Lasciamoli in pace

La questione dei popoli incontattati.


Le tribù indigene
incontattate non sono un’invenzione degli ambientalisti. Che fare con esse?
L’esperienza storica dimostra che il contatto con l’uomo bianco per loro è
stato quasi sempre fatale. Per le malattie, la violenza o la prevaricazione. Il
nostro dibattito sul tema continua ospitando le riflessioni dell’organizzazione
internazionale «Survival».

Molti
ricorderanno le immagini della tribù amazzonica isolata fotografata alla fine
del maggio 2008 in Brasile, appena al di qua del confine peruviano. Nonostante
il tono sensazionalista con cui molte testate diffusero la notizia, le immagini
raggiunsero l’obiettivo di richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica
mondiale sulla minaccia che gravava sui popoli della zona. L’esistenza delle
tribù incontattate non poteva più essere considerata una leggenda tipo quella
del mostro di Loch Ness, come affermavano l’allora presidente del Perú Alan
García e i portavoce della compagnia petrolifera di stato nel tentativo di
svicolare dalle proprie responsabilità. E nemmeno «un’invenzione degli
ambientalisti». Pochi mesi dopo, il giornale britannico The Observer,
responsabile di aver insinuato che le fotografie fossero una farsa e una
«bufala», dovette presentare le sue scuse ufficiali ai lettori e a Survival
per aver fornito una versione «menzognera e distorta» dei fatti.

A scattare quelle immagini aeree e ad affidarle a Survival
era stato José Carlos dos Reis Meirelles, un funzionario della Funai (il
dipartimento governativo agli affari indigeni del Brasile) preoccupato per il
drammatico esodo verso il Brasile di alcuni gruppi di indiani incontattati del
Perú. Le loro terre erano invase in modo crescente da taglialegna illegali e
compagnie petrolifere autorizzate dal governo peruviano a compiere prospezioni
e trivellazioni anche negli angoli più remoti della foresta, dimora ancestrale
di alcuni dei popoli più isolati del paese. Quelle attività rischiavano di
decimare o addirittura sterminare la tribù all’insaputa del resto del mondo,
com’era già accaduto troppe altre volte nel passato.

Quanti
sono i popoli incontattati contemporanei e quali minacce pendono sul loro
futuro? Secondo le nostre stime, i popoli indigeni che vivono senza alcun
contatto con il mondo esterno sono almeno un centinaio. La loro consistenza
numerica varia molto. Da un solo sopravvissuto, come nel caso «dell’uomo della
buca» individuato nel 2006 nello stato brasiliano di Rondônia, fino a cento o
duecento persone. Vivono in ambienti diversi: dagli angoli più remoti della
foresta amazzonica fino alle isole dell’Oceano indiano. Non è dato sapere
quanti esattamente siano, ma sappiamo con certezza che esistono: lo provano le
tracce che lasciano dietro di sé (utensili e case abbandonate frettolosamente sotto
l’avanzare degli invasori), e alcuni incontri fortuiti e fugaci.

In Asia li troviamo nelle Isole Andamane e in Nuova
Guinea. Nell’America del Sud, dove si ha la concentrazione maggiore, ci sono
almeno 60 tribù. Oltre 40 risiedono entro i confini del Brasile, 15 in Perú. Il
resto vive tra Bolivia, Colombia, Ecuador e Paraguay. Ognuno di questi popoli è
unico e le loro lingue, le loro culture e le loro visioni del mondo sono
insostituibili. Sono sicuramente i popoli più vulnerabili del pianeta.

Dei popoli incontattati si sa poco, se non che il loro
isolamento è sempre frutto di una scelta obbligata, compiuta per sopravvivere
alle invasioni. Molti di loro hanno sofferto la perdita dei loro cari per mano
dell’uomo bianco nel corso di decenni di massacri silenziosi o per effetto del
dilagare di epidemie. Sono proprio le malattie introdotte dall’esterno,
infatti, a costituire la principale causa di morte tra loro, perché non hanno
difese immunitarie contro virus da noi molto comuni come l’influenza, il morbillo
o la varicella.

