Uomo Nero, Torna A Casa Tua

Reportage da Israele:
la dura vita dei richiedenti asilo africani.
A migliaia,
fuggiti da conflitti africani, si ritrovano in Israele dopo un viaggio impossibile.
Ma per i richiedenti asilo l’integrazione è molto difficile. Non esiste una
legge che li tuteli. I politici di destra al governo li considerano una
minaccia. Le associazioni denunciano: immigrazione gestita su base religiosa.

Corre per oltre 250 chilometri il susseguirsi di reti e
muri che dividono il deserto del Sinai da Israele. Tel Aviv ha deciso la
costruzione di queste barriere per bloccare il flusso di migranti che negli
ultimi anni arriva sempre più copioso dall’Africa sub-sahariana. Sono i figli
dell’Africa nera: eritrei, somali, sudanesi, congolesi, nigeriani, ivoriani che
scappano dai loro paesi dilaniati da guerre, tanto lunghe quanto cruente.
Attraversano il deserto del Sahara e in molti scelgono di proseguire per
l’Egitto e la Libia, i più «fortunati» s’imbarcheranno per il tragico viaggio
verso Lampedusa. Una parte minoritaria decide di continuare a piedi attraverso
il deserto del Sinai, verso quella che in Europa definiamo «l’unica democrazia
del Medioriente». Israele accetta di malavoglia i richiedenti di asilo
politico. Sono decine le denunce di associazioni umanitarie, israeliane e
inteazionali, che parlano di soldati che sparano contro uomini e donne mentre
questi tentano di superare il confine tra Israele ed Egitto.

Respinti a fucilate

Yaki ha finito il servizio militare da qualche anno e ora studia
in una grande città europea. Per oltre dodici mesi ha pattugliato il confine
meridionale israeliano: «Da lì entrano i terroristi. Sono quelli che hanno
fatto scoppiare gli autobus negli anni passati». Yaki non è un estremista di destra, né uno
sprovveduto facilmente influenzabile dalla propaganda governativa. Nato e
cresciuto in una famiglia israeliana della media borghesia, a 18 anni è stato
catapultato in 36 mesi di servizio militare obbligatorio. «Personalmente –
continua l’ex militare – non ho mai sparato contro i migranti, ma ho negli
occhi l’immagine di una notte in cui una pattuglia ha iniziato a fare fuoco
contro un gruppo di donne. Non ci sono stati morti, ma quando abbiamo parlato
con loro ci hanno raccontato che erano state tutte rapite e violentate per mesi
dai beduini nel deserto». Le donne di cui racconta Yaki, come la maggioranza
degli africani che arrivano in Israele attraversando il Sinai, sono state
trasferite in un centro di detenzione nel deserto nel Neghev, Sud del paese,
per essere identificate, seguendo lo stesso principio dei Cie (Centro di
identificazione ed espulsione) e Cara (Centri di accoglienza richiedenti asilo)
in Italia.

Dal maggio 2012 a Tel Aviv è stato messo in funzione un nuovo
centro di detenzione che, a pieno regime, potrà ospitare fino a 16mila persone
nel Neghev. È stato definito, dai pochi a cui è stato permesso l’accesso, «un’immensa
prigione di tende e prefabbricati nel deserto». Da ottobre la polizia di
frontiera ha iniziato a respingere nel deserto del Sinai i rifugiati africani,
un’altra triste analogia con la politica di contenimento all’immigrazione
attuata dall’Europa.

La storia di Oscar

Tel Aviv è la città simbolo della nascita
dello stato ebraico, un agglomerato urbano dove vivono circa tre milioni di
persone, quasi la metà della popolazione israeliana. Le prime case spuntarono a
inizio anni ’40, come periferia di Jaffa, uno dei più antichi e conosciuti
porti arabi del Mediterraneo. Con la creazione dello Stato ebraico, nel 1948,
si costruirono velocemente i grandi palazzi sulla spiaggia, che tutt’ora
ospitano i più rinomati alberghi d’Israele, costituendo uno skyline
simile a una grande città della Florida.

Le case degli arabi residenti a Jaffa, per lo
più scappati durante la guerra del ’48, vennero inglobate nel grande processo
di urbanizzazione. Dopo 60 anni Tel Aviv è diventata una delle città più care
al mondo per acquistare casa. Si sono concentrati qui soprattutto i giovani e
la parte meno religiosa d’Israele, lasciando Gerusalemme agli ultra-ortodossi.

A Tel Aviv sorge il più importante aeroporto
d’Israele, l’unico che fa atterrare i voli di linea inteazionali. Ed è qui
che diciotto anni fa atterrò l’aereo di Oscar Oliver, 45 anni, congolese. Oscar
scappava da un conflitto lungo e sanguinoso come solo le guerre civili sanno
essere. Era portavoce del sindacato studentesco e per le sue idee venne
arrestato e perseguito. Scappò dal Congo all’Egitto «ma non mi andava di
passare da una dittatura a un’altra» quindi chiese e ottenne un visto
lavorativo per arrivare in Israele. Ora è uno dei 60mila africani richiedenti
asilo politico residenti in Israele senza documenti. Oscar vive in clandestinità
con sua figlia, 9 anni, nata a Tel Aviv, ma senza la residenza israeliana. «Il
problema – spiega Oscar – è che le autorità gestiscono l’immigrazione su una
base religiosa. Non ci sono leggi che regolamentino l’ingresso di persone in
pericolo, questo è il cuore della questione: non c’è una legge per accogliere
chi non è ebreo». Dal punto di vista legale, Israele ha firmato la Convenzione
di Ginevra, che sancisce i diritti delle vittime di guerra e più in generale il
diritto internazionale umanitario, ma si rifiuta di riconoscere lo status di
rifugiato.

Oscar, come circa l’ottanta percento dei
richiedenti asilo africani, vive in una bolla di Tel Aviv, il quartiere di Neve
Sha’an, che sorge attorno all’enorme stazione dei bus. In Israele non c’è un
sistema ferroviario efficiente, gran parte della popolazione si muove con
modei bus verdi. I prezzi sono bassi e le rotte coprono tutto il paese. Come
in ogni grande centro urbano il quartiere accanto alla stazione è uno dei più
degradati della città: case fatiscenti, pochi servizi e ancor meno sicurezza.
Il picco del degrado è certamente il parco Levinsky, un paio di ettari in pieno
centro a Tel Aviv, esattamente alle spalle della stazione degli autobus. Qui
dorme ogni notte qualche migliaio di persone, tutte africane, buona parte delle
quali in Europa sarebbero inserite nel processo di richiesta di asilo politico.

Infiltrati o rifugiati?

Ci sono in Israele circa 60mila rifugiati
africani, di cui circa 40mila sono eritrei, altri 15mila vengono dal Sudan, metà
dei quali sono cristiani provenienti dal Sud Sudan mentre l’altra metà arriva
dal Darfur e sono musulmani. Fino alla scorsa primavera c’erano circa 2mila
persone originarie della Costa d’Avorio, ma negli ultimi mesi sono state in gran
parte deportate.

Al momento le autorità stanno cercando di
fare rimpatriare anche parte dei rifugiati fuggiti dal Sud Sudan. Le
espressioni usate per definire i richiedenti asilo politico sono al centro di
una campagna condotta dal governo israeliano: non vengono chiamati rifugiati,
ma infiltrati, quasi a richiamare il termine utilizzato per gli attentatori
palestinesi durante la seconda intifada. Il governo non parla di deportazioni,
termine troppo simile a quello usato in Europa negli anni ’30 e ’40, ma di
rimpatri volontari «anche se in molti – racconta Oscar – sanno che tornando nei
loro paesi d’origine troveranno i loro aguzzini ad aspettarli».

L’Ong Human Rights Watch ha accusato
il governo israeliano di contribuire a creare un’atmosfera negativa nei
confronti dei migranti. Secondo il sondaggio pubblicato a inizio novembre dal
quotidiano Israel Hayom, sembra che la strategia abbia funzionato: il
52% degli israeliani non vorrebbero come vicino di casa un lavoratore
straniero. Nell’ultimo anno ci sono state molte manifestazioni contro i
migranti africani organizzate da vari movimenti di destra sia a Tel Aviv che a
Gerusalemme. In una di queste marce Michael Ben Ari, un parlamentare
israeliano, ha incitato la folla urlando: «Io lo so, sono venuti per distruggere
il paese». Durante l’ultima estate si sono registrati attacchi fisici almeno
una volta alla settimana. Persino un asilo nido, frequentato per la maggioranza
da bambini eritrei, è stato dato alle fiamme.

I partiti di destra che governano il paese hanno una posizione
molto netta sui rifugiati africani e non perdono occasione per rimarcarla. Il
primo ministro Benjamin Netanyahu ha definito i migranti africani come una
minaccia all’identità dello stato ebraico. Elli Ishai, ex ministro
dell’Inteo, ha dichiarato a una tv israeliana: «La soluzione è chiara.
Neghiamo loro il permesso di lavorare, li imprigioniamo e li rimandiamo in
Eritrea». Miri Regev, già parlamentare: «I sudanesi sono un cancro nel corpo
della nostra nazione». Danny Dannon, parlamentare: «La soluzione è parlare
apertamente di deportazione. Dobbiamo deportare gli infiltrati».

«Gli africani che arrivano in Israele non sono alla ricerca di un
lavoro, ma di protezione» ripetono invece come un mantra gli attivisti e i
pochi politici che da anni lavorano per integrare i rifugiati nella società
israeliana. La possibilità di essere impiegati, se non in nero, è molto bassa,
perché lo stato ebraico non riconosce ai richiedenti asilo un permesso di
lavoro. Questa condizione spinge ancora più in basso i rifugiati, infatti molti
di loro sono stati costretti a pagare un riscatto per essere rilasciati, dopo
essere stati sequestrati in Sinai. I trafficanti chiedono fino a 10mila
dollari, una cifra enorme per i paesi dell’Africa sub-sahariana. Le famiglie
per aiutare i propri ragazzi s’indebitano, debito che ricade sulle spalle dei
richiedenti asilo.

Il lavoro dei Volontari

Israele è una nazione composta per l’ottanta percento da figli e
nipoti di rifugiati. Ed è proprio su questo punto che insistono i volontari di Levinsky
Soup
(La Zuppa di Levinsky), un gruppo di cittadini, che da febbraio dello
scorso anno aiuta gli africani che vivono nel parco. Iris ha studiato in Italia
due anni e ha una vaga idea di come funziona il programma di protezione per i richiedenti
asilo in Italia e in Europa: «Il problema qui è governativo ed è sicuramente
l’agenda per la quale il paese deve rimanere a maggioranza ebraica. È una cosa
razzista. Non vogliono aiutare o permettere ad altre persone di restare qui. Ma
non si prendono nemmeno il tempo di controllare se questi ragazzi hanno i
requisiti o meno per ottenere l’asilo politico». Mentre Iris parla si forma una
lunga coda, gli africani ordinatamente aspettano l’unico pasto caldo della
giornata. «La cosa che non ha senso – continua Iris – è che Israele è composto
per la maggior parte da seconde o terze generazioni di rifugiati
dell’Olocausto. Dobbiamo aiutare i rifugiati africani come obbligo verso i
nostri padri, che si sono salvati, che da rifugiati hanno creato uno stato».
Shlomo arriva al parco su una bici che traina uno strano carretto, ci sono
dentro due pentoloni: «Più di venti chili di riso bianco, la base dei nostri
pasti. Serviamo ogni sera tra i 500 e gli 800 piatti, più di qualsiasi ente di
solidarietà in Israele». Levinsky Soup è un gruppo informale di
cittadini che si è autorganizzato lo scorso inverno dopo la morte per ipotermia
di un rifugiato nel parco. «Non ci è sembrato possibile – spiega Shlomo mentre
scodella il riso – siamo rimasti scioccati e come singoli cittadini abbiamo
deciso di fare qualcosa. Questo è un paese accogliente, lo è stato con i nostri
genitori e noi dobbiamo esserlo con altri». Passeggiando per il parco si vedono
coperte e buste di plastica piene di vestiti incastrate all’incrocio dei rami
degli alberi. «Israele – continua Shlomo – ha già dovuto affrontare la
questione dell’immigrazione di massa. Abbiamo gestito quasi un milione di
arrivi con la disgregazione dell’Unione Sovietica, non posso credere che il
governo sia traumatizzato da 60mila rifugiati africani. Vorremmo vedere la
democrazia applicata per tutti e non solo per gli ebrei».

Per gli abitanti del parco, se un pasto caldo è quasi
un’eccezione, l’accesso ai servizi sanitari è praticamente impossibile. L’Ong Physician
for Human Rights
, Phr, (Medici per i diritti dell’uomo) è una delle poche
associazioni alla quale si possono rivolgere i rifugiati. «Il 59% dei nostri
pazienti – racconta Ran Cohen, operatore dell’Ong – ha subito torture e abusi,
anche di carattere sessuale, durante il passaggio in Sinai. Phr ha una sede con
ambulatorio a pochi minuti a piedi dal parco, nulla a che vedere a confronto
dei grandi ospedali privati della zona Sud di Tel Aviv, ma da qui passano ogni
settimana centinaia di richiedenti asilo. L’Ong lavora contrastando
quotidianamente le difficoltà di un lavoro «scomodo»: aiutare decine di
migliaia di persone che non sono benvenute a causa della provenienza, della
loro religione: «Aiutare i rifugiati – conclude Ran – è quasi un crimine in
Israele».

 Cosimo
Caridi

Cosimo Caridi




I Warao: gente da canoa

Situazione economica e culturale degli amerindi Warao
Vivono sul delta del fiume Orinoco, nel Venezuela orientale; in
maggioranza abitano in case con tetto di paglia sopra palafitte, al riparo
dalle fluttuazioni delle maree; vivono di pesca, caccia e raccolta dei frutti
della foresta: sono i Warao, popolazione amerinda unica nel suo genere per
storia e cultura millenaria. Ma il confronto con il mondo occidentale moderno
sta minacciando di disintegrare la loro cultura insieme alla loro
organizzazione economica e sociale.

