3_M: Torna a rifiorir la steppa

Storia e sfide della
chiesa più giovane del mondo
Con un messaggio
pastorale il prefetto apostolico di Ulaanbaatar, monsignor Wenceslao Padilla, traccia la storia dei primi 20
anni della missione cattolica in Mongolia. Una storia che parte da tre
missionari e arriva a centinaia di fedeli e un buon numero di missionari e
missionarie, diverse strutture e nuove conversioni ogni anno. Oggi, però, con
lo sviluppo economico e l’avvento della democrazia le sfide si moltiplicano.

Il 10 luglio del 1992
una Chiesa è nata nelle steppe dell’Asia Centrale. Ciò avvenne quando tre
missionari della Congregazione del Cuore Immacolato di Maria (Cicm) misero il
piede sul suolo mongolo. Sembrava quasi un’avventura per i tre religiosi
stabilire una missione là dove la Chiesa non aveva alcuna struttura fisica né
membri da considerare propri. Sin dall’inizio, l’idea di far nascere una Chiesa
dal nulla sembrava un’impresa paurosa, piena di sfide, ma anche eccitante.

Siamo arrivati quando la Repubblica di Mongolia si era
appena liberata dal dominio della Russia Sovietica e la nazione stava tentando
i primi passi per reggersi in piedi da sola. Il governo appena costituito
cercava di rispondere ai vari problemi e necessità della gente e del paese.
C’era una situazione in un certo senso caotica nei luoghi pubblici, come lo «sciopero
della fame» messo in atto davanti al palazzo presidenziale e parlamento, per
chiedere le dimissioni dell’allora primo ministro. A guidare la dimostrazione
c’era anche un coraggioso e impegnato attivista sostenitore della democrazia:
Tsakhiagiin Elbegdorj, attuale presidente del Paese.

I primi contatti

Stando in un appartamento in affitto, abbiamo lentamente
trovato la nostra strada per entrare nel cuore dei mongoli, cercando di vivere
come loro, sperimentando le stesse privazioni e difficoltà di vita di quel
tempo. C’era scarsità di cibo e mancanza di comodità. La Mongolia era un «paese
di stenti», come dicevano molti stranieri incontrati durante i primi giorni
della nostra integrazione. Ben presto, però, dopo aver conosciuto meglio la
gente e il loro stile di vita, e dopo aver imparato un po’ la loro lingua, ci
siamo sentiti più fiduciosi nell’allacciare contatti con i locali.

«Venite e vedete» era la nostra parola d’ordine per far
sentire benvenute e a proprio agio le persone che incontravamo e si avvicinavano
a noi. Alla curiosità di chi si domandava chi eravamo, cosa facevamo, perché
eravamo in Mongolia… rispondemmo piano piano, quando cominciammo a invitare e
radunare la gente per le celebrazioni liturgiche, a organizzare classi di
catechismo e a svolgere attività sociali.

I primi anni sono stati tempi di sopravvivenza,
adattamento e aggiustamento alle realtà fisiche del paese e del suo popolo. Per
quel trio, sono stati anni di vero discernimento, inculturazione e prima
evangelizzazione… i primi contatti della Chiesa istituzionale con i fedeli di
altre credenze e convinzioni religiose.

Non eravamo tanto preoccupati delle difficoltà e delle
sfide che ci circondavano, come invei molto rigidi, barriere linguistiche,
mancanza di comodità, fortissima adesione della popolazione a buddismo,
sciamanesimo e islam, presenza di altre denominazioni e sette cristiane,
assenza di fedeli cattolici locali e di qualsiasi edificio sacro. Personalmente
presi tutto questo come aspetti positivi della vita missionaria. Tali condizioni
ci offrivano una sfida e un’opportunità. Eravamo fortemente convinti che quel
Dio che ci chiamava e ci mandava in Mongolia fosse presente già da tempo nelle
vite ordinarie dei fratelli e sorelle mongoli, anche prima del nostro arrivo.
Tale pensiero era uno sprone per crescere nell’apprezzamento e nella
comprensione delle realtà concrete  del
paese e della gente.

La Chiesa in Mongolia oggi

Guardando indietro a questi primi 20 anni di presenza
della Chiesa cattolica in Mongolia, siamo lieti di ripetere come il salmista: «Grandi
cose ha fatto il Signore per noi: eravamo pieni di gioia» (126, 3).

Dai 3 pionieri, siamo passati a 81 missionari di 22
differenti nazionalità e di 13 istituti e gruppi religiosi diversi; da una
popolazione cattolica pari a zero, oggi sono circa 835 i mongoli entrati nella
Chiesa cattolica attraverso l’iniziazione cristiana; molti di più sono quelli
già introdotti nella fede cattolica e che sono accompagnati dai missionari con
differenti programmi di catechesi.

Con il rilevante aumento del personale (missionari e
collaboratori locali) continuano a crescere ed evolversi attività pastorali,
sociali, educative, umanitarie caritative e di sviluppo: tutti progetti diretti
al miglioramento della situazione della povera gente.

Ora la missione può vantarsi di avere 5 parrocchie e
altrettante postazioni missionarie con estesi servizi sociali; 2 centri per i
bambini di strada; una casa per anziani; 2 asili Montessori; 2 scuole
elementari; un centro per bambini disabili; una scuola tecnica; 3 biblioteche
con sale di studio e strutture informatiche; un ostello per giovani
universitarie, anch’esso dotato di sala studio e servizi informatici; vari
centri per attività giovanili; 2 cornoperative agricole; un ambulatorio con
laboratorio; un Centro di ricerca Mostaert; programmi di lingue… La Caritas
Mongolia
porta avanti programmi di escavazione e riparazione di pozzi
profondi, costruzione di case per indigenti, agricoltura sostenibile, sicurezza
alimentare, servizi e assistenza nelle zone rurali, lotta al traffico di esseri
umani. Inoltre abbiamo un centro per ritiri spirituali, centri con programmi
per alleviare la povertà, offriamo borse di studio a studenti poveri e
meritevoli di città e di campagna.

La celebrazione dei 20 anni di vita della Chiesa
cattolica in Mongolia è stata segnata da altri eventi, come l’inaugurazione
della scuola elementare della Prefettura e l’erezione della quinta parrocchia
intitolata a «Maria Madre della misericordia» (quella di Arvaiheer, vedi
pag. 47-49, ndr
). Inoltre, siamo anche felici che due giovani mongoli sono
oggi in un seminario della Corea del Sud, presso l’Università cattolica di
Daejeon, per prepararsi al sacerdozio.

Con tutto ciò, ora siamo in grado di guardare al futuro
con più fiducia e speranza. Con pazienza e determinazione siamo decisi a
raggiungere altra gente, non solo quelli che si sono già uniti a noi nella
fede, ma anche quelli di cui ci prendiamo cura anche se non sono ancora
battezzati. Tuttavia una frustrazione si sta insinuando in questa Chiesa
adolescente: circa il 23% dei battezzati non frequenta più i riti liturgici;
alcuni hanno già abbandonato la fede; un altro 15% è fuori alla ricerca di
pascoli più verdi, sperando che, dovunque si trovino, continuino a praticare
qualche forma di vita cristiana.

Guardando al futuro e alle sue sfide

Sono passati 20 anni. È difficile ora risalire a punto
in cui abbiamo cominciato. Con le trasformazioni del paese causate dall’avvento
della democrazia e dell’economia di mercato, la Mongolia si affaccia a un
futuro sconosciuto per molte generazioni di mongoli. Al momento il paese si
trova alla ribalta e attrae l’avidità di molti investitori stranieri, data la
sua ricchezza di risorse naturali. L’industria mineraria è esplosa negli ultimi
anni e sta attirando un movimento immigratorio dalle città alle zone rurali. C’è
anche un influsso di esperti e tecnici stranieri che stanno facendo le
infrastrutture e le prime operazioni di scavo.

Con lo sviluppo portato da questo fenomeno, il tenore di
vita della popolazione sta raggiungendo livelli 
elevati; ma il costo della vita e dei beni di prima necessità continua a
crescere. Per affrontare questa situazione la popolazione viene sostenuta con
sussidi da parte del governo, il quale sta già ricevendo somme considerevoli grazie
agli investimenti previsti dalle compagnie estrattive. Si può dire che le
autorità politiche stanno già usando gli «utili non ancora realizzati» dalle
attività minerarie per condividerli con la popolazione. Di conseguenza, la
maggior parte dei dividendi governativi ricavati dai profitti minerari molto
probabilmente toerà nelle tasche degli investitori una volta che le
operazioni saranno in pieno sviluppo e inizieranno a rendere.

Tale situazione pone alla Chiesa sfide tremende. Quello
che sta succedendo potrà essere di aiuto al popolo, ma di sicuro non aiuterà la
comunità cattolica che dipende dagli aiuti e sostegno dall’estero: non abbiamo
alcuna fonte di guadagno locale, dato che siamo qui come «organizzazione non
profit
». L’aumento dei salari del 53% avvenuto nel 2012 ha aggravato fortemente
le difficoltà finanziarie della Chiesa. È molto probabile che i missionari
dovranno tirare la cinghia, ridurre un buon numero di personale o chiudere
alcuni dei loro progetti.

A tutto ciò si aggiunge una considerevole diminuzione
delle donazioni dall’estero per portare avanti i nostri progetti. Le agenzie di
raccolta fondi, colpite dalla recessione economica globale, non sono riuscite a
raggiungere i traguardi degli anni scorsi. Anche i benefattori, che sentono e
leggono la propaganda sulla crescita del benessere della Mongolia danno di
meno. Con questa nuova situazione, la Chiesa deve superare ostacoli sempre più
grandi per sopravvivere.

Un’altra sfida che la Chiesa deve affrontare è la
rinascita dello sciamanesimo, la religione culturalmente radicata nella
popolazione, che propone l’adorazione della natura, cioè il tengerismo
(adorazione dei cieli blu). La gente sta tornando ai suoi costumi culturali
ancestrali e credenze tradizionali.

Infine, data la crescente richiesta di lavoratori nelle
imprese minerarie, suppongo che bisognerà cambiare le strategie di missione
della Chiesa, per aiutare quelle persone che saranno coinvolte nel processo
migratorio dalle città alle campagne.

Cosa può offrire oggi la Chiesa alla Mongolia?

Per essere rilevante, la Chiesa deve guardare più
attentamente al futuro, adattandosi alla società in celere mutamento, sotto la
spinta della democrazia, dell’economia di mercato, del materialismo e del
consumismo. Da una comunità nomade di pastori a una società di residenti urbani
e nei siti minerari, con l’aumento della forma di vita sedentaria, bisogna
adottare un nuovo tipo di apostolato e di servizio, per compiere la missione di
evangelizzazione e diffusione del Vangelo. 
Per essere percepita come necessaria, la Chiesa deve concentrarsi
nell’aiutare la gente a preservare o acquisire i valori della convivenza
civile. Questo, credo, si raggiunge infondendo i valori umani e cristiani e i
relativi comportamenti.

Stiamo attraversando una soglia, laddove la Chiesa ha
concentrato i suoi sforzi in campo sociale, umanitario e di sviluppo. Questi
ambiti di coinvolgimento rimangono attuali, dato che molte persone, sia nelle
zone rurali che tra i nuovi migranti nelle città, incontrano ancora difficoltà
nella vita economica e collettiva, a causa della mancanza di etica sociale e
dell’aumento dei prezzi dei beni essenziali. Ad ogni modo, è arrivato il
momento di rafforzare il ruolo educativo e pastorale della Chiesa. Penso che
l’istruzione, in tutte le sue varie ramificazioni, debba essere prioritaria.
Credo che qualunque sia la direzione che la Mongolia e il suo popolo vogliano
prendere, deve avvenire un cambiamento di mentalità da nomade-rurale a
cittadino sedentario. Questo può avvenire solamente con il giusto approccio e
le giuste conoscenze. La Chiesa può aiutare in questo, rafforzando il proprio
impegno nel campo dell’educazione.

Intanto la Chiesa deve mantenere con sollecitudine la
propria reputazione di comunità di accoglienza e di protettrice dei poveri,
dando sostegno morale ai bisognosi. La vita di testimonianza dei suoi fedeli,
per essere credibile e degna di fiducia, deve mostrare coerenza tra
predicazione e stile di vita cristiano… testimoniare il Vangelo e i suoi valori
con parole e fatti.

Conclusioni

Credo che questa Chiesa fiorisca con lo Spirito di Dio
che la guida. È sopravvissuta ai primi e più difficili anni della sua esistenza
grazie alla dedizione e impegno dei missionari e loro collaboratori laici, e
sono certo che continuerà a crescere con il costante impegno dei suoi agenti
pastorali e collaboratori, unito alla generosità di singoli e gruppi donatori
di altre Chiese di tutto il mondo. Siamo in debito con i nostri benefattori!
Grazie e che Dio vi benedica!

Inoltre, è assolutamente necessario un forte spirito di
collaborazione e organizzazione nell’integrare i nostri differenti carismi di
congregazioni religiose in uno sforzo e visione comune. Lo spirito di unità e
di comunione fra i missionari è un obbligo, ed è la migliore testimonianza che
possiamo offrire e trasmettere al popolo mongolo. Anche la vita personale di
ogni agente pastorale è un modo potente per testimoniare il Vangelo. Le parole
di Paolo VI sono ancora più vere nella nostra situazione: «Uomini e donne oggi
ascoltano più volentieri i testimoni che i maestri. E se ascoltano i maestri è
perché sono testimoni» (Evangelii nuntiandi 41).

La Missione mongola avanza nel
futuro tenendo ben a mente il «noi» della Chiesa e della fede apostolica.
Ognuno ha un compito diverso nella vigna del Signore, ma siamo tutti compagni
di lavoro. Ciò vale oggi e per il futuro, per ogni singolo cristiano. Siamo
tutti umili ministri di Gesù. Serviamo il Vangelo nella misura in cui ci è
consentito, secondo i nostri doni, e chiediamo a Dio che la sua Buona Notizia e
la sua Comunità ecclesiale si sviluppi oggi e nel futuro tramite «noi».

E così, al di là delle nostre funzioni effettive, questa
è la vera sfida nell’essere veri missionari, chiamati ad aiutare a trasformare
la vita di coloro con cui entriamo in contatto, in modo particolare i poveri e
i bisognosi, nel nostro ministero e nella nostra missione.

Mons.
Wenceslao Padilla

Wenceslao Padilla




2_M: Pericolo Giallo

1245-1368: Missioni e
missionari tra i mongoli


L’espansione dell’impero
mongolo, inglobando quasi tutto il continente asiatico e parte dell’Europa
orientale, nel XIII e XIV secolo, dapprima provocò spavento nella cristianità,
poi si rivelò occasione provvidenziale, garantendo sicurezza e stabilità
economica ai missionari e commercianti che raggiunsero le capitali imperiali.
Purtroppo l’evangelizzazione fu faticosa e poi stroncata nel momento di maggior
successo.

In tutta Europa, nel
1241, risuonava il grido «la cristianità è in pericolo», quando il generale
mongolo Batu, invasa l’Ungheria, distrutta Zagabria, saccheggiata Spalato, si
affacciava sulle sponde dell’Adriatico, mentre l’ala destra del suo esercito
marciava su Vienna. 