Spesso, sono essi stessi dei sopravvissuti, o discendono
da sopravvissuti ad atrocità commesse in epoche precedenti. Violenze
raccapriccianti che hanno lasciato segni indelebili nella loro memoria
collettiva, inducendoli a rifuggire da ogni contatto con il mondo esterno. Gli
antenati degli attuali popoli amazzonici isolati furono sterminati dal fenomeno
brutale e devastante della schiavitù che accompagnò il boom del caucciù alla
fine del XIX secolo. Il 90% di loro morì. I popoli incontattati vivono tutti in
modo autosufficiente: di ciò che la foresta dona loro. Le loro vite sono
profondamente legate a quella del loro ambiente. Per questo, la protezione
delle terre che abitano e delle risorse che utilizzano è fondamentale per la
loro sopravvivenza. Spesso lo stile di vita nomade o seminomade (basato sulla
caccia, sulla pesca e sulla raccolta) è il risultato delle persecuzioni che
hanno sofferto, come nel caso degli Awá brasiliani. Si pensa infatti che un
tempo gli Awá fossero agricoltori stanziali, e che si siano solo
successivamente frammentati in gruppi di 20-30 persone sotto l’avanzata dei
bianchi, passando poi alla vita nomade, che offriva più alte possibilità di
sopravvivenza. Nessuno sa con esattezza quanti siano (probabilmente 460, di cui
un centinaio vive completamente isolato nelle foreste dello stato del
Maranhão), ma possono certamente essere considerati la tribù più minacciata
della Terra. Sette di loro morirono nel 1979, avvelenati con la farina intrisa
di un pesticida letale lasciata «in dono» dai coloni… Oggi sono assediati da
orde di taglialegna illegali che, quando li vedono, li uccidono. La maggior
parte dei popoli incontattati vive ancora oggi in fuga perenne. Cercano di
sopravvivere rifugiandosi in luoghi sempre più remoti. Tuttavia, l’avanzata
della cosiddetta «civilizzazione» sta rendendo sempre più difficile la loro
stessa sopravvivenza. In ogni paese del mondo sono circondati su tutti i
fronti: le compagnie petrolifere e di disboscamento invadono i loro territori
in cerca di risorse naturali, i coloni usurpano le loro terre e le convertono
in allevamenti di bestiame e aziende agricole. Le strade attraversano le loro
terre aprendo le porte a bracconieri, missionari fondamentalisti e turisti, e
introducendo il rischio di incontri violenti e malattie. Le foreste da cui
dipendono per il loro sostentamento vengono tagliate a ritmi vertiginosi; la
selvaggina è sempre più scarsa.

Alcuni pensano che i popoli tribali, in particolare
quelli incontattati, siano reliquie del passato, reperti archeologici destinati
inevitabilmente all’assimilazione culturale ed economica, oppure
all’estinzione. Ma non è così. Certamente, la loro estrema vulnerabilità alle
aggressioni estee è aggravata dal mancato riconoscimento del loro diritto
specifico all’isolamento volontario. Eppure, la storia dimostra che laddove le
loro terre vengono riconosciute legalmente e protette in modo adeguato, il loro
futuro è assicurato. Al contrario, il primo contatto forzato costituisce sempre
un’enorme minaccia e, quasi invariabilmente, qualsiasi sia la ragione per la
quale viene compiuto, si trasforma in una catastrofe fatta di impoverimento,
malattia, disperazione e morte.