Da una decina d’anni un gruppo di
missionari e missionarie della Consolata condividono la vita, annunciando il
Vangelo di Cristo, con i Warao, un’etnia amerinda che da molti secoli vive
sulle sponde delle numerose ramificazioni del Delta dell’Orinoco, nel Nord Est
del Venezuela.

Proprio qui, alle foci
dell’Orinoco, giunsero Cristoforo Colombo e Amerigo Vespucci nel loro terzo
viaggio, nel 1498-1499, e chiamarono questa terra Venezuela, ossia Piccola
Venezia. Giunto a queste sponde il 5 agosto 1498, Colombo scrisse nel suo
diario: «Divisé unas tierras – las más hermosas del mundo – y muy poblada…
Corrí esta costa hasta el cabo de la sierra y me ha encantado la belleza de su
vegetación… Artísticas frondes cubren el piedemonte costero… Grandes
indicios son estos del Paraíso terrenal… Esta es una tierra de gracias
».

Qui vivono i Warao

L’Orinoco è il fiume più grande
del Venezuela e il terzo dell’America del Sud. È uno dei fiumi più ricchi
d’acqua del mondo, con una media annua di 38 mila litri al secondo.
Attraversata Ciudad Guayana, il fiume si dirige verso l’Oceano Atlantico,
trasformandosi in una complessa rete idrografica, dividendosi in numerosi rami,
lagune, zone allagate, che si intrecciano tra loro fino a raggiungere l’Oceano
dopo oltre 200 km. Tutta questa regione si chiama Delta Amacuro o Delta del Río
Orinoco, con una superficie approssimativa di 22.000 km quadrati.

Gli ecosistemi terrestri e
acquatici sono caratterizzati da una grande diversità biologica. L’area
terrestre è ricoperta da una fitta foresta tropicale che conta più di 2.000
specie di piante catalogate. Inoltre, ricchezza di uccelli (464 specie),
rettili (76 specie), anfibi (39 specie), mammiferi (151 specie), pesci (410
specie), e infine una grande quantità di invertebrati. Le terre del Delta sono
abitate da tempi remoti dall’etnia indigena dei Warao.

Il termine warao ha molti
significati. In primo luogo significa «abitante dell’acqua», «gente di curiara»
(di canoa) e anche «gente di spiaggia». Allo stesso tempo, warao
semplicemente significa gente o persona in opposizione ad altri esseri non
umani.

La storia orale warao racconta
che gli antenati arrivarono al Delta dell’Orinoco camminando, dall’isola di
Trinidad, in un’epoca in cui esisteva un ponte terrestre tra questa isola e il
continente. Esitono parecchie teorie sulla provenienza di questo popolo; la più
accettata, però, è quella che li vede arrivare dalle Ande Peruviane molti
millenni fa. Per i loro tratti somatici non si esclude neanche un’origine
asiatica. Il loro vivere sui fiumi, in prossimità del mare, in zone di così
difficile accesso, si determinò in seguito, per fuggire da altre tribù più
guerriere.

Il censimento dell’anno 2001
registrava circa 40 mila indigeni di questa etnia, ma di certo sono molto più
numerosi. Dopo i Wayúu dello stato Zulia, i Warao rappresentano la seconda
etnia indigena più numerosa del Venezuela.

Per poter conoscere il popolo
warao è necessario partire dai vari elementi che costituiscono la sua
organizzazione socio-culturale, politica, economica e religiosa; organizzazione
influenzata e condizionata dall’ambiente in cui vivono, caratterizzato da tutta
una rete di fiumi grandi e piccoli, che circondano lingue di terra totalmente
inondate o pantanose, ricoperte da una esuberante vegetazione tropicale. Il
viaggio è molto bello: tutto in curiara (canoa), unico mezzo per
raggiungere questo popolo, attraversando paesaggi di una bellezza meravigliosa.

Aspetto socio-economico

La prima cosa che colpisce dei
Warao sono le loro case: palafitte, chiamate janoko (luogo dell’amaca)
disposte in fila lungo la sponda del fiume. Generalmente esse sono aperte, il
tetto ricoperto con foglie di palma, o, per i più fortunati, con lamiere.
Alcuni hanno iniziato a chiuderle con pareti di tavole di legno o, per chi non
ha i mezzi economici, con le stesse foglie della palma.

La durata di queste case è molto
ridotta: è normale per un warao ricostruire la casa ogni 8-10 anni.
L’arredamento è molto essenziale: l’amaca per dormire e per riposare, ceste o
borse appese con i vestiti e altri effetti personali; un angolo della casa è
adibito per cucinare a legna.

Le famiglie warao generalmente
sono molto numerose, non solo perché hanno molti figli, ma anche perché,
secondo la loro cultura, le figlie, quando si sposano, portano in casa il
marito.

Le famiglie del villaggio sono unite
fra loro da forti legami di solidarietà e mutuo aiuto. La comunità, un tempo,
era prettamente di carattere familiare, «comunità-famiglia», non stabile in un
luogo, ma itinerante, alla ricerca di zone capaci di soddisfare i bisogni
alimentari. Ora, con l’introduzione dei lavori salariati, dell’agricoltura e
della scuola, là dove è presente, c’è maggiore stabilità e apertura della
comunità a diversi gruppi familiari.

Tradizionalmente per i Warao il
lavoro serviva a sopravvivere, cioè soddisfare la fame, conservare la salute e
la vita. Essi si fabbricano la maggior parte dei loro utensili: amache (chinchorros),
ceste, capanne, curiare (canoe), arponi e reti per la pesca, ecc. Oggi possono
contare su qualche motore fuori bordo, anche se costituisce per loro un
articolo di lusso, a causa delle spese di manutenzione.

Il mezzo di trasporto
fondamentale rimane la curiara, ricavata scavando tronchi di alcuni tipi
di alberi e poi impermeabilizzata al fuoco. Usare la canoa e nuotare sono tra
le prime cose che un bambino impara.

Questi strumenti semplici di loro
fabbricazione, combinati alla loro profonda e dettagliata conoscenza dei
diversi ecosistemi e ambienti del delta, permettono ai Warao di vivere e
approfittare delle risorse delle aree fluviali, dei boschi inondabili e delle
zone litorali. Le attività tradizionali per la sussistenza erano, e lo sono
ancora per un buon numero di comunità, la pesca, la caccia e la raccolta di
frutta silvestre, realizzate solo per il consumo quotidiano. Quando ci si
procurava più del necessario era logico, e per molti lo è ancora, condividerlo.

Tra i Warao non esiste la
mentalità di accumulare, si vive alla giornata, si giornisce quando si ha e si
spera in un futuro migliore quando non si ha. Sono molto semplici e accolgono
sempre con grande cordialità; non chiamano mai chi li visita «straniero o
forestiero», ma «dake» o «daka» (fratello, sorella).

La natura è per loro una madre
provvidente e per questo la rispettano. Essa è colei che dà loro la vita,
l’alimento, le medicine. Fondamentale per la sussistenza è la palma «moriche»
(Mauritia flexuosa L), che fornisce la materia prima per vari manufatti
e vari alimenti come la frutta o palmito;
inoltre, dal tronco si estrae una specie di farina chiamata yuruma con
cui fabbricano un tipo di casabe che è il pane degli indigeni. Dalla
fermentazione della yuruma si fa, inoltre, una bevanda chiamata nojobo.
Dentro il tronco delle palme si sviluppano dei lombrichi di coleotteri, il Rhynchophonis
palmarum
, che costituiscono per i nativi un piatto squisito. I frutti sono
pure usati per la preparazione di bevande o sono consumati secchi e
abbrustoliti. Le radici hanno per i Warao molte applicazioni nella medicina
casalinga e per la fabbricazione di collane e braccialetti.

Ugualmente importante per loro è
la palma manaca (Euterpe oleracea Mart.). Occorre far notare che
i Warao sono i soli, tra gli aborigeni del continente americano, che ancora
estraggono il sagù (yuruma) dalla palma moriche. La selva
fornisce inoltre molti altri tipi di frutta.

L’attività agricola fu introdotta
a poco a poco nel secolo scorso. Gli anziani ricordano ancora quella che fu per
loro una novità: seminare e piantare alimenti.

Cambiamenti radicali

A partire dalla metà del secolo
scorso, l’influsso dei Creoli (venezuelani) si fece presente nei territori dei
Warao, provocando cambi radicali nella loro situazione socio-economica; uno di
essi fu l’introduzione dell’agricoltura. Infatti questa attività obbligò
centinaia di comunità indigene ad abbandonare la propria vita transumante di
pescatori e raccoglitori nei morichales (zone intee dove si trovano le palme
di moriche), e ad adattarsi a una vita sedentaria di orticoltori e pescatori
stanziati nelle aree litorali dei canali del Delta.

L’agricoltura esercitata in
piccole aree (conuchi), si basa sulla coltivazione dell’ocumo cinese
(pianta erbacea con tubercoli commestibili). Essa produsse una buona fonte
alimentare e questo, insieme alla buona fonte di proteine ottenute con la
pesca, permise un sostanziale incremento sia nel numero dei villaggi come degli
abitanti in ciascuno di essi.

lavoro itinerante
salariato

Man mano che i Warao andavano
incorporando elementi della cultura creola (strumenti di metallo, nailon per la
pesca, fucili, tessuti, motori fuori bordo, benzina, ecc.) si creò per loro la
necessità di introdursi nell’economia monetaria. Il primo passo si effettuò con
la produzione di articoli artigianali che venivano venduti in Barrancas e
Tucupita, le due città creole della terra- ferma più vicine, che davano pure la
possibilità di acquistare prodotti commerciali.

Attualmente i Warao, specialmente
le donne, elaborano una buona quantità di oggetti di piccolo artigianato
(amache, ceste, borse in fibra di moriche, collane e braccialetti, ecc.)
che vendono nei centri urbani. L’apparizione delle barche a motore fece
aumentare le spese, ma facilitò le attività commerciali, riducendo il tempo dei
viaggi dal Basso Delta ai centri di Barrancas e Tucupita, da più giorni a sole
8-9 ore, ora anche meno.

A partire dagli anni ‘80 alcuni
membri di comunità warao iniziarono a lavorare come salariati alle dipendenze
dei creoli, quando questi aprirono attività industriali nell’Alto e Basso
Delta, come iniziative agropecuarie, pesca di acqua dolce e marina, segherie e
anche una fabbrica di palmito. Tutte attività poi fallite, lasciando
danni all’ambiente e impoverendo i Warao, in generale mal pagati.

Tuttavia la circolazione del
denaro cominciò a influire sulle relazioni tra le famiglie e gli stessi
villaggi: prima di tutto è iniziato a rompersi quel sistema di unione e
collaborazione reciproca che fino ad allora aveva mantenuto unite
affettivamente ed economicamente le famiglie estese di uno stesso villaggio.

Le donne cominciarono a perdere
il loro potere amministrativo nelle famiglie, dato che il sostentamento della
famiglia dipendeva ormai dagli uomini, i quali decidevano come spendere le
entrate. Il denaro causò la nuclearizzazione della famiglia estesa, crebbe
sempre più la compra-vendita dei servizi necessari alla vita quotidiana (cibo,
trasporti, costruzione di abitazioni, taglio e preparazione dei conuchi
o aree coltivabili, ecc.).

Cambia il sistema tradizionale di autorità

Nel tentativo di soccorrere la
situazione dei Warao, il governo, tramite i governatori locali, favorì la
creazione di vari incarichi con salario in ogni comunità: commissario,
poliziotto, incaricato del trasporto degli studenti, responsabile della
centrale elettrica del villaggio (un semplice gruppo elettrogeno). Inoltre,
nelle scuole rurali e nei dispensari medici uomini e donne poterono lavorare
come maestri, infermieri, cuochi, ecc…

Nonostante i benefici economici
portati da queste nuove fonti di entrate, tale cambiamento produsse seri
problemi nell’ambito della gerarchia e dell’autorità tradizionale. La direzione
e il controllo della comunità era, da sempre, affidata al fondatore del
villaggio, il più anziano, chiamato «Aldamo», il quale esercitava il suo
potere in quanto considerato un uomo saggio, capace di prendere decisioni
corrette a favore di tutta la comunità.

Ora, col nuovo sistema, il potere
era affidato a un affiliato del partito politico che era al governo. Questa
nuova situazione a livello di commissario politico e polizia, è risultata
estremamente delicata e minaccia sempre più l’unione della famiglia
tradizionale. La politica è sempre meno al servizio del popolo e del suo bene,
ma approfitta dell’immagine indigena per i propri interessi economici.

Infine, con astuzia o per
legittime ragioni, i warao impiegati del governo debbono trasferirsi ogni 15
giorni a Tucupita, per riscuotere il salario. Naturalmente questo sistema
garantisce ai commercianti di Tucupita delle buone entrate, perché quegli
impiegati sono obbligati a fermarsi là per più giorni e di conseguenza devono
spendere gran parte del salario in vitto, alloggio e viaggio…

L’Educazione

Nella tradizione warao le
conoscenze culturali venivano trasmesse da parte degli anziani ai bambini e ai
giovani attraverso il racconto di miti e storie vissute, mentre i vari lavori,
l’uso di attrezzi, le rotte navigabili dei fiumi non venivano e non vengono
tutt’ora insegnati attraverso spiegazioni orali, ma si imparano attraverso
l’osservazione e l’esperienza personale.

L’educazione scolastica arrivò
nel Delta solo negli anni ‘30 con i missionari Cappuccini che fondarono due
collegi. Negli anni ‘50 questi religiosi costruirono in varie comunità piccole
scuole e dispensari affidandoli a donne warao, preparate nei collegi di cui
sopra. Alcuni anni più tardi il governo si prese carico di queste strutture.

