza
episcopale proprio la settimana prima. Naturalmente sono state invitate le
autorità, e anche sua Maestà il re Mswati III. Il primo ministro e diversi
ministri hanno accettato.

I giornali locali ci hanno aiutati a far conoscere a tutti la buona
notizia e la televisione Swazi si è impegnata a trasmettere dal vivo la
celebrazione. L’avvenimento stava diventando sempre più grande e importante,
creando seri problemi logistici. Fino a ottobre sembrava chiaro che tutto si
sarebbe svolto nella cattedrale. Ma dopo le prime adesioni ci siamo resi conto
che troppa gente sarebbe rimasta fuori a guardare il cielo. Per questo abbiamo
spostato tutto nel salone polifunzionale del «Bosco Youth Centre», un grande
spazio coperto, quasi un palazzetto dello sport. Volevamo essere tutti
insieme, al coperto, anche se, essendo così grande, non pensavamo certo di
riempirlo.

Il libretto
del centenario

Per aiutare la preparazione abbiamo stampato un libretto, nel quale si
evidenziavano alcuni punti importanti della storia della Chiesa swazi. Ne
riporto alcuni.

«Cento anni fa, il 27 gennaio 1914, i primi missionari cattolici
arrivarono in Swaziland. Erano membri dell’Ordine dei Servi di Maria (Osm)
mandati come gli apostoli a condividere la gioia del Vangelo, portando in cuore
una profonda passione per Gesù e per il suo popolo.

Lo sguardo sulla nostra Chiesa di oggi e il ricordo dei nostri inizi
ci richiama subito alcune immagini evangeliche:

* il seme di senape che è il più piccolo di tutti i semi (Mc 4,31-32);
* i cinque pani e i due pesci che permisero a migliaia di persone di
mangiare a sazietà (Mc 6,34-44);
* e soprattutto il Signore che “lavorava con loro e confermava la
parola con i segni che l’accompagnavano” (Mc 16,20), manifestando così la sua
presenza e guida.

«La celebrazione di questi primi cento anni è l’occasione per tutti noi
di ricordare con gioia tantissimi momenti del cammino fatto. Quanto è scritto
in questo libretto è davvero ben poca cosa rispetto a quanto celebriamo. Allo
stesso tempo ci ricorda che “è di vitale importanza che oggi la Chiesa continui
a predicare il Vangelo a tutti, in tutti i posti, in ogni occasione, senza
esitazione, riluttanza o paura. La gioia del Vangelo è per tutti: nessuno ne
deve restare escluso” (Evangelii Gaudium 23).

Ricordando e celebrando noi rinnoviamo il nostro impegno a essere
Buona Notizia per tutti in ogni angolo del nostro paese e in tutto il mondo».

Mbabane, dove tutto è cominciato

La celebrazione del centenario si è svolta a Manzini, un posto
centrale. Ma ciascuno qui sa bene che «tutto è cominciato a Mbabane». I primi
missionari arrivarono in Swaziland dal Sudafrica e andarono a Mbabane dove,
alcuni giorni dopo il loro arrivo, ottennero il posto chiamato oggi «Mater
Dolorosa».

Per ricordarlo, abbiamo organizzato un pellegrinaggio di tutti i
vescovi del Sudafrica proprio là. Venuti a Manzini per la loro assemblea
annuale (la prima in assoluto mai fatta nel regno), li abbiamo invitati a fare
una visita a Mbabane, la città capitale del regno. Nessuno è rimasto indietro.
Accolti dal Consiglio Pastorale, dopo la foto di rito, siamo andati in chiesa
per pregare e ringraziare. Abbiamo cominciato con l’inno God’s Spirit is in
my heart
e dopo che il vescovo Jabulani Nxumalo (Oblato di Maria Immacolata
– Omi, di Bloemfontain) ha presentato tutti, abbiamo ascoltato il testo di Mt
28,16-20: il mandato missionario in cui Gesù dice ai suoi «Andate e fate
discepoli di tutte le nazioni. (…) Sono con voi per sempre». E abbiamo pregato
così: «Signore, che mandasti i tuoi apostoli a proclamare il Vangelo a tutto il
mondo e che hai guidato i missionari nella tua vigna in Swaziland, ti chiediamo
di continuare a guidare la tua Chiesa pellegrina e missionaria nel proclamare
il Vangelo a tutti. Attraverso lo Spirito Santo che ha animato gli apostoli
all’inizio della tua santa Chiesa, guidala oggi e sempre perché il tuo
messaggio d’amore possa raggiungere le orecchie dei poveri e dei ricchi per
farli diventare docili al tuo Santo Spirito, e il Regno di Dio nel tuo amore
giunga al suo compimento. Amen».

Cammino non
processione

Con la televisione che trasmetteva in diretta dovevamo essere
assolutamente puntuali, così il 26 gennaio, domenica mattina, alle 9.00,
preceduti dalle majorette della St. Theresa’s School e dalla Salesian
Band
, siamo andati a piedi dalla cattedrale al Bosco Youth Centre.
Non era una processione. Non c’era un ordine preciso: i chierichetti sì
marciavano dietro la banda, ma tutti gli altri – vescovi, preti, laici e
religiosi – camminavamo insieme, fianco a fianco.

In verità molto prima dell’inizio della messa il palazzetto era già
pieno all’inverosimile, e, nonostante fossero state aggiunte un migliaio di
sedie, molti erano rimasti fuori. L’interno era decorato in modo splendido con
striscioni fatti dalle diverse parrocchie, associazioni e gruppi religiosi. Un
modo davvero creativo per dire: «Siamo qui, anche noi celebriamo il nostro
cammino nel regno dello Swaziland».

Entro le 9.30 noi preti e vescovi eravamo indaffarati a vestirci e
prepararci per la celebrazione. Ho approfittato del momento per salutare i
sacerdoti arrivati dal Vicariato di Ingwavuma (dove ero stato vescovo fino a
quel giorno e di cui sono ancora amministratore) e da altre parti del
Sudafrica. Allo scoccare delle 10 siamo entrati in processione accolti da
un’esplosione di gioia.

Chiamato a
servire in un’altra diocesi

La celebrazione è stata presieduta dall’arcivescovo di Johannesburg,
mons. Buti Tlhagale, Omi. Era affiancato da mons. Stephen Brislin, arcivescovo
di Cape Town e presidente della Conferenza episcopale del Sudafrica, e dal
cardinal Wilfrid Napier, arcivescovo di Durban. Mi hanno fatto sedere in mezzo
agli altri vescovi a lato dell’altare.

L’arcivescovo Tlhagale ha ricordato che era la prima volta nella
storia della diocesi che il nuovo vescovo non era consacrato a Manzini, ma solo
installato. Ha continuato citando una frase di papa Francesco ai preti: «Questo
vi chiedo: siate pastori con l’odore delle pecore».

The Swazi Observer, il giornale nazionale,
ha così sintetizzato il suo discorso d’apertura: «Durante la messa per la
celebrazione del centenario [dell’arrivo] dei Cattolici Romani [in Swaziland]
al Bosco Youth Centre domenica scorsa, l’arcivescovo di Johannesburg
Buti Tlhagale ha sintetizzato ne “l’essere per servire” lo spirito che
distingue la Chiesa, quando ha detto all’assemblea che si augurava che il nuovo
vescovo José Ponce de Leon fosse davvero un buon pastore. Ha poi aggiunto che
un buon pastore deve sempre “puzzare come il suo gregge”, il che era come dire
che il vescovo deve sempre identificarsi col popolo di cui è guida. Puzzare
come il proprio gregge
significa diventare uno con la gente. Quando le tue
pecore hanno fame, tu patisci la fame con loro, e quando condividono un buon
raccolto anche tu giornisci con loro. Puzzare come il gregge significa diventare
parte del tutto, piangendo con esso nei momenti di dolore e danzando con esso
quando c’è da celebrare. Tu diventi parte del gregge a tal punto da essere
sufficiente farti annusare per far sapere quello che sei.