In
Perú, padre Piovesan (vedere riquadro di pagina 28, ndr) – alla radio e
su altri mezzi di comunicazione – continua a porre ai suoi ascoltatori una
domanda solo apparentemente innocua: «Si salva un popolo se lo si isola o se lo
si integra? Si migliora una comunità mettendola a contatto con altri o
mantenendola isolata?». A lui Survival e tutti coloro che hanno a cuore la vita
dei popoli indigeni non possono che rispondere in un solo modo: «Se, come e
quando interagire con il mondo esterno è una decisione che spetta solo a loro,
e a nessun altro». Riconoscere e proteggere il diritto alla proprietà della
terra dei popoli indigeni, inclusi quelli incontattati, è la chiave della loro
sopravvivenza. Solo così potranno mantenere il controllo delle loro vite e
decidere autonomamente del loro futuro lasciandosi alle spalle secoli di
colonizzazione e patealismo. Il diritto alla terra e all’autodeterminazione
sono sanciti oggi anche dalla Convenzione Ilo 169, che è la legge
internazionale più importante in materia di popoli indigeni, e dalla
Dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni e tribali approvata dall’Onu nel
settembre 2007. Non possiamo cambiare il passato ma possiamo certamente evitare
che la storia si ripeta semplicemente facendo rispettare la legge.

Francesca
Casella*

*
Dal 1989 Francesca Casella è direttrice della sede italiana di Survival Inteational.
Collaboratrice di varie testate giornalistiche, ha curato l’edizione nazionale
del volume Siamo tutti uno. Omaggio ai
popoli indigeni della Terra
. SITO: www.survival.it

Scheda ______________________

I popoli isolati del Perú


Basta un raffreddore

Nelle regioni più remote del Perú
vivono almeno 15 popoli isolati distinti. Alcuni entrarono in contatto con il
mondo esterno tra la fine del XIX secolo e gli inizi del XX, durante il boom
del caucciù che li decimò e li spinse a scegliere l’isolamento per assicurarsi
la sopravvivenza. Altri gruppi, invece, potrebbero non essere mai entrati in
contatto con l’esterno. Tra i gruppi di cui si conosce il nome ci sono gli
Isconahua, i Capanahua, i Cacataibos, i Murunahua, i Mastanahua, i Machigengua,
i Nanti, gli Ashaninka e i Mashco-Piro.

Sono quasi
tutti cacciatori-raccoglitori nomadi e vivono di caccia e pesca. Amano le uova
di tartaruga, che raccolgono lungo le rive dei fiumi in primavera, quando le
acque si ritirano. Alcuni coltivano piccoli orti. Sono concentrati soprattutto
nel Perú Sud orientale, ma ci sono stati avvistamenti anche nel Nord-ovest,
vicino al confine con l’Ecuador, e a Nord-est, al confine con il Brasile. Tra i
fiumi più frequentati ci sono il Tahuamanu, il Las Piedras, il Los Amigos, il
Manu, il Purús, il Curanja, lo Yurua e il Serjali.

Oltre la metà
dei Nahua, che all’epoca erano incontattati, fu sterminata nei primi anni ’80,
quando iniziò l’esplorazione petrolifera nella loro terra. La stessa tragica
sorte toccò ai Murunahua a metà degli anni ’90, dopo il contatto con i
taglialegna che abbattevano illegalmente il mogano. Jorge è uno dei Murunahua
sopravvissuti, e ha perso un occhio durante il contatto. «Con i taglialegna
arrivò anche l’epidemia – ha raccontato a noi di Survival -. Prima non
sapevamo nemmeno cosa fosse un raffreddore. La malattia ci ha uccisi. La metà
di noi sono morti. Mia zia è morta, mio nipote è morto. È morta la metà del mio
popolo».

Nonostante
siano state create cinque riserve a uso esclusivo degli indiani isolati, i loro
territori continuano a essere invasi diffondendo violenze e malattie letali. La
situazione è particolarmente grave là dove si trovano alcune delle ultime
riserve di mogano rimaste al mondo: approfittando della mancanza di efficaci
controlli da parte dello stato, i taglialegna illegali saccheggiano le foreste
liberamente mettendo a repentaglio la vita dei popoli isolati che vi abitano.
Il governo peruviano ha anche autorizzato alcune compagnie petrolifere a
condurre prospezioni nelle terre di queste tribù, facilitando ulteriormente
l’ingresso di coloni e taglialegna in zone che un tempo erano remote. Altre
gravi minacce vengono dalla ricerca mineraria, dalla costruzione di nuove
strade e da missionari estremisti che vogliono entrare in contatto con gli
indiani isolati a qualsiasi costo.

