Speriamo non arrestino il batterista

Diario di un anno nella pastorale migranti


Da qualche tempo i missionari della Consolata in Corea del
Sud sono impegnati nella pastorale migranti. Un breve affresco di vita
comunitaria e missionaria ci restituisce gli entusiasmi, le difficoltà,
l’umanità delle relazioni, le fragilità dei progetti di vita dei migranti.

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Alla fine di gennaio 2013 mi
sono ritrovato catapultato nella comunità di Tong du cheon a Nord Ovest di
Seoul, vicino alla Corea del Nord. Luogo in cui sono concentrate molte piccole
fabbriche che possono sopravvivere solo con manodopera straniera.

Un
mondo nuovo per me, quello della pastorale dei migranti. L’impressione che ho
avuto del nostro lavorare in questo ambito la esprimerei con la parola «rete» (network).
Tutto quello che facciamo infatti non sarebbe possibile senza una grande rete
di solidarietà e di volontari che moltiplica i nostri pochi pani e pesci in
questo paese tutt’altro che amichevole coi migranti.

Un
po’ di tempo dopo, partecipando all’incontro nazionale della pastorale dei
migranti, sono rimasto sorpreso dal grande numero di coreani coinvolti.
Considerando che i 200 presenti all’incontro erano solo i delegati,
rappresentanti di altre migliaia che in tutta la nazione aiutano i lavoratori
immigrati, e che questo paese per motivi storici e sociologici non è molto
amichevole verso gli stranieri, mi sono sentito come dentro un miracolo
culturale che comincia dalla Chiesa cattolica.

Accogliere

Ogni
tanto, per qualche caso speciale, ci viene richiesto di accogliere un migrante
in difficoltà, di solito per motivi di salute.

Quest’anno
abbiamo ospitato per un paio di mesi, nella nostra comunità, Andi, un cubano
che aspettava di tornare al suo paese. La moglie coreana l’aveva portato qui,
in Corea del Sud, ma poi si era stufata di lui e l’aveva mandato via da casa.
Mentre aspettava i documenti del divorzio, Andi non aveva un posto in cui stare
e non mangiava regolarmente. Allora lo invitavamo a mangiare con noi, e tra le
pastasciutte e i risotti siamo riusciti a fargli mettere su qualche chilo per
renderlo presentabile a sua madre, quando l’avesse riabbracciato. Preparavo
sempre cibo per una persona in più, e lui con innocenza infantile ogni volta mi
chiedeva: «Posso finire tutto?».

Dal Kenya per i peruviani in Corea

Ad
aprile anche padre Clement Gacoka del Kenya è stato destinato a questa comunità.
Lui per il momento continua a studiare coreano e ad aiutare nella pastorale dei
peruviani a Yokkok. Ci aiuta a mantenere la casa come uno specchio, e adesso
stiamo cercando una parrocchia dove possa fare un tempo di immersione totale nella
lingua locale.

Padre
Tamrat Defar, un etiope che è qui da sei anni, con pazienza e costanza è
riuscito a radunare un gruppo di Filippini e Nigeriani (ma anche americani e
coppie di nazionalità mista) per una messa domenicale in lingua inglese. Adesso
abbiamo un numero costante di una quarantina di fedeli regolari, ma la quantità
sembra crescere e calcoliamo che siano più di 100 quelli che hanno partecipato
alle nostre celebrazioni una o più volte. Tutto questo grazie anche al parroco
di Tong du cheon che ci presta i locali e ci dà un appoggio incondizionato.

Non di sole telenovelas
(coreane)

Assieme
ai migranti e al centro della parrocchia di Nog Yang che cornordina la nostra
zona pastorale organizziamo anche giornate di ricreazione. Quest’anno con due
autobus siamo andati a visitare un’isola fluviale, famosa per delle telenovelas
coreane girate in loco. Ci sono posti come: il ponte su cui i protagonisti si
sono dati il primo bacio e la panchina su cui lui ha detto a lei che l’amava.
Le nostre giovani filippine, tutte entusiaste, non facevano più di 100 metri
senza scattare una foto.

Verso
la fine dell’estate siamo anche andati in piscina, in più di 200 persone dai
vari centri della zona. Mentre a ottobre abbiamo organizzato il grande bazar al
centro di Nog Yang con vendita di vestiti usati e di cibi tradizionali dei vari
gruppi etnici. Nigeriani, Filippini, Vietnamiti, Cambogiani, Thailandesi erano
i gruppi più consistenti. I Cambogiani e Thailandesi, benché non siano
cristiani, sono assidui frequentatori del centro e ricevono aiuto grazie ad
alcune donne di quelle nazioni che parlano un po’ di coreano.

Qui
al centro chiunque può trovare aiuto medico, grazie a una specie di
assicurazione a cui tutti contribuiscono, ma anche grazie ad aiuti generosi in
occasione di grosse operazioni chirurgiche. C’è anche un aiuto legale e la
possibilità di trovare rifugio in casi di violenza familiare.