Purtroppo le scuole in queste
zone sono molto poche e piccole rispetto al numero dei bambini, e assicurano
solo il ciclo elementare. Le condizioni in cui si studia sono molto precarie:
non ci sono banchi, i bambini, seduti per terra, non hanno che il loro quaderno
e la matita.

Fortunatamente adesso i maestri
sono quasi esclusivamente warao; però, nonostante la buona volontà, mancano
spesso di metodologia e soprattutto di materiale didattico da consultare e
usare per rendere le lezioni meno pesanti e più proficue. Purtroppo i programmi
scolastici sono quelli nazionali, perciò non conformi alla realtà di un popolo
indigeno né rispettosi della sua cultura.

Lo studio superiore è stato
sempre privilegio di pochi: da alcuni anni sono iniziati tre licei in tre zone
diverse del Basso Delta. E anche lì ci sono problemi: mancanza di strutture e
libri, assenteismo di professori creoli, che devono venire da Tucupita. Inoltre
la maggioranza degli insegnanti non ha una adeguata formazione professionale.

L’educazione scolastica, pur
essendo un bene e un diritto, ha rappresentato un altro elemento di rottura nel
modo di vivere tradizionale, in quanto, dovendo andare a scuola, i bambini non
possono andare al conuco, a pescare, a cacciare, a raccogliere legna o
frutta con i genitori e così imparare a fare questi lavori e conoscere i
segreti della foresta. Di conseguenza, insieme ad altri motivi, i genitori sono
restii a inviare costantemente i bambini alla scuola. 

Per quel che riguarda la salute,
ci sono pochissimi centri a cui ci si possa rivolgere per visite e cure.

Aspetti culturali-religiosi

Pur vivendo cambiamenti
culturali, il popolo warao non ha perso le sue credenze religiose sempre ben
radicate, che determinano la sua cosmo-visione. Si crede negli spiriti e in una
autorità religiosa. Per i Warao la natura è abitata da spiriti, padroni dei
diversi elementi come acqua e selva: entrambi hanno il proprio spirito. Ne
consegue che uno non può entrare in una selva e tagliare gli alberi così come
gli pare, perché, se lo fa, può venire castigato dallo spirito della foresta.

Ci sono poi gli spiriti degli
antenati e un essere supremo chiamato Kanobo (nostro nonno). Un elemento
culturale importante è senza dubbio la celebrazione del rito Najanamu,
un importante appuntamento religioso tra le comunità warao, perché mette in
evidenza la relazione tra la comunità e questo essere supremo, Kanobo,
che ha il potere di proteggere i membri stessi della comunità, allontanando le
disgrazie che possono colpirla.

L’autorità religiosa propria è il
wisidatu, il medico tradizionale. Egli ha il potere di proteggere dagli
spiriti cattivi, e allontanarli, quando entrano in un corpo provocando le
malattie, attraverso il canto e il suono della maraca (strumento
musicale). La morte è naturale se avviene dopo una lunga esistenza, altrimenti è
causata dagli spiriti, che si impadroniscono del corpo in conseguenza del
mancato rispetto delle regole culturali o della natura o, più spesso, in
conseguenza di un malocchio causato da qualcuno che vuole procurare danno alla
persona.

Alcune comunità formate da
ex-studenti dei collegi dei Cappuccini hanno accolto anche la fede cristiana,
ma il cammino di evangelizzazione è ancora lungo.

Un popolo in migrazione

La cultura creola (venezuelana)
appare agli occhi dei giovani più affascinante e provoca, conseguentemente,
mancanza di interesse per i propri valori culturali e tradizioni, iniziazione
ad altri costumi e nuove esigenze. È questa una delle ragioni che porta molti
Warao a emigrare a Barrancas e Tucupita. Lì vivono ai margini della città,
cercando lavori saltuari, diventando scaricatori di porto o raccoglitori di
lattine o rifiuti. Molti però, specialmente le donne, si sono dati
all’accattonaggio nelle città, come Puerto Ordaz, Puerto La Cruz, Valencia e
Caracas, tra le più gettonate. Ma per un warao si tratta di una nuova maniera
di vivere, meno faticosa: la città rappresenta una foresta più facile a cui
accedere e con maggior varietà di alimenti.

Tutto ciò crea una grande
preoccupazione soprattutto per i bambini che nascono in tale situazione, perché,
mentre la maggior parte degli adulti riesce in qualche modo a scegliere dove e
come vivere, un bambino nato in Barrancas o Tucupita mancherà in futuro della
capacità necessaria per vivere nei canali e pantani del Delta. Non avrà la
minima idea di come e dove pescare, di di dove e come seminare e piantare, di
quali alberi producono materiale combustibile o frutta. Una volta cresciuti,
questi giovani, se non verranno incorporati nell’economia creola con una certa
dignità, saranno condannati a vivere una vita miserabile da mendicanti.

Dal 2010 la diocesi di Tucupita
ha incluso nel suo progetto pastorale indigenista l’organizzazione di un «Simposio
indigeno warao» sul tema «Movilización y migración del pueblo Warao»
(mobilitazione e migrazione del popolo Warao) per studiare questo fenomeno e
per cercare cammini di speranza per queste comunità che vivono tutt’ora in
stato di abbandono da parte del governo.

 
Giuseppe Bono e Ivana Cavallo

Giuseppe Bono e Ivana Cavallo




Che le tue Mani aiutino il Volo

La scomparsa del dottor
Giuseppe Meo.
Mi è rimproverata una parzialità acritica a favore dei poveri, degli
ultimi. Ebbene, può darsi, anzi è vero: non sono obiettivo, non sono
imparziale, sono schierato dalla loro parte. Non solo: non saprei essere
diverso, sono sempre stato così. E non mi interessa cambiare. È la scelta preferenziale
dei poveri in quanto portatori degnissimi di diritti. Vorrei che li mettessimo al centro, impostare
tutto a partire dai loro bisogni. Non una forma qualsiasi di solidarietà.

Il dottor Giuseppe Meo, Pino, ci ha lasciati
il 28 gennaio scorso a 75 anni. Un male incurabile, scoperto a giugno durante
una sua ennesima missione chirurgica in Sud Sudan, gli è stato fatale. L’ultimo
intervento sulle pagine di MC lo fece per l’indipendenza del Sud Sudan (MC,
marzo 2011). Vogliamo ricordarlo nella sua semplicità, ma pure nella sua
grandezza di medico, di uomo, di formatore, di pioniere. Un riferimento, anche
per chi, pur non essendo chirurgo, cerca quotidianamente di mettere insieme le
forze per lottare a favore dei più poveri. E non sempre trova l’energia necessaria.

Ma la storia di Pino Meo continua. Lascia un metodo, la «chirurgia
povera», e lascia un’organizzazione, il Comitato Collaborazione Medica, che
porta avanti la sua opera. E il suo sorriso disarmante e un po’ malinconico continuerà ad
accompagnarci.

Abbiamo pensato di ricordarlo attraverso le sue parole, stupende,
raccolte nel libro «Africa Malata. Memorie di chirurgia povera in Sudan», una
perla di rara profondità e umanità, di cui proponiamo alcuni brani.

Grazie Pino.
La redazione MC
 

Dopo tanti anni nella
memoria rimane indelebile il ricordo dei «miei malati», un’antologia di tenere
immagini imbevuta di compassione, un diario visivo di ritratti intensi. Sono
esistenze che non si riescono ad archiviare. Le loro sofferenze ti penetrano. È
una compassione che nasce dal privilegio della condivisione diretta. Il tema
del «malato povero» è intrecciato con un’altra condizione precaria e un’altra
sofferenza, quella della chirurgia «povera». Tale secondo attore non è il
protagonista, è subalterno al primo, non ha vita propria, vive per il malato,
da lui riceve la tensione emotiva che gli è essenziale e gli dà senso. È una
seconda proiezione diversa e sovrapposta alla prima, quella dei malati, una
doppia ottica. Il Sud Sudan ha un fascino misterioso che gli deriva dai suoi
forti contrasti: il senso della dignità delle persone e la loro povertà
estrema, le siccità e le piogge furiose, le grandi mandrie e le carestie,
l’amore per i bambini e gli orrori della guerra. Sta di fatto che il Sudan è
teatro di molti ricordi perché è diventato «casa mia» e la sua gente è «la mia
gente». Si racconta [in questo libro], fra l’altro, di personaggi, episodi e «missioni
sul campo», nella speranza di rendere più comprensibile la testimonianza di
questi due mondi intrecciati l’uno all’altro: il mondo dei poveri, abisso di
sofferenze e di umiliazioni, ma anche rete di vite umane bellissime e piene di
dignità, e il mondo in crisi della cooperazione internazionale, ingarbugliato e
pieno di contraddizioni, ma colmo di sacrifici personali.

Tigania, Kenya, 1969

Scopro il valore inestimabile delle cure chirurgiche di base in
Africa. La tempestività e l’efficacia della chirurgia di urgenza, la sua
capacità di essere inderogabilmente definitiva hanno del miracoloso. È un lampo
che mi cambia la vita. Mi invento la decisione di fare della chirurgia per i
paesi a basso reddito l’asse portante della mia attività professionale, della
cura del povero del Terzo Mondo il tema della mia vita. È anche il rifiuto di
una vita incanalata, garantita, assicurata, sempre uguale, a favore di un
mestiere che ti sfida, ti preoccupa e ti tiene costantemente impegnato.

«Che le tue mani aiutino il volo, ma non si permettano mai di
sostituire le ali» invitava Helder Camara, l’arcivescovo brasiliano precursore
della Teologia della Liberazione. Mai l’aspetto tecnico sacrifichi la relazione
personale e la dimensione ideale dell’agire. Scopro la preghiera del chirurgo
inglese, per avere «gentilezza nelle mani, intelligenza nella mente, simpatia
nel cuore, che sappia fare onore al mio lavoro che guarisce». La preoccupazione
che la dimensione tecnica non prevalga su quella personale e sociale riguarda
non soltanto il lavoro chirurgico, ma tutta l’attività di cooperazione. I tre
elementi personale, ideale e tecnico non hanno senso se non sono in sinergia
fra loro. La dignità delle persone non è mai negoziabile.

Il rispetto del malato non ammette eccezioni, è un imperativo
etico assoluto. La chirurgia sul campo, in particolare in Sud Sudan, sarà il
filo conduttore del mio impegno di medico in Africa.

Il volontariato medico nei paesi poveri regala momenti di vera
serenità, di pace piena con se stessi e con gli altri. Paiono frammenti della «gioia
perfetta del pellegrino in cammino», pezzetti di una felicità data in premio
discreto e silenzioso. Carlo Maria Martini ricorda che «gioia perfetta non
vuole dire non condividere il dolore per l’ingiustizia, per la fame nel mondo; è
una gioia più profonda, dalla quale ci dispensiamo troppo facilmente pensando
che non sia per noi…».

È imbarazzante parlare di sé, è difficile trovare il giusto tono
per confessare vissuti coinvolgenti. In effetti, la mia è una gioia che non
teme di piegarsi sulle sofferenze altrui, ma – lo riconosco – ne rimane
trascinata perché fortemente condizionata dalla salute dei miei pazienti. Con
la loro sofferenza ho sempre avuto un rapporto appassionato ma appeso al filo
tagliente della domanda: «Guarirà? Ce la farà?».

La chirurgia richiede di mescolare coraggio e umiltà, ardimento e
paura. Quale intervento sceglieremmo se, invece di essere i chirurghi, noi
fossimo i pazienti?

L’abisso fra ricchi e poveri

Il mondo dei poveri è così lontano dal nostro che tutti gli
indicatori di questa inaccettabile disuguaglianza e tutte le immagini della
loro sofferenza, pur così frequenti sui media, finiscono col non dirci più
nulla. Il lavoro in Sud Sudan ci ha insegnato molto sulla sofferenza degli
oppressi. Il confronto con una realtà di bisogno gravissimo, in un ambiente di
inimmaginabile arretratezza e isolamento e di precarietà assoluta dei servizi
sanitari è stato oltremodo istruttivo. Il Sudan ci ha fatto incontrare la fame
e le carestie che uccidono, le capanne buie e spoglie, la mancanza di tutto, la
lebbra e le malattie tropicali, la tubercolosi e le polmoniti, le giovani donne
che muoiono di rottura di utero e i bambini in coma per malaria cerebrale. La
salute non è un diritto individuale, ma un bene indivisibile dell’intera umanità.
Nel villaggio globale il collasso di una parte del mondo non può non
riflettersi sul suo intero. Questo tema chiama tutti a un impegno concreto che
deve partire dalla consapevolezza delle disuguaglianze, delle loro cause e dei
loro meccanismi. La comunità scientifica è chiamata ad analizzare e a
diffondere i temi dell’equità, dello sviluppo sostenibile, della difesa della
dignità umana e della vita delle persone. Noi, operatori sanitari sul campo,
abbiamo il dovere perentorio della denuncia, perché di questi fenomeni siamo testimoni
diretti e l’informazione e la sensibilizzazione sulle problematiche del
sottosviluppo sono nostri compiti istituzionali.