In pochi anni, Gengis Khan (1162-1227) e i suoi quattro
figli avevano costruito l’impero più vasto della storia, dalla Corea alla
Polonia, dal Mar Giallo al Golfo Persico, passando per l’Asia centrale e le
vallate dell’Indo. Il passaggio dei mongoli (o tartari) seminava dappertutto
terrore e morte: città ridotte a cumuli di macerie; abitanti sgozzati come
capre o deportati come schiavi. La stessa sorte era toccata a molti cristiani
russi, polacchi, ungheresi.

Contro il pericolo giallo papa Gregorio IX invocava
invano una crociata: l’imperatore Federico II era in rotta di collisione col
pontefice; i principi cristiani in totale anarchia. Non restava che sperare
nella provvidenza. E infatti, alla fine del 1241, l’improvvisa scomparsa di
Ogodei Khan, successore di Gengis Khan bloccò l’avanzata mongola, poiché
principi e generali dovettero precipitarsi a Karakorum, la capitale dei mongoli
per eleggere il nuovo sovrano.

Ben presto l’impero si divise in quattro regni o
khanati, che nel tempo acquistarono sempre maggiore autonomia.

Missione diplomatica

Al concilio di Lione (1245), la «sevitia Tartarorum»
fu considerata tra i cinque principali dolori che affliggevano la Chiesa, per
cui il «remedium contra tartaros» fu posto subito all’ordine del giorno.
Scartata l’idea di una crociata, papa Innocenzo IV vide nell’espansione dei
Mongoli una nuova sfida missionaria e inviò un’ambasceria, con lo scopo di
convertirli al cristianesimo o averli almeno alleati contro i musulmani per
liberare la Terra Santa. La legazione fu affidata al francescano Giovanni da
Pian di Carpine.

«Uomo familiare e spirituale, letterato e grande
prolocutore», come lo definisce Salimbene da Parma, impegnato per vari anni nel
diffondere l’ordine francescano nell’Europa centrale e settentrionale, fra’
Giovanni aveva sviluppato notevoli capacità diplomatiche e temprato fisico e
carattere alle situazioni più impensabili: per papa Innocenzo IV era la persona
ideale per guidare un’ambasciata al gran khan dei Mongoli.

Partito da Lione il 16 aprile 1245, in compagnia di
Stefano di Boemia e più tardi di Benedetto di Polonia in qualità di interprete
di lingue slave, il messo pontificio raggiunse la Polonia e proseguì per Kiev,
dove Stefano di Boemia si ammalò e dovette interrompere il viaggio. Grazie
all’aiuto di principi russi, che procurarono loro dei cavalli tartari, capaci
di brucare l’erba anche sotto la neve, i due religiosi raggiunsero gli
avamposti dei Mongoli sul Volga, dove tradussero in persiano le lettere papali
destinate al Gran Khan.

Dopo aver percorso migliaia di chilometri attraverso le
sterminate steppe centro-asiatiche, «equitando quanti equi poterant ire
trotando… de mane usque ad noctem, immo de notte saepissime
» (stando a
cavallo quanto i cavalli potevano andare al trotto… da mattina a sera e
spesso anche di notte), come racconta nella sua Historia Mongalorum,
cibandosi per lo più di miglio con acqua e sale, dopo aver interloquito, di
tappa in tappa, con i principali signori mongoli incontrati nel cammino, il 22
luglio 1246, dopo 15 mesi di viaggio, i due francescani arrivarono
all’accampamento di Guyuk Khan, nipote di Gengis Khan, non lontano dalla città
di Karakorum, proprio mentre fervevano i preparativi per l’incoronazione
ufficiale del nuovo sovrano.

Dopo quattro mesi di attesa, fra’ Giovanni fu finalmente
ammesso alla presenza del Gran Khan e poté consegnare il messaggio papale, che
invitava l’imperatore mongolo alla pace e alla conversione al cristianesimo.
L’accoglienza fu gentile; ma il missionario fu rimandato con un messaggio
inequivocabile: «Voi tutti, papa e imperatore, re e governanti, affrettatevi a
venire di persona e sentirete le nostre proposte di pace. Quanto a convertirci,
non ne vediamo la ragione… Voi abitanti dell’Occidente credete di essere i
soli a essere nella fede e disprezzate gli altri; ma in che modo sapete a chi
Dio si degnerà di conferire la sua grazia?». A fra’ Giovanni non restava che
riprendere a ritroso il percorso fatto all’andata; tra infiniti stenti
raggiunse Kiev e da lì Lione, nel novembre del 1247. L’anno seguente fu
nominato arcivescovo di Antivari, in Montenegro, dove morì nel 1252.


Altre legazioni papali e reali

Nonostante la mancata conversione dei Mongoli,
l’esperienza di fra’ Giovanni da Pian del Carpine ebbe una portata storica
impareggiabile: osservatore privilegiato e testimone effettivo del popolo
mongolo, egli fu il primo a farlo conoscere all’Occidente, con la sua «Historia
Mongalorum quos nos Tartaros appellamus
» in cui racconta il suo viaggio e
soprattutto il mondo culturale e religioso della società mongola, la sua
storia, virtù e difetti, loro tecniche militari e perfino l’aspetto fisico (vedi
riquadro
).

Nell’impero mongolo vigeva una certa tolleranza verso
tutte le religioni, benché i Mongoli seguissero prevalentemente credenze
sciamaniche. Anche la risposta del gran khan Guyuk alla missiva del Papa, tutto
sommato, aveva più sapore di orgoglio e indifferenza che di ostilità. Lo stesso
fra’ Giovanni aveva assistito alla celebrazione degli uffizi divini dei
nestoriani in una cappella che sorgeva proprio di fronte alla tenda del Gran
Khan; due ministri dell’impero mongolo erano cristiani nestoriani.

Altri missionari furono inviati con lettere del Papa e
di Luigi re di Francia. Uno di essi fu il domenicano francese Andrea da
Longjumeau: prima fu mandato da Innocenzo IV a evangelizzare i tartari del
khanato di Persia (1245-47), poi, nel 1249, Luigi IX lo inviò al gran khan
Guyuk per chiedere protezione verso i cristiani dell’impero mongolo e la sua
alleanza nella crociata per la liberazione dei luoghi santi. Andrea arrivò a
Karakorum che il Gran Khan era morto da mesi; offrì alla sua vedova, la
reggente Oghul Qaimish, doni preziosi, tra cui una reliquia della Santa Croce,
che accettò volentieri come segno di sottomissione e consegnò al frate una
lettera per Luigi IX, in cui invitava il re di Francia a considerarsi suo
vassallo e pagare un tributo annuo ai Mongoli. Rispetto alla missione di
Giovanni da Pian del Carpine non ci fu quindi alcun progresso. Tuttavia il
frate domenicano toò con molte informazioni sulla neutralità dei Mongoli in
materia religiosa e sulla forte presenza di cristiani nestoriani alla corte
dell’imperatore. Tali informazioni incoraggiarono Luigi IX a inviare un’altra
missione, nella speranza di convertire al cristianesimo tutta l’aristocrazia
mongola.

La nuova missione affidata nel 1253 al francescano fiammingo
Guglielmo di Rubruck, aveva carattere non solo missionario ma anche politico e
scientifico. Nelle sue lettere il re di Francia usò espressioni di cortesia
verso i re tartari, chiedendo che Guglielmo e il suo compagno fra’ Bartolomeo
da Cremona, potessero restare nei paesi da loro governati «per insegnare la
Parola di Dio». Al tempo stesso re Luigi chiese a Guglielmo di scrivere un
rapporto su tutto ciò che avrebbe potuto apprendere sui Mongoli.

Partiti nel 1253 da San Giovanni d’Acri alla volta di
Istanbul, i due missionari proseguirono verso la regione del Volga,
incontrarono il campo militare (orda) di Sartach, poi quello di suo padre Batu,
dove furono accolti con benevolenza, ma vennero indirizzati a Karakorum, poiché
solo il Gran Khan aveva potere di decidere circa le relazioni con i sovrani di
altri popoli. Raggiunto l’accampamento di Mongku, nipote di Gengis Khan e
successore di Guyuk, i due missionari entrarono in Karakorum nell’aprile del
1254. Guglielmo fece moltissimi incontri: ambasciatori di popoli tributari,
monaci nestoriani o buddisti, sciamani, prigionieri occidentali… Egli
organizza pubbliche dispute teologiche con sacerdoti buddisti: tutti ascoltano
senza fiatare, ma nessuno diceva di voler essere cristiano. Il missionario
riescì ad amministrare solo sei battesimi, tutti a figli di deportati.

Ammesso alla presenza di Mongku Khan, Guglielmo si sentì
spiegare che il sovrano non aveva bisogno del cristianesimo; gli bastavano gli
indovini, i cui consigli lo facevano vivere bene. A luglio dello stesso anno
ripartì, portando con sé la lettera per il re di Francia in cui Mongku gli
chiedeva la sua sottomissione. Dopo quasi un anno di viaggio, il missionario
raggiunse la Terra Santa, dove scrisse un rapporto preciso e dettagliato del
viaggio in forma di lettera per re Luigi: resoconto vivo e affascinante, uno
dei capolavori della letteratura geografica medioevale, intitolato Itinerarium
fratris Willielmi de Rubruquis
.

Missioni… commerciali

Se dal punto di vista missionario e diplomatico furono
un fallimento, queste ambascerie ebbero altri risvolti positivi: le notizie
raccolte dai missionari svelarono all’Occidente un mondo ancora sconosciuto; le
loro imprese aprirono ai mercanti la strada verso il favoloso Cathay, come era
chiamata la Cina. Dove fallirono le missioni diplomatiche, riuscirono quelle
commerciali.

Nel frattempo, infatti, il nuovo gran khan Kubilai aveva
spostato in Cina la capitale del suo impero, conosciuta dagli europei col nome
turco di Khambaliq (città del khan), l’odiea Pechino. A contatto con
la civiltà cinese la cultura mongola conobbe una nuova fase. È quanto
testimoniano due mercanti veneziani, Nicolò e Matteo Polo: arrivati nella
capitale nel 1260, trovarono una corte variopinta e un imperatore ben disposto
e curiosissimo: «Dimandò di messere il Papa e di tutte le condizioni della
Chiesa romana e di tutte le usanze dei latini». E quando i due mercanti
ripartirono, dopo nove anni, Kubilai li pregò di ritornare e di portargli «un
po’ d’olio della lampada che arde sul sepolcro di Cristo», e affidò loro un
messaggio per il Papa, in cui chiedeva 100 uomini di scienza che istruissero i
tartari sulla religione cristiana.

Nel 1271 il papa Gregorio X mandò due domenicani,
insieme ai due mercanti veneziani, cui si era aggiunto il piccolo Marco, autore
del Milione; ma i frati tornarono subito indietro. Sei anni dopo furono
inviati quattro francescani, che sparirono nel nulla.

Nel 1287 un monaco nestoriano, Raban Sauma, arrivò in
Europa come ambasciatore dello stesso Kubilai Khan, per chiedere al re di
Francia un’alleanza contro i turchi e al papa di inviare missionari. Nicolò IV,
primo papa francescano, non esitò un istante: nel 1289 decise di mandare un
missionario già collaudato: fra’ Giovanni da Montecorvino.

Giovanni da Montecorvino

Nato nel 1247 a Montecorvino, vicino a Saleo, «dottissimo
ed eruditissimo» come lo definisce il Marignolli, per 10 anni aveva predicato
il vangelo in Armenia, Persia e Tartaria settentrionale, operando migliaia di
conversioni. Tornato a Roma come ambasciatore dei re di quelle regioni presso
il papa, Nicolò IV lo nominò suo legato e lo inviò subito indietro, con 26
lettere credenziali da consegnare a re, dignitari ecclesiastici georgiani,
nestoriani, giacobiti, fino al gran khan della Cina.

Partito il 15 luglio 1289 insieme a un manipolo di
francescani e domenicani e al mercante genovese Pietro Lucalongo, fra’ Giovanni
raggiunse le regioni del suo primo amore missionario, consegnò a principi e
prelati le lettere papali e continuò dappertutto a predicare, istruire,
convertire e organizzare comunità cristiane.

Ripreso il viaggio via mare, si fermò in India per oltre
un anno; poi, sempre via mare, nel 1294 approdò insieme al domenicano Nicola da
Pistornia e a Lucalongo al porto cinese di Zaitung o Quanzhou; risalendo il
Canale imperiale, raggiunse Khambaliq e consegnò la lettera papale a Timur Khan
(Kubilai era morto quello stesso anno).

Come legato del papa, Giovanni da Montecorvino fu
accolto con tutti gli onori; gli fu concesso il privilegio di risiedere nella
città proibita; ebbe piena libertà di annunciare il Vangelo a mongoli e cinesi,
ai membri della famiglia imperiale e ai nestoriani. I frutti arrivarono subito:
una principessa, promessa sposa del gran khan, e il nestoriano principe
Giorgio, re di Tenduk, abbracciarono la fede cattolica.

Ma i nestoriani non gliela perdonarono. Presenti in Cina
da sette secoli e sparsi in 20 province settentrionali e orientali del celeste
impero, essi occupavano posti di rilievo nell’amministrazione e non avevano
alcuna intenzione di condividere i loro privilegi con l’ultimo arrivato e lo
calunniarono per cinque anni davanti alla corte del gran khan.

Finalmente scagionato da ogni accusa, riprese con
successo l’evangelizzazione di mongoli e cinesi. In una lettera ai confratelli
di Tabriz nel 1305, tirava qualche somma del lavoro svolto in 11 anni di
missione. «Ho amministrato il battesimo a 6 mila persone. Se non ci fossero
state le calunnie dei nestoriani, ne avrei battezzate altre 30 mila. E sto sempre
battezzando». Riuscì a convertire anche importanti personalità della corte, ma
non il gran khan, «ormai incallito nell’idolatria» come confessava lo stesso
monarca.

Rimase da solo per 13 anni, svolgendo un lavoro immenso
fino a erigere altre diocesi suffraganee. Ma in Occidente, con il papa in
esilio ad Avignone, nessuno si ricordava più di quel frate sparito nel nulla,
finché fra’ Tommaso da Tolentino, proveniente dalla Persia, arrivò ad Avignone
durante un concistoro e lesse le lettere di Montecorvino davanti al papa e ai
cardinali. Grande fu lo stupore nel sentire quelle meraviglie d’altro mondo. E
quando le lettere arrivarono nei conventi, molti religiosi si offrirono
volontari per raggiungere l’eroico missionario.

Papa Clemente V nel 1307 inviò alcuni missionari e 7
vescovi, per consacrarlo arcivescovo di Khambaliq e patriarca di tutto
l’Oriente «in toto dominio Tartarorum»; solo tre di essi giunsero a
destinazione due anni dopo. La consacrazione di fra’ Giovanni avvenne nel 1310
nella chiesa attigua alla reggia, alla presenza di Guluk Khan (succeduto a
Timur nel 1308) e di una folla incontenibile d’ogni razza e religione.