Survival sta
cercando anche di fermare l’espansione del gigantesco progetto energetico
Camisea all’interno della Riserva Nahua-Nanti, promosso dalle compagnie
petrolifere Pluspetrol, Hunt Oil e Repsol. I lavori comporterebbero il
disboscamento di aree di foresta pluviale, la detonazione di migliaia di
cariche esplosive e la perforazione di pozzi. L’espansione viola sia le leggi
peruviane sia quelle inteazionali, ed è contestata anche dalla Commissione
Onu per l’eliminazione della discriminazione razziale (Cerd), che ha chiesto la
sospensione immediata del progetto.

Francesca
Casella

Opinione ________________________

Purús (Perú): Una lettera da «Survival Inteational»


Una questione di vita o di morte

I commenti di padre Miguel Piovesan
e monsignor Francisco González Heández – pubblicati da MC nell’ottobre 2013 (Senza
uscita
) – sono estremamente faziosi e omettono dettagli importanti sui
problemi che deriverebbero dalla costruzione di una strada di collegamento tra
le città di Puerto Esperanza e Iñapari. Vi scriviamo quindi per chiarire alcuni
punti e permettere ai Vostri lettori di comprendere meglio la vicenda.

Puerto
Esperanza è una comunità isolata del Perú sud-orientale, al confine con il
Brasile. Come molte altre città amazzoniche (anche grandi come Iquitos), Puerto
Esperanza non è raggiungibile su strada ma solamente via fiume o,
limitatamente, per via aerea. Una parte degli abitanti è costituita da coloni,
ed è soprattutto la loro voce che padre Miguel Piovesan e monsignor Francisco
González Heández hanno riportato nelle loro lettere. Tuttavia, l’80% della
provincia del Purús è abitata da diversi popoli indigeni che vivono sia
all’interno della città sia in insediamenti estei.

Non solo. In
questo angolo isolato del Perú vivono anche altri gruppi di persone. Sono gli
indiani incontattati: gruppi che non hanno alcun contatto pacifico con il mondo
esterno e attraversano frequentemente il confine tra Perú e Brasile. Si pensa
appartengano alla tribù dei Mashco-Piro e sono state raccolte molte prove della
loro esistenza proprio lungo il percorso proposto per la strada. Cancellarli
dal dibattito significa omettere la ragione principale per la quale questa
strada non può essere costruita, né legalmente né eticamente.

Gli indiani
incontattati sono tra i popoli più vulnerabili del pianeta. Non hanno difese
immunitarie verso le malattie portate dall’esterno e, spesso, è accaduto che in
pochissimo tempo almeno la metà di una tribù sia stata sterminata dalle
epidemie introdotte con il «primo contatto».

Oltre a
questi pericoli immediati dovuti al contatto, la costruzione della strada
provocherebbe anche la rapida distruzione della loro foresta. Prove evidenti si
trovano poco distante da lì, in Brasile, proprio a Est della strada proposta.
Le immagini satellitari mostrano quello che è definito l’effetto «a spina di
pesce» provocato dalla costruzione della strada BR 317: una volta aperto
l’accesso a terre un tempo remote, la regione è stata invasa da voraci
taglialegna e ampie zone di foresta sono state disboscate.

Secondo padre
Miguel Piovesan e monsignor Francisco González Heández, per la popolazione
del Purús la strada costituirebbe «la salvezza» poiché porterebbe, dichiarano,
lo «sviluppo» di cui hanno bisogno i poveri abitanti del luogo. È innegabile
che in quest’area vi sia una vergognosa mancanza di sostegno da parte del
governo. Allo stesso tempo, però, è indubbio che la strada porterebbe più
problemi che benefici non solo ai gruppi incontattati ma anche ai popoli
indigeni locali, la maggioranza dei quali si è detta fermamente contraria al
progetto.