Oggi si riconosce che la logica del profitto e la globalizzazione
del mercato hanno prevalso sulla globalizzazione dei diritti e che le
istituzioni finanziarie inteazionali Banca Mondiale e Fondo Monetario
Internazionale, sostituitesi di fatto all’Organizzazione Mondiale della Sanità
(Oms) nel guidare la politica sanitaria, hanno aggravato le disuguaglianze,
perché hanno indicato la stessa come una variabile dipendente della crescita
economica. Come condizione per accedere ai prestiti e aiuti inteazionali sono
stati imposti «aggiustamenti strutturali» quali la liberalizzazione del
commercio, il taglio della spesa sociale, l’introduzione di ticket e delle
assicurazioni private e la privatizzazione dei servizi con il risultato di
smantellare i servizi sanitari nazionali. Il Rapporto della Commissione
Macroeconomia e Salute dell’Oms del 2001 riconosce che la prima causa del disastro
sanitario che colpisce gran parte dell’umanità è la povertà estrema e che la
salute dipende anche, come noto da decenni, da agricoltura, alimentazione,
accessibilità all’acqua salubre, istruzione. Il Rapporto considera
principalmente una strategia consistente in interventi sanitari essenziali e
afferma che l’investimento nella salute deve essere prioritario, non secondario
agli interventi economici. In quanto strumento di lotta alla povertà, può
salvare milioni di vite umane, indurre di per sé sviluppo economico e
promuovere sicurezza globale, ma la comunità internazionale deve investire
molto di più. La cooperazione internazionale con i paesi poveri non è un dono
munifico dei paesi sviluppati, bensì un loro dovere preciso sancito dalla
legislazione internazionale e ratificato dai membri delle Nazioni Unite.

Programmi sanitari poverissimi

Il Ccm (Comitato Collaborazione Medica, vedi
riquadro), proprio sulla base della sua esperienza di lavoro in Sudan e della
consapevolezza che la povertà sopravvivrà di certo per molti decenni, ritiene
che si debba prendere coscienza della necessità di un progetto nuovo che
inventi una medicina diversa, applicabile anche agli ambienti più arretrati.
Non la medicina a tecnologia sofisticata, «neocoloniale», che crea dipendenza
dai paesi ricchi, ma quella a tecnologia povera, a misura d’uomo, che in virtù
della sua semplicità di uso può essere adoperata da molti. Una medicina che sia
scambio di culture e di conoscenze diverse. Inventare una medicina che trovi
una sua dignità nel servizio alle comunità, nell’essere esercitata dalla sua
gente senza istruzione.

È chiaro che lo sviluppo di questi popoli non
passa attraverso l’imitazione di modelli occidentali, irraggiungibili, e per di
più estranei alla cultura e alla storia locali. Gli aiuti inteazionali e le
Ong non devono alimentare il narcisistico scimmiottamento dei paesi
industrializzati, che sono visti dai Pvs (Paesi in via di sviluppo, ndr)
come modelli di riferimento proprio perché depositari di beni tecnologici.

Importante è lo sforzo di dare dignità alle
persone insegnando loro un mestiere, perfezionando le competenze professionali.
Il gergo della cooperazione lo definisce «costruzione di capacità». La
ricchezza più importante che i programmi sanitari devono portare è la capacità
di curare i malati. I volontari di villaggio impiegati con sorprendente
successo nelle nostre campagne sanitarie sono esempi di quali importanti
risultati si possano raccogliere anche fra le persone con basso tasso di
scolarizzazione e nei contesti lavorativi culturalmente più miseri.

Costruzione di capacità, partecipazione comunitaria e tecnologia
appropriata sono, intrecciati fra loro, i principali strumenti per raggiungere
in futuro l’indipendenza dall’aiuto esterno, il cosiddetto «sviluppo
sostenibile».

Qualunque intervento nelle situazioni di povertà estrema è non
soltanto attuabile, ma ha una sua grandezza come atto di rispetto verso i più
poveri, cui è offerto per alleviare le loro sofferenze e come opportunità di
riscatto dalla miseria. Gli inaccettabili squilibri fra Nord e Sud del mondo
sono destinati a perpetrare, per molti decenni ancora, la tragedia dei milioni
di persone che soffrono e muoiono di fame e malattie prevenibili, fra promesse
non mantenute e aiuti insufficienti. Il nostro intervento, inoltre,
contribuisce a donare dignità alle povertà locali, umane e materiali, alle
persone e alle loro misere cose.

Nonostante il timore di penetrare, senza avee legittimazione né
titolo, nel territorio accademico della chirurgia ufficiale, la nostra ormai
lunga esperienza sul campo ha originato un’identità nuova che si potrebbe
chiamare «chirurgia povera».

La tragedia sanitaria dell’Africa ha una gravità inaccettabile. Il
continente ha un carico di malattia pari al 24% del totale mondiale, ma dispone
soltanto del 3% del personale e dell’1% delle risorse finanziarie mondiali. Si
stima che l’Africa subsahariana manchi di un milione di operatori sanitari. I
chirurghi sono molto pochi. Una soluzione, almeno a breve termine, è addestrare
«non dottori» a fornire servizi chirurgici di base a livello distrettuale.

Missionari

A Yirol (Sud Sudan, ndr) ero ospitato dalla missione
comboniana. Numerosi missionari e suore comboniani, soprattutto italiani,
continuano a spendere la vita intera in Sud Sudan per alleviare le sofferenze e
portare istruzione. I missionari di Yirol, monsignor Cesare e i padri Giuseppe
e Mario, che mi ospitavano nei miei primi viaggi in Sudan, erano capaci di un
calore umano e di una spontaneità eccezionali. La bontà e la correttezza erano
stampate sui loro volti di persone semplici. Erano, sono, tipici rappresentanti
di quell’universo di missionari che «a piedi nudi», nella discrezione,
percorrono il mondo in soccorso degli umiliati, spendendo interamente se stessi
senza enfasi e senza riconoscimenti.

«Queste persone, che si ignorano, che giustificano chi fa loro del
male, che preferiscono che abbiano ragione gli altri, stanno salvando il mondo»
recita un aforisma di Borges. In effetti, sono loro, che pure hanno scelto la
mitezza, la virtù dei perdenti, (…) che hanno salvato il mondo dalla scomparsa
della religione, dall’eclissi del sacro, che i progressi della
secolarizzazione, avvenuta nel corso del XX secolo, facevano presagire si
sarebbe estesa dall’Europa a tutto il mondo. In futuro la maggior parte dei
cristiani non sarà in Europa, ma in Africa, Asia e America Latina, proprio per
effetto dell’azione della chiesa missionaria, che non si è data soltanto il
compito di salvaguardare lingue e tradizioni, ma ha saputo incarnarsi nella
vita della gente e inserirsi nelle culture locali mediante un processo
autentico di «inculturazione».

Questo «nuovo» cristianesimo del Sud del mondo, ha ben altra
vitalità e coscienza della propria forza rispetto al cristianesimo occidentale
euro centrico a cui si sostituisce. Non potrà non influenzare di sé
l’occidente.

Se aiuto un uomo

Sono amico dell’uomo soltanto quando ne aiuto qualcuno. La
parzialità è precondizione dell’efficacia dell’azione. Concentrare l’azione in
un’area permette di non cadere in sterili slanci retorici. La solidarietà
efficace è un’azione portata là dove serve, focalizzata in alcune aree
geografiche precise e a sfere circoscritte di relazioni umane. Allora fare
volontariato in Africa significa incontrare l’altro, il nostro prossimo che
vive lontano. Non evasione, ma ricerca dell’altro per soccorrerlo.

Se riusciamo a salvare la vita di un solo bambino non è forse un
atto di valore universale?

Avere per amici, oltre alle persone vicine, altre lontane e avere
una seconda patria, una patria «del cuore», a distanza di migliaia di
chilometri (geografia «affettiva») significa dare concretezza alla solidarietà
e, nello stesso tempo, ampliare il proprio universo al di fuori di noi stessi,
oltre i confini delle frontiere e delle razze.

Amiamo il contatto diretto con le comunità e
con le persone, la solidarietà della presenza, la condivisione, anche se
limitata nel tempo, delle tribolazioni che loro vivono ogni giorno, perché
questa prossimità ci assimila e ci dà capacità di ascolto e un minimo diritto
di confronto. Ne ricaviamo il privilegio di una vita «mischiata» alla gente,
lontana da ogni potere e da ogni ricchezza, che ti mette in una rete di
fratellanze e ti permette di collaborare umilmente, senza alzare alcuna
bandiera, a un’opera di giustizia «affinché la modestia dei deboli abbia la
meglio sull’arroganza dei forti». Allora si stabilisce un legame che ha
qualcosa di sacro. Dobbiamo coltivarlo in noi, pur consci della piccolezza
della nostra azione di fronte alla grandezza della dignità del povero, per
disegnare un pezzetto della trama della sua vita.

L’Africa ci può consegnare un ideale pieno di dignità, qualcosa più
grande di noi per cui vivere. Percorrerò questa strada una sola volta: che
questa mia vita abbia un minimo di senso, anche se nascosto a molti.

Giuseppe Meo
 
Biografia


Una Storia Esemplare

Dal primo viaggio di conoscenza in Africa nel 1969,
all’ultimo, a Bunagok, Sud Sudan, giugno 2012. 
Quarantatré splendidi anni al servizio dei più poveri. Chi era Giuseppe
Meo. Nato nel 1938, laureatosi a Torino nel 1962, e poi
specializzatosi in chirurgia d’urgenza e toracica, fondò nel 1968 con un gruppo
di amici e colleghi il Comitato Collaborazione Medica (Ccm) di Torino, Ong
dedicata allo sviluppo sanitario.

Dopo il suo primo periodo di lavoro medico in un ospedale
rurale in Kenya negli anni 1970-1972 con la moglie Carla e i figli Alberto,
Antonella e Daniela, la pratica della medicina e della chirurgia in Africa
divenne il motivo profondo della sua vita.

Fece numerose missioni chirurgiche in diversi paesi, Sud
Sudan, Uganda, Mozambico, Etiopia, accanto al lavoro come chirurgo
nell’ospedale di Cuneo in Italia, da cui si dimise nel 2000 per dedicarsi
completamente all’attività nel Ccm. Grazie al prof. Meo l’Ong cominciò la sua
attività in Sud Sudan nel 1984, nella città di Wau nello Health Training
Institute, e dal 1991, a seguito di una richiesta del Splm (Sudan people
liberation mouvement), nelle zone liberate del Sud Sudan durante la guerra,
fondando e costruendo, insieme alle comunità locali e alle autorità Splm gli
ospedali rurali e i centri di salute di Yirol, Billing, Adior, Turalei,
Bunagok, ricostruendo e rimettendo in attività l’ospedale di Rumbek dopo la
distruzione della guerra e facendo numerose missioni chirurgiche in aree
remote. Il prof. Meo con il Ccm è stato accanto al popolo sudanese in tutti gli
anni di guerra. Durante una di queste missioni nel 1995 fu catturato
dall’esercito governativo del Sudan in Upper Nile e tenuto prigioniero per 55
giorni.

Nel corso degli anni il destino del prof. Meo (chiamato
Mayodit in Sud Sudan) si è fuso con il destino del popolo sud sudanese. Il
motivo dominante della sua incessante attività, in Sud Sudan e in Italia, è
stato «portare le cure chirurgiche a quelli che ne hanno più bisogno, i poveri
e le comunità rurali, anche nelle condizioni più difficili».

I tre principi operativi a cui si è ispirato il suo lavoro
sono stati costantemente: la partecipazione della gente, della comunità locale;
la formazione e la crescita del personale locale; la tecnologia appropriata,
perché le risorse sono poche e bisogna sfruttarle nel modo più efficace ed
economico. Con questi principi il prof. Meo ha dato un grande contributo a
estendere la chirurgia di base in aree molto remote, fino ad allora mai
servite.

Ha anche dato dignità scientifica a questo lavoro,
presentandolo in convegni e riviste mediche inteazionali, rendendolo noto
alla comunità chirurgica internazionale. Era orgoglioso, negli ultimi mesi, di
aver contribuito al Southe Sudan Medical Joual, e la morte l’ha colto
mentre aveva progetti di estendere questa preziosa collaborazione.

Il popolo sudanese, insieme al Ccm, perde un grande amico e
compagno di viaggio. Il prof. Meo ci lascia con la sua vita e la sua attività
un forte messaggio: si può lavorare con buoni risultati anche nelle condizioni
più difficili, se si rispetta la dignità di ogni uomo.

Francesco Torta
 
Il libro
 
«Africa Malata. Memorie di chirurgia povera in Sudan».


L’Harmattan Italia, 2010, pagg. 296, € 35.
 
Il libro può essere acquistato presso il Ccm, per info: tel. 011.6602793 www.ccm-italia.org.

Da questa pubblicazione sono stati tratti i brani usati in
questo articolo.

Giuseppe Meo




Cari Missionari – Aprile 2013

Lettere di p. Giano Benedetti dalla Costa d’Avorio, dove è ritornato da pochi mesi, e di Ivo Lazzaroni dalla RD del Congo, laico missionario della Consolata a Isiro presso il Centro Gajen.

Cari Lettori e Amici,

il mese scorso ho dovuto rubare una pagina in più per far
stare tutte le lettere, comprese le mie risposte, magari troppo lunghe.
Naturalmente, mentre scrivo queste righe verso fine febbraio, non ho ancora i
vostri commenti su quanto pubblicato. Così, visto che non ci sono vostre
lettere, mi permetto di dare spazio alla voce di due missionari. P. Giano
Benedetti, sessantenne quest’anno, che è ritornato in Costa d’Avorio dopo
lunghi anni dedicati prima a servizio dell’istituto come consigliere generale e
poi come direttore della casa per i missionari anziani e malati ad Alpignano.
Ricomincia a sessanta, altro che aspettare la pensione.

La seconda lettera è di un missionario laico in Congo RD,
Ivo Lazzaroni, bergamasco. Il suo scritto mi è arrivato a metà ottobre, troppo
tardi per quel mese e troppo lungo per i mesi a seguire. Ma è una testimonianza
viva, troppo bella per essere dimenticata. Ve la propongo nella sua freschezza.

Il Direttore
PREVIDENZA E PROVVIDENZA

Carissimi,
provo a scuotermi di dosso un po’ di pigrizia per comunicare qualcosa della
nostra vita da Grand Zattry. In Costa d’Avorio sono stato accolto come se fossi
un «vecchio lupo» di questa missione. A dire il vero, qui ho lavorato poco e
conosco pochissimo la realtà. Raccontandovi una piccola iniziativa dei mesi
scorsi, non so se, conoscendo poco, renderò l’idea a chi mi legge lontano da
qui.