Nel 1325 un altro grande missionario francescano,
Odorico da Pordenone, dopo aver percorso innumerevoli regioni e isole dell’Asia
meridionale, raggiunse Pechino e per tre anni aiutò il vecchio Montecorvino.
Tornato in Italia per chiedere rinforzi per la missione in Cina, morì un anno
dopo il suo arrivo. Ma ebbe ancora il tempo di dettare a fra’ Guglielmo di
Solagna le sue memorie, intitolate: Relatio (relazione), un’opera che non ha nulla da invidiare al Milione
di Marco Polo e che diventò subito un best seller, tradotto in italiano,
francese e tedesco.

Fra’ Giovanni da Montecorvino morì nel 1328, a 81 anni,
compianto da cristiani e pagani, «venerato come santo da Tartari e Alani» come
scriveva Marignolli. Alla sua morte la Chiesa in Cina contava oltre 30 mila
fedeli. La sua opera fu continuata da una cinquantina di confratelli, ma non sopravvisse
per più di 40 anni, sia perché la peste nera del 1348 aveva decimato i frati
minori, impedendo l’invio di nuovi missionari, sia, soprattutto, perché la
dinastia Ming prese il potere (1368) e pose fine all’impero mongolo,
distruggendo la vecchia capitale Karakorum, ma senza riuscire a controllare il
territorio. Al tempo stesso il celeste impero chiuse i confini agli stranieri e
le cristianità si dissolsero, scomparendo lentamente nel nulla.

Benedetto
Bellesi

Scheda 1: Visti da vicino: Aspetto fisico, virtù e
vizi dei Tartari


«Il loro aspetto fisico è
diverso da quello di tutti gli altri uomini. Sono, tra gli occhi e le guance,
più larghi degli altri uomini, e le guance sporgono sulle mascelle. Hanno il
naso piatto e corto, gli occhi piccoli, e le palpebre che salgono sino alle
sopracciglia. Sono assai sottili di cintura, con poche eccezioni. Quasi tutti
sono di statura mediocre. La maggior parte hanno pochissima barba; alcuni
tuttavia hanno sul labbro superiore e sul mento qualche rado pelo che non
tagliano mai. Sulla cima del cranio, hanno una corona di capelli, alla maniera
dei chierici, e da un orecchio all’altro, su una larghezza di tre dita, tutti
si radono i capelli alla stessa maniera, ma lasciano crescere sino alle
sopracciglia i capelli che sono tra la corona e la rasatura; e da una parte all’altra
della fronte, hanno i capelli tagliati più che a metà; per il resto, li
lasciano crescere, alla maniera delle donne, e ne fanno due trecce che annodano
dietro l’orecchio. Hanno i piedi piccolissimi.


I detti uomini, ossia i
Tartari, sono assai più obbedienti verso i loro superiori, di quanto non lo
siano gli altri uomini… e li venerano grandemente, né osano mentire dinanzi a
loro. Contendono di rado a parole e mai con fatti. Guerre, risse, ferimenti,
omicidi, non avvengono mai tra di loro. Predoni e ladri di grandi cose non si
trovano tra di loro, perciò non usano chiudere con serrature o legature le loro
abitazioni e i carri entro i quali racchiudono il proprio tesoro. Se qualche
animale si disperde chiunque lo incontri, o lo lascia dove trovasi o lo
consegna a coloro che sono incaricati di raccoglierli. E i proprietari li
richiedono a questi, ottenendoli di ritorno senza nessuna difficoltà. Si
rispettano molto l’un l’altro e si trattano con grande famigliarità e per
quanto i viveri siano assai scarsi, pure se li passano volentieri… Le loro
mogli sono caste, né si sente mai dir nulla della loro impudicizia…


Essi sono quanto mai
altezzosi e sprezzanti verso gli altri uomini e li considerano pochissimo,
siano nobili, siano ignobili… Sono assai irosi verso gli altri uomini e
sdegnosi ed anche mentitori con gli stranieri…»


(Historia
Mongalorum
, 1247).


Scheda 2: I Nestoriani in Cina

A portare per primi il
Vangelo nell’Estremo Oriente furono missionari comunemente detti nestoriani,
appartenenti alla Chiesa Siriaca d’Oriente, diffusa in Persia e Mesopotamia.
Guidati dal monaco persiano Alopen, essi portarono il cristianesimo in Cina nel
635, durante la dinastia dei «T’ang», alquanto tollerante verso le religioni
non cinesi. Il fatto è testimoniato dalla famosa stele di Si-ngan-fu, eretta
nel 782, scritta in lingua siriaca e caratteri cinesi, scoperta nel 1625.

Caposaldo della
metodologia missionaria dei cristiani orientali erano i monasteri. Si
sforzarono di presentare le verità cristiane, adattandole alla mentalità cinese
e assumendone la lingua; disponevano di una preziosa biblioteca: 230 libri, in
parte tradotti e in parte adattati da esperti. Alcuni di questi scritti furono
ritrovati nel 1908 nelle grotte di Tunhwang (ad esempio il libro Gesù Messia).
Questo primo tentativo di evangelizzazione durò fino all’845, allorché un
editto imperiale e relative persecuzioni ne decretarono la fine.

Ma durante i secoli
XI-XIII, grazie alla «pax mongolica», che garantiva a mercanti e
missionari di viaggiare in sicurezza attraverso l’impero di Gengis Khan, la
Chiesa d’Oriente riprese vigore e fu accolta da diverse tribù turco-mongole
dell’Asia centrale e settentrionale. Gruppi di cristiani orientali furono
segnalati da Marco Polo e dai missionari francescani nell’impero mongolo.

«Sappiate, padri miei –
disse un cristiano orientale nel XIII secolo – che molti dei nostri padri sono
andati nelle terre dei Mongoli, dei Turchi e dei Cinesi, a istruirli, tanto che
sono molti i Mongoli cristiani. Vi sono perfino figli di re e regine battezzati
che professano il Cristo e ci sono chiese presso di loro. Onorano assai i
cristiani, e molti di loro sono credenti».

B.B.

Scheda 3: Sei secoli di grande vuoto

Con la perdita del potere per mano
della dinastia cinese dei Ming (1368), l’impero mongolo fu totalmente
disgregato e i clan rivali cominciarono a combattersi tra loro, soprattutto
nelle regioni dove l’impero cinese esercitava meno controllo.

Nel XVI secolo,
sotto Altan Khan, i principi mongoli abbracciarono il buddismo tibetano,
sistema di scrittura compreso, per non essere totalmente assorbiti nell’impero
cinese. Un secolo più tardi, sotto la dinastia Qing (1636-1911), il territorio
abitato dai mongoli fu diviso in due province: Mongolia interiore, rimasta
sempre legata all’impero cinese, e Mongolia esteriore, che ebbe un regime si
semiautonomia e, caduta la dinastia Qing, diventò oggetto di contesa tra cinesi
e russi, riducendosi nei confini attuali. Intanto cresceva il nazionalismo dei
suoi abitanti, che nel 1921, con l’appoggio della Russia, si dichiararono
indipendenti, formarono il proprio governo nel 1924, dando origine alla
Repubblica popolare di Mongolia, di stretto stampo sovietico: per 70 anni i
mongoli subirono l’ingerenza e la dittatura comunista dell’Urss, senza peraltro
entrare a far parte formalmente dell’Unione Sovietica.

Dal 1368 al 1990
nella Mongolia esteriore non si ha alcuna traccia di presenza cristiana. Nel
1864 Propaganda Fide incaricò i missionari Lazzaristi e di Scheut
(Congregazione del Cuore Immacolato di Maria) di evangelizzare l’intera
Mongolia, ma non poterono lavorare che nella Mongolia interiore. Nel 1922 la
Santa Sede eresse la missione sui iuris di Urga (rinominata Ulaanbaatar
dai comunisti), affidandola ai missionari di Scheut, ma il cambiamento politico
impedì loro di entrare. Il nuovo regime cancellò ogni segno religioso,
distrusse luoghi di culto, trucidò migliaia di monaci, abbatté monumenti
storici, sostituendoli con statue di Lenin e Stalin. Fu perfino proibito di
pronunciare il nome di Gengis Khan, eroe nazionale e «divinità» popolare.

Con l’avvento della perestrojka
sovietica, anche in Mongolia iniziò la svolta democratica, con libere elezioni
(1990) e con l’entrata in vigore di una nuova costituzione (12 febbraio 1992),
che garantisce libertà di religione. Nel frattempo una delegazione del governo
mongolo si presentò in Vaticano per chiedere di allacciare relazioni
diplomatiche con la Santa Sede, dicendo che sarebbe stata ben accolta la
presenza e il contributo di missionari cattolici alla ripresa della società
mongola.

Il 4 aprile 1992
Santa Sede e Mongolia stabilirono le relazioni diplomatiche; tre mesi dopo
arrivarono a Ulaanbaatar tre missionari di Scheut per riprendere
l’evangelizzazione del popolo mongolo, colmando così un silenzio storico durato
oltre sei secoli.

B.B.

Benedetto Bellesi




1_M: Piccola ma vivace, La Chiesa cattolica in Mongolia compie 20 anni

Consolazione in Mongolia

<!-- /* Font Definitions */ @font-face {Cambria Math"; panose-1:2 4 5 3 5 4 6 3 2 4; mso-font-charset:0; mso-generic- mso-font-pitch:variable; mso-font-signature:3 0 0 0 1 0;} @font-face { mso-font-charset:0; mso-generic- mso-font-pitch:variable; mso-font-signature:3 0 0 0 1 0;} /* Style Definitions */ p.MsoNormal, li.MsoNormal, div.MsoNormal {mso-style-unhide:no; mso-style-qformat:yes; mso-style-parent:""; margin:0cm; margin-bottom:.0001pt; mso-pagination:none; mso-layout-grid-align:none; text-autospace:none; font-size:6.0pt; mso-fareast-Times New Roman"; mso-bidi- color:black;} p.Fotografo, li.Fotografo, div.Fotografo {mso-style-name:Fotografo; mso-style-unhide:no; mso-style-parent:""; mso-style-next:Normale; margin:0cm; margin-bottom:.0001pt; mso-pagination:none; mso-layout-grid-align:none; text-autospace:none; font-size:6.0pt; mso-fareast-Times New Roman"; mso-bidi- color:black;} p.DossierTesto1, li.DossierTesto1, div.DossierTesto1 {mso-style-name:Dossier_Testo1; mso-style-priority:99; mso-style-unhide:no; mso-style-parent:""; mso-style-next:Fotografo; margin:0cm; margin-bottom:.0001pt; line-height:10.5pt; mso-line-height-rule:exactly; mso-pagination:none; mso-layout-grid-align:none; text-autospace:none; font-size:12.0pt; Times New Roman"; mso-fareast-Times New Roman";} p.DossierBoxTesto, li.DossierBoxTesto, div.DossierBoxTesto {mso-style-name:Dossier_Box_Testo; mso-style-priority:99; mso-style-unhide:no; mso-style-parent:""; mso-style-next:Normale; margin-top:0cm; margin-right:0cm; margin-bottom:5.65pt; margin-left:0cm; text-align:justify; line-height:10.5pt; mso-line-height-rule:exactly; mso-pagination:none; mso-layout-grid-align:none; text-autospace:none; font-size:12.0pt; Times New Roman"; mso-fareast-Times New Roman";} p.Dossierdidascalia, li.Dossierdidascalia, div.Dossierdidascalia {mso-style-name:Dossier_didascalia; mso-style-priority:99; mso-style-unhide:no; mso-style-parent:""; mso-style-next:Normale; margin:0cm; margin-bottom:.0001pt; line-height:10.0pt; mso-line-height-rule:exactly; mso-pagination:none; mso-layout-grid-align:none; text-autospace:none; font-size:12.0pt; Times New Roman"; mso-fareast-Times New Roman";} .MsoChpDefault {mso-style-type:export-only; mso-default-props:yes; font-size:10.0pt; mso-ansi-font-size:10.0pt; mso-bidi-font-size:10.0pt;} .MsoPapDefault {mso-style-type:export-only;} @page WordSection1 {size:612.0pt 792.0pt; margin:70.85pt 2.0cm 2.0cm 2.0cm; mso-header-margin:36.0pt; mso-footer-margin:36.0pt; mso-paper-source:0;} div.WordSection1 {page:WordSection1;} --
 
Dossier di di Benedetto Bellesi, mons. Wenceslao Padilla, Giorgio Marengo La Chiesa cattolica in Mongolia è la più giovane tra le chiese particolari nel mondo: ha appena 20 anni di età e ha festeggiato con meritato orgoglio il suo ventesimo compleanno nel corso del 2012. Ad aprire le celebrazioni nella cattedrale di Ulaanbaatar è stato mons. Savio Hon, segretario della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli. Si tratta di «una Chiesa di piccole dimensioni, ma di grande vitalità» ha affermato il presule. Tale vitalità è stata espressa anche simbolicamente: a conclusione dei festeggiamenti, rispondendo all’invito del loro vescovo mons. Wenceslao Padilla, i cattolici mongoli hanno piantato un albero, come augurio che il Vangelo di Cristo affondi sempre più profondamente le radici nei cuori della popolazione mongola.

Non è la prima volta che la Buona Notizia viene annunciata a questa popolazione. Già nel secolo VI i monaci della Chiesa siriaca orientale (i cosiddetti nestoriani) si erano spinti fino alle steppe dell’Asia orientale, costituendo solide comunità che neppure le persecuzioni del IX secolo riuscirono a soffocare completamente. Nel secolo XIII, in seguito all’espansione dell’impero mongolo creato da Gengis Khan e dai suoi successori, l’evangelizzazione dei mongoli riprese sotto forma di «missioni diplomatiche», affidate ai missionari francescani, fino a costituire la diocesi di Khambaliq (oggi Pechino), con l’arcivescovo che aveva autorità «in toto dominio Tartarorum» (in tutto l’impero dei Tartari). Ma tutto fu troncato a partire dal 1368, quando i cinesi della dinastia Ming posero fine all’impero mongolo.

Dopo oltre sei secoli di vuoto, in cui dall’attuale Mongolia scomparve ogni traccia di presenza cristiana, la Chiesa cattolica è rinata nel 1992, con l’arrivo di tre missionari del Cuore Immacolato di Maria (Cicm) e ha continuato a crescere in numero e qualità: oggi, dopo 20 anni, la Prefettura apostolica di Ulaanbaatar conta sei parrocchie e numerose iniziative in campo sociale, di promozione umana e di dialogo interreligioso.

Negli ultimi due secoli, in verità, ci furono vari tentativi, promossi da Propaganda Fide, per entrare nell’attuale Mongolia passando dalla Cina. Uno di essi fu programmato dai Cistercensi, che nel 1883 stabilirono la loro comunità a Yang Kia Ping, nel nord della Cina, vicino alla grande muraglia. Il monastero fu intitolato a Nostra Signora della Consolazione, titolo suggerito da Giovanni Bosco, quando il fondatore della trappa, don Ephrem Seignol, priore del monastero di Tamié nella Savoia, prima di partire per la Cina si recò a Torino per salutare il suo amico. In tale occasione, oltre ai consigli, don Bosco gli diede un’immagine della Consolata, con scritto nel retro: «Che Dio benedica voi e le vostre opere, che la Santa Vergine Consolata vi benedica sempre».