Una pastorale fluttuante

La
nostra è una pastorale, per così dire, «fluttuante». Siamo venuti in questa
zona per assistere la comunità peruviana, che però ormai è quasi sparita. Al
contrario invece la comunità di lingua inglese sta crescendo. A volte i nostri
fedeli preferiscono andare in altri centri dove si radunano i loro amici, così
il loro numero in quei casi diminuisce improvvisamente.

In più
ogni tanto gli agenti dell’immigrazione fanno un raid a caccia di
immigrati illegali e qualcuno dei nostri fedeli viene rispedito in patria. In
questo modo cinque mesi fa abbiamo perso il chitarrista della messa, Danny, un
caro amico che con la moglie aveva animato la messa della comunità filippina
per quasi 20 anni. Il nuovo direttore del coro è molto bravo, ma anche lui
illegale, come l’80% di tutti gli altri. Speriamo che non ce lo arrestino.

«Senza di voi sarebbe dura»

Un giorno, in un incontro, una signora filippina con le
lacrime agli occhi ci diceva: «Grazie, senza l’aiuto che i coreani e voi ci
date, per noi la vita sarebbe veramente troppo dura!».

A volte non ci rendiamo conto dell’impatto delle nostre
azioni e sembra sempre troppo piccolo quello che facciamo. Padre Tamrat va a
tradurre all’ospedale o al centro legale. Un prete locale si preoccupa di avere
i fondi per le emergenze ospedaliere o perché tutti possano mangiare quando andiamo
in piscina. Noi mettiamo in contatto questo e quello con una certa signora che
aiuta gli immigrati per i documenti. La donna delle pulizie della nostra
parrocchia fa sempre trovare il caffè pronto per tutti. Una suora tiene la mano
a una mamma etiope all’ospedale: alcune cose non si possono comunicare a
parole, ma quella mamma ci ha fatto capire che si è sentita tanto aiutata e
compresa.

Noi
siamo piccoli, ma questa rete d’amore che si è creata fa meraviglie!
Abbiamo
anche altri sogni, ma ve li faremo sapere l’anno prossimo.
Per
ora ci limitiamo al coro della messa, per cui abbiamo comprato una batteria
elettronica… sperando che non ci arrestino il batterista!

Gian Paolo Lamberto


          Per andare avanti un’altra settimana                    

Ormai ogni diocesi ha il suo incaricato della pastorale
migranti e c’è una rete di centri di ascolto, con molti volontari anche non
cristiani, nei quali i migranti vanno a cercare aiuto per salari non pagati,
problemi medici e legali, scuole di lingua e cultura. Spesso cercano solo un
posto in cui trovarsi insieme tra loro, mangiare i loro cibi tradizionali e
sentire il calore della patria lontana. Tutti mandano soldi alla famiglia, per
costruire una casa, mandare i figli a scuola o semplicemente mantenerla. Vivono
in condizioni a volte disumane (ci sono casi di stranieri che vivono in
containers, gelidi d’inverno e torridi d’estate) e fanno gl’infami lavori delle
3 D, dirty, difficult and dangerous, ossia sporchi, difficili e pericolosi, che
ormai i coreani non vogliono più fare.

Qui la messa non è solo un motivo di aggregazione, ma un
vero momento di speranza, dove si ricaricano le forze nel Signore per andare
avanti un’altra settimana. La nostra messa è alle tre del pomeriggio perché
molti dei nostri fedeli lavorano di notte e noi cerchiamo di adeguarci ai loro
bisogni. A me piace guardare i loro volti quando cantiamo il Padre nostro: si
vede proprio la partecipazione del cuore. E sapete cosa è simpatico: alcuni dei
nostri leaders più fedeli sono ex seminaristi!

Nel nuovo panorama sociale da un po’ di anni c’è il fenomeno
delle famiglie multi culturali. Si parla di 260mila famiglie composte da un
marito coreano, solitamente proveniente dalla campagna, o da un povero, o
handicappato della città, e da una moglie proveniente da paesi come Cambogia,
Vietnam, Mongolia, Filippine, Cina, che vuole sfuggire la povertà o
semplicemente non ha altri mezzi al di là di questo per aiutare la famiglia.
Per questo motivo oltre ai centri di ascolto ci sono case rifugio per donne in
difficoltà, vittime di violenza domestica: poiché una gran parte di queste
unioni sono problematiche. Uno dei grandi problemi è l’integrazione nella
società dei bambini di queste famiglie miste. Siccome dalle madri non possono
imparare bene il coreano, e siccome sono diversi di aspetto dai coetanei,
trovano difficoltà a integrarsi nella scuola con gli altri bambini perché
questi li ostracizzano. Anche in tali casi le religiose intervengono con una
rete di piccoli doposcuola per i bambini e di centri di assistenza per le
mamme. Bisogna dire che anche il governo è cosciente della situazione e sta
facendo il possibile con campagne di sensibilizzazione perché i figli di coppie
miste siano accettati come coreani al 100 per 100. Fino a 20 anni fa il
ritornello era: «Noi coreani siamo una razza pura». Ma da 20 anni la natalità è
crollata a livelli più bassi di quelli italiani e ci si prepara a un grande
invecchiamento e diminuzione della popolazione.

Gian Paolo Lamberto
 

Gian Paolo Lamberto