Partendo dall’Italia, a fine settembre 2012, mi avevano
promesso in dono i regali di nozze di una coppia di «sposini» a me carissimi.
Cosa fare di quei soldi? Di comune intesa si era deciso di destinarli ai
ragazzi in difficoltà finanziarie che iniziavano il nuovo anno scolastico a
Grand Zattry, grosso villaggio della zona di Soubré, luogo della mia
destinazione.

Appena arrivato sul posto, ho informato del gesto di
solidarietà le comunità ecclesiali di base di Grand Zattry. Dopo avee parlato
al loro interno, hanno segnalato alcuni casi da aiutare perché conosciuti nei
loro rispettivi quartieri: ragazzi in età scolare, figli di cristiani e di
musulmani (qui la maggioranza della popolazione è musulmana). Sono molti gli
alunni che una volta iniziate le lezioni ne rimangono fuori dopo i primi
giorni. Basta molto poco: «I tuoi non hanno ancora pagato l’iscrizione», «non
hai la divisa richiesta», «non hai i libri di testo», «ti manca il kit per la
geometria, ti manca…». E, così, un buon gruppo di scolari viene allontanato
dalla scuola. Da queste parti l’economia familiare sovente è da sopravvivenza e
non arriva a coprire nemmeno le spese – irrisorie diremmo noi – della scuola.
E… per quest’anno «andrai a lavorare nei campi».

In breve, con 1200 euro, trentadue ragazzi delle elementari
e quattro del liceo hanno potuto riprendere i loro studi. Tra di essi anche tre
piccoli di un villaggio lontano dal centro di Grand Zattry i cui genitori da
anni non inviavano i figli alla scuola «di campagna» più vicina, perché, a
causa dell’isolamento, esige un supplemento di spesa.

Mi sembra che i ringraziamenti ricevuti da genitori e
scolari siano stati sinceri e a volte anche calorosi… per così poco. Nel caso
di quel villaggio isolato, il «grazie» forse ha cominciato a ridurre anche le
distanze che lo caratterizzano e a rendere possibile una comunicazione aperta
ad altre cornoperazioni. Vedremo.

Vi confesso che sono preso da tanti altri pensieri e
programmi perché mi sono ritrovato parroco di Grand Zattry ancor prima di
arrivarci… e non so se proporremo anche da qui le adozioni a distanza o altri
progetti, ma spero che nei mesi che verranno, in vista del prossimo anno
scolastico, si possa mettere da parte qualcosa di gratuito e di imprevisto,
secondo i formulari e i protocolli della Provvidenza… che non ne ha. Previdenza
e provvidenza le possiamo trovare ben integrate nell’azione divina, ma
difficili da coniugare, almeno per me. In situazioni di grave precarietà
economica, nell’attesa di soluzioni pianificate, lungimiranti o definitive, la
più spicciola e inattesa solidarietà ridà fiato e non emargina. Ho ancora nel
cuore tante situazioni familiari conosciute in Italia e persino nelle nostre
comunità: un po’ di «Fiato e di Vicinanza» non solo non fanno male ma possono
abbassare, purificare ambizioni e pretese, e innalzare, mettere meglio a fuoco
la passione verso gli altri. Che è quella di Dio. E grazie a chi ha donato!

P.
Giano Benedetti,
Grand Zattry,
Costa d’Avorio, 29/01/2013

IL MITO DEL MISSIONARIO

Autunno di circa quaranta anni fa, Cusio, Alta Val Brembana
nel bergamasco, prime giornate d’ottobre, anche primi giorni di scuola
elementare; paesaggio stupendo, boschi dipinti di mille colori, come nessun
pittore può realizzare, a specchio di un cielo azzurro e di cime montagnose
ancora per me, bambino, irraggiungibili, come era irraggiungibile e sconosciuto
il disegno che Dio aveva su di me, e su ognuno di noi.

Ecco entrare in aula la maestra, a spiegarci che il mese di
ottobre è anche il mese missionario, e un missionario verrà a visitarci. Un po’
stupiti, ci chiediamo, ma chi è il missionario? Parola ancora ignota al nostro
vocabolario dei primi anni di scuola elementare. A distanza di anni, l’unica
cosa che ricordo è un volto scottato dal sole con una barba bianca. Alcuni anni
dopo, essendo un po’ più grande, ecco di nuovo la visita di un missionario tra
noi. Stesso volto segnato dal sole e dalla vita, stessa barba, che ci incute un
certo rispetto per un uomo venuto da un mondo a noi sconosciuto e lontanissimo,
che con la sua fede salda e grande come certi baobab che si vedono in Africa, i
sui racconti dal sapore pionieristico e avventuroso, le fotografie in bianco e
nero che danno una sensazione magica, ci fanno sentire il calore e il desiderio
di partire per quei luoghi misteriosi e affascinanti.

E allora al domanda di alcuni anni prima, «ma chi è sto
missionario», per noi ragazzi delle medie trova una risposta: il missionario è
un mito. I vari miti dello sport, non hanno ancora fatto presa
nella nostra vita, ed il missionario resta l’unica persona fuori dal cerchio
famigliare, a cui ci si può avvicinare senza remore, sempre pronto
all’incontro, all’ascolto.

Da quei primissimi incontri con i missionari, di anni ne son
passati, di esperienze e di tratti di strada ne ho fatti, e siccome son
convinto che le situazioni non capitano per caso, eccomi ora in cammino su
questa strada missionaria, cercando di compiere il disegno che Dio aveva
concepito sulla mia culla.

Sono Lazzaroni Ivo, missionario laico della Consolata, da
cinque anni mi trovo a Isiro, nel Nord-Est della Repubblica Democratica del
Congo. Ogni giorno che passa capisco sempre più l’immenso dono che Dio mi ha
fatto di testimoniare il suo Amore in mezzo a questo popolo e soprattutto in
una congregazione missionaria con Maria Consolata come protettrice.

Collaboro con frère Domenico Bugatti (bresciano di
Lumezzane – nella foto grande) nella gestione del nostro centro
nutrizionale, Notre Dame del la Consolata (Gajen), con tutte le molteplici
attività caritative correlate.

Ci sono giornie e difficoltà che la vita e la missione ci
riserva, e così, la fervida immaginazione che avevo da ragazzino, ha lasciato
posto alla pura e dura realtà africana, con le sue magie, le sue paure, le
danze e sensazioni di vita danzata, che solo la missione vissuta con passione
può dare.

Africa culla dell’umanità, ma vittima di tante
contraddizioni. Terra dai mille sapori, dalle culture ricche di valori. Ma
spesso per rispettare la loro stessa cultura, nelle difficoltà della loro vita,
tengono le persone in forme di schiavitù, situazioni che per noi, non hanno
senso e logica. Molti sono gli aspetti di una cultura diversa dalla nostra, che
non riesco a comprendere, ad accettare. La stessa società è ancora in cerca di
se stessa, fa fatica aprirsi. Quante altre domande mi girano in testa. Allora
il mito del missionario barbuto di una trentina d’anni fa lascia il posto al
missionario adulto d’oggi, con i suoi perché, forse non tanto diversi dai tanti
perché dei missionari di ogni tempo.

Molte volte viene da chiedersi se servirà a qualche cosa la
nostra presenza , (sicuramente serve più a noi per farci crescere come uomini e
soprattutto come cristiani), dove il «bianco» non è sempre ben accetto se non
per i soldi che pensano possa avere, dove a volte sembra che diamo fastidio. Ho
l’impressione che apparentemente nulla cambi: ingiustizie all’ordine del
giorno, poveri sempre più poveri.

E così con questi perché in testa, mi ritrovo ogni mattino
sulle strade impantanate che portano al nostro centro nutrizionale Gajen.
Strade infangate che ci conducono alla prigione centrale d’Isiro, e rivoli di
fango che ci portano a visitare gli ammalati e a celebrare la messa il sabato o
la domenica nei vari ospedali, a incontrare gente nei vari quartieri.

Per Gesù la strada è sempre stata un luogo d’incontro, e
proprio qui incontriamo tanta gente, storie diverse, strade che si incrociano e
ci riconducono sempre al nostro centro nutrizionale. Qui ci aspettano bimbi
sempre pronti all’incontro col sorriso stampato sul volto, liberi da quei
pregiudizi, da quelle maschere che molte volte gli adulti si mettono, poveri
tra i più poveri, in cerca di un aiuto, di un conforto.

Vediamo molti bambini alla scuola matea, sono giorniosi e
pimpanti, ma vediamo anche i ragazzi di strada, i cosidetti enfant sorcier (bambini
stregoni). La loro infanzia è stata distrutta dalla follia legata alla
superstizione, vengono accusati dai loro familiari di esercitare poteri
occulti. Sono costretti a subire umiliazioni e violenze indicibili e buttati
fuori casa. Hanno dai due ai dodici anni.

Ci sono i disabili fisici e mentali, gli orfani dell’Aids e
soprattutto i bimbi malnutriti: sono un centinaio al giorno. è una pena vederli, sguardi spenti,
senza sorriso, esseri fragili, stretti da braccia ancora più fragili e
tremolanti, mamme malnutrite o giovani mamme vittime dell’Aids. E purtroppo, in
questo momento stiamo vivendo anche una situazione abbastanza critica e
drammatica, il virus dell’ebola è ricomparso, non si sa ancora come, il centro
colpito è proprio la cittadina d’Isiro, ma sicuramente fa paura, non esistono
farmaci o vaccini, e per l’80% è letale.

Ci son già state diverse morti, molti son in isolamento
all’ospedale generale d’Isiro (solo a gennaio 2013 le autorità sanitarie hanno
comunicato che l’emergenza ebola è finita, ndr).

La missione si capisce vivendola con amore. è sicuramente in questa vita vissuta
tra tutte queste miserie, che il mito del missionario si infrange e sorge
l’uomo missionario, con tutte le sue fragilità, le sue limitatezze e
l’impotenza di fronte alle necessità dell’uomo, ed è qui che entra in gioco la
nostra fede, la fede semplice dei forti, dove l’unico «Mito Eteo» da seguire
è Gesù Cristo.

Ed è lì, stringendo queste mani, intrecciando i loro
sguardi, vedendo i loro sorrisi, che le nostre mani si sostituiscono a quelle
della Vergine Consolata che tiene in braccio Gesù bambino.

Ed allora sì, capisco che la nostra è una presenza di
consolazione. Cercando di portar consolazione agli altri, si dimenticano anche
gravi problemi che ci circondano, donando con tutte le nostre fragilità e i
nostri limiti quell’amore che a loro è stato negato o che semplicemente non
hanno mai avuto. Cerchiamo di dare quella dignità negata, quella speranza che è
la tenera ala sostenitrice della nostra fede.

Ivo Lazzaroni,
Lmc,
da Isiro, RD Congo,
ottobre 2012

a cura del Direttore




4_M: Una Storia di Provvidenza

Da 10 anni i missionari
della Consolata in Mongolia
Arrivati senza progetti
prefabbricati, hanno cercato la loro via attraverso il confronto, dialogo e
discernimento: oggi i missionari e le missionarie della Consolata in Mongolia
sono 11, distribuiti in due comunità, nella capitale e nella cittadina di Arvaiheer.

Nudee adesso ha 10
anni. Il suo è un soprannome e si riferisce agli occhietti vispi che spiccano
sul suo volto minuto. Lo abbiamo conosciuto quando lottava per sopravvivere,
tra gli stenti di una famiglia troppo provata; oggi è un ragazzino vivace e
sano che ha ripreso a vivere e sperare. Guardandolo, ci viene da pensare che la
nostra presenza in Mongolia ha la sua stessa età. Compiamo anche noi 10 anni di
Mongolia: quella che ci sembra una giornata ininterrotta, neanche poi così
lunga, negli occhi di Nudee è già una vita. Breve, ma intensa, ricca di
incontri, esperienze e strade percorse.

I primi inizi

Prima di partire da Roma, di mons. Padilla sapevamo solo
che era il Prefetto Apostolico di 
Ulaanbaatar che aveva benevolmente accolto la delegazione dei missionari
e missionarie della Consolata nel 2002, di ritorno dalla Cambogia, la quale
inizialmente sembrava dovesse essere il nostro nuovo campo di apostolato. E qui
già una sorpresa, la prima di tante che la Provvidenza ha seminato nella nostra
storia: invece che in Cambogia, i nostri due Istituti scelsero la Mongolia, la
cui situazione richiedeva forze missionarie che si dedicassero
all’evangelizzazione, al dialogo interreligioso e alla consolazione dei poveri;
queste le uniche grandi linee-direttrici consegnate al primo gruppo di
partenti: i padri Juan Carlos Greco e Giorgio Marengo, le suore Lucia
Bortolomasi, Maria Ines Patino e Giovanna Maria Villa. Sì, un gruppo misto, per
espressa volontà dei due Istituti, che intendevano riprendere quella comunione
di vita e missione che li aveva visti nascere dal beato Allamano. Il gruppetto
si trovò per un mese di convivenza tra Nepi (Viterbo) e Roma, nella primavera
del 2003. E già in quei primi passi di conoscenza reciproca e formazione
sperimentò il passaggio della croce per la malattia improvvisa di padre Paolo
Fedrigoni, anch’egli destinato alla Mongolia, ma sostituito da padre Eesto
Viscardi, che raggiunse il gruppo a inizio 2004. Anche suor Sandra Garay, pur
avendo partecipato al cammino di preparazione, si unì al gruppo qualche mese più
tardi.