Fiorente di vocazioni e attività, agli inizi del XX sec. la trappa contava oltre 100 monaci in maggioranza cinesi, tanto da sentire il bisogno di dare vita a una nuova fondazione. «Consolazione mandò una colonia in una provincia centrale cinese - racconta Thomas Merton - e questo nuovo monastero era stato messo sotto il controllo di un priore titolare Cinese, don Paolino Li... I monaci stavano preparando i piani di espansione nella Mongolia, quando l’esercito rosso occupò entrambe le case e pose fine ad ogni progetto futuro» (T. Merton, Le acque di Siloe, pag. 301).

Erano gli anni 1947-48, durante la guerra tra l’armata rossa di Mao Tze Tung e i nazionalisti di Chiang Kai-shek; i monaci della seconda fondazione si rifugiarono a Hong Kong, ma dei 75 monaci di N. S. della Consolazione, sottoposti a torture inaudibili, 33 morirono e l’abbazia fu rasa al suolo.

Ma la Consolata ha trovato ugualmente le sue vie per entrare in Mongolia: il 27 luglio 2003 atterrarono nella capitale mongola due padri e tre suore della Consolata. Oggi la loro presenza è raddoppiata e quest’anno festeggiano con gioia il decimo anniversario della loro presenza di «Consolazione» in Mongolia.

B.B.
Benedetto Bellesi




L’Attesa

<!-- /* Font Definitions */ @font-face { panose-1:2 0 5 0 0 0 0 0 0 0; mso-font-charset:0; mso-generic- mso-font-pitch:variable; mso-font-signature:10887 -2147483648 8 0 511 0;} @font-face { panose-1:2 0 5 0 0 0 0 0 0 0; mso-font-charset:0; mso-generic- mso-font-pitch:variable; mso-font-signature:10887 -2147483648 8 0 511 0;} @font-face {TradeGothic BoldCondTwenty"; mso-font-charset:0; mso-generic- mso-font-pitch:variable; mso-font-signature:3 0 0 0 1 0;} /* Style Definitions */ p.MsoNormal, li.MsoNormal, div.MsoNormal {mso-style-unhide:no; mso-style-qformat:yes; mso-style-parent:""; margin:0cm; margin-bottom:.0001pt; mso-pagination:none; mso-layout-grid-align:none; text-autospace:none; font-size:12.0pt; mso-fareast-Times New Roman"; mso-bidi-TradeGothic BoldCondTwenty"; color:black;} .MsoChpDefault {mso-style-type:export-only; mso-default-props:yes; font-size:10.0pt; mso-ansi-font-size:10.0pt; mso-bidi-font-size:10.0pt;} .MsoPapDefault {mso-style-type:export-only;} @page WordSection1 {size:612.0pt 792.0pt; margin:70.85pt 2.0cm 2.0cm 2.0cm; mso-header-margin:36.0pt; mso-footer-margin:36.0pt; mso-paper-source:0;} div.WordSection1 {page:WordSection1;} -

Aspettare. I primi giorni di marzo in cui scrivo sono i giorni dell’attesa: l’attesa di un nuovo papa, l’attesa del nuovo governo, l’attesa che in Kenya le elezioni si concludano senza un nuovo bagno di sangue. Ero ancora là, a fine 2007, quando in poche ore il paese fu travolto da un’ondata di violenza politica organizzata senza precedenti. Le notti illuminate dai bagliori rossastri dei roghi degli slum di Kibera, i bruschi risvegli ai colpi di arma da fuoco, gli incendi di chiese, le informazioni convulse, l’odio che come peste stava contagiando tutti, preti compresi, e insieme le scarne notizie di speranza, la resistenza dei pacifici, la solidarietà discreta di chi dava rifugio e salvezza a vicini di tribù «nemiche», e l’incessante preghiera di tantissimi, come quelli che si trovavano nella cappella dell’adorazione del Santuario della Consolata a Nairobi che mai chiuse le sue porte, anche nelle notti di grande paura… E le lacrime per le persone amate, di ogni tribù, coinvolte nella furia degli eventi. E l’impotenza di fronte a tanta pazzia. Sono ricordi che non mi lasciano. Come il grido-promessa: «Mai più!».

Attendiamo. Anche se vorrei poter scrivere subito che in Italia abbiamo un nuovo governo di persone che non fanno giochi di potere, ma davvero si curano del bene comune e della pace. E che lo Spirito Santo si è preso gioco delle mille elucubrazioni dei media e ci ha dato un papa a sorpresa, uno secondo il cuore di Cristo. E, infine, che in Kenya la gente ha dato una lezione di democrazia e partecipazione ai suoi politici arroganti e maneggioni e ha fatto una scelta di pace e stabilità.

L’attesa è speranza. L’attesa è fiducia nella parte migliore di ogni uomo. E allora il grido-promessa di cinque anni fa, «Mai più!», oggi diventa una preghiera. Mai più politici corrotti e corruttori. Mai più prelati che ragionano in termini di potere e di carriera. Mai più violenza per sopraffare gli altri, per vincere ad ogni costo, per imporre le proprie idee, per difendere i propri interessi. Mai più la vergogna di essere lo zimbello del mondo (basta provare a vivere all’estero per un po’!) perché italiano. Mai più una politica miope che costruisce barriere, che prende e non dà, che ragiona in termini di forza e armi invece che di giustizia, corresponsabilità e pace.

Se non credessimo in un mondo diverso, se non avessimo fiducia nell’uomo, in ogni uomo, se non amassimo questa nostra terra e gli italiani, con i quali in tutti questi anni abbiamo fatto e vissuto cose meravigliose e condiviso un grande cammino, dovremmo chiudere immediatamente questa rivista, che invece è una voce di speranza, di utopia, di universalità.

Non so quali saranno le sorprese del primo aprile, primo giorno di vita ufficiale di questo numero della rivista che è nelle vostre mani. Sarà il primo giorno dopo Pasqua, la festa di cui ogni nostra speranza e ogni nostra attesa si alimentano. Noi siamo fiduciosi e scommettiamo sul futuro. Per questo continuiamo questa pubblicazione con passione e cura, rinnoviamo il nostro sito e investiamo nell’ambizioso progetto dello sfogliabile MC che radicandosi nel passato alimenta il futuro (il progetto cioè di mettere in rete tutte le annate della rivista in pdf da sfogliare, ricercare, scaricare, stampare e molto di più).

Qualcuno la chiama pazzia: scommettere sulla carta e investire sul web. Sì, proprio una scommessa, anche con quelli che ritenendo la rivista cartacea causa di degradazione dell’ambiente e fonte di inquinamento, preferirebbero che noi sparissimo dalla circolazione. Scommessa con chi riceve la rivista (magari ereditata dalla nonna) e la butta automaticamente nel cestino senza nemmeno aprirla. Scommessa con i figli e i nipoti di tanti nostri amici e benefattori che ritengono un passatempo inutile e alienante quello che invece ha riempito il cuore dei loro cari. Scommessa con chi crede che il mondo sia fatto solo di Nord e non si accorge che il Nord non ha senso senza le splendide albe dell’Est, il calore del Sud e gli infuocati tramonti dell’Ovest. Scommessa che facciamo insieme a chi usa la rete non solo per divertirsi o vivere l’illusione di amicizie, ma soprattutto per trovare informazione sostanziosa, documentata, vissuta, libera e aperta a nuovi orizzonti di frateità e impegno.

Non ci aspettiamo miracoli. Per questo viviamo un’attesa operosa, dando ragione della nostra Speranza.

Gigi Anataloni




EMI 5: La Missione fa Cultura

Come la stampa missionaria è considerata nei secoli.
Precursori degli antropologi, che ne apprezzano e
utilizzano il lavoro. I missionari fanno «cultura» sulle pagine dell’editoria
laica già a fine Ottocento. E oggi i temi missionari spesso «bucano» le vetrine
imponendosi nella grande editoria.

«Sul piano scientifico, i missionari hanno veramente
raccolto tutto ciò che valeva la pena di essere conservato». L’attestazione,
tanto insospettabile quanto autorevole, è di Claude Lévi-Strauss, «mostro sacro»
dell’antropologia, scienza sociale di studio dell’uomo sorta nell’Ottocento con
un intendimento prettamente «laico», se non laicista. Nel suo capolavoro Tristi
tropici
(1955, Il Saggiatore) Lévi-Strauss riconosce che per quegli
antropologi che si recavano (e si recano) in paesi lontani per scoprire la vera
natura dell’uomo, l’apporto dei missionari è determinante. Attestazione di
stima che però non ha trovato molto riscontro nel corso dei decenni successivi
dell’antropologia culturale.

Ma al di là di questo specifico caso controverso, è
indubbio che il rapporto tra cultura, editoria e mondo missionario è una pagina
significativa delle vicende di quanti hanno dedicato la vita all’annuncio del
vangelo «fino ai confini della terra».

Già nei tempi passati la figura del missionario restava
eloquente e comunque apprezzata in contesti culturali diversi da quelli del
perimetro ecclesiale. Ciò avveniva ad esempio nell’Ottocento, quando intorno al
missionario era sorta una specie di «aura d’avventuriero», per cui chi
affrontava fatiche e sacrifici per portare la «Buona novella» in posti e presso
popolazioni sconosciuti all’Occidente affascinava e conquistava anche quanti
con la chiesa nulla avevano a che fare. Questa «buona stampa» degli
evangelizzatori ad gentes permane anche oggigiorno, in un periodo in cui
la chiesa istituzionale (per diverse ragioni come i casi di pedofilia tra il
clero oppure i vari Vatileaks) soffre di un deficit di credibilità che
pare scuoterla quasi nelle sue fondamenta.

Da Salgari agli antropologi

Gli esempi non mancano. Uno scrittore di successo dei
decenni passati come Emilio Salgari, «uomo d’avventura mancato», secondo il suo
biografo Silvino Gonzato (autore di La tempestosa vita del capitan Salgari,
Neri Pozza), «pur non avendo nessun afflato religioso, ammirava molto i
missionari: ogni volta che i religiosi del don Mazza (il maestro di Daniele
Comboni, ndr) tornavano dalle spedizioni in Sudan, lui li intervistava
per il quotidiano per cui lavorava, L’Arena. A suo parere – prosegue
Gonzato – i missionari erano veri uomini di avventura: ne elogiava lo spirito
di sacrificio, la disponibilità ad affrontare fatiche e rischi, li considerava
dei veri e propri esploratori». Per capirlo basta leggere l’incipit del
colloquio, pubblicato nel 1885, in cui Salgari dialogava con don Luigi Bonomi,
uno dei preti mazziani rimasti prigionieri del Mahdi in Sudan: «Alto di
statura, scao alquanto, deve possedere muscoli d’acciaio ritemprati sotto i
terribili soli equatoriali. Si riconosce in lui l’uomo energico, risoluto e
forte – tre elementi indispensabili per chi sfida i pericoli, i cocenti calori
e le terribili privazioni del Continente Nero».

Se in Salgari si ritrova una laicissima e umanissima
ammirazione per l’impeto dei missionari, la storica Lucetta Scaraffia, docente
all’università La Sapienza di Roma, rintraccia invece una certa avversione
dell’ambiente accademico, almeno a cavallo tra Otto e Novecento, verso il
panorama missionario.

Scaraffia evidenzia una sorta di predisposta e
volontaria ignoranza degli antropologi di professione verso il lavoro etnologico
dei missionari: «Gli antropologi vedono nei missionari dei nemici potenziali
perché cercano di trasformare le società indigene in società cristiane,
distruggendo usi e tradizioni preziose agli occhi degli studiosi». La realtà,
evidenzia con una certa vis polemica la storica piemontese, è ben
diversa. E va a tutto vantaggio della caratura culturale degli annunciatori del
vangelo: gli eredi di Lévi-Strauss «preferiscono dimenticare che i missionari
sono venuti per primi in contatto con i popoli indigeni e che hanno imparato le
lingue dei nativi e studiato i loro costumi, tenendo diari e scrivendo
relazioni. […] Questi testi hanno costituito la base – soprattutto linguistica
– con cui poi gli antropologi hanno studiato le stesse popolazioni».

Storie di edizioni missionarie

In epoca più recente è soprattutto la presentazione dei
problemi, delle vicende, di un racconto di prima mano del Sud del mondo, ciò
che ha costituito il quid per il quale i missionari hanno trovato spesso
ascolto e riscontro nell’ambito della cultura (e dell’editoria).  A tal riguardo è poi interessante scoprire la
genesi di uno dei best seller missionari in campo editoriale (diverse
decine di migliaia di copie), Korogocho. Alla scuola dei poveri, di
padre Alex Zanotelli, edito da Feltrinelli. «Verso la fine del 2001, lavoravo a
quel tempo a Nigrizia, – afferma Pier Maria Mazzola, oggi direttore
editoriale dell’Emi -, ricevetti una telefonata direttamente da Carlo
Feltrinelli che mi disse: “Ci piacerebbe molto pubblicare un libro autobiografico
di padre Alex. Riuscite a convincerlo?”. In effetti, dal ritorno dalla sua
esperienza decennale di Korogocho, in Kenya, noi di Nigrizia
sollecitavamo Zanotelli a scrivere un libro sulla sua esperienza prima che
qualcuno lo facesse “a sua insaputa”. E quel libro funzionò davvero». Di Korogocho
uscirono diverse edizioni: il passaparola e la vendita nelle affollatissime
conferenze che padre Alex teneva in giro per l’Italia testimoniano la
significatività di una vicenda che ha raggiunto il grande pubblico.

Quell’ampia platea che ha potuto conoscere suor Eugenia
Bonetti, missionaria della Consolata, dal palco della manifestazione di Se
non ora, quando?
dedicata al riscatto sociale della donna – oggetto. Suor
Bonetti, responsabile del servizio anti tratta umana dell’Unione delle
superiori maggiori d’Italia (Usmi), è un’instancabile voce di difesa delle
donne sfruttate nel mercato del sesso delle nostre strade. Proprio in questa
veste è stata pubblicamente lodata dall’ex premier inglese Tony Blair in un editoriale
sul Corriere della sera e ha ricevuto premi e riconoscimenti.

In campo editoriale è singolare che, sebbene avesse già
scritto nel 2010 per San Paolo un libro sul problema cui si dedica da ormai
diversi anni (Spezzare le catene), già nel 2011 la laica Rizzoli chiese
a suor Bonetti (proprio all’indomani della sua partecipazione alla
manifestazione «rosa») di condensare la sua esperienza in un libro.

Un’altra missionaria, Chiara Castellani, è riuscita
negli ultimi anni a «bucare» le vetrine dei libri «laici»: questa laica
impegnata nella Repubblica del Congo, già protagonista di un lungo reportage di
Giovanni Porzio su Panorama (per la quale si dovette anche in un certo modo
difendere per essersi fatta raccontare da un mensile berlusconiano), ha raccolto
la sua vicenda in un libro ben accolto da Mondadori, Una lampadina per
Kimbau
, in cui narra le sue incredibili vicende mediche e umane illuminate
da un’incrollabile fede cristiana.