Survival difende i diritti dei popoli
incontattati, in Perú e nel resto del mondo. Le tribù incontattate non possono
essere consultate sulla strada o su qualsiasi altro progetto di «sviluppo» che
li riguardi. Per loro, la strada proposta nel Purús causerebbe solo la
diffusione di malattie, la distruzione della loro terra e, in conclusione,
segnerebbe la loro fine. Sono gli abitanti originali di questa regione, com’è
possibile ignorare i loro diritti territoriali?

Padre
Piovesan ha definito gli indiani «arretrati» e tecnologicamente «preistorici».
Durante la sua trasmissione radiofonica settimanale, che si scaglia con
veemenza contro qualsiasi individuo o organizzazione si opponga alla «necessità
urgente» di costruire la strada, si è riferito agli indigeni del Purús
chiamandoli addirittura «porci e vermi»1. Ma è impossibile immaginare in
che modo questo progetto possa portare qualche tipo di «sviluppo» positivo agli
indiani incontattati del Purús. Per questi cacciatori-raccoglitori nomadi,
infatti, la terra non è solo sacra, ma è anche essenziale per la sopravvivenza.
Senza la foresta, cesserebbero semplicemente di esistere.

Infine, non
si deve dimenticare che la costruzione della strada sarebbe illegale sia
secondo la legge peruviana sia secondo quella internazionale, e che il progetto
è stato definito «impraticabile» e «incostituzionale» da tre ministri
peruviani. Se la strada venisse comunque approvata, le conseguenze sulle vite
di migliaia di indigeni sarebbero devastanti2. Per risolvere il problema
dell’isolamento della regione non si possono spazzare via interi popoli.

Rebecca
Spooner, Survival
Inteational*, Londra

Note
(1)  Radio Esperanza: riportato nel documento
dell’organizzazione indigena Feconapu, giugno 2012, pagina 2, punto 4 (leggere nota del direttore di MC
a pagina 29, ndr).
(2)  Per maggiori informazioni, consigliamo di
leggere il rapporto di «Global Witness»: www.globalwitness.org.

(*)
Fondata nel 1969, Survival aiuta
i popoli indigeni di tutto il mondo a difendere le loro vite, a proteggere le
loro terre e a decidere autonomamente del loro futuro. Con sedi e centri di
supporto in Europa e negli Stati Uniti, Survival lavora perché vengano
riconosciuti ai popoli indigeni i loro diritti fondamentali contro ogni forma
di violenza, persecuzione e genocidio. Apartitica e aconfessionale, lavora a
stretto contatto con le organizzazioni indigene locali offrendo loro assistenza
legale e un palcoscenico da cui rivolgersi direttamente al resto del mondo;
promuove campagne di informazione e pressione per il largo pubblico e porta
nelle scuole laboratori di educazione alla diversità e alla pace. Sito multilingue:
www.survivalinteational.org.

Nota di redazione ________________

Un reportage da Madre de Dios di
Paolo Moiola, pubblicato nei mesi di giugno, luglio e agosto 2012, ha suscitato
l’indignazione del parroco di Puerto Esperanza (Purús), p. Piovesan, che lo ha
letto solo nel 2013 tornando in Italia per una vacanza. Su sua richiesta
abbiamo riconosciuto al sacerdote il diritto di replica sulla rivista di
ottobre 2013. Nell’articolo p. Piovesan e il suo vescovo, mons. Heández,
accusano amaramente i «Wwf-ecologisti» di manipolare dal di fuori la
situazione, non per il bene della gente locale ma per i propri fini.
L’organizzazione Survival Inteational, coinvolta nella vicenda, ha chiesto a sua volta il diritto di
replica, che concediamo volentieri in questo numero, pur non condividendone
alcune parti troppo ad personam.

Per noi, come rivista MC, il
dibattito circa la strada del Purús finisce qui. Non vogliamo diventare veicolo
di scambio di accuse a distanza tra persone e organizzazioni (da noi stimate)
che, pur avendo a cuore la stessa realtà, hanno visioni molto diverse e, almeno
al momento, non sembrano molto disponibili ad ascoltarsi.

Gigi Anataloni, Direttore di MC

 

Francesca Casella