Il mandato delle due Direzioni Generali era essenziale:
iniziare questa nuova presenza puntando sulla comunione tra di noi e senza
troppi traguardi da raggiungere, perché quelli li avremmo scoperti insieme, sul
posto. E così partimmo: era il luglio 2003. I nostri confratelli della Corea
furono i primi a accoglierci in terra asiatica, mentre sbrigavamo le formalità
per ottenere il visto dall’ambasciata mongola di Seoul. Durante quei giorni
ricevemmo una chiamata di mons. Padilla: «Abbiamo trovato per voi due alloggi
in affitto nello stesso condominio; vi aspettiamo all’aeroporto». Pochi giorni
dopo volammo verso  Ulaanbaatar: sentendo
gli annunci in mongolo delle assistenti di volo ci chiedevamo quando mai
avremmo imparato a esprimerci in una lingua così difficile…

Fu proprio la lingua la priorità alla quale dedicammo i
primi tre anni di presenza nella capitale: tornammo sui banchi di scuola per
cercare di assimilare suoni impronunciabili e capie la grammatica, oltre che
per introdurci al mondo culturale di questo poco conosciuto paese dell’Asia
Centrale.

Vivevamo in due alloggi nello stesso condominio, nella
zona est di  Ulaanbaatar. Fu spontaneo
impostare i ritmi quotidiani su alcuni appuntamenti fissi condivisi: preghiera,
pasti preparati a tuo, incontri di formazione e valutazione. Nascevano
momenti di condivisione spontanea, vitali per persone che, provenienti da paesi
diversi e con alle spalle esperienze di missione piuttosto eterogenee, dovevano
imparare a orientarsi in un mondo del tutto nuovo e piuttosto insolito. Allora
forse non lo sapevamo, ma si stava definendo uno stile che avrebbe poi
caratterizzato questa missione: la frateità vera, declinata al maschile e al
femminile, e che supera la semplice «collaborazione», per diventare spirito di
famiglia, responsabilità condivisa nelle scelte, esperienza di crescita umana e
spirituale.

Qualcuno tra i missionari di altre congregazioni già sul
campo si stupì che non fossimo arrivati con un progetto già ben definito,
magari una scuola o un centro di salute: «E poi cosa farete? Di che cosa vi
occuperete?» era la domanda più ricorrente. Ma fu proprio questa libertà da
schemi predefiniti che ci permise di metterci in atteggiamento di attenzione e
discernimento di quale fosse la volontà di Dio per noi.

Alcune scelte importanti

Nel frattempo mons. Padilla era stato ordinato vescovo e
la piccola chiesa locale provava a darsi una prima organizzazione ufficiale.
Negli anni a seguire avremmo poi offerto un contributo determinante in questo
processo, al punto che uno di noi, padre Eesto Viscardi, è oggi Prefetto
delegato, ossia vicario generale del vescovo. Ciò che diventava gradualmente più
chiaro era la necessità di spingerci al di fuori della capitale, fino ad allora
unico vero campo di apostolato della Chiesa. In questo enorme Paese, grande 5
volte l’Italia, la Chiesa non aveva alcuna presenza stabile in zone rurali o
nei centri delle 21 regioni amministrative, eccetto un asilo infantile nella
città settentrionale di Erdenet.

Anche in questo caso non ricevemmo «ricette già pronte»;
il vescovo ci invitò a guardarci attorno, a esplorare il khudoo,
l’immensa campagna mongola. Durante le vacanze dalla scuola di lingua, in
inverno e in estate, organizzammo viaggi con fuori strada presi a noleggio e
visitammo almeno 10 regioni, quelle che ritenemmo più realistico prendere in
considerazione, situate in un raggio di 400-600 chilometri dal centro. A ogni
viaggio seguiva un incontro di valutazione, finché nel 2006 giungemmo alla
scelta di Uvurkhangai, nel suo capoluogo di Arvaiheer.

Con la presenza ad Arvaiheer si avviò una nuova fase:
l’inserimento diretto nel vissuto di una comunità. Non avevamo precedenti. Si
dovettero ottenere i permessi da parte dell’autorità locale. In Mongolia
infatti, benché la costituzione riconosca la libertà di culto, l’esercizio di
attività religiose è strettamente regolamentato da una serie di restrizioni.
Eravamo gli unici stranieri stabilmente residenti nella cittadina. Bisognava
tessere reti di relazioni amichevoli con persone di vari ambienti e
provenienze.

Tale situazione ci fece capire concretamente che
l’annuncio evangelico deve necessariamente prendere carne nella persona degli
annunciatori, accettando la gradualità e i condizionamenti di qualsiasi
relazione autenticamente umana; dovevamo renderci conto di essere «pellegrini e
ospiti» e quindi dipendenti anche noi dall’accettazione degli altri.

Nacquero piccole iniziative di avvicinamento alla vita
del paese: collaborazioni in progetti di sviluppo lanciati dagli enti locali,
insegnamento dell’inglese, volontariato in un asilo. E intanto ci chiedevamo
che forma potesse eventualmente prendere la nostra presenza, qualora ci
avessero dato il permesso. Il governo regionale si pronunciò a favore, dandoci
come una chance per verificare se davvero valeva la pena lasciarci
operare nella loro giurisdizione. Un pezzo dopo l’altro si veniva componendo un
mosaico, che capimmo solo dopo: ci diedero in uso un terreno a ridosso della
strada statale, all’ingresso del paese; pochi mesi dopo cambiarono idea e
finimmo dove sorge ora la missione: una zona periferica e piuttosto isolata, ma
che si sta progressivamente popolando. Poi la grande gher della cappella
e quella del doposcuola (2007), il centro missionario in muratura (2008), il
locale per le docce pubbliche (2010) e infine gli spazi per gli incontri e
l’ospitalità (2012).

Il frutto più bello di questo cammino è la nascita della
piccola comunità cristiana, fatta di persone che dalla curiosità sono passate alla
ricerca e infine al catecumenato e al battesimo. Il 17 giugno il vescovo l’ha
elevata a parrocchia, dedicandola a «Maria, Madre di Misericordia». E così
abbiamo scoperto quanto sia attraente il Vangelo e come lo Spirito di Dio parli
nell’intimo dei cuori, per condurre alla pienezza di vita nella fede. Storie a
volte incredibili di persone che si sentono attratte dal Signore, sperimentano
una pace «diversa» quando vengono a pregare nella grande tenda-cappella,
scoprono la riconciliazione reciproca e con Dio e riescono a uscire dalla
schiavitù dell’alcornol: solo Dio può tessere così la trama delle nostre vite e
noi siamo qui a riconoscere il suo passaggio e renderlo manifesto.

Dal centro alla periferia

Contemporaneamente agli sviluppi di Arvaiheer, la comunità
di Ulaanbaatar accoglieva le missionarie e i missionari in arrivo e li
accompagnava nel primo inserimento. Ma già fin dai primi anni ci misurammo con
la formazione di una piccola comunità cristiana nascente, in un quartiere
periferico della capitale, vicino all’aeroporto. Anche qui si creò un gruppo,
che faceva capo alla parrocchia più vicina, nel territorio in cui viviamo;
diverse di quelle persone divennero poi punti di riferimento perché altre
incontrassero il Vangelo: due ragazze sono oggi in formazione nelle Filippine,
per diventare catechiste qualificate a servizio della Prefettura Apostolica.

Oltre allo studio della lingua e cultura, abbiamo sempre
cercato di offrire un contributo qualificato alle attività della Chiesa locale:
catechesi, incontri formativi, assistenza ai poveri, collaborazioni con gli
uffici della Prefettura. Nel tempo ci sembò che il nostro servizio in città
potesse anche prendere la forma di un apostolato diretto, in una zona dove non
ci fossero ancora presenze cattoliche.

Anche questa volta portammo avanti una riflessione
comunitaria, per pianificare la nuova apertura in contesto cittadino. Facemmo
un’accurata ricerca sul campo, che ci portò a individuare nella periferia nord
della città l’area di un futuro inserimento. Solo recentemente abbiamo concluso
una lunga trattativa per l’acquisizione di un terreno in quella zona, piuttosto
degradata, dove speriamo di avviare presto la nostra presenza; la
frequentazione della gente del luogo e il vivere lì ci daranno elementi validi
per disceere come realizzare il centro di «spiritualità ed evangelizzazione»
che ci sembra di poter offrire alla Chiesa in Mongolia. Quando le forze
missionarie lo consentiranno, esso potrà offrire occasioni di primo annuncio e
attenzione ai poveri; nelle nostre intenzioni rappresenterà anche la possibilità
di ritirarsi dal caos del centro cittadino per ritrovare se stessi nella
preghiera e condivisione.

La tenda della Consolata

Dieci anni di presenza in un paese dalla storia
millenaria sono come una goccia d’acqua. Intanto però la Consolata ha potuto
piantare la sua tenda nella terra di Gengis Khan. È questo un paese dove
l’inserimento può essere pesantemente condizionato dal clima molto freddo,
dalla peculiarità e complessità dei riferimenti culturali (p. es. la lingua) e
dal carattere rarefatto delle relazioni, vista la bassissima densità di
popolazione. Il senso di isolamento che si avverte può essere molto forte.
Eppure ci sentiamo enormemente arricchiti da tutto questo.

L’immagine biblica che forse più ci accompagna è quella
del piccolo seme gettato nel campo; essa esprime bene quello che sperimentiamo
di fronte alla sproporzione tra le esigenze della missione e la nostra povertà.
Ma abbiamo toccato con mano quanto tale povertà possa diventare feconda, se
messa nelle mani di Colui che guida la storia e le nostre vite. E allora
continuiamo il cammino, da fratelli e sorelle, sperando di incrociare un giorno
lo sguardo adulto del nostro Nudee.

P. Giorgio
Marengo

Giorgio Marengo




3_M: Torna a rifiorir la steppa

Storia e sfide della
chiesa più giovane del mondo
Con un messaggio
pastorale il prefetto apostolico di Ulaanbaatar, monsignor Wenceslao Padilla, traccia la storia dei primi 20
anni della missione cattolica in Mongolia. Una storia che parte da tre
missionari e arriva a centinaia di fedeli e un buon numero di missionari e
missionarie, diverse strutture e nuove conversioni ogni anno. Oggi, però, con
lo sviluppo economico e l’avvento della democrazia le sfide si moltiplicano.

Il 10 luglio del 1992
una Chiesa è nata nelle steppe dell’Asia Centrale. Ciò avvenne quando tre
missionari della Congregazione del Cuore Immacolato di Maria (Cicm) misero il
piede sul suolo mongolo. Sembrava quasi un’avventura per i tre religiosi
stabilire una missione là dove la Chiesa non aveva alcuna struttura fisica né
membri da considerare propri. Sin dall’inizio, l’idea di far nascere una Chiesa
dal nulla sembrava un’impresa paurosa, piena di sfide, ma anche eccitante.

Siamo arrivati quando la Repubblica di Mongolia si era
appena liberata dal dominio della Russia Sovietica e la nazione stava tentando
i primi passi per reggersi in piedi da sola. Il governo appena costituito
cercava di rispondere ai vari problemi e necessità della gente e del paese.
C’era una situazione in un certo senso caotica nei luoghi pubblici, come lo «sciopero
della fame» messo in atto davanti al palazzo presidenziale e parlamento, per
chiedere le dimissioni dell’allora primo ministro. A guidare la dimostrazione
c’era anche un coraggioso e impegnato attivista sostenitore della democrazia:
Tsakhiagiin Elbegdorj, attuale presidente del Paese.

I primi contatti

Stando in un appartamento in affitto, abbiamo lentamente
trovato la nostra strada per entrare nel cuore dei mongoli, cercando di vivere
come loro, sperimentando le stesse privazioni e difficoltà di vita di quel
tempo. C’era scarsità di cibo e mancanza di comodità. La Mongolia era un «paese
di stenti», come dicevano molti stranieri incontrati durante i primi giorni
della nostra integrazione. Ben presto, però, dopo aver conosciuto meglio la
gente e il loro stile di vita, e dopo aver imparato un po’ la loro lingua, ci
siamo sentiti più fiduciosi nell’allacciare contatti con i locali.

«Venite e vedete» era la nostra parola d’ordine per far
sentire benvenute e a proprio agio le persone che incontravamo e si avvicinavano
a noi. Alla curiosità di chi si domandava chi eravamo, cosa facevamo, perché
eravamo in Mongolia… rispondemmo piano piano, quando cominciammo a invitare e
radunare la gente per le celebrazioni liturgiche, a organizzare classi di
catechismo e a svolgere attività sociali.

I primi anni sono stati tempi di sopravvivenza,
adattamento e aggiustamento alle realtà fisiche del paese e del suo popolo. Per
quel trio, sono stati anni di vero discernimento, inculturazione e prima
evangelizzazione… i primi contatti della Chiesa istituzionale con i fedeli di
altre credenze e convinzioni religiose.

Non eravamo tanto preoccupati delle difficoltà e delle
sfide che ci circondavano, come invei molto rigidi, barriere linguistiche,
mancanza di comodità, fortissima adesione della popolazione a buddismo,
sciamanesimo e islam, presenza di altre denominazioni e sette cristiane,
assenza di fedeli cattolici locali e di qualsiasi edificio sacro. Personalmente
presi tutto questo come aspetti positivi della vita missionaria. Tali condizioni
ci offrivano una sfida e un’opportunità. Eravamo fortemente convinti che quel
Dio che ci chiamava e ci mandava in Mongolia fosse presente già da tempo nelle
vite ordinarie dei fratelli e sorelle mongoli, anche prima del nostro arrivo.
Tale pensiero era uno sprone per crescere nell’apprezzamento e nella
comprensione delle realtà concrete  del
paese e della gente.

La Chiesa in Mongolia oggi

Guardando indietro a questi primi 20 anni di presenza
della Chiesa cattolica in Mongolia, siamo lieti di ripetere come il salmista: «Grandi
cose ha fatto il Signore per noi: eravamo pieni di gioia» (126, 3).