«Personalmente, quando ho avuto a che fare con editori
laici, ho trovato delle “praterie” davanti a me». Lo conferma, in maniera
significativa, padre Giulio Albanese, fondatore della Misna, autore per
Feltrinelli di Soldatini di piombo e Il mondo capovolto (Einaudi)
sul rapporto informazione – missionari: circa 10 mila copie ciascuno. «Non ho
mai trovato resistenze negli ambienti editoriali non cattolici alla
presentazione dei nostri temi, ovvero il racconto di un’umanità dolente, il Sud
del mondo, … – racconta il direttore delle riviste missionarie della Cei -. E
poi la mia sorpresa di vedere questi libri nelle grandi librerie degli
aeroporti o delle stazioni ferroviarie! Non posso contare i gruppi, università,
centri culturali anche lontanissimi dalla nostra sensibilità che mi hanno
invitato a incontri o conferenze. E non pensiamo solo ad ambienti “di sinistra”
o “progressisti”: anche i giovani di Confindustria mi hanno chiesto di
intervenire a un loro convegno proprio per avermi “scoperto” grazie a quei
libri. Spesso noi cattolici pensiamo al mondo laico come a un monolite: e invece
non è così. Ma per noi resta davvero un reale campo di missione». Di carta,
pagine e copertine, certo. Ma comunque sempre missione.

Lorenzo Fazzini 

Hanno contribuito a questo
dossier

Lorenzo Fazzini, direttore della Editrice
missionaria italiana (Emi).
Pier Maria Mazzola,direttore editoriale della
Editrice missionaria italiana (Emi).
Brunetto Salvarani,direttore di «Cem mondialità»
e della rivista «Qol»
.
Chiara Zappa,redattrice di «Mondo e
Missione».
Coordinamento editoriale: Marco Bello, redattore di MC.
Questo dossier è nato dalla
collaborazione tra le testate «Mondo e Missione», «Missione Oggi» e «Missioni
Consolata» e la Editrice missionaria italiana.
 

Normal 0 14 false false false IT X-NONE X-NONE /* Style Definitions */ table.MsoNormalTable {mso-style-name:"Tabella normale"; mso-tstyle-rowband-size:0; mso-tstyle-colband-size:0; mso-style-noshow:yes; mso-style-priority:99; mso-style-parent:""; mso-padding-alt:0cm 5.4pt 0cm 5.4pt; mso-para-margin:0cm; mso-para-margin-bottom:.0001pt; mso-pagination:widow-orphan; font-size:10.0pt; }

Lorenzo Fazzini




EMI 4: Consumo, da critico a responsabile

Incontro con Francesco Gesualdi
Parla il
curatore del best seller della Emi, la
Guida al consumo critico
. Realizzata la prima volta nel 1996 dal Centro
nuovo modello di sviluppo, riscuote subito un grande successo. Arriva alla
sesta edizione in dodici anni. Ma che attualità c’è nel suo messaggio?

«Ci chiamiamo Centro nuovo
modello di sviluppo
(Cnms), ma siamo tre famiglie. Viviamo insieme da venti
anni, ma non siamo una comunità. Naturalmente crediamo nel valore della vita in
comune, ma non siamo pronti per questa scelta. Del resto, quando siamo partiti,
alla fine degli anni ’70, eravamo animati essenzialmente da ragioni di
efficacia sociale e politica». È questo l’incipit della presentazione
del noto Centro di Vecchiano, in provincia di Pisa. Il Cnms cornordinato da
Francesco Gesualdi, uno dei fondatori, ha iniziato le sue attività nel 1985 ed è,
negli anni, diventato una voce autorevole, riconosciuta per la sua serietà e
l’accuratezza delle informazioni.

Da subito il gruppo è cosciente
della «necessità della politica per rimuovere le cause profonde che generano
disagio ed emarginazione». Poi l’intuizione che caratterizzerà il lavoro del
Centro: «Così abbiamo capito l’importanza strategica del consumo e abbiamo
cominciato a chiederci come potevamo trasformarlo da strumento di complicità
con gli oppressori a strumento di liberazione per gli oppressi». Nasce il
concetto di «consumo critico».

Il Centro e la Emi

Dopo i primi anni di studio
iniziano le pubblicazioni del Centro, che hanno larga diffusione tra i
movimenti della società civile e ambientalisti. In questa fase il sodalizio con
la Emi è fondamentale.

Molti sono i titoli. Tra i più
famosi: Nord-Sud: predatori, predati e opportunisti (1997), Geografia
del supermercato mondiale
(1997), Lettera ad un consumatore del Nord
(1998) e tanti altri.

Ma il cavallo di battaglia del
Centro è senza dubbio la Guida al consumo critico, un compendio unico di
istruzioni pratiche e indicazioni per consumare criticamente e in modo equo. La
prima edizione è pubblicata dalla Emi nel 1996, per arrivare alla sesta nel
2011.

«Bisogna passare dal consumo
critico al consumo responsabile dove la sobrietà fa da sfondo a ogni scelta».
Si legge nella presentazione dell’ultima edizione.

Il concetto portante è: «La
politica si fa ogni momento della vita: al supermercato, in banca, sul posto di
lavoro, all’edicola, in cucina, nel tempo libero, quando ci si sposa.
Scegliendo cosa leggere, come, cosa e quanto consumare, da chi comprare, come
viaggiare, a chi affidare i nostri risparmi, rafforziamo un modello economico
sostenibile o di saccheggio, sosteniamo imprese responsabili o vampiresche,
contribuiamo a costruire la democrazia o a demolirla, sosteniamo un’economia
solidale e dei diritti o un’economia animalesca di sopraffazione reciproca».


Incontro con l’autore

Ci siamo intrattenuti con
Francesco Gesualdi, prolifico autore della Emi, per avere la sua visione del
momento attuale e delle prospettive per l’editoria missionaria.

La collaborazione tra il Centro e
la Emi, partita a metà degli anni ’90, si è subito rivelata vincente. Ma oggi
ci si chiede che futuro abbia l’editoria che tratta questi temi. «La piccola
editoria continua a impegnarsi per le idee innovative, quelle che si impegnano
sempre meno sono le grandi case editrici che si orientano ormai verso una
logica da supermercato: bisogna fare cassa e per questo ci dirigiamo verso gli
autori affermati, anche se perfino loro non riescono a stare sulla bancarella
per più di 15 giorni. È la novità che deve dominare e se riesco a cambiare il
prodotto invito a comprare con una maggiore frequenza. La grande editoria sta
cambiando in peggio, ha bisogno di ricambio continuo per acquisti veloci. La
piccola editoria continua a provarci, ma ha mille difficoltà, non ultima quella
di arrivare in libreria, e di non affogare in tutto ciò che si pubblica: si
parla di oltre 100 nuovi titoli al giorno in Italia.

Ogni tanto mi dico che è meglio
non pubblicare niente, altrimenti ingolfiamo l’editoria!».

Francesco Gesualdi osserva che non
è lui che può dare consigli, e continua: «Mi rendo conto che è difficile.
Sarebbero meglio pochi prodotti, ma buoni. Quindi selezionare molto bene quello
che si pubblica.

Noi come Centro continuiamo a
produrre, il nostro obiettivo non sono i soldi, ma fare circolare le idee. Le
guide al consumo critico, sono raccolte di dati che invecchiano rapidamente,
per questo sarebbe molto più agevole la via informatica che la carta stampata.
Si potrebbe aggioare con più agilità e con costi molto minori. Attualmente
non ci riusciamo, perché non abbiamo forze sufficienti».

Passiamo ad affrontare con
Gesualdi i temi «caldi» del momento.

La crisi

«La crisi che stiamo vivendo poteva
essere l’occasione per cambiare, per ridurre il peso della finanza, che sta
alla base di questa situazione. Perché è stato l’uso della finanza in maniera
totalmente avida, fino ad arrivare alle scorrettezze, a portarci fin qui.

Chi gestiva e produceva titoli
tossici, lo faceva con consapevolezza, sapeva di proporre prodotti che non
erano basati su cose sicure e chi avrebbe comprato si sarebbe poi trovato nei
guai». Ci racconta Francesco Gesualdi, che da anni si occupa di modelli
economici alternativi.

Poteva essere l’occasione buona per
mettere dei freni alla finanza, e regolamentae fortemente il ruolo. In
particolare per creare una divisione tra banche commerciali e banche di
investimento, in modo che i clienti risparmiatori normali non venissero più
messi a rischio. Porre fine alle attività rischiose delle banche e riportarle
al loro mestiere: fare credito per l’economia reale. «Si poteva impedire la
speculazione su fondi di interesse comune (i debiti sovrani) e sarebbe stata
l’occasione per mettere in discussione lo scippo della sovranità monetaria agli
stati in Europa. Questi ultimi non riescono più a giocare il ruolo sovrano
proprio di un sistema democratico perché sono in balia del mercato», continua
Gesualdi.

Negli Usa è stata varata la legge Dodd
– Frank Act
(gennaio 2010), un tentativo di mettere regole alla finanza. Ma
quando si è trattato di scrivere i regolamenti attuativi, ci sono state fortissime
pressioni affinché tutto finisse in una bolla di sapone.

«In Europa, invece, tutte le scelte
si sono fatte con l’attenzione a non pestare i piedi alle banche o agli altri
fondi della finanza. Non si è tenuto in conto l’interesse collettivo. Peggio:
ci dicono che occorre assecondare le ricette speculative dei mercati, perché
questi sono così potenti che se per caso osiamo metterci contro di loro ci
puniranno. La grande ipocrisia: farci credere che più serviamo i mercati, più
facciamo i nostri interessi, perché evitiamo il peggio. È una politica
chiaramente contro la collettività che pone tutte le premesse per andare sempre
più a fondo».

Una «conversione culturale»

Ma la crisi potrebbe anche avere
effetti positivi, come quelli di indurre la gente a consumare meno e meglio.
Secondo Gesualdi: «Questa situazione sta facendo pagare le famiglie, ma senza
che queste abbiano fatto un percorso di crescita interiore. Sarebbe positivo se
ci fosse una consapevolezza, una conversione culturale. Ma se questa è vissuta
soltanto come un’imposizione estea, una maledizione, allora c’è il rischio
che si alimenti il populismo più gretto che promette l’impossibile. Oggi invece
bisogna avere il coraggio di sfidare i mercati. Chi non lo fa (i politici, ndr)
e propone solo riduzione di tasse o si butta nel taglio delle spese dei
servizi, che quindi saranno poi pagati, ancora una volta, dalle famiglie, ci
sta prendendo in giro».

Ma il Cnms ha delle sue proposte
per contrastare i mercati?

«Primo: mettere regole che
impediscano la speculazione sul debito pubblico. Secondo: quando un popolo è in
difficoltà per diverse ragioni, non deve pagare soltanto la gente, rinunciando
ai propri diritti, ma anche i creditori, tanto più che molti di loro hanno già
lucrato sul debito pubblico. Terzo: arrivare più in là e riformare la Bce
(Banca centrale europea), facendo tornare la sovranità monetaria sotto governi
e parlamenti, affinché la moneta sia gestita per la piena occupazione e per
garantire la stabilità del sistema economico. Bisogna uscire dalla logica, su
cui è improntata oggi la Ue, per cui la moneta è gestita per permettere alle
banche di arricchirsi».

Si è visto che con un meccanismo di
decrescita i primi a rimetterci sono i lavoratori meno tutelati, che perdono il
posto di lavoro.

«Questo discorso vale se il quadro
di riferimento continua a essere questo sistema, basato sugli interessi delle
imprese e messo al loro servizio: è ovvio che i primi a rimetterci sono i più
deboli.

Non è possibile parlare di decrescita
senza mettere mano all’impostazione del sistema economico, con ristrutturazione
forte del ruolo del mercato, dell’economia pubblica e della moneta.

Occorre progettare un sistema
economico che funzioni secondo altri criteri. E non basta orientarsi verso una
vita più sobria, più eco compatibile a livello di singola famiglia. Dobbiamo
ripartire dalla domanda: qual è la funzione dell’economia? Se l’obiettivo è
vivere tutti in maniera dignitosa, sappiamo di dover rispettare una serie di
limiti che ci impongono il pianeta e gli impoveriti della terra. Loro hanno
diritto di accrescere il proprio consumo e la propria produzione, ma potranno
farlo soltanto se noi accettiamo di sottoporci a una cura dimagrante».

Lavoro ed economia pubblica

Secondo il fondatore del Cnms
occorre introdurre dei cambiamenti di carattere culturale, a partire dal
lavoro.

Si chiede: qual è la funzione del
lavoro? Se l’unica strada per soddisfare i nostri bisogni è il mercato, la
funzione del lavoro è guadagnare un salario, perché per entrare nel mercato
abbiamo bisogno di denaro. Allora dobbiamo vendere il nostro tempo.

«Per ribaltare questa logica diremo
che la funzione del lavoro non è guadagnare un salario ma garantire i nostri
bisogni. Altre possibilità si realizzano attraverso il «fai da te», ma anche la
solidarietà collettiva. Un luogo dove non si compra nulla, ma si ottiene
qualcosa grazie a un patto di solidarietà che abbiamo fatto al nostro interno»
sostiene Gesualdi.

«È il principio dell’economia
pubblica. La domanda nuova è come farla funzionare senza che essa dipenda  dalla crescita generale dell’economia.

Io dico che bisogna eliminare la
dipendenza dell’economia pubblica dal denaro, perché è questo che la tiene
legata al resto dell’economia.

Ci vuole un altro modo di concepire
la partecipazione, che non si fermi a eleggere i nostri rappresentanti nelle
istituzioni, ma si spinga fino al coinvolgimento nei servizi. Questo richiede
che ci sia una certa organizzazione, un apparato di apprendimento.

Ma il problema più serio è la
nostra chiusura mentale: noi non accettiamo che ci possa essere una dimensione
collettiva alla quale dedicare parte del nostro tempo. È così fuori dal nostro
immaginario che la viviamo come un’oppressione infinita».

Idee queste sperimentate in
piccolo, in comunità e gruppi circoscritti di persone, molto difficili da
estendere a livello paese. Dice Gesualdi: «Dobbiamo ricostituire le comunità.
Poi il livello organizzativo dipende dal tipo di servizio considerato. Ci sono
dei servizi che partono dal condominio. Ad esempio gli anziani: si può dare una
risposta a livello condominiale, se gli abitanti sono disposti a farsi carico
delle situazioni di bisogno degli anziani che vivono nel palazzo. Ci sono
alcuni che necessitano di assistenza specializzata, altri hanno bisogno che si
faccia loro la spesa, o che si tenga loro la cucina pulita.

Possiamo immaginare di risolvere il
problema degli anziani con un esercito di assistenti domiciliari pagati? Non lo
può fare neanche la ricchissima Svezia. O ci inventiamo un altro tipo di
coinvolgimento oppure andremo verso il degrado sociale più spaventoso. I
livelli organizzativi vanno adattati a quella che è la peculiarità del servizio
da garantire. Tanti servizi vanno riportati al livello micro del territorio,
compreso quello sanitario. Parlando di cura, molte malattie sono banali e si
possono curare nel piccolo centro, con pochi posti letto. Oggi questa logica
non è pensabile perché ci scontriamo con la questione dei costi: l’aspetto
monetario diventa ostacolo. Con strutture che diano servizi gratuiti, e nel
contempo godano anche di lavoro gratuito, il problema monetario non ci sarebbe
più.