Questo spirito è probabilmente lo stesso vissuto da Gesù durante il
suo tempo sulla terra. Ed è molto incoraggiante vedere che la Chiesa cattolica
romana vive di questo supremo ideale, in uno sforzo di semplificazione dei miti
della religione, e aprendo nello stesso tempo le porte a tutti, per dimostrare
che tutti sono benvenuti.

La Chiesa cattolica romana è stata veramente esemplare in tutto ciò, e
i suoi missionari hanno vissuto questo ideale fin dall’inizio. Questa è la
ragione che probabilmente spiega la facilità con cui loro hanno vinto i cuori
del popolo».

Quando è stato letto il Mandato papale, sono stato invitato a sedere
sulla «cattedra» (la sedia che nella cattedrale solo il vescovo in carica può
occupare). Una volta seduto mi hanno consegnato il pastorale. Non uno nuovo,
non l’ho voluto, ma quello del mio predecessore, mons. Ncamiso Ndlovu, vescovo
di Manzini dal 1985 al 2012.

I vescovi sono poi venuti uno a uno a salutarmi mentre la segretaria
generale della Conferenza episcopale, suor Hermenegild Makoro, li presentava ai
fedeli di Manzini. Di seguito sono venuti i sacerdoti, i religiosi e i laici (i
presidenti dei consigli pastorali delle 15 parrocchie) per dare il benvenuto al
loro nuovo vescovo e promettere di lavorare con lui.

A ciascuno ho dato una copia dell’esortazione apostolica Evangelii
gaudium
di papa Francesco che tratta dell’impegno di annunciare il Vangelo
nel mondo di oggi. Essendo la celebrazione centrata sul centenario
dell’evangelizzazione in Swaziland, mi è sembrato che l’esortazione fosse lo
strumento migliore per cominciare i prossimi cento anni.

Una volta installato, è toccato a me presiedere la celebrazione, come
nuovo padrone di casa. Le letture sono state proclamate in portoghese (la
lingua dei molti immigrati e rifugiati dal Mozambico), inglese e siswati (la
lingua locale), come si usa da queste parti durante le celebrazioni più
importanti.

La mano di
Dio al lavoro

Durante la predica ho insistito sull’idea che ora tocca a noi
continuare quello che altri hanno iniziato. Siamo noi a venire chiamati da Gesù
a essere «buona notizia», luce per chi cammina nelle tenebre e pescatori di
uomini e donne. Ho ricordato poi che tantissimi anni prima, quando ero ancora
un seminarista, un prete aveva detto in una predica che «Solo i matti credono
nelle coincidenze». «No – ho continuato -, noi non crediamo in coincidenze. Noi
crediamo nella mano di Dio al lavoro nelle nostre vite. Non ho scelto le
letture di oggi. Sono quelle ordinarie di sempre, che ogni cattolico può
ascoltare oggi in tutto il mondo. Eppure, sembrano proprio fatte per questo
giorno. Non è coincidenza, è la mano di Dio al lavoro tra noi oggi.

«Pensateci:

* Nel vangelo di Matteo
(4,12-23) Gesù comincia il suo ministero predicando la Buona Notizia,
insegnando e guarendo – e qui noi celebriamo e ricordiamo l’inizio dello stesso
ministero nel regno dello Swaziland a opera dei primi missionari cattolici
arrivati cento anni fa.

*  Vediamo Gesù che chiama
Pietro e Andrea, Giacomo e Giovanni perché lo seguano e diventino pescatori di
uomini – e noi qui ricordiamo i nomi di coloro che Gesù fece pescatori di
uomini per noi: i padri Gratl, Mayer e Bellezze e fratel Obeleitner, missionari
Serviti.

*  Vediamo Gesù andare in giro nella Galilea toccando la vita di ognuno – e
noi ricordiamo e celebriamo chi ha accolto quei primi missionari da Mbabane a
Mzimpofu, da Bulandzeni a Hluthi, da Piggs Peak a Siteki. Ricordando i primi,
vogliamo anche ricordare tutti gli altri missionari che li hanno seguiti: altri
Serviti, le monache Benedettine, le suore Mantellate, le Domenicane di Cabra e
di Montebello, i Salesiani, le suore di Madre Cabrini, le suore Servite dello
Swazi, le suore missionarie del Perpetuo Soccorso, … e con loro anche tutti i
sacerdoti diocesani che dal 1964 hanno cominciato a servire le nostre comunità.

Ma la Missione non è compito solo di preti e suore. Come Gesù nel
Vangelo, anche i primi missionari chiamarono altri a camminare con loro per
essere preparati e mandati a evangelizzare: i catechisti. I pochi preti e le
suore che hanno servito nel paese agli inizi, non avrebbero potuto ottenere i
risultati raggiunti senza l’aiuto dei catechisti».

Ho detto anche molte altre cose, troppe da
riprodurre qui. Ne riporto ancora una. «Oggi siamo qui per ricordare.
Ricordando celebriamo. Celebrando ringraziamo Dio per tutto quello che ha fatto
per noi in questi anni. Ma… voi sapete bene quello che dico sempre: Questo
non è un museo!
Non siamo qui solo per ricordare. Noi qui vogliamo
rinnovare il nostro impegno a continuare quello che abbiamo sentito nel Vangelo
di oggi. Noi ci impegniamo non solo a proclamare (con le parole) la “Buona
Notizia”, ma a essere (coi fatti) “Buona Notizia”. Di parole ne diciamo troppe!
Noi vogliamo essere riconosciuti come discepoli di Gesù. Discepoli missionari
che vanno fuori e con la loro vita toccano la vita degli altri».

Tutto bene

Durante l’offertorio ho scambiato poche parole con padre Sakhile
Mswane, il cerimoniere. Ero davvero preoccupato per il sovraffollamento. Avevo
paura che potesse succedere qualcosa. Lui mi ha rassicurato: tutto sarebbe
andato bene. E così è stato!

I vescovi sono stati lieti di distribuire la comunione, mentre io ero
felicissimo di essere mandato nel punto più lontano dall’altare. Restare al
posto centrale non mi piaceva proprio, preferivo andare fra quelli che erano «più
lontani». E mi hanno accontentato. La gente aveva obbedito all’invito di non
scattare fotografie durante la celebrazione. Tutti erano stati fin troppo bravi
fino a quel momento. Ma quando si sono trovati il vescovo in mezzo a loro, la
tentazione è stata troppo forte!

Prima della benedizione finale ci sono stati i discorsi con
particolari ringraziamenti al Vicariato di Ingwavuma per aver donato il nuovo
vescovo allo Swaziland. Il primo ministro Sibusiso Dlamini ha ricordato il
grande contributo della Chiesa allo sviluppo del paese, e il principe Simelane,
che rappresentava il re Mswati III, ha sottolineato la scelta preferenziale dei
poveri, dei disabili, dei rifugiati (in particolare dalle aree attorno ai
Grandi Laghi, ndr) come una delle caratteristiche particolari dei
cattolici e li ha elogiati per avere delle scuole che accettano chiunque senza
distinzione di merito e di ceto sociale, dando a tutti la possibilità di avere
un’educazione di base.