Dai 3 pionieri, siamo passati a 81 missionari di 22
differenti nazionalità e di 13 istituti e gruppi religiosi diversi; da una
popolazione cattolica pari a zero, oggi sono circa 835 i mongoli entrati nella
Chiesa cattolica attraverso l’iniziazione cristiana; molti di più sono quelli
già introdotti nella fede cattolica e che sono accompagnati dai missionari con
differenti programmi di catechesi.

Con il rilevante aumento del personale (missionari e
collaboratori locali) continuano a crescere ed evolversi attività pastorali,
sociali, educative, umanitarie caritative e di sviluppo: tutti progetti diretti
al miglioramento della situazione della povera gente.

Ora la missione può vantarsi di avere 5 parrocchie e
altrettante postazioni missionarie con estesi servizi sociali; 2 centri per i
bambini di strada; una casa per anziani; 2 asili Montessori; 2 scuole
elementari; un centro per bambini disabili; una scuola tecnica; 3 biblioteche
con sale di studio e strutture informatiche; un ostello per giovani
universitarie, anch’esso dotato di sala studio e servizi informatici; vari
centri per attività giovanili; 2 cornoperative agricole; un ambulatorio con
laboratorio; un Centro di ricerca Mostaert; programmi di lingue… La Caritas
Mongolia
porta avanti programmi di escavazione e riparazione di pozzi
profondi, costruzione di case per indigenti, agricoltura sostenibile, sicurezza
alimentare, servizi e assistenza nelle zone rurali, lotta al traffico di esseri
umani. Inoltre abbiamo un centro per ritiri spirituali, centri con programmi
per alleviare la povertà, offriamo borse di studio a studenti poveri e
meritevoli di città e di campagna.

La celebrazione dei 20 anni di vita della Chiesa
cattolica in Mongolia è stata segnata da altri eventi, come l’inaugurazione
della scuola elementare della Prefettura e l’erezione della quinta parrocchia
intitolata a «Maria Madre della misericordia» (quella di Arvaiheer, vedi
pag. 47-49, ndr
). Inoltre, siamo anche felici che due giovani mongoli sono
oggi in un seminario della Corea del Sud, presso l’Università cattolica di
Daejeon, per prepararsi al sacerdozio.

Con tutto ciò, ora siamo in grado di guardare al futuro
con più fiducia e speranza. Con pazienza e determinazione siamo decisi a
raggiungere altra gente, non solo quelli che si sono già uniti a noi nella
fede, ma anche quelli di cui ci prendiamo cura anche se non sono ancora
battezzati. Tuttavia una frustrazione si sta insinuando in questa Chiesa
adolescente: circa il 23% dei battezzati non frequenta più i riti liturgici;
alcuni hanno già abbandonato la fede; un altro 15% è fuori alla ricerca di
pascoli più verdi, sperando che, dovunque si trovino, continuino a praticare
qualche forma di vita cristiana.

Guardando al futuro e alle sue sfide

Sono passati 20 anni. È difficile ora risalire a punto
in cui abbiamo cominciato. Con le trasformazioni del paese causate dall’avvento
della democrazia e dell’economia di mercato, la Mongolia si affaccia a un
futuro sconosciuto per molte generazioni di mongoli. Al momento il paese si
trova alla ribalta e attrae l’avidità di molti investitori stranieri, data la
sua ricchezza di risorse naturali. L’industria mineraria è esplosa negli ultimi
anni e sta attirando un movimento immigratorio dalle città alle zone rurali. C’è
anche un influsso di esperti e tecnici stranieri che stanno facendo le
infrastrutture e le prime operazioni di scavo.

Con lo sviluppo portato da questo fenomeno, il tenore di
vita della popolazione sta raggiungendo livelli 
elevati; ma il costo della vita e dei beni di prima necessità continua a
crescere. Per affrontare questa situazione la popolazione viene sostenuta con
sussidi da parte del governo, il quale sta già ricevendo somme considerevoli grazie
agli investimenti previsti dalle compagnie estrattive. Si può dire che le
autorità politiche stanno già usando gli «utili non ancora realizzati» dalle
attività minerarie per condividerli con la popolazione. Di conseguenza, la
maggior parte dei dividendi governativi ricavati dai profitti minerari molto
probabilmente toerà nelle tasche degli investitori una volta che le
operazioni saranno in pieno sviluppo e inizieranno a rendere.

Tale situazione pone alla Chiesa sfide tremende. Quello
che sta succedendo potrà essere di aiuto al popolo, ma di sicuro non aiuterà la
comunità cattolica che dipende dagli aiuti e sostegno dall’estero: non abbiamo
alcuna fonte di guadagno locale, dato che siamo qui come «organizzazione non
profit
». L’aumento dei salari del 53% avvenuto nel 2012 ha aggravato fortemente
le difficoltà finanziarie della Chiesa. È molto probabile che i missionari
dovranno tirare la cinghia, ridurre un buon numero di personale o chiudere
alcuni dei loro progetti.

A tutto ciò si aggiunge una considerevole diminuzione
delle donazioni dall’estero per portare avanti i nostri progetti. Le agenzie di
raccolta fondi, colpite dalla recessione economica globale, non sono riuscite a
raggiungere i traguardi degli anni scorsi. Anche i benefattori, che sentono e
leggono la propaganda sulla crescita del benessere della Mongolia danno di
meno. Con questa nuova situazione, la Chiesa deve superare ostacoli sempre più
grandi per sopravvivere.

Un’altra sfida che la Chiesa deve affrontare è la
rinascita dello sciamanesimo, la religione culturalmente radicata nella
popolazione, che propone l’adorazione della natura, cioè il tengerismo
(adorazione dei cieli blu). La gente sta tornando ai suoi costumi culturali
ancestrali e credenze tradizionali.

Infine, data la crescente richiesta di lavoratori nelle
imprese minerarie, suppongo che bisognerà cambiare le strategie di missione
della Chiesa, per aiutare quelle persone che saranno coinvolte nel processo
migratorio dalle città alle campagne.

Cosa può offrire oggi la Chiesa alla Mongolia?

Per essere rilevante, la Chiesa deve guardare più
attentamente al futuro, adattandosi alla società in celere mutamento, sotto la
spinta della democrazia, dell’economia di mercato, del materialismo e del
consumismo. Da una comunità nomade di pastori a una società di residenti urbani
e nei siti minerari, con l’aumento della forma di vita sedentaria, bisogna
adottare un nuovo tipo di apostolato e di servizio, per compiere la missione di
evangelizzazione e diffusione del Vangelo. 
Per essere percepita come necessaria, la Chiesa deve concentrarsi
nell’aiutare la gente a preservare o acquisire i valori della convivenza
civile. Questo, credo, si raggiunge infondendo i valori umani e cristiani e i
relativi comportamenti.

Stiamo attraversando una soglia, laddove la Chiesa ha
concentrato i suoi sforzi in campo sociale, umanitario e di sviluppo. Questi
ambiti di coinvolgimento rimangono attuali, dato che molte persone, sia nelle
zone rurali che tra i nuovi migranti nelle città, incontrano ancora difficoltà
nella vita economica e collettiva, a causa della mancanza di etica sociale e
dell’aumento dei prezzi dei beni essenziali. Ad ogni modo, è arrivato il
momento di rafforzare il ruolo educativo e pastorale della Chiesa. Penso che
l’istruzione, in tutte le sue varie ramificazioni, debba essere prioritaria.
Credo che qualunque sia la direzione che la Mongolia e il suo popolo vogliano
prendere, deve avvenire un cambiamento di mentalità da nomade-rurale a
cittadino sedentario. Questo può avvenire solamente con il giusto approccio e
le giuste conoscenze. La Chiesa può aiutare in questo, rafforzando il proprio
impegno nel campo dell’educazione.

Intanto la Chiesa deve mantenere con sollecitudine la
propria reputazione di comunità di accoglienza e di protettrice dei poveri,
dando sostegno morale ai bisognosi. La vita di testimonianza dei suoi fedeli,
per essere credibile e degna di fiducia, deve mostrare coerenza tra
predicazione e stile di vita cristiano… testimoniare il Vangelo e i suoi valori
con parole e fatti.

Conclusioni

Credo che questa Chiesa fiorisca con lo Spirito di Dio
che la guida. È sopravvissuta ai primi e più difficili anni della sua esistenza
grazie alla dedizione e impegno dei missionari e loro collaboratori laici, e
sono certo che continuerà a crescere con il costante impegno dei suoi agenti
pastorali e collaboratori, unito alla generosità di singoli e gruppi donatori
di altre Chiese di tutto il mondo. Siamo in debito con i nostri benefattori!
Grazie e che Dio vi benedica!

Inoltre, è assolutamente necessario un forte spirito di
collaborazione e organizzazione nell’integrare i nostri differenti carismi di
congregazioni religiose in uno sforzo e visione comune. Lo spirito di unità e
di comunione fra i missionari è un obbligo, ed è la migliore testimonianza che
possiamo offrire e trasmettere al popolo mongolo. Anche la vita personale di
ogni agente pastorale è un modo potente per testimoniare il Vangelo. Le parole
di Paolo VI sono ancora più vere nella nostra situazione: «Uomini e donne oggi
ascoltano più volentieri i testimoni che i maestri. E se ascoltano i maestri è
perché sono testimoni» (Evangelii nuntiandi 41).

La Missione mongola avanza nel
futuro tenendo ben a mente il «noi» della Chiesa e della fede apostolica.
Ognuno ha un compito diverso nella vigna del Signore, ma siamo tutti compagni
di lavoro. Ciò vale oggi e per il futuro, per ogni singolo cristiano. Siamo
tutti umili ministri di Gesù. Serviamo il Vangelo nella misura in cui ci è
consentito, secondo i nostri doni, e chiediamo a Dio che la sua Buona Notizia e
la sua Comunità ecclesiale si sviluppi oggi e nel futuro tramite «noi».

E così, al di là delle nostre funzioni effettive, questa
è la vera sfida nell’essere veri missionari, chiamati ad aiutare a trasformare
la vita di coloro con cui entriamo in contatto, in modo particolare i poveri e
i bisognosi, nel nostro ministero e nella nostra missione.

Mons.
Wenceslao Padilla

Wenceslao Padilla




2_M: Pericolo Giallo

1245-1368: Missioni e
missionari tra i mongoli


L’espansione dell’impero
mongolo, inglobando quasi tutto il continente asiatico e parte dell’Europa
orientale, nel XIII e XIV secolo, dapprima provocò spavento nella cristianità,
poi si rivelò occasione provvidenziale, garantendo sicurezza e stabilità
economica ai missionari e commercianti che raggiunsero le capitali imperiali.
Purtroppo l’evangelizzazione fu faticosa e poi stroncata nel momento di maggior
successo.

In tutta Europa, nel
1241, risuonava il grido «la cristianità è in pericolo», quando il generale
mongolo Batu, invasa l’Ungheria, distrutta Zagabria, saccheggiata Spalato, si
affacciava sulle sponde dell’Adriatico, mentre l’ala destra del suo esercito
marciava su Vienna. 

In pochi anni, Gengis Khan (1162-1227) e i suoi quattro
figli avevano costruito l’impero più vasto della storia, dalla Corea alla
Polonia, dal Mar Giallo al Golfo Persico, passando per l’Asia centrale e le
vallate dell’Indo. Il passaggio dei mongoli (o tartari) seminava dappertutto
terrore e morte: città ridotte a cumuli di macerie; abitanti sgozzati come
capre o deportati come schiavi. La stessa sorte era toccata a molti cristiani
russi, polacchi, ungheresi.

Contro il pericolo giallo papa Gregorio IX invocava
invano una crociata: l’imperatore Federico II era in rotta di collisione col
pontefice; i principi cristiani in totale anarchia. Non restava che sperare
nella provvidenza. E infatti, alla fine del 1241, l’improvvisa scomparsa di
Ogodei Khan, successore di Gengis Khan bloccò l’avanzata mongola, poiché
principi e generali dovettero precipitarsi a Karakorum, la capitale dei mongoli
per eleggere il nuovo sovrano.

Ben presto l’impero si divise in quattro regni o
khanati, che nel tempo acquistarono sempre maggiore autonomia.

Missione diplomatica

Al concilio di Lione (1245), la «sevitia Tartarorum»
fu considerata tra i cinque principali dolori che affliggevano la Chiesa, per
cui il «remedium contra tartaros» fu posto subito all’ordine del giorno.
Scartata l’idea di una crociata, papa Innocenzo IV vide nell’espansione dei
Mongoli una nuova sfida missionaria e inviò un’ambasceria, con lo scopo di
convertirli al cristianesimo o averli almeno alleati contro i musulmani per
liberare la Terra Santa. La legazione fu affidata al francescano Giovanni da
Pian di Carpine.

«Uomo familiare e spirituale, letterato e grande
prolocutore», come lo definisce Salimbene da Parma, impegnato per vari anni nel
diffondere l’ordine francescano nell’Europa centrale e settentrionale, fra’
Giovanni aveva sviluppato notevoli capacità diplomatiche e temprato fisico e
carattere alle situazioni più impensabili: per papa Innocenzo IV era la persona
ideale per guidare un’ambasciata al gran khan dei Mongoli.

Partito da Lione il 16 aprile 1245, in compagnia di
Stefano di Boemia e più tardi di Benedetto di Polonia in qualità di interprete
di lingue slave, il messo pontificio raggiunse la Polonia e proseguì per Kiev,
dove Stefano di Boemia si ammalò e dovette interrompere il viaggio. Grazie
all’aiuto di principi russi, che procurarono loro dei cavalli tartari, capaci
di brucare l’erba anche sotto la neve, i due religiosi raggiunsero gli
avamposti dei Mongoli sul Volga, dove tradussero in persiano le lettere papali
destinate al Gran Khan.