Penso a migliaia di microstrutture
a livello di comunità che replicano lo stesso servizio e soddisfano quindi i
bisogni».

Marco Bello

Normal 0 14 false false false IT X-NONE X-NONE /* Style Definitions */ table.MsoNormalTable {mso-style-name:"Tabella normale"; mso-tstyle-rowband-size:0; mso-tstyle-colband-size:0; mso-style-noshow:yes; mso-style-priority:99; mso-style-parent:""; mso-padding-alt:0cm 5.4pt 0cm 5.4pt; mso-para-margin:0cm; mso-para-margin-bottom:.0001pt; mso-pagination:widow-orphan; font-size:10.0pt; }

Marco Bello




EMI 3: L’Immagine del Missionario

Tre intellettuali «leggono» la missione in italia
Una società che cambia. Un ruolo e un’immagine quelli
dei missionari, che attraversano i secoli. Ma cosa sono oggi i missionari
nell’immaginario collettivo italiano? Lo abbiamo chiesto a personaggi «non
sospetti».

Come sta cambiando, nel nostro paese, l’immagine dei
missionari e della missione? Vale a dire: a mezzo secolo dal documento
conciliare Ad gentes e dalla definitiva decolonizzazione, a oltre venti
dalla fine dell’utopia comunista e oltre dieci dall’11 settembre 2001, nel
contesto di un mondo in fuga (T. Giddens) e sempre più globalizzato. E mentre
la storia sembra al di fuori del nostro controllo, e noi non sappiamo dove
stiamo andando.

Le prime grandi missioni delle chiese cristiane fuori
dall’Europa – dopo la stagione pionieristica del primo millennio d.C. – erano
intrecciate al colonialismo, dal sedicesimo al ventesimo secolo: spagnoli e
portoghesi portavano con sé i loro frati mendicanti, così come olandesi e
inglesi i loro missionari protestanti.

I missionari potevano, di volta in volta, sostenere o
criticare i conquistatori, ma avevano in comune il senso di dove la storia si
stava dirigendo: verso il dominio occidentale del mondo. Verso la civiltà
cristiana. Un dato che, in ogni caso e al di là della buona fede dei singoli,
determinò il panorama della scena missionaria.

Nella seconda metà del secolo scorso, la missione si è
venuta a trovare in un nuovo contesto: il conflitto tra i due blocchi di
potenze, quello orientale e quello occidentale, tra il comunismo e il
capitalismo. Alcuni missionari possono aver pregato per il trionfo del
proletariato e altri per la sconfitta del comunismo ateo, ma tale conflitto
rappresentava il palcoscenico inevitabile dell’opera missionaria.

Ora, i missionari non vengono più
mandati per nave verso paesi sconosciuti e, quasi ovunque, non sono più lontani
che un giorno di viaggio. In un quadro così frastagliato, quanto e com’è mutato
l’immaginario collettivo sul missionario e la missione in Italia (un paese che
sta vivendo la stagione di passaggio dalla religione unica degli italiani
all’Italia delle religioni)? Abbiamo cercato di capirlo interrogando alcune
personalità illustri della cultura laica nazionale: Salvatore Natoli, Annamaria
Rivera e Giuliano Vigini.

L’esperto e il filosofo

Per Giuliano Vigini, uno dei nomi più noti
dell’editoria, dalla vasta attività critica e bibliografica, l’impegno
missionario di religiosi e laici che operano in Italia ha un duplice effetto: «Da
un lato, quello di essere sempre uniti, in una tensione costante di fede e
carità, a tutti coloro che in tanti paesi offrono la loro vita per la
predicazione e la testimonianza al vangelo: orizzonte e paradigma di ogni
attività ecclesiale, come ha ribadito anche di recente Benedetto XVI». In tal
senso, «tutti coloro che, con la preghiera, il sostegno economico e l’impegno
diretto, cornoperano alla missione e insieme contribuiscono in Italia alla
formazione di una coscienza missionaria, sono come dei costruttori di ponti che
collegano e avvicinano mondi lontani, facendoli sentire parte integrante della
vocazione e della vita della Chiesa».

Dall’altro lato, si tratta di «essere attivamente
impegnati in questa terra di missione che – come tanti altri paesi di antiche
radici cristiane – è diventata l’Italia, anch’essa dunque da rievangelizzare
per essere restituita alla fede viva del vangelo». Peraltro, «in questa società
sempre più crocevia di fedi, lingue e culture, il missionario è chiamato anche
a nuovi compiti: l’ascolto e il dialogo religioso e interculturale, la
partecipazione ai problemi e alle sofferenze della gente, la solidarietà sempre
più generosa verso i più poveri, antichi e nuovi».

A parere di Salvatore Natoli, docente di filosofia
teoretica presso l’Università di Milano Bicocca, un pensatore dichiaratamente
laico eppure aperto al confronto con le istanze cristiane, per cogliere
l’immagine del missionario occorre evidenziare due aspetti, complessivamente in
sintonia con quanto sostiene Vigini: «Prima di tutto, visto il sempre più
profondo processo di secolarizzazione, egli è colui che s’impegna per la nuova
evangelizzazione, dato che viviamo ormai in una terra pagana. In secondo luogo,
il missionario è poi colui che si propone di fornire delle risposte sensate ai
nuovi bisogni, cercando di porre un freno alla dilagante miseria, di carattere morale
e materiale, impegnandosi dunque in un’opera di misericordia morale o corporale».

Riguardo all’interrogativo su quale immagine dei
missionari abbiano i nostri connazionali, Vigini ammette che, non conoscendo
indagini o sondaggi in tal senso, gli è possibile semplicemente esprimere una
sensazione personale: «Gli italiani, orientati in questo senso anche da tante
trasmissioni e immagini televisive, vedono prevalentemente il missionario
impegnato in attività filantropiche e sociali. Costruiscono case, ospedali,
scuole; si curano della miseria, delle malattie e delle necessità di tante
persone che, senza la loro presenza e il loro lavoro, sarebbero abbandonate a
se stesse. Per questo loro impegno, i missionari sono certamente apprezzati e
aiutati dagli italiani». Tuttavia, egli conclude che «tutto questo rischia di
mettere un po’ in ombra, nell’opinione corrente, l’obiettivo religioso primario
della loro vocazione».

Secondo Natoli, presso gli italiani la figura del
missionario – non dandosi oggi, in realtà, una riflessione significativa al
riguardo – risulta molto più sfumata, rispetto al passato: «Peraltro, ho
l’impressione che si conceda loro una larga fiducia, particolarmente sotto il
profilo di esercitare un’assistenza alle popolazioni coinvolte». Per questo,
alla fine, il loro giudizio pare a Natoli comunque positivo.

Infine, ma non da ultimo per importanza, è lecito
domandarsi quanto l’azione dei missionari in vari ambiti (lotta alla fame nel
mondo, nuovi stili di vita, beni comuni, mondialità, dialogo interreligioso,
lotta al razzismo…), raccontati anche attraverso la Emi, sia servita per
diffondere sia tali temi sia la loro voce in Italia. Secondo Vigini, è
innegabile che tale azione sia servita, e non poco: «Quanto i missionari fanno
in molti campi è servito in particolare a radicare negli italiani due
convincimenti: che pochi come loro si spendono per il bene degli altri e che ci
si può fidare di loro, perché sono testimoni credibili». Mentre «sarebbe anche
importante far capire la radice e lo spirito del servizio che i missionari
svolgono per il bene della chiesa e dell’uomo».

Più articolata la riflessione di Natoli in proposito: «Il
missionario ci permette di fare un’opera di transfert: piuttosto di
impegnarmi in prima persona in un cambiamento individuale, è più semplice fare
l’offerta al missionario, cosa che ci fornisce sollievo pur non producendo una
trasformazione interiore». Alla fine, il rischio è di procurarsi un alibi,
perché «monetizzare la carità è facile, in quanto ci evita di entrare in
contatto diretto con la sofferenza».

L’antropologa

Intriganti sono poi le considerazioni di Annamaria
Rivera, antropologa, saggista, scrittrice, docente di etnologia e di
antropologia sociale presso l’Università di Bari, editorialista per i quotidiani
Il Manifesto e Liberazione, che, interrogata in merito, afferma: «Fino
ad alcuni anni fa i missionari erano per me principalmente quelli di cui si
parla nella letteratura antropologica. Ciò che sapevo di loro riguardava,
dunque, lo straordinario contributo alla conoscenza delle lingue locali, il
patrimonio d’informazioni e conoscenze sulle più varie popolazioni e culture
esotiche, accumulato nel corso dei secoli, la redazione delle prime monografie
etnografiche, quindi il contributo implicito alla nascita dell’antropologia: la
disciplina che ho insegnato per alcuni decenni nell’università e che pratico
nel lavoro di ricerca.

Sapevo anche del loro rapporto complesso con
l’espansione coloniale: dapprima strenui oppositori del sistema schiavistico e
appassionati difensori dei diritti delle popolazioni indigene, poi – in epoca
contemporanea, quando si generalizzarono i movimenti per l’indipendenza dei
popoli colonizzati compromessi talvolta con il colonialismo. E tuttavia la loro
vocazione universalista, mutuata dal cristianesimo, il più delle volte li mise
al riparo dai miti nazionalisti e dalle loro conseguenze nefaste».

Nel 2006, ad Annamaria capita di trovarsi a tenere una
conferenza durante un convegno organizzato da un mensile missionario, sia pure sui
generis
: «Dei missionari avevo dunque un’esperienza per lo più indiretta e
libresca nonché scarsamente aggiornata al tempo presente. Finché fui invitata
come relatrice in uno dei convegni del Cem Mondialità, a Viterbo. Fu
un’esperienza inaspettata ed entusiasmante poiché vi trovai molto di ciò che
credevo irrevocabilmente perduto con la fine degli anni ’70 e del quale
conservavo acuto rimpianto: la capacità di rendersi comunità – almeno per
alcuni giorni – condividendo convivialità e calore umano, ma anche competenza,
spirito critico, non conformismo, insieme con il senso della ricerca e
dell’impegno, dell’ironia e del gioco. Vi trovai soprattutto un’attitudine che
sembra ormai perduta nella nostra società (intendo dire nei più vari ambienti
professionali, sociali e politici dell’Italia dei nostri giorni): l’interesse
verso l’altro/a e la tendenza a valorizzarlo/a e a valorizzarsi reciprocamente.

Fu in quella occasione che conobbi un saveriano, padre
Domenico Milani. Ne fui colpita: il gran vecchio, sagace e dolce, con un gran
senso dell’umorismo, sapeva raccontare in un modo che non poteva essere più
accattivante. Narrava dei suoi incontri con donne e uomini africani,
soprattutto congolesi, con una leggerezza pari alla drammaticità della loro
condizione. Più tardi, prendendo a pretesto una visita alla preziosa collezione
etnografica conservata nel rifugio silenzioso e solenne dei saveriani di Parma,
riuscii a incontrarlo e a salutarlo per l’ultima volta».

Gli hippies della missione

Non fu, quello, peraltro, l’unico suo rapporto con il
mondo missionario: «In seguito ho avuto altre occasioni per partecipare alle
iniziative ispirate dai saveriani: un articolo per Missione oggi e
ancora altri appuntamenti di Cem Mondialità. Fino al più recente, il 17
marzo 2012, dedicato ai Nuovi spazi dell’intercultura, quando fui
invitata a parlare delle nuove forme di razzismo in Italia e dei possibili modi
per contrastarlo e superarlo, fra i quali le pratiche interculturali. Come
sempre, il convegno fu arricchito da momenti conviviali e da una performance
teatrale interattiva. Anche quest’ultima all’insegna dell’imprevedibile, del
non convenzionale, perfino dello spiazzante.

Fu mia figlia, che avevo coinvolto nella performance, a
offrirmi una chiave possibile per definire quello stile – al tempo stesso laico
e spirituale, impegnato e lieve, inteazionalista e comunitario – di leggere e
vivere la realtà. Con una battuta ironica e folgorante: “Sono dei veri hippie
e non hanno bisogno di droghe!”». Fino a concludere: «A pensarci bene, in fondo
quella di mia figlia non era solo una boutade. A caratterizzare il
movimento hippie, infatti, furono il pacifismo integrale, il senso
comunitario, l’esaltazione dell’amore e della fratellanza, l’ideologia mite e
non dottrinaria, la matrice spirituale attinta al pensiero di Gesù Cristo,
Buddha, Francesco d’Assisi, Gandhi…; nonché la controcultura che privilegiava
la performance, il teatro di strada, la musica popolare».

Ecco. Senza pretese di esaustività, ovviamente, qualche
idea in più ce la siamo fatta. Anche se il mosaico è lungi dall’esser esaurito,
e le sfaccettature della figura del missionario di oggi, sospeso tra una società
di fatto postcristiana e un Dio che sta cambiando indirizzo, posizionandosi
sempre più spesso a Sud dell’Equatore, sono – ammettiamolo – ben difficili da
afferrare pienamente.

Brunetto Salvarani

Normal 0 14 false false false IT X-NONE X-NONE /* Style Definitions */ table.MsoNormalTable {mso-style-name:"Tabella normale"; mso-tstyle-rowband-size:0; mso-tstyle-colband-size:0; mso-style-noshow:yes; mso-style-priority:99; mso-style-parent:""; mso-padding-alt:0cm 5.4pt 0cm 5.4pt; mso-para-margin:0cm; mso-para-margin-bottom:.0001pt; mso-pagination:widow-orphan; font-size:10.0pt; }

Brunetto Salvarani




EMI 2: Pagine “missionarie”

1973 – 2013: storia di una
piccola-grande casa editrice

Era il 1973. All’inizio furono in
quattro. Oggi gli istituti missionari che sostengono la Emi sono 15. Grazie ad
alcune intuizioni precise, la casa editrice seppe riempire uno spazio culturale
prima vuoto. L’attuale crisi dell’editoria la scuote, ma l’Emi sa rinnovarsi.
Parlano i testimoni di ieri e di oggi.

Ha fatto conoscere al pubblico i
volti dei grandi protagonisti della chiesa, del mondo missionario, delle
religioni. Ha anticipato l’attenzione di massa su temi caldi come la giustizia
e la pace, la salvaguardia del creato, i nuovi stili di vita, il dialogo tra le
fedi. Di più: negli scritti dei pionieri e anticipatori della sua avventura,
per prima diede voce ai popoli di quello che allora veniva chiamato «il terzo
mondo», e riuscì a focalizzare i riflettori mediatici su di esso, sulle sue
emergenze – la fame, l’anelito all’indipendenza – e soprattutto sulle sue
ricchezze, a cominciare dalla rivendicazione del proprio protagonismo. L’Emi, Editrice missionaria italiana, ne ha fatta di strada negli
ultimi quarant’anni.

L’unione fa la forza

Ad aprile questa vitale espressione
degli istituti ad gentes italiani festeggerà l’anniversario di
quell’esperimento che – era il 1973 – vide in prima fila Comboniani, Missionari
della Consolata, Pime e Saveriani.