Per concludere ho fatto distribuire la preghiera di S. Francesco: «Fa’
di me uno strumento di pace». «Ditela tutte le mattine. La prima cosa da fare!
Imparatela a memoria. “Fa’ di me”: è il mio impegno. Non delego ad altri.
Ditela ogni sera. Sia guida per l’esame di coscienza: ho perdonato, amato,
consolato, ascoltato? Sono stato luce, pace e speranza? Preghiera la mattina,
verifica la sera. Senza scoraggiarci. Non dipende solo da noi. C’è l’aiuto di
Dio. Niente è impossibile per Lui».

José
Luis Ponce de Leon
*

* Missionario della Consolata argentino, nato nel 1961, ordinato
prete nel 1986 e vescovo dal 2009.
_________________________

Testo tradotto e adattato da
Gigi Anataloni da bhubesi.blogspot.com


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José Luis Ponce de Leon




Malindi paradise! Per chi? (4)

In un groviglio di contraddizioni


Un altro turismo è possibile


Malindi
è una realtà dalle molte facce. Situata sul mare, con ampie spiagge coralline e
acqua limpida, si è lasciata alle spalle il suo passato di crocevia del
commercio degli schiavi, ed è diventata un rinomato centro turistico. Abitata
da una popolazione locale in prevalenza islamica, è ora una cittadina
cosmopolita, non solo perché turisti di tutto il mondo (soprattutto italiani e
tedeschi) vengono a godersi il suo mare, ma anche perché keniani di tutte le
tribù vi si sono radunati nella speranza di raccogliere qualche briciola della
grande torta.

Ricordo bene una statistica: ogni giorno-turista equivale
a un giorno-lavoro per un keniano. Più turisti ci sono, più gente lavora.
Niente turisti, niente lavoro. è
una realtà che diventa drammaticamente evidente ogni volta che il turismo
vacilla a causa di disordini, attentati terroristici o gravi eventi inteazionali.

Per questo il turismo è, in Kenya, al primo posto di
ogni programma governativo. Malindi, in tale contesto, offre incentivi di
prim’ordine: alle splendide spiagge associa, ad esempio, la vicinanza al Travo
Park con la sua natura incontaminata. Incentivi che hanno dato il via a
iniziative lodevoli, hotel e villaggi di prima qualità, e a una serie di
servizi del tutto legittimi. Compreso un turismo socialmente responsabile che,
appoggiandosi a Chiese e Ong locali e straniere, coinvolge i visitatori nel sostegno
a progetti di sviluppo in favore della parte più povera della popolazione
locale: scuole, dispensari, centri per bambini abbandonati e denutriti,
esperienze pilota con i disabili, e tanto altro.

Anima di questo turismo diverso spesso sono proprio i
nostri connazionali che vivono sulla costa da anni, facendone la loro seconda
patria.

Ma dove il denaro corre a fiumi, la tentazione di
travalicare, di corrompere, di prendere scorciatornie è sempre molto forte. Così
Malindi attrae solo persone di sani principi e provata onestà. Speculazione
edilizia, corruzione, gioco d’azzardo, pedofilia, prostituzione, escorts
e droga hanno trovato un terreno fertile. A guadagnarci sono sia i cosiddetti
investitori stranieri (si dice che la mafia ne abbia fatto un posto privilegiato
per il riciclo del denaro) che le autorità locali, rese partecipi dei facili
guadagni, nonostante ufficialmente sfoggino una probità a tutta prova.

Se gli espatriati comprano, investono, corrompono, gli
indigeni pensano a rifornire il mercato di «carne fresca». Salvo l’esplosione,
di tanto in tanto, di qualche campagna anticorruzione o moralizzatrice,
soprattutto nella vicinanza di elezioni.

Ricordo alcuni episodi, che qui assumono un valore
simbolico.

Un medico italiano gode della fresca compagnia di una
fanciulla locale per un mese pagando 100 dollari. Beneficiario della somma: il
padre della ragazza. Ma non è tutto: il secondo anno lo stesso padre offre la
seconda figlia, e in seguito la terza. Il tutto per la somma di 100 dollari per
ognuna. Quale uomo non se ne sarebbe vantato con gli amici?

Una bambina o un bambino di 10-12 anni con una
prestazione o due la settimana guadagna più di suo padre che sgobba dodici ore
al giorno in un cantiere, a pescare o a far da guardiano alle ville dei ricchi.
E la famiglia è «contenta» perché almeno così tutti mangiano.

Una maman ben vestita e piena di soldi, da aprile
in avanti va nei villaggi più remoti in cerca di fanciulle che hanno appena
saputo i risultati dell’ultimo anno di secondaria, e che non hanno la
possibilità di continuare gli studi, per offrire loro un «lavoro sicuro sulla
costa in hotel di rinomata fama». Risultato: pochi mesi dopo quelle giovani si
trovano costrette a propstituirsi perché prigioniere di un raffinato sistema di
sfruttamento, senza neppure la possibilità di dire la verità alle loro
famiglie.

Una studentessa universitaria, approfittando delle
vacanze, va a «fare la stagione» sulla costa per pagarsi gli studi: la famiglia
infatti si è «svenata» per pagare il primo semestre, ma ora non ha più mezzi
per gli altri sette e la tesi finale.

Un giovanotto di belle speranze di una tribù
dell’interno lascia il suo villaggio di campagna dove non ha prospettive e
sulla costa si trasforma in abile danzatore Maasai, mandando in visibilio il pubblico
con danze autenticamente tradizionali.

Una giovane ragazza corona il suo sogno di sposare uno mzungu
e finalmente emigra legalmente in un paese europeo dove viene venduta a un ring
di prostituzione.

Di questi «piccoli» fatti, di cui ho conoscenza diretta,
ne avrei ancora molti da raccontare, ma credo siano sufficienti quelli citati
per dire che quanto scritto nel dossier non è frutto di fantasia, ma un
problema reale e preoccupante sia a livello keniano che internazionale.

La Chiesa cattolica non sta a guardare. Le diocesi di
Malindi (vedi box pag. 44) e di Mombasa, l’Associazione nazionale delle suore e
diverse Ong, come Sol.Wo.Di (Solidarity with Women in Distress – vedi
box), hanno programmi specifici sia per prevenire che per curare e recuperare.

Non è nostra intenzione puntare il dito contro il
turismo in quanto tale. Desideriamo solo che coloro che vanno in vacanza in
Kenya, o sulle sue coste, non siano ciechi, ma prima di tutto si rendano conto
della situazione e vedano la realtà con occhi critici. Il turista non va in
vacanza per fare il missionario e vuole qualità corrispondente ai soldi che
paga. Più che giusto. Ma è anche giusto che sappia che moltissime delle persone
che lavorano per il suo benessere sono pagate noccioline, spesso meno di 80
euro al mese, e senza potersi ribellare, perché ci sono altre centinaia di
candidati pronti a prendere lo stesso posto. E non si stupisca il turista se è
consderato un ricco agli occhi degli indigeni. La maggior parte di loro non può
permetteri una vacanza, tantomeno in Europa.

Prostituzione, pedofilia, traffico di persone, droga,
gioco d’azzardo, corruzione… sono prodotti di importazione. Essi hanno
attecchito bene, certo, ma prosperano perché la domanda è alimentata da un
mondo in cui con i soldi si pensa di potere avere tutto, anche le persone.

Ma, ne siamo convinti, la maggior parte dei turisti
hanno, come noi, in orrore queste aberrazioni, e vogliono che il turismo faccia
del bene a tutti: a chi ospita e a chi è ospitato, nel rispetto reciproco.