Dopo aver percorso migliaia di chilometri attraverso le
sterminate steppe centro-asiatiche, «equitando quanti equi poterant ire
trotando… de mane usque ad noctem, immo de notte saepissime
» (stando a
cavallo quanto i cavalli potevano andare al trotto… da mattina a sera e
spesso anche di notte), come racconta nella sua Historia Mongalorum,
cibandosi per lo più di miglio con acqua e sale, dopo aver interloquito, di
tappa in tappa, con i principali signori mongoli incontrati nel cammino, il 22
luglio 1246, dopo 15 mesi di viaggio, i due francescani arrivarono
all’accampamento di Guyuk Khan, nipote di Gengis Khan, non lontano dalla città
di Karakorum, proprio mentre fervevano i preparativi per l’incoronazione
ufficiale del nuovo sovrano.

Dopo quattro mesi di attesa, fra’ Giovanni fu finalmente
ammesso alla presenza del Gran Khan e poté consegnare il messaggio papale, che
invitava l’imperatore mongolo alla pace e alla conversione al cristianesimo.
L’accoglienza fu gentile; ma il missionario fu rimandato con un messaggio
inequivocabile: «Voi tutti, papa e imperatore, re e governanti, affrettatevi a
venire di persona e sentirete le nostre proposte di pace. Quanto a convertirci,
non ne vediamo la ragione… Voi abitanti dell’Occidente credete di essere i
soli a essere nella fede e disprezzate gli altri; ma in che modo sapete a chi
Dio si degnerà di conferire la sua grazia?». A fra’ Giovanni non restava che
riprendere a ritroso il percorso fatto all’andata; tra infiniti stenti
raggiunse Kiev e da lì Lione, nel novembre del 1247. L’anno seguente fu
nominato arcivescovo di Antivari, in Montenegro, dove morì nel 1252.


Altre legazioni papali e reali

Nonostante la mancata conversione dei Mongoli,
l’esperienza di fra’ Giovanni da Pian del Carpine ebbe una portata storica
impareggiabile: osservatore privilegiato e testimone effettivo del popolo
mongolo, egli fu il primo a farlo conoscere all’Occidente, con la sua «Historia
Mongalorum quos nos Tartaros appellamus
» in cui racconta il suo viaggio e
soprattutto il mondo culturale e religioso della società mongola, la sua
storia, virtù e difetti, loro tecniche militari e perfino l’aspetto fisico (vedi
riquadro
).

Nell’impero mongolo vigeva una certa tolleranza verso
tutte le religioni, benché i Mongoli seguissero prevalentemente credenze
sciamaniche. Anche la risposta del gran khan Guyuk alla missiva del Papa, tutto
sommato, aveva più sapore di orgoglio e indifferenza che di ostilità. Lo stesso
fra’ Giovanni aveva assistito alla celebrazione degli uffizi divini dei
nestoriani in una cappella che sorgeva proprio di fronte alla tenda del Gran
Khan; due ministri dell’impero mongolo erano cristiani nestoriani.

Altri missionari furono inviati con lettere del Papa e
di Luigi re di Francia. Uno di essi fu il domenicano francese Andrea da
Longjumeau: prima fu mandato da Innocenzo IV a evangelizzare i tartari del
khanato di Persia (1245-47), poi, nel 1249, Luigi IX lo inviò al gran khan
Guyuk per chiedere protezione verso i cristiani dell’impero mongolo e la sua
alleanza nella crociata per la liberazione dei luoghi santi. Andrea arrivò a
Karakorum che il Gran Khan era morto da mesi; offrì alla sua vedova, la
reggente Oghul Qaimish, doni preziosi, tra cui una reliquia della Santa Croce,
che accettò volentieri come segno di sottomissione e consegnò al frate una
lettera per Luigi IX, in cui invitava il re di Francia a considerarsi suo
vassallo e pagare un tributo annuo ai Mongoli. Rispetto alla missione di
Giovanni da Pian del Carpine non ci fu quindi alcun progresso. Tuttavia il
frate domenicano toò con molte informazioni sulla neutralità dei Mongoli in
materia religiosa e sulla forte presenza di cristiani nestoriani alla corte
dell’imperatore. Tali informazioni incoraggiarono Luigi IX a inviare un’altra
missione, nella speranza di convertire al cristianesimo tutta l’aristocrazia
mongola.

La nuova missione affidata nel 1253 al francescano fiammingo
Guglielmo di Rubruck, aveva carattere non solo missionario ma anche politico e
scientifico. Nelle sue lettere il re di Francia usò espressioni di cortesia
verso i re tartari, chiedendo che Guglielmo e il suo compagno fra’ Bartolomeo
da Cremona, potessero restare nei paesi da loro governati «per insegnare la
Parola di Dio». Al tempo stesso re Luigi chiese a Guglielmo di scrivere un
rapporto su tutto ciò che avrebbe potuto apprendere sui Mongoli.

Partiti nel 1253 da San Giovanni d’Acri alla volta di
Istanbul, i due missionari proseguirono verso la regione del Volga,
incontrarono il campo militare (orda) di Sartach, poi quello di suo padre Batu,
dove furono accolti con benevolenza, ma vennero indirizzati a Karakorum, poiché
solo il Gran Khan aveva potere di decidere circa le relazioni con i sovrani di
altri popoli. Raggiunto l’accampamento di Mongku, nipote di Gengis Khan e
successore di Guyuk, i due missionari entrarono in Karakorum nell’aprile del
1254. Guglielmo fece moltissimi incontri: ambasciatori di popoli tributari,
monaci nestoriani o buddisti, sciamani, prigionieri occidentali… Egli
organizza pubbliche dispute teologiche con sacerdoti buddisti: tutti ascoltano
senza fiatare, ma nessuno diceva di voler essere cristiano. Il missionario
riescì ad amministrare solo sei battesimi, tutti a figli di deportati.

Ammesso alla presenza di Mongku Khan, Guglielmo si sentì
spiegare che il sovrano non aveva bisogno del cristianesimo; gli bastavano gli
indovini, i cui consigli lo facevano vivere bene. A luglio dello stesso anno
ripartì, portando con sé la lettera per il re di Francia in cui Mongku gli
chiedeva la sua sottomissione. Dopo quasi un anno di viaggio, il missionario
raggiunse la Terra Santa, dove scrisse un rapporto preciso e dettagliato del
viaggio in forma di lettera per re Luigi: resoconto vivo e affascinante, uno
dei capolavori della letteratura geografica medioevale, intitolato Itinerarium
fratris Willielmi de Rubruquis
.

Missioni… commerciali

Se dal punto di vista missionario e diplomatico furono
un fallimento, queste ambascerie ebbero altri risvolti positivi: le notizie
raccolte dai missionari svelarono all’Occidente un mondo ancora sconosciuto; le
loro imprese aprirono ai mercanti la strada verso il favoloso Cathay, come era
chiamata la Cina. Dove fallirono le missioni diplomatiche, riuscirono quelle
commerciali.

Nel frattempo, infatti, il nuovo gran khan Kubilai aveva
spostato in Cina la capitale del suo impero, conosciuta dagli europei col nome
turco di Khambaliq (città del khan), l’odiea Pechino. A contatto con
la civiltà cinese la cultura mongola conobbe una nuova fase. È quanto
testimoniano due mercanti veneziani, Nicolò e Matteo Polo: arrivati nella
capitale nel 1260, trovarono una corte variopinta e un imperatore ben disposto
e curiosissimo: «Dimandò di messere il Papa e di tutte le condizioni della
Chiesa romana e di tutte le usanze dei latini». E quando i due mercanti
ripartirono, dopo nove anni, Kubilai li pregò di ritornare e di portargli «un
po’ d’olio della lampada che arde sul sepolcro di Cristo», e affidò loro un
messaggio per il Papa, in cui chiedeva 100 uomini di scienza che istruissero i
tartari sulla religione cristiana.

Nel 1271 il papa Gregorio X mandò due domenicani,
insieme ai due mercanti veneziani, cui si era aggiunto il piccolo Marco, autore
del Milione; ma i frati tornarono subito indietro. Sei anni dopo furono
inviati quattro francescani, che sparirono nel nulla.

Nel 1287 un monaco nestoriano, Raban Sauma, arrivò in
Europa come ambasciatore dello stesso Kubilai Khan, per chiedere al re di
Francia un’alleanza contro i turchi e al papa di inviare missionari. Nicolò IV,
primo papa francescano, non esitò un istante: nel 1289 decise di mandare un
missionario già collaudato: fra’ Giovanni da Montecorvino.

Giovanni da Montecorvino

Nato nel 1247 a Montecorvino, vicino a Saleo, «dottissimo
ed eruditissimo» come lo definisce il Marignolli, per 10 anni aveva predicato
il vangelo in Armenia, Persia e Tartaria settentrionale, operando migliaia di
conversioni. Tornato a Roma come ambasciatore dei re di quelle regioni presso
il papa, Nicolò IV lo nominò suo legato e lo inviò subito indietro, con 26
lettere credenziali da consegnare a re, dignitari ecclesiastici georgiani,
nestoriani, giacobiti, fino al gran khan della Cina.

Partito il 15 luglio 1289 insieme a un manipolo di
francescani e domenicani e al mercante genovese Pietro Lucalongo, fra’ Giovanni
raggiunse le regioni del suo primo amore missionario, consegnò a principi e
prelati le lettere papali e continuò dappertutto a predicare, istruire,
convertire e organizzare comunità cristiane.

Ripreso il viaggio via mare, si fermò in India per oltre
un anno; poi, sempre via mare, nel 1294 approdò insieme al domenicano Nicola da
Pistornia e a Lucalongo al porto cinese di Zaitung o Quanzhou; risalendo il
Canale imperiale, raggiunse Khambaliq e consegnò la lettera papale a Timur Khan
(Kubilai era morto quello stesso anno).

Come legato del papa, Giovanni da Montecorvino fu
accolto con tutti gli onori; gli fu concesso il privilegio di risiedere nella
città proibita; ebbe piena libertà di annunciare il Vangelo a mongoli e cinesi,
ai membri della famiglia imperiale e ai nestoriani. I frutti arrivarono subito:
una principessa, promessa sposa del gran khan, e il nestoriano principe
Giorgio, re di Tenduk, abbracciarono la fede cattolica.

Ma i nestoriani non gliela perdonarono. Presenti in Cina
da sette secoli e sparsi in 20 province settentrionali e orientali del celeste
impero, essi occupavano posti di rilievo nell’amministrazione e non avevano
alcuna intenzione di condividere i loro privilegi con l’ultimo arrivato e lo
calunniarono per cinque anni davanti alla corte del gran khan.

Finalmente scagionato da ogni accusa, riprese con
successo l’evangelizzazione di mongoli e cinesi. In una lettera ai confratelli
di Tabriz nel 1305, tirava qualche somma del lavoro svolto in 11 anni di
missione. «Ho amministrato il battesimo a 6 mila persone. Se non ci fossero
state le calunnie dei nestoriani, ne avrei battezzate altre 30 mila. E sto sempre
battezzando». Riuscì a convertire anche importanti personalità della corte, ma
non il gran khan, «ormai incallito nell’idolatria» come confessava lo stesso
monarca.

Rimase da solo per 13 anni, svolgendo un lavoro immenso
fino a erigere altre diocesi suffraganee. Ma in Occidente, con il papa in
esilio ad Avignone, nessuno si ricordava più di quel frate sparito nel nulla,
finché fra’ Tommaso da Tolentino, proveniente dalla Persia, arrivò ad Avignone
durante un concistoro e lesse le lettere di Montecorvino davanti al papa e ai
cardinali. Grande fu lo stupore nel sentire quelle meraviglie d’altro mondo. E
quando le lettere arrivarono nei conventi, molti religiosi si offrirono
volontari per raggiungere l’eroico missionario.

Papa Clemente V nel 1307 inviò alcuni missionari e 7
vescovi, per consacrarlo arcivescovo di Khambaliq e patriarca di tutto
l’Oriente «in toto dominio Tartarorum»; solo tre di essi giunsero a
destinazione due anni dopo. La consacrazione di fra’ Giovanni avvenne nel 1310
nella chiesa attigua alla reggia, alla presenza di Guluk Khan (succeduto a
Timur nel 1308) e di una folla incontenibile d’ogni razza e religione.

Nel 1325 un altro grande missionario francescano,
Odorico da Pordenone, dopo aver percorso innumerevoli regioni e isole dell’Asia
meridionale, raggiunse Pechino e per tre anni aiutò il vecchio Montecorvino.
Tornato in Italia per chiedere rinforzi per la missione in Cina, morì un anno
dopo il suo arrivo. Ma ebbe ancora il tempo di dettare a fra’ Guglielmo di
Solagna le sue memorie, intitolate: Relatio (relazione), un’opera che non ha nulla da invidiare al Milione
di Marco Polo e che diventò subito un best seller, tradotto in italiano,
francese e tedesco.

Fra’ Giovanni da Montecorvino morì nel 1328, a 81 anni,
compianto da cristiani e pagani, «venerato come santo da Tartari e Alani» come
scriveva Marignolli. Alla sua morte la Chiesa in Cina contava oltre 30 mila
fedeli. La sua opera fu continuata da una cinquantina di confratelli, ma non sopravvisse
per più di 40 anni, sia perché la peste nera del 1348 aveva decimato i frati
minori, impedendo l’invio di nuovi missionari, sia, soprattutto, perché la
dinastia Ming prese il potere (1368) e pose fine all’impero mongolo,
distruggendo la vecchia capitale Karakorum, ma senza riuscire a controllare il
territorio. Al tempo stesso il celeste impero chiuse i confini agli stranieri e
le cristianità si dissolsero, scomparendo lentamente nel nulla.

Benedetto
Bellesi

Scheda 1: Visti da vicino: Aspetto fisico, virtù e
vizi dei Tartari


«Il loro aspetto fisico è
diverso da quello di tutti gli altri uomini. Sono, tra gli occhi