L’idea era ridare slancio a una
proposta culturale avviata negli anni Cinquanta da alcuni membri dei quattro
istituti, le cui case editrici avevano cominciato a curare insieme una collana
di teologia della missione e una per la conoscenza dei popoli. «In quegli anni
si viveva un entusiasmo missionario oggi inimmaginabile», ricorda padre Piero
Gheddo, del Pime, tra i promotori di quella primissima iniziativa insieme al
saveriano Walter Gardini. «In quel clima, favorito da tre encicliche, la Evangelii
praeconese,
la Fideidonum di Pio XII e la Princeps pastorum
di Giovanni XXIII, nacquero anche la Federazione della stampa missionaria
italiana (Fesmi), i primi congressi del laicato missionario italiano, l’équipe
di visitatori missionari dei seminari italiani – continua padre Gheddo – e,
ancora, assistemmo alla partenza dei primi sacerdoti fidei donum, nel
1957, o alla nascita delle “Settimane di studi missionari” dell’università
Cattolica, nel 1960».

A metà degli anni Sessanta,
tuttavia, le pubblicazioni unitarie degli istituti missionari cominciarono, per
varie ragioni, a languire. L’entusiasmo originario si era affievolito, forse
anche per la sensazione di un diminuito interesse del pubblico. Fu allora che
entrò in gioco un giovane comboniano, padre Ottavio Raimondo, che nel ’67 era
stato assegnato dai suoi superiori alla casa editrice Nigrizia.

Padre Raimondo riuscì a vincere lo
scetticismo degli altri missionari coinvolti nell’edizione delle due collane
comuni, per fare un tentativo nuovo: «Nel 1973 i quattro istituti maschili
decisero di congelare per quattro anni le rispettive editrici, per farle
confluire tutte nell’Emi, senza però che ancora avesse una personalità
giuridica», racconta padre Ottavio, che sarebbe poi diventato il direttore «storico»
dell’editrice missionaria, guidandola per 21 anni.

«Ci dicemmo: “Vediamo se funziona,
altrimenti toeremo ognuno alle nostre attività”». Invece, indietro non si
toò più. I primi anni di attività diedero subito frutti positivi, e il 17
novembre 1977 nacque la cornoperativa Sermis (Servizio missionario), con lo scopo
di dare autonomia giuridica all’Emi, la cui sede fu fissata a Bologna, e tenere
aperta la porta ad altre iniziative in campo culturale (come sarebbe successo
nel 1997, con la nascita dell’agenzia di stampa Misna).

Ben presto, ai quattro soci
fondatori si aggiunsero altri istituti, maschili e femminili, fino a
raggiungere il numero attuale di quindici: Società Delle Missioni Africane, Missionarie
di Nostra Signora degli Apostoli, Missionarie Comboniane, Padri Bianchi
(Missionari d’Africa), Verbiti, Missionarie della Consolata, segretariato
unitario per le missioni dei Cappuccini, Missionarie Secolari Comboniane, Comunità
Redemptorhominis, Missionarie dell’Immacolata e Saveriane.

Le intuizioni

«Le nostre intuizioni più
importanti, in origine, furono due», spiega padre Ottavio facendo un bilancio
di questi decenni. «Da una parte, gli istituti si resero conto che per incidere
nella realtà italiana, portando sul territorio l’idea della missione, dell’alterità, della diversità, era necessario unirsi,
sia per ottimizzare le energie sia per ovviare a una certa auto referenzialità
di ognuno. Dall’altra, l’Emi diede spazio alle voci delle giovani chiese del Sud del mondo, di cui, negli anni del
dopo Concilio, si sentiva il bisogno di conoscere la grande vitalità e
ricchezza.

Traducevamo i documenti delle
Conferenze episcopali. Ricordo che pubblicammo gli atti della Conferenza
dell’Episcopato latinoamericano di Puebla, nel ’79, prima ancora che uscissero
localmente!».

Negli anni seguenti, secondo padre
Ottavio, furono altre due le intuizioni che fecero dell’editrice dei missionari
una ricchezza per l’intera società italiana: «Si tratta della dimensione dell’interculturalità, che approfondimmo dagli anni
Ottanta, soprattutto grazie all’impulso del Centro saveriano di animazione
missionaria
e del suo Centro di educazione alla mondialità, e del
tema dei nuovi stili di
vita, che
sviluppammo negli anni Novanta, in particolare con l’apporto del Centro
nuovo modello di sviluppo
, cornordinato da Francesco Gesualdi (vedi articolo)».

Quando padre Ottavio riprese la
guida dell’Emi al rientro dalla lunga parentesi missionaria in Messico, dal ‘79
al ’93, era stata data alle stampe la prima edizione della «Guida al consumo
critico», destinata a diventare un bestseller da 200 mila copie. Fu
quello il periodo in cui l’Emi divenne catalizzatrice di un’attenzione che
cominciava a esprimersi in alcuni settori della società su temi appunto come
stili di vita alternativi al modello consumistico, finanza etica, problematiche
ecologiche: un’attenzione che solo più tardi sarebbe stata fatta propria anche
dai grandi editori.

Molti dei titoli di questo filone,
con il loro successo di vendite, aprirono all’editrice missionaria anche le
porte delle grandi librerie laiche e dei circuiti legati alle manifestazioni
dell’associazionismo, alle fiere, alle botteghe del mondo.

Un altro fronte che portò ottimi
risultati fu quello dei libri di testo per l’insegnamento della religione
cattolica. Il trend positivo continuò fino alla metà degli anni Duemila.
Ma lo spettro della crisi economica cominciava ad aleggiare.

Arriva la crisi

«Arrivai alla direzione dell’Emi in
un momento di passaggio non solo della nostra struttura, bensì globale»,
racconta padre Giovanni Munari, comboniano, che dopo trent’anni di missione in
Brasile prese le redini della casa editrice nel 2008. «La crisi ebbe degli
effetti pesanti su di noi, in modo diretto ma anche indiretto, visto che negli
ultimi anni avevamo lavorato molto con il mondo dell’associazionismo e vari
temi al centro dei nuovi titoli erano espressione della riflessione e delle
proposte provenienti proprio da quel mondo». Linfa di cui, negli ultimissimi
anni, i problemi economici hanno bruscamente interrotto il flusso.

«Ci siamo resi conto così che dovevamo
cercare di ritagliarci uno spazio nel mercato editoriale, che oggi è fortemente
competitivo, attraverso una serie di riforme, dagli aspetti grafici a quelli
contenutistici fino alla fisionomia delle collane», continua Munari. Una sfida
affrontata con successo, se è vero che la neo – quarantenne editrice è riuscita
a sopravvivere all’emergenza senza aiuti estei e continua ad aggiungere tra i
50 e i 60 libri ogni anno al suo catalogo, che oggi comprende oltre ottocento
titoli (dai volumi per l’infanzia alla recente collana di narrazioni).

Ora, però, è necessario guardare
avanti. Ma nell’attuale panorama editoriale e mediatico può esserci ancora
spazio per un’editrice missionaria? Il nuovo direttore dell’Emi Lorenzo
Fazzini, primo laico a occupare questo posto, è convinto di sì. «La narrazione
della missione, le tematiche dei nuovi stili di vita, il lavoro costante
sull’educazione, la prospettiva interculturale e interreligiosa sulle grandi
questioni contemporanee sono le peculiarità dell’Emi che si rafforzano oggi,
nell’epoca in cui la globalizzazione è un dato accertato, che non va subìto
passivamente, soprattutto dal punto di vista culturale e tanto più ecclesiale»,
afferma Fazzini. Certo serve «un surplus di fantasia, innovazione,
creatività, nella convinzione che la prospettiva missionaria, che tiene conto
del punto di vista dell’altro, che è costantemente in dialogo, che vive alla
frontiera dell’annuncio cristiano, è un arricchimento ineguagliabile per la
Chiesa ma anche per la società stessa».

La sfida è «rintracciare nuove
strade e intuire i luoghi della cultura di frontiera e di fecondità
significativa per l’annuncio missionario». Per farlo, l’intenzione è tornare a
puntare l’obiettivo sulla ricchezza – in termini di nuove prospettive di
indagine, riflessione e azione – che può venire dai paesi di missione. Fazzini
cita, tra l’altro, un personaggio come l’ex primo cittadino di Bogotà Ananas
Mockus, «esempio virtuoso di “anti politica” e di un civismo amministrativo
tutto da scoprire», la cui storia è raccontata dal volume di Sandro Bozzolo, «Un
sindaco fuori del comune», ma anche il neo cardinale di Manila Luis Antonio
Tagle, di cui Emi sta per pubblicare il primo libro in italiano, «Gente di
Pasqua». «Personalità e questioni “periferiche”, se affrontate con qualità,
possono diventare vincenti in quanto esemplificative di una cultura non
omologata». La missione, insomma, ha ancora pagine da scrivere.

Chiara Zappa

Normal 0 14 false false false IT X-NONE X-NONE /* Style Definitions */ table.MsoNormalTable {mso-style-name:"Tabella normale"; mso-tstyle-rowband-size:0; mso-tstyle-colband-size:0; mso-style-noshow:yes; mso-style-priority:99; mso-style-parent:""; mso-padding-alt:0cm 5.4pt 0cm 5.4pt; mso-para-margin:0cm; mso-para-margin-bottom:.0001pt; mso-pagination:widow-orphan; font-size:10.0pt; }

Chiara Zappa




EMI 1: Missione di carta L’editrice Missionaria Italiana compie 40 anni

Questo dossier, oltre a ricordarci la storia della Emi, ci presenta uno
spaccato del mondo missionario in Italia – che la Emi stessa ha contribuito a
formare -, sui rapporti di tale mondo con la cultura, e ci porta la voce di uno
degli autori più popolari della Emi degli ultimi anni, Francesco Gesualdi.

40 ANNI BEN PORTATI

Unica nel panorama mondiale, la Emi, Editrice
missionaria italiana, nasce dall’intuizione e dalla caparbietà di alcuni
religiosi di quattro istituti missionari agli inizi degli anni ‘70. L’unione di
quattro case editrici è una sperimentazione che si rivela vincente.

L’editrice mette su carta storie missionarie, ma anche
diritti umani, idee innovative, nuovi stili di vita per un mondo più giusto,
equo ed eco compatibile. Senza trascurare i titoli di geopolitica riguardanti
paesi più o meno sconosciuti del mondo e crisi inteazionali. E tutto con un
angolo visuale molto particolare, dettato anche da una conoscenza approfondita
del terreno e delle problematiche.

La Emi diventa ben presto strumento di comunicazione e
di produzione di «cultura missionaria» in Italia. E non solo di cultura
missionaria, in quanto molto importante è il sodalizio con associazioni e
movimenti della società civile italiana, che trovano nella Emi un valido
alleato.

La Emi resiste alle crisi, e oggi
compie 40 anni di attività.

Per questo motivo, insieme alle
riviste «Mondo e Missione», «Missione Oggi» e «Nigrizia», «Missioni Consolata»
ha deciso di dedicare all’evento un piccolo spazio di riflessione. Nasce così
questo dossier, che oltre a ricordarci la storia della Emi, ci presenta uno
spaccato del mondo missionario in Italia – che la Emi stessa ha contribuito a
formare -, sui rapporti di tale mondo con la cultura, e ci porta la voce di uno
degli autori più popolari della Emi degli ultimi anni, Francesco Gesualdi.

Terminiamo con un augurio di altri 40 anni sempre sulla «cresta
dell’onda».

Marco Bello

Normal 0 14 false false false IT X-NONE X-NONE /* Style Definitions */ table.MsoNormalTable {mso-style-name:"Tabella normale"; mso-tstyle-rowband-size:0; mso-tstyle-colband-size:0; mso-style-noshow:yes; mso-style-priority:99; mso-style-parent:""; mso-padding-alt:0cm 5.4pt 0cm 5.4pt; mso-para-margin:0cm; mso-para-margin-bottom:.0001pt; mso-pagination:widow-orphan; font-size:10.0pt; }

Marco Bello




Rendete a Cesare quel che è di Cesare | Rendete a Cesare (1)


Per andare al secondo articolo su Rendete a Cesare:

Quale Cesare abbiamo scelto come nostro Dio? Rendete a Cesare (2)


(Mc 12,13-17; Mt 22,15-22; Lc 20,19-26)

«Non abbiamo altro re che Cesare …Non avrai altri dèi di fronte a me» (Gv 19,15; Es 20,3)

 

800x600

800x600

Normal 0 14 false false false IT X-NONE X-NONE MicrosoftInteetExplorer4 /* Style Definitions */
table.MsoNormalTable
{mso-style-name:"Tabella normale";
mso-tstyle-rowband-size:0;
mso-tstyle-colband-size:0;
mso-style-noshow:yes;
mso-style-priority:99;
mso-style-parent:"";
mso-padding-alt:0cm 5.4pt 0cm 5.4pt;
mso-para-margin:0cm;
mso-para-margin-bottom:.0001pt;
mso-pagination:widow-orphan;
font-size:10.0pt;
}
Premessa