Il Kenya è splendido, vale la spesa visitarlo. Con gli
occhi aperti e il cuore in mano.

Gigi
Anataloni

SolWoDi

Solidarity with Women in Distress:

Ong fondata a Mombasa nel 1985 dalla dottoressa
suor Lea Ackerman, missionaria d’Africa, opera soprattutto con ragazze ad alto
rischio tra i 6 e i 45 anni. Ha i suoi centri in Mombasa, Malindi, Kwale e
Kilifi.

Sol.Wo.Di crede che «ogni persona ha diritto ha una vita migliore.
Per questo l’organzazzione è impegnata ad aiutare le prostitute, i bambini
vittime di abusi sessuali e i sopravvissuti al traffico delle persone a
ritrovare la propria dignità, migliorare il loro stato legale e
socio-economico, e la loro salute per poter realizzare tutte le loro
potenzialità umane».

Aree di impegno: recupero e riabilitazione delle prostitute;
contrasto al traffico di persone; prevenzione e cura dell’Hiv/Aids; protezione
dei bambini; sostegno economico e football per ragazze.

Contatto: www.solwodi.co.ke

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Gigi Anataloni




Malindi padadise! Per chi? (3) 

1. Turismo sessuale, mercato senza frontiere
2. Bei ragazzi sui bagnasciuga
di Malindi

3. La diocesi di Malindi contro prostituzione, pedofilia e traffico di persone
4. Per un sorriso: discriminazioni stradali

1. Turismo sessuale, mercato
senza frontiere


Wanja, le altre e gli altri

Il
turismo è una delle risorse principali del Kenya, contribuisce a circa il 25%
del Pil. Lo splendore della costa, la bellezza dei suoi parchi, il colore delle
tradizioni tribali attirano turisti da tutto il mondo. Richiamano grandi
investimenti, danno lavoro a migliaia di persone, ma nascondono diversi aspetti
negativi. Uno di questi, il più vistoso, è il turismo del sesso che prospera
nell’inerzia legislativa nazionale e internazionale e nella corruzione
alimentata dai facili guadagni. Coinvolgendo anche i minori, sia bambine che
bambini.

A differenza della maggior parte delle ragazze della sua
età, la ventiquattrenne Mary Wanja è fortunata ad avere un lavoro come
segretaria in una ditta privata. Ma come molte altre ragazze, durante i fine
settimana Mary va spesso nei club di Malindi con lo scopo di abbordare turisti
che cercano sesso e divertimento. Un numero sempre crescente di vacanzieri
visita il Kenya specificatamente per sesso, specialmente nelle città costiere
(Diani, Kilifi, Mombasa e, appunto, Malindi).

La maggior parte dei turisti sessuali ha un’età compresa
tra i 45 e 65 anni. Spesso sono divorziati o pensionati che cercano di
riaccendere le loro vite sessuali. Molti di essi hanno rapporti con
adolescenti, percepiti, tra l’altro, come «sicuri» da Hiv. Al riguardo, Ecpat –
l’organizzazione internazionale che lotta contro lo sfruttamento sessuale dei
minori – sfata anche alcuni luoghi comuni: soltanto una minima parte dei
turisti sessuali sono patologici, la maggior parte di essi è semplicemente in
cerca di nuove emozioni, approfittando delle situazioni.

Come in molti paesi asiatici e latinoamericani, anche in
Kenya il sesso con minori, sia bambine che bambini, è molto richiesto. Secondo
varie statistiche, sulla costa del paese africano oltre il 30% degli
adolescenti sono coinvolti in modo saltuario nel lavoro sessuale. Più del 10%
delle ragazze hanno relazioni sessuali prima dei 12 anni. Oltre il 35,5% degli
atti sessuali tra minori e turisti avviene senza l’utilizzo di preservativi.

Se i dati sono scarsi e spesso non verificabili, i fatti
sono però sotto gli occhi di tutti. Padre Kizito Sesana, noto missionario
comboniano, che ha avviato case per i bambini di strada a Nairobi, ha
raccontato: «Qualche tempo fa, con un amico, visitavo la costa nord di Mombasa,
normalmente soprannominata “la costa tedesca” a causa della forte presenza di
turisti da quel paese. Era marzo e non c’erano molti turisti. In un tardo
pomeriggio siamo entrati in un bar a prendere una birra fresca e siamo stati
colpiti dalle strane coppie sedute ai tavoli: uomini bianchi anziani con
ragazze molto giovani o ragazzi adolescenti; donne bianche anziane con ragazzi
che avrebbero potuto essere i loro figli o i loro nipoti. Nel giro di poco
tempo, siamo stati avvicinati dapprima da una serie di ragazze e poi di
ragazzi. Siamo andati via senza finire di bere».

Il turismo del sesso si è strutturato in una rete
complessa e variegata che include tour operators, hotel, affittacamere,
club, bar, sale di massaggio, parrucchieri.

Robert Nyagah, ex giornalista,
oggi operatore turistico, pone alcuni interrogativi: «Come differenziare i
turisti genuini da quelli che vengono semplicemente per sesso, e come
differenziare una ragazza giovane che sta cercando un compagno per la vita
(turista o no) da una prostituta?».

Eppure, il fascino del turismo del
sesso è reale e crescente. I soldi facili e la disoccupazione stanno portando
sempre più ragazze – anche sposate – sulla strada della prostituzione. Ci sono
casi in cui famiglie povere incoraggiano i loro bambini a uscire per strada «a
offrire ospitalità agli stranieri» per mettere cibo sulla tavola. A ciò va
aggiunto un problema culturale. Presso molte comunità una ragazza di 13 anni è
già in età da matrimonio. La gente locale non capisce quindi dove stia il
problema.

Il commercio non è limitato alle ragazze: anche i
ragazzi vanno alla ricerca di fortuna. Molti giovani (la maggior parte dei
quali ha interrotto la scuola primaria) hanno cambiato le loro vite stringendo
amicizia con donne di mezza età europee. Il litorale kenyano è conosciuto per
attrarre turiste divorziate o avanti con gli anni che cercano sesso,
principalmente dalla Germania. La maggior parte di loro sono guidate dal mito
della potenza sessuale del maschio africano e arrivano promettendo ai giovani
keniani matrimoni e viaggi nei loro paesi.

Accanto alla prostituzione volontaria, c’è anche una
prostituzione indotta con l’inganno e la violenza. Esistono persone che tentano
le ragazzine povere con la promessa di lavori, ma in realtà vogliono reclutarle
per l’industria del sesso. Queste sono rinchiuse in case-bordello e costrette ad
avere rapporti con clienti sotto la supervisione dei loro «datori di lavoro».

Mentre il governo di Nairobi a parole disapprova il
turismo sessuale e vieta quello infantile, le azioni di contrasto sono poche.
Troppi sono i soldi in gioco.

redazione MC

* Liberamente tratto dall’articolo «Turismo sessuale in
Kenya», pubblicato da www.promisland.it il 4 ottobre 2006, e da «Fight against
child sex tourism needs a boost», pubblicato da Irin news, 28 aprile 2011 e da
www.ecpat.net.

2. Bei ragazzi sui bagnasciuga
di Malindi


Ammaliatrici ammaliate

Storie
di amore vero, ma non troppo, dalle spiagge di Malindi. Donne di una certa età
in cerca di compagni più giovani. Il fenomeno è più esteso di quanto si
immagini, e coinvolge «signore» di diverse nazioni europee. La scrivente, pur
non facendo cenno al punto di vista della popolazione locale, biasima senza
mezzi termini le «turiste» in questione. L’«amara tenerezza» che prova per
quelle donne aguzzine e vittime, ci può far riflettere sulla grave solitudine
di tanti anziani, ingannati dalle false promesse di eterna giovinezza del
nostro mondo.

Ho lasciato il Kenya 13 anni fa eppure ogni volta che ci
too continuo a restare sorpresa dalle storie «d’amore» che vi si intrecciano
e da come questi travolgenti sentimenti – che lì sembrano travolgere più che
altrove – si manifestino in immagini concrete, non del tutto edificanti, né di
buon gusto.

È davvero possibile che ultrasettantenni si convincano
che i loro partner poco più che ventenni (maschi o femmine) si siano
perdutamente innamorati di loro? A guardarli negli atteggiamenti che assumono
si direbbe proprio di sì, ed è questa convinzione ad apparire del tutto sbalorditiva.

Come donna è ovvio che la mia curiosità si indirizzi in
particolare verso le appartenenti al mio stesso sesso. Signore eleganti, spesso
facoltose, che combattono contro l’implacabile devastazione inflitta loro dagli
anni e si attaccano con i denti e con le unghie a stagioni definitivamente
perdute. Sorde al senso del ridicolo, si agghindano ora come ragazzine ora come
donne fatali, come quelle che agli inizi del secolo scorso venivano definite «maliarde»:
spietate ammaliatrici che portavano uomini probi e teneramente ingenui alla
totale rovina.

Naturalmente quegli uomini più che ingenui erano deboli
e psicolabili. Incapaci di governare gli istinti e di ordinare con
responsabilità la scala dei propri valori di riferimento.

Oggi pare che un folto numero della versione odiea di
quelle antiche maliarde, sia approdato in Kenya. Ma i fattori si sono
curiosamente invertiti. Loro, oggi, non ammaliano più. Sono le maliarde a
essere ammaliate. E da chi? Dal classico pilota con gli occhi azzurri che impazzava
nei romanzi di Liala? Oppure dal virile, colto e generoso, dottore della
Cittadella di Cronin?

Macché! Il loro moderno ammaliatore è un beach boy,
rasta semianalfabeta che si esprime in un idioma raffazzonato, compendio di
diverse lingue europee spigolate con intuito istintivo e primordiale sul
bagnasciuga delle candide spiagge coralline.

Lui promette amore imperituro e le inonda di rancidi
effluvi, frutto dell’olio di cocco che gli fa risplendere pettorali e bicipiti
e di un’osservanza delle norme igieniche un po’ frettolosa e vanificata dal
caldo e dal sudore.

Dov’è finito il saggio e lungimirante intuito femminile?
Il rispetto della propria femminilità, della propria cultura? La donna matura,
la donna in età avanzata, è uno scrigno di preziosità che proprio il
trascorrere del tempo e l’esperienza di vita hanno via via valorizzato. Perché
giocarsi tutto nelle vigorose membra di un ragazzotto tracotante per un quarto
d’ora di spasimo professionalmente provocato?

È questo il vero «amore»? Quello che Dante definisce
come «l’unimento spirituale de l’anima e della persona amata»?

Sì, queste nonne che tentano di sfuggire dal ruolo che
una imperturbabile natura continua comunque ad assegnare loro, in fondo
suscitano una sorta di amara tenerezza.

Hanno frainteso il vento dei cambiamenti e
dell’emancipazione della donna. Hanno pensato che quell’emancipazione, oltre a
restituire loro i diritti per troppi secoli negati, avrebbe restituito anche la
gioventù perduta.

E questa è forse la più triste delle illusioni.
Monica

3. La diocesi di Malindi


Contro prostituzione,
pedofilia e traffico di persone

Pedofilia,
prostituzione e traffico di esseri umani sono problematiche presenti nella
diocesi di Malindi e difficili da trattare. Necessitano anche dell’intervento
del governo. Noi, come diocesi, abbiamo messo delle regole: ad esempio nessuno
straniero può visitare o fare delle foto nelle nostre scuole senza permesso.

Per il problema della pedofilia la diocesi ha un «Ufficio
per la protezione del bambino» che si interessa dei casi che ci vengono
segnalati. Vogliamo essere sicuri che giustizia sia fatta.

Più difficile è per la prostituzione, perché occorrerebbe
trovare un’alternativa appetibile per le persone coinvolte, al fine di
toglierle dalla strada. Molte prostitute arrivano dall’interno del paese
proprio per fare quello e guadagnare denaro alla svelta.

Ci scontriamo poi con la difficoltà di convincere i
bambini delle nostre scuole che l’educazione è importante per il loro futuro.
Loro vedono che quelli che sono andati a scuola hanno difficoltà a trovare un
lavoro, mentre quelli che hanno deciso di andare con uno straniero vivono vite
migliori.

A
livello operativo la diocesi di Malindi ha messo in campo programmi nei vari
settori: educazione, micro finanza, dialogo e azione, genere e gioventù. Il
settore educazione è fondamentale per inculcare nei ragazzi uno stile di vita
responsabile fin dalla tenera età. In particolare parliamo loro di
autoprotezione, sessualità, relazioni, droga, abuso di sostanze, Aids e altre
malattie.

Inoltre lavoriamo insieme con gli insegnati per un
approccio globale di protezione dell’infanzia.
Anche coltivare i temi spirituali di allievi e studenti è
importante.
Con il settore micro finanza si cerca di aiutare le
famiglie a prendersi cura dei figli, in modo da ridurre i rischi di
prostituzione.
Abbiamo anche un programma di sensibilizzazione per
mettere in guardia sui problemi del matrimonio precoce.
Sugli stessi temi cerchiamo di interessare non solo i
nostri studenti ma anche i giovani in generale con il nostro «Ufficio per la
gioventù».

padre Ambrose Muli
parroco della cattedrale di Malindi

4. Per un sorriso: discriminazioni stradali


Occhio al poliziotto

Il
Comitato degli italiani all’estero (Comites), organismo che assiste gli
italiani nel mondo, riceve molte proteste da parte di concittadini residenti
sulla costa del Kenya che lamentano una disparità di trattamento tra loro e gli
autoctoni per quanto attiene alle infrazioni, soprattutto a quelle conceenti
la circolazione su strada.

«Gli africani viaggiano senza casco in motocicletta,
senza cinture di sicurezza in auto, sorpassano in curva e sui dossi,
parcheggiano dove pare a loro, caricano i loro mezzi all’inverosimile… Tutto
sotto lo sguardo indifferente della polizia, ma se noi commettiamo anche la più
piccola di queste infrazioni, ecco che scattano l’arresto, le manette e le
estenuanti comparizioni in corte. Questa non si chiama discriminazione?».

Sì.
Dovremmo chiamarla proprio così e non si tratta di una gran rivelazione perché
l’esercizio di queste differenze è quotidianamente sotto gli occhi di tutti.

Basta guardare i piki-piki (motorette-taxi):
nessuno indossa il casco. Né i guidatori né i passeggeri che spesso sono due,
se non tre, spremuti come acciughe alle spalle del guidatore che e costretto a
condurre il mezzo con il manubrio premuto sull’ugola. Non è del tutto vero, però,
che la polizia se ne disinteressi totalmente. Qualche volta ferma anche loro e
applica una modesta tassa-informale (il kitu-kidogo) oggettivamente rapportata
alle loro tasche. È ovvio che, quando l’infrazione è commessa da un «viso
pallido», l’interesse dei solerti controllori del traffico diviene molto più
rigoroso, ma non direi che si tratta di vera e propria discriminazione basata
sul colore della pelle, piuttosto di un giudizio pratico commisurato al
portafoglio del trasgressore.

Come
possiamo difenderci? Dobbiamo pretendere che tutti i trasgressori, bianchi e
neri, incontrino gli stessi rigori della legge. Sarebbe giusto, ma anche
estremamente faticoso e alla fine la nostra pretesa si rivelerebbe più spesso
infruttuosa. Perché, allora, non fare la cosa più semplice e indolore:
rispettare le regole e non metterci dalla parte del torto?

Del resto, in nessuna parte del mondo, chi la fa franca
infrangendo la legge, autorizza gli altri a fare impunemente altrettanto.

Artemide
(un italiano in Kenya dagli anni Sessanta)

Redazione MC e Out of Italy




Malindi padadise! Per chi? (2)

Incontri ravvicinati con
ragazze locali
Vivere l’ultima giovinezza
Sono
forse i racconti più comuni che si sentono sui turisti italiani a Malindi. Il
direttore di «Out of Italy» cerca di capire le cause intime del fenomeno del
turismo sessuale praticato da uomini e donne anziani per dargli una
spiegazione. Immedesimandosi nel loro punto di vista, mettendo in evidenza i
rischi, senza condannare troppo esplicitamente, senza dare voce alle condizioni
di sfruttamento delle «studentesse» coinvolte, ma suggerendo una presa di
distanza attraverso uno stile ironico e a volte sarcastico.

Ha dovuto, per l’ennesima volta,
recarsi al bagno perché la sua prostata ingrossata richiede continue attenzioni,
e ora ritorna al tavolo con il passo un po’ rigido di chi è costretto a
convivere con l’artrite e tutta una lunga serie di altri acciacchi acquisiti
nel corso delle molte primavere.

Il bicchiere di Tusker lo
aspetta (la miglior birra kenyana, premiata in tutto il mondo, ndr), in
barba alle limitazioni che gli imporrebbero la pressione alta e il diabete, ma
che importa? Lui sta vivendo l’ultima giovinezza e per nessuna ragione è
disposto a sciuparla.

Al tavolo c’è una splendida e
giovane fanciulla nera: pelle lucente, candido bagliore di denti e sguardi
ammiccanti carichi di prorompente sensualità.

C’è anche un giovane rasta
con le treccine non proprio pulite, ma sicuramente appariscenti. Questi ha il
merito di aver organizzato l’incontro tra la bella «studentessa» africana e
l’anziano muzungu (uomo bianco, in kiswahili; va notato che questa è una
traduzione di comodo, perché in realtà il termine non si riferisce al colore,
ma al fatto che la persona in questione «viaggia, va in giro e fa il turista», ndr).

Si può non essergli riconoscenti?

Siamo onesti. Chi di noi
ultrasessantenni può attirare lo sguardo di una bella studentessa italiana
mentre incrocia la nostra strada? Se non fosse per la regola fisica
dell’impenetrabilità dei corpi, potrebbe passarci attraverso senza neppure
accorgersi che esistiamo.

È triste, lo so. Soprattutto quando
si è ancora estimatori del bello e alcune pulsioni romantico sessuali fanno la
loro comparsa tra i desideri. Ma guai a manifestarli nella terra di Dante,
l’epiteto più grazioso che si potrebbe ricevere sarebbe un sonoro: «Guarda
questo vecchio porco!».

Lui, l’anziano, non ha neanche la
possibilità di sfogarsi confidandosi con le persone che gli sono care. Certo
non con la propria moglie, men che meno con la propria figliola. Allora al
poveretto non resta che rifugiarsi tra i propri coetanei – almeno tra quelli
che soffrono della stessa patologia – e lì, tra loro, sfogarsi a dovere
liberandosi del magone che lo opprime. Attenzione, però, che non sentano i più
giovani, perché trafiggerebbero il gruppo con sguardi disgustati, prorompendo
nuovamente in un velenoso: «Ma senti che schifezze si raccontano questi
vecchietti!».

È vero. Tutto ciò è profondamente ingiusto. Non è colpa
nostra se una natura birbante, irrispettosa e anche un po’ sadica, lascia che
in un corpo malandato sopravvivano gli stessi identici desideri di un corpo e
di un cuore giovani. E allora che si fa? Semplice: si emigra in Kenya, dove
l’età non è un ostacolo e dove le belle «studentesse» non ci passano attraverso
ma, anzi, ci arpionano con graziosi ammiccamenti.

Certo,
lo spettacolo che foiamo non è dei più edificanti, ma in fin dei conti, chi
se ne frega? Riscoprirsi giovani e ancora capaci di provare emozioni così
intense, val bene il costo di qualche malevolo pettegolezzo. Così si emigra in
Kenya. E si viene qui con un forte desiderio di rivincita perché, sì, siamo un
po’ più anziani, ma pur sempre uomini. Forse ancor più sensibili di un tempo ai
piaceri del vivere, alle emozioni, ai sentimenti. Non siamo degli illusi, non
pretendiamo travolgenti passioni, tutto ciò che cerchiamo è un po’ di
tenerezza, e se questo ci costa qualche spicciolo, va bene lo stesso.

Se la bella «studentessa» nera non cade in totale
deliquio per noi, pazienza, purché ci dia solo un grammo d’affetto, anche se
intriso di una certa dose di finzione.

C’è davvero del male in questo? Dobbiamo proprio auto
condannarci, come forse vorrebbero i molti benpensanti, a spegnerci nelle
panchine dei parchi pubblici, tediati dalle insopportabili storie nostre e dei
nostri coetanei ripetute all’infinito? Oppure assoggettarci alle litigate
catarrose sui terrapieni delle bocciofile, sui tappeti verdi delle partite a
scopa e dei «bingo» parrocchiali?

No. Sarebbe un tramonto grigio che non meritiamo da
questo mondo frettoloso e indifferente. Quel mondo l’abbiamo costruito noi con
fatica e sacrificio e oggi per quelli che l’hanno ereditato non siamo altro che
ingombranti, inutili fardelli.

Allora veniamo in Kenya. Ci rinnoviamo nel fisico e nello
spirito. Andiamo a ballare, pescare, nuotare e se qualche bella «studentessa»
ci offre la sua compagnia, l’accettiamo senza troppe remore. Abbiamo una sola
vita da vivere, viviamocela tutta, e al meglio.

Smettiamo ora i panni dell’anziano turista, e torniamo in
noi: tutto questo è umanamente comprensibile, ma ciò non toglie che comporti
non pochi rischi. Guardiamo intanto alla nostra situazione familiare: siamo
rimasti soli al mondo? Siamo certi che la «studentessa» non sia sfruttata o
spinta tra le nostre braccia dall’indigenza più che dall’amore per noi? Allora
non ci sono problemi, salvo quelli che possiamo auto infliggerci con
comportamenti maldestri; ma se, ad esempio, abbiamo una famiglia e dei figli,
le cose cambiano radicalmente. Abbiamo delle responsabilità e se è vero che il
nostro diritto alla felicità (o a ciò che ci sembra tale) è indiscutibile, lo
stesso vale per le persone che hanno con noi sinceri rapporti affettivi. Il
nostro dovere è di non ferirli con comportamenti dissennati ed egoistici.

Se della bella «studentessa» ci innamoriamo sul serio,
abbiamo già fatto un passo ad alto rischio, ma se ci convinciamo che anche lei
si è innamorata perdutamente di noi, allora abbiamo scatenato un vero disastro.
Per non perdere questo amore presunto accetteremo tutto, anche di fare forfait
della nostra dignità, del rispetto di noi stessi, del nostro buon senso che la
stagione dell’età d’oro avrebbe dovuto invece consolidare. Non avremo più un
carattere, un’identità, una nostra determinazione. Come drogati, diverremo
schiavi delle nostre illusioni, faremo scempio degli affetti più cari, quelli
veri, quelli che hanno accompagnato per decenni il nostro vivere e dato un
senso alla nostra personalità di genitori e di mariti. Ci abbruttiremo nella
vergogna, nell’isolamento, spesso anche nella miseria, ultima condizione che
spegnerà il bagliore delle nostre illusioni rispetto a quel mondo effimero che
credevamo di aver costruito. E allora sì, ci ritroveremo davvero, e
disperatamente, soli.

Dico questo perché vivo in Kenya da quasi 30 anni. Gli
ultimi 10 dei quali come direttore del periodico Out of Italy e come
consigliere del comitato degli italiani all’estero (Comites). Ho visto troppi
epiloghi drammatici in cui queste effimere infatuazioni sono sfociate. Ho visto
uomini maturi, rispettati e ritenuti saggi, perdere totalmente il senno e
cacciarsi in situazioni di indicibile sofferenza. Alcuni hanno totalmente
dilapidato il proprio patrimonio, perso l’affetto dei loro cari, qualche volta
anche la libertà e la stessa vita.

Parlo di uomini in senso lato, perché questo perverso
fenomeno riguarda anche molte donne. Madri di famiglia, fedeli e responsabili,
sulle quali nessuno poteva permettersi neppure la più piccola critica. Le ho
viste franare nella più nera indigenza, ridursi a vivere in catapecchie dove,
anni prima, non avrebbero neppure ospitato i propri cani. Le ho viste
insultate, picchiate, brutalizzate dai loro «innamorati» locali, quelli
dell’amore a prima vista esploso sui bagnasciuga, quelli con cui pianificavano
di costruirsi una nuova, romantica esistenza.

Molti connazionali, donne e uomini, caduti in queste
irresistibili infatuazioni e nel tentativo di dare legittimità alla loro
permanenza in Kenya, hanno dato fondo ai propri risparmi, alle liquidazioni
maturate in una vita di lavoro, per «investire» in attività di cui non avevano
la minima conoscenza in un paese nel quale appare tutto più facile e in cui «con
pochi spiccioli si può fare tutto ciò che si vuole». Terribile errore!

Diligenti ex tecnici ed ex impiegati, si trasformano
d’incanto in imprenditori e naturalmente, per superare il problema della
lingua, chi può dirigere al meglio la nuova attività se non il loro compagno
(compagna) di cui hanno piena e incondizionata fiducia?

E così si va avanti, finché i quattrini scarseggiano e
la nuova attività produce montagne di debiti. A questo punto finisce, allora,
la stagione dell’amore. Il nostro, la nostra, partner comincia a mostrarsi
distante, indifferente, affatto disposto al sacrificio.

A queste latitudini l’amore, pur in apparenza
corrisposto, non si alimenta di belle frasi romantiche, ma di quattrini. E
quando essi finiscono, finisce tutto.

Ecco allora che queste tristi storie approdano sui tavoli
della nostra ambasciata, dei consolati, del Comites, nella vana ricerca di una
giustizia che giustizia non è, ma è soltanto l’umiliante ammissione della
propria dabbenaggine.

È vero, nessuno ha il diritto di giudicarci per le
nostre scelte, ma noi sì che l’abbiamo su noi stessi. Allora usiamo quel
briciolo di buon senso che ancora ci è rimasto e riscattiamoci.

Franco Nofori

 

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Franco Nofori




Malindi paradise! Per Chi? (1)

Turismo: l’ultima spiaggia dell’eterna giovinezza
In collaborazione tra la redazione di Out of Italy e di MC – Foto  Stefano Labate


«Out of
Italy» – Gli Italiani in Kenya

In Kenya vive una numerosa comunità italiana.
Probabilmente più di tremila persone, visto che tale è il numero necessario per
costituire i Comites (Comitati per gli Italiani residenti all’estero). La comunità è variegata. Oltre a missionari e
missionarie (oltre 500 fino a pochi anni fa), ci sono gli Italiani nati in
Africa (Etiopia, Eritrea e Somalia) che si stabilirono nel paese dopo la
guerra; tra di essi diversi ex soldati che, finita la prigionia, trovarono
lavoro nelle fattorie o iniziarono attività in proprio. Il numero dei «vecchi»
italiani, un tempo così alto da avere una propria parrocchia italiana con sede
a Nairobi sotto la responsabilità dei missionari della Consolata, oggi è molto
ridotto anche per semplici ragioni anagrafiche. Ci sono poi quelli arrivati con
le grandi compagnie industriali italiane come Agip, Alitalia, Impresit e altre,
e si sono stabiliti nel paese impegnandosi nell’industria, nell’edilizia e nei
servizi. E c’è il personale dell’ambasciata e dei vari organismi
inteazionali, essendo Nairobi anche sede dell’agenzia delle Nazioni Unite per
l’Ambiente. Questo personale è in continuo cambiamento e movimento. Non mancano
dei pensionati che si ritirano in Kenya per passare gli ultimi anni della loro
vita in un clima mite come quello dell’altopiano di Nairobi. C’è anche,
purtroppo, un piccolo gruppo di persone fuggite dalla giustizia italiana e
discretamente mimetizzate nel vasto mondo degli espatriati. Con loro prosperano
anche i cacciatori di fortuna, gli amanti dell’avventura, gli impresari senza
scrupoli, gli approfittatori, i mafiosi…

A Malindi e sulla costa da Lamu a Mombasa vive una
nutrita comunità di espatriati italiani. Accanto ai residenti di lungo corso,
ci sono i nuovi arrivati, come quelli che decidono di provare a investire nel
paese, a ragion veduta o ammaliato da ingannevoli passaparola. Ci sono poi i
turisti: quelli che vanno a Malindi regolarmente, magari ospiti di amici
residenti, quelli che vanno nei villaggi vacanze coi viaggi organizzati che
promettono mare e avventure nei favolosi parchi naturali, e quelli che sbarcano
alla ricerca della vacanza esotica e magari trasgressiva. Una comunità
variegata.

Alcuni residenti storici della costa, che mal soffrono
la presenza di mafiosi e investitori senza scrupoli, hanno fondato una decina
di anni fa il periodico «Out of Italy, la voce italiana dall’Africa»,
una rivista di 48 pagine a colori che viene pubblicata senza una cadenza troppo
fissa.

Il suo direttore è Franco Nofori, un italiano ormai
ultrasessantenne, vivace, schietto, un po’ vecchia maniera e attaccato ai
valori di un tempo, con un buon senso dell’humor e dell’autornironia. Da alcuni
anni è un attivo membro del Comites (eletto dagli iscritti all’Aire, il
registro degli italiani residenti all’estero) e collabora col consolato di
Malindi per risolvere i problemi di tanti connazionali, turisti e non.

In questo dossier a molte mani, riprendiamo, e
integriamo, alcuni articoli di «Out of Italy» che stigmatizzano uno dei tratti
più negativi della presenza europea sulla costa del Kenya: il turismo sessuale.
In un italiano colloquiale, qualche volta anche irriverente, con un po’ in
autocelebrazione e qualche generalizzazione, forse nell’ansia di strizzare
l’occhio ai propri lettori e di distanziarsi da quegli «altri» italiani che
umiliano il nome del nostro paese, gli autori mettono a nudo una triste realtà.
Pur non condividendo tutto quello che scrivono, riteniamo interessante leggere
come essi stessi vedono quel pezzo di Kenya.

Redazione MC


La voce degli onesti


Non solo faccendieri (sulla
costa est)


Chi
sono gli «altri» italiani di Malindi? E in che modo si parla di loro? Un
vecchio italiano ci presenta il suo punto di vista, appassionato e anche
orgoglioso. La voce di uno che vive sulla costa keniana da oltre 30 anni e ha
forse perso un po’ il contatto con la realtà di corruzione e degrado che
attanaglia anche il nostro paese.

Sono tanti eppure si notano poco. Non affollano bar e
discoteche, né si acconciano come i grotteschi simulacri di stagioni
irrimediabilmente perdute e irripetibili. Non denunciano i connazionali. Non
ingrassano gli avvocati locali con liti esasperanti tra loro, conflitti da cui
i contendenti escono sempre ammaccati e comunque sconfitti. Non annoverano nei
loro libri paga poliziotti e giudici corrotti.

Sono la linfa vitale che alimenta Malindi dando lavoro a
migliaia di persone e alle loro famiglie. Sono loro che aiutano, senza
ostentazione, la popolazione locale alla quale mettono a disposizione
opportunità, scuole, ospedali, orfanotrofi.

Non sono venuti a depredare il Kenya, né a tirare bidoni
a connazionali sprovveduti. Hanno investito qui il proprio denaro e i propri
risparmi o, più semplicemente, sono venuti a vivere la stagione del meritato
riposo dopo una vita di lavoro in Italia. Tutti loro, in diversa misura e con
varie modalità, contribuiscono al fiorire di questa cittadina che ha ormai
assunto un carattere squisitamente italiano.

Questi ambasciatori d’Italia in Kenya, non portano
vergogna al nostro paese, ma ci fanno sentire orgogliosi per l’intraprendenza,
per la fantasia, e per l’eclettismo che ci sono da sempre peculiari.


Cosa sarebbe Malindi senza di loro? La più diretta
risposta la riceviamo dalla popolazione locale: «No Italians, no Malindi».
Ed è una semplice verità.

Quando il dovere di cronaca ci costringe a dare notizia
di altri comportamenti che offendono la nostra dignità nazionale, siamo ben
consapevoli che le prime vittime di queste immagini deleterie e sventurate sono
proprio loro: i nostri connazionali della Malindi sana che devono subire
impotenti e incolpevoli il biasimo che ne deriva.

Ma chi vuole andare oltre la superficialità dei giudizi
approssimativi – spesso anche indebitamente malevoli – sa bene che nell’Italia
malindina convivono due universi rigorosamente separati: quello dei faccendieri
senza scrupoli, litigiosi, amorali e spesso anche grotteschi; e quello degli
italiani onesti che hanno il solo torto di non fare notizia.

Ma quanto valgono l’onestà e l’etica? Un giusto criterio di misurazione non può prescindere
dalle condizioni dell’ambiente in cui questi valori si esprimono. È certamente
meno difficile esprimerli in un paese retto dalla legalità e dal civismo che in
un altro in cui la trasgressione è all’ordine del giorno e molto spesso
addirittura gratificata.

Qui la forza di conservare i propri principi raggiunge
il vero eroismo.

Franco
Nofori



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Out of Italy e MC




Una bussola per L’Europa 

Questo editoriale è sottoscritto dalle testate missionarie italiane
aderenti alla Fesmi (Federazione della
Stampa Missionaria Italiana
) tra cui anche Missioni Consolata.

Oggi la percentuale degli europei che
non hanno fiducia nel parlamento comunitario supera di 8 punti quella di coloro
che invece ne hanno. Solo qualche anno fa gli estimatori erano oltre il 30% in
più dei detrattori. Ancora più accentuata è la perdita di fiducia nei confronti
della Commissione, del Consiglio e soprattutto della Banca centrale.

Eppure a Bruxelles si decidono le sorti di mezzo miliardo di cittadini
di 28 paesi. Scegliere una lista e individuare un candidato da votare, quindi,
non possono essere atti stanchi e inconsapevoli.

Il voto del prossimo 25 maggio è lo strumento – l’unico – in nostro
possesso per indicare un nuovo percorso, per incamminarci sulla strada di
un’altra Europa: quella dell’eguaglianza, dei beni comuni, dell’accoglienza,
della pace.

Per questo, come riviste missionarie, riteniamo
che i rappresentanti eletti a Strasburgo e Bruxelles debbano avere a cuore
almeno cinque grandi tematiche: gli Epa (Accordi di partenariato economico);
la pace e il commercio delle armi; l’emigrazione e l’immigrazione; la
cooperazione internazionale e il volontariato; la libertà religiosa.

1. Con gli Accordi di
partenariato economico
, l’Ue chiede ai paesi Acp (Africa, Caribi, Pacifico)
di eliminare le barriere protezionistiche in nome del libero scambio. Le
nazioni africane, togliendo i dazi e aprendosi alla concorrenza, permettono
all’agricoltura europea, che vende i suoi prodotti a basso costo perché
sostenuta da denaro pubblico, di invadere i loro mercati, con conseguenze
potenzialmente drammatiche. Sono pertanto accordi da rivedere.

2. Per uscire dalla crisi,
Bruxelles vuole sostenere lo sviluppo delle capacità militari continentali, con
l’obiettivo di fare dell’industria armiera un volano economico. Una
scelta intollerabile per chi ricerca le vie del dialogo e del disarmo per
risolvere situazioni di tensione e ostilità. Ci vuole un nuovo modello di
difesa che trasformi l’Europa in una potenza di pace, a cominciare dalla
costituzione dei Corpi Civili di Pace europei, come forza d’intervento tesa
alla prevenzione e ricomposizione nonviolenta dei conflitti. I casi della Siria
e dell’Ucraina sono un monito per tutti.

3. Sui temi dell’immigrazione,
è urgente una riforma del regolamento di Dublino: introdotto nel 2003 per
chiarire le competenze dei singoli stati sulle domande di asilo politico, si è
rivelato uno strumento inadeguato e in contrasto con il principio di protezione
dei rifugiati. Più in generale, l’Europa deve dimostrare che quello
dell’accoglienza è tra i suoi principi fondativi.

4. A ciò contribuirebbe
l’omogeneizzazione delle legislazioni nazionali in tema di cooperazione.
L’Europa, tramite i suoi paesi, è il primo donatore per l’Africa. Ma spesso le
sue azioni sono dispersive, non legate a un progetto comune, e quindi poco
efficaci. La cooperazione deve diventare lo strumento principe per una politica
di pace che voglia garantire la convivenza e il benessere, nel rispetto dei
diritti fondamentali di tutti i cittadini e valorizzando il contributo gratuito
e volontario della società civile.

5. Infine, c’è il tema della libertà
religiosa
: parrebbe un diritto garantito e tutelato nel Vecchio Continente.
Invece ha bisogno di un buon restauro perché l’Europa non è immune da casi di
violazione della libertà di credo, di attacchi a membri delle minoranze
religiose sulla base delle loro convinzioni, e di discriminazioni per motivi
religiosi. La stessa attenzione che chiediamo alle istituzioni europee nei
confronti dei paesi non europei, la chiediamo anche nei confronti dei paesi
membri dell’Ue.

I candidati parlamentari attraverso i loro
programmi che manifestino sensibilità su questi temi, i cittadini attraverso la
scelta di tali candidati, possono far imboccare all’Ue la strada del
cambiamento.

Federazione Stampa Missionaria Italiana


Vedi anche

ecco alcune delle riviste che hanno già pubblicato questo editoriale:

Su la rivista Nigrizia

Su la rivista Popoli

Sulla rivista Africa

Su la rivista Andare alle Genti

Fesmi