Con MC di gennaio-febbraio 2013 abbiamo concluso il commento del racconto dello sposalizio di Cana, riportato nel vangelo di Giovanni al capitolo 2. In totale appena undici versetti che ci hanno impegnato per quattro anni, avendo iniziato nel febbraio 2009. È la prova che una vita sola non basta per leggere in profondità tutta la Bibbia o anche una parte di essa. Se fossimo solo riusciti a suscitare un po’ più di rispetto per la Parola di Dio, il nostro obiettivo, come autore e come rivista, è stato raggiunto. Di fronte ad ogni singola parola di Dio dobbiamo avere un sentimento di «ascolto» interiore perché essa non si esaurisce nel significato immediato, ma esige di scendere in profondità perché Dio è inesauribile. Se poi fossimo anche riusciti a suscitare un atteggiamento di rispetto che ci impedisce di «improvvisare», allora siamo proprio contenti e pensiamo di avere reso un servizio a noi e alla Chiesa. Il nemico più pericoloso della Scrittura è l’improvvisazione e il pressapochismo.
Ora cominciamo un nuovo ciclo. Per la verità avevo pensato anche di sospendere per un po’ questo servizio, per me molto impegnativo sotto ogni punto di vista (e anche costoso per l’aggiogamento); ne ho parlato anche con qualche amico che legge MC. Per poco non mi scomunicava, dicendomi che parlava anche a nome di altri. Ho ricevuto, infatti, segnali e suggerimenti dai nostri lettori per continuare. Li ringrazio tutti per le loro parole affettuose e riconoscenti. Mi ritengo un servo della Parola e nulla di più. Ho riflettuto molto, prima di prendere una decisione, e ora sono in grado di comunicare il mio progetto ai lettori di MC che pur non conoscendo, sono parte di me e del mio popolo con cui condivido l’Eucaristia e la ricerca di Dio.
Con la prossima primavera, dopo Pasqua, verso la fine di aprile, inizierò nella mia parrocchia di Genova una «Scuola di Sacra Scrittura», un Corso biblico organico e al contempo elementare, partendo dal presupposto che non conosciamo la Bibbia. Noi cattolici siamo soliti «sentire» la Parola di Dio quasi esclusivamente nella Liturgia, quindi in forma discontinua, ma poco sappiamo del «libro» in sé, la sua storia, il travaglio della sua formazione, i tempi della sua scrittura, dopo la sedimentazione della trasmissione orale. Molti dicono che si sono cimentati nella lettura della Bibbia, ma poi si sono dovuti arrendere perché «non ci capisco niente». È ovvio che ciò accada perché ai cattolici manca la conoscenza delle chiavi di lettura, gli strumenti storici, letterari e religiosi per capie la mentalità, il contesto storico, l’ambiente geografico e le circostanze delle varie fasi. Non possiamo leggere la Scrittura con la nostra mentalità occidentale perché è un libro, sintesi di una grande esperienza, nato in oriente e sviluppatosi in una cultura diversa dalla nostra, con linguaggi diversi dai nostri e con strumenti che bisogna conoscere. Diceva Pio XI ai seminaristi del Seminario Lombardo, già negli anni ’20 che «spiritualmente noi siamo semiti» ed è pertanto necessario acquisire una mentalità semitica, se vogliamo cogliere il senso proprio della Scrittura e dei suoi singoli libri.
Alla luce di questa premessa, sollecitato, pressato e minacciato dalla mia comunità, ho deciso di mettermi all’opera, iniziando un percorso che non so quando finirà, ma spero di riuscire ad offrire almeno gli strumenti necessari perché ciascuno possa cominciare a leggere e a pregare la Bibbia come il libro-codice della fede. Dopo una introduzione sulla composizione della Bibbia e la sua divisione, il corso prevede la lettura esegetica, centellinata, cioè approfondita dei primi 11 capitoli della Genesi, la storia dei Patriarchi nomadi da Abramo a Giacobbe, la grande epopea dell’esodo, che è l’atto fondativo di Israele come popolo, i profeti, l’esilio, la letteratura sapienziale, la preghiera sedimentata nei Salmi per giungere al dominio romano e diaspora d’Israele. In un secondo momento si passerà al Nuovo Testamento. Tutto questo esige preparazione, studio e tempo, molto tempo.
Poiché le richieste di partecipazione sono oltre ogni aspettativa, ho deciso che scriverò tutto il corso per poterlo pubblicare in un secondo momento. Per non privare i lettori di MC di questa opportunità, ho pensato che dal mese di giugno questa rubrica potrebbe ospitare il corso a puntate. Nel frattempo, per i mesi da marzo a maggio 2013, offro ai nostri lettori una lettura esegetica di un passo controverso del vangelo che spesso, anche dai vescovi, sento usare in modo maldestro e fuorviante, segno che nella Chiesa c’è bisogno non di catechismo, ma di «scuola della Parola», fatta in modo sistematico, continuo e progressivo. Spero di non essere andato fuori tema e mi auguro che i lettori di MC possano gradire questa proposta che ci impegnerà a lungo, finché il Signore ci darà la forza e la grazia di poterla realizzare. Passiamo quindi all’esegesi del testo sinottico: «Rendete dunque quello che è di Cesare a Cesare e quello che è di Dio a Dio» (Lc 20,25).

Rendete a Cesare … rendete a Dio»

(Mc 12,13-17; Mt 22,15-22; Lc 20,19-26)

Per comprendere il brano del vangelo è necessario capirne la portata, altrimenti lo si usa a sproposito, come comunemente fanno tutti, anche vescovi e cardinali, dimostrando così una strutturale «ignoranza delle Scritture» e fomentando interpretazioni che col vangelo non hanno nulla a che fare. San Girolamo già nel sec IV ci metteva in guardia: «Ignoratio Scripturarum ignoratio Christi est – L’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo» (S. Girolamo, Commento al profeta Isaia, Prologo; citato nella Dei Verbum 25). Il testo del versetto appartiene alla triplice tradizione sinottica (in Gv è assente), segno di una tradizione attestata a cui la comunità primitiva ha attribuito molta importanza: il testo si trova in Mt 22,15; Mac 12,21 e Lc 20,17. Di solito quando si cita questo versetto lo si applica senza alcuna mediazione alla separazione tra Stato e Chiesa: CesareDio come due dirimpettai antagonisti, stabilendo una forma di idolatria perché pone Cesare sullo stesso piano di Dio. In questo modo si fa «eis-egesi», si mette cioè dentro il testo la nostra comprensione (o se si vuole la nostra ideologia contemporanea, che però è estranea alla Scrittura) e non «es-egesi» che invece è la scienza che estrae dal testo il senso genuino nel rispetto della «mens» dell’Autore. Proviamo a lasciarci guidare dal testo nel suo contesto per capire che cosa i sinottici (Mc, Mt e Lc) vogliono dire con l’espressione citata. Leggiamo il testo

Il testo

Da un punto di vista critico le varianti testuali, abbastanza notevoli (segno di un percorso travagliato) specialmente in Mc e Lc non sono decisive per quanto concerne il contenuto perché riguardano prevalentemente la forma. In più il versetto decisivo, cioè la risposta di Gesù, è riportato dai tre sinottici in modo uniforme con piccole varianti di tipo stilistico. Nella nostra riflessione ci facciamo guidare dal testo di Lc che meglio esprime il contesto di complotto e di tensione. Leggiamo però in forma di sinossi i tre testi, avendo presente quando si parla di «erodiani» ci si riferisce al partito di cortigiani e sostenitori di Erode, favorevoli ai Romani; e il «denaro» che Gesù chiede di vedere è il denaro d’argento di Tiberio che recava l’immagine dell’imperatore, il quale in questo modo affermava la propria autorità su chiunque avesse avuto in mano la sua moneta.

Mc 12,(12).13-17
Mt 22,15-22
Lc 20,19-26
12E cercavano di catturarlo, ma ebbero paura della folla; avevano capito infatti che aveva
detto quella parabola contro di loro [contadini omicidi: cf Mc 12,1-12]. Lo lasciarono e se ne andarono.
15Allora i farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come coglierlo in fallo nei suoi discorsi. 19In quel momento gli scribi e i capi dei sacerdoti cercarono di mettergli le mani addosso, ma ebbero paura del popolo. Avevano capito infatti che quella parabola l’aveva detta per loro.
13Mandarono da lui alcuni farisei ed erodiani, per coglierlo in fallo nel discorso. 16Mandarono dunque da lui i propri discepoli, con gli erodiani, 20Si misero a spiarlo e mandarono informatori, che si fingessero persone giuste, per coglierlo in fallo nel parlare e poi consegnarlo all’autorità e al potere del governatore.
14Vennero e gli dissero: “Maestro, sappiamo che sei veritiero e non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno, ma insegni la via di Dio secondo verità. È lecito o no pagare il tributo a Cesare? Lo dobbiamo dare, o no?”. a dirgli: “Maestro, sappiamo che sei veritiero
e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno. 17Dunque, di’ a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?”.
21Costoro lo
interrogarono: “Maestro, sappiamo che parli e insegni con rettitudine e non
guardi in faccia a nessuno, ma insegni qual è la via di Dio secondo verità. 22È
lecito, o no, che noi paghiamo la tassa a Cesare?”.
15Ma egli, conoscendo la loro ipocrisia, disse loro: “Perché volete mettermi alla prova?
Portatemi un denaro: voglio vederlo”. 16Ed essi glielo portarono.
18Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: “Ipocriti, perché volete mettermi alla prova? 19Mostratemi la moneta del tributo”. Ed essi gli presentarono un denaro. 23Rendendosi conto della loro malizia, disse: 24“Mostratemi un denaro:
Allora disse loro: “Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?”. 20Egli domandò loro: “Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?”.
di chi porta l’immagine e l’iscrizione?”.
Gli risposero: “Di Cesare”.
21Gli risposero: “Di Cesare”.
Risposero: “Di Cesare”.
17Gesù disse loro: “Quello che è di Cesare rendetelo a Cesare, e quello che è di Dio, a Dio”. Allora disse loro: “Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”. 25Ed egli disse: “Rendete dunque quello che è di Cesare a Cesare e quello che è di Dio a Dio”.
E rimasero ammirati di lui.
22A queste parole rimasero meravigliati, lo lasciarono e se ne andarono. 26Così non riuscirono a coglierlo in fallo nelle sue parole di fronte al popolo e, meravigliati della sua risposta, tacquero.

–      Il testo di Mc 12,17 che sta alla base degli altri due (cf Mt 22,21 e Lc 20,25) tradotto alla lettera, è il seguente: «16Di chi è l’immagine (eikôn) e l’iscrizione? Ed essi risposero: “Di Cesare”. 17Gesù, quindi, disse loro: “Le cose [che sono] di Cesare restituite a Cesare, «e»  le cose [che sono] di Dio [restituite] a Dio”».

–      Luca a differenza di Mc aggiunge: «E disse quindi [Gesù] a loro: “Pertanto dunque/di conseguenza ri-date/restituite le cose [che sono] di Cesare a Cesare «e» le cose [che sono] di Dio [restituite] a Dio”».

Si capisce subito che la questione è solo una trappola perché qualunque risposta Gesù possa dare, lo metterebbe a mal partito: in caso di risposta affermativa, Gesù sarebbe stato additato al popolo come fautore dell’imperatore pagano; in caso di risposta negativa, poteva essere accusato presso l’autorità romana come sobillatore antigovernativo.

Osservazione morfologica: tra la prima parte e la seconda troviamo la congiunzione coordinante copulativa «kài – e» che qui ha valore fortemente «avversativo» perché Gesù intende riportare i suoi ascoltatori davanti alla loro responsabilità di avere messo sullo stesso piano «Dio» e «Cesare», cadendo così nell’apostasia. La congiunzione quindi non ha valore coordinante, ma oppositivo: non quindi «a Cesare quello che è di Cesare e (= allo stesso modo, contemporaneamente) a Dio quello che è Dio», ma «a Cesare quello che è di Cesare e (= ma al contrario, ritornate a restituire a Dio quello che è Dio», segno che i Giudei avevano confuso Cesare e Dio. Tutta la questione, come vedremo, riguarda non il potere, ma «l’immagine», cioè la propria identità in relazione al Creatore.

Una questione antica

Per capire il brano del vangelo bisogna andare indietro, ad uno scritto del sec. VII a. C. che a sua volta descrive con ogni probabilità eventi avvenuti nel sec. XIII a. C. di cui però è difficile se non impossibile stabilire la cronologia. Il testo appartiene al ciclo dei «Giudici di Israele», qui l’ultimo di essi, Samuele, a cui la tradizione biblica attribuisce due libri, il 1 e 2 Samuele che nella Bibbia ebraica corrispondo al 1 e 2 libro dei Re.

 «1Quando Samuele fu vecchio, stabilì giudici d’Israele i suoi figli. 2Il primogenito si chiamava Gioele, il secondogenito Abia; erano giudici a Bersabea. 3I figli di lui però non camminavano sulle sue orme, perché deviavano dietro il guadagno, accettavano regali e stravolgevano il diritto. 4Si radunarono allora tutti gli anziani d’Israele e vennero da Samuele a Rama. 5Gli dissero: “Tu ormai sei vecchio e i tuoi figli non camminano sulle tue orme. Stabilisci quindi per noi un re che sia nostro giudice, come avviene per tutti i popoli”. 6Agli occhi di Samuele la proposta dispiacque, perché avevano detto: “Dacci un re che sia nostro giudice”. Perciò Samuele pregò il Signore. 7Il Signore disse a Samuele: “Ascolta la voce del popolo, qualunque cosa ti dicano, perché non hanno rigettato te, ma hanno rigettato me, perché io non regni più su di loro”» (1Sam 8,8).

La richiesta di un re su Israele è illegittima perché il popolo scelto da Dio per la sua epopea di salvezza dovrebbe essere solo Yhwh, il Dio liberatore e creatore (cf 1Cr 16,31; Sal 93/92,1; 96/95,10; 97/96,1; 99/98,1Gv 12,13). Da questo momento comincia un tempo burrascoso per Israele e la monarchia non attecchirà mai, ma sopravvivrà solo per un paio di secoli e sarà causa di distruzione, di morte e di afflizione per tutto il popolo. Non bisogna perdere di vista questo testo quando leggiamo il racconto dello scontro tra i capi dei sacerdoti e Gesù perché di questo si tratta: stabilire chi è il re d’Israele, anzi chi è il Dio dei capi dei sacerdoti e degli scribi.

Il popolo esige un re come giudice «come avviene per tutti i popoli» (1Sam 8,5). Il popolo sa che il re lo dissanguerà, che ruberà i loro figli e li manderà in guerra, che rapirà le loro figlie per farne schiave nel suo harem, che farà solo gli interessi di sé, della sua famiglia e di coloro che lo adulano, eppure il popolo vuole un re per essere governato da un aguzzino, avverando la Parola di Dio detta per mezzo di Samuele:

«10Samuele riferì tutte le parole del Signore al popolo che gli aveva chiesto un re. 11Disse: “Questo sarà il diritto del re che regnerà su di voi: prenderà i vostri figli per destinarli ai suoi carri e ai suoi cavalli, li farà correre davanti al suo cocchio, 12li farà capi di migliaia e capi di cinquantine, li costringerà ad arare i suoi campi, mietere le sue messi e apprestargli armi per le sue battaglie e attrezzature per i suoi carri. 13Prenderà anche le vostre figlie per farle sue profumiere e cuoche e fornaie. 14Prenderà pure i vostri campi, le vostre vigne, i vostri oliveti più belli e li darà ai suoi ministri. 15Sulle vostre sementi e sulle vostre vigne prenderà le decime e le darà ai suoi cortigiani e ai suoi ministri. 16Vi prenderà i servi e le serve, i vostri armenti migliori e i vostri asini e li adopererà nei suoi lavori. 17Metterà la decima sulle vostre greggi e voi stessi diventerete suoi servi. 18Allora griderete a causa del re che avrete voluto eleggere, ma il Signore non vi ascolterà”. 19Il popolo rifiutò di ascoltare la voce di Samuele e disse: “No! Ci sia un re su di noi. 20Saremo anche noi come tutti i popoli; il nostro re ci farà da giudice, uscirà alla nostra testa e combatterà le nostre battaglie”» (1Sam 8,10-20).

Gli anziani d’Israele chiedono al profeta un re «come avviene per tutti i popoli» e Dio li accontenta, consapevole che hanno rifiutato lui, loro liberatore e creatore. La storia di ripete, perché i loro discendenti, faranno lo stesso aggravando la situazione. Non più davanti ad un profeta, ma davanti al procuratore romano, rappresentante dell’imperatore pagano che occupa la terra santa d’Israele, essi proclamano ufficialmente di non avere altro Dio che Cesare e quindi consegnano la loro fedeltà ad un re usurpatore in sostituzione di Dio. [Continua – 1]

Normal 0 14 false false false IT X-NONE X-NONE MicrosoftInteetExplorer4 /* Style Definitions */
table.MsoNormalTable
{mso-style-name:"Tabella normale";
mso-tstyle-rowband-size:0;
mso-tstyle-colband-size:0;
mso-style-noshow:yes;
mso-style-priority:99;
mso-style-parent:"";
mso-padding-alt:0cm 5.4pt 0cm 5.4pt;
mso-para-margin:0cm;
mso-para-margin-bottom:.0001pt;
mso-pagination:widow-orphan;
font-size:10.0pt;
}

Paolo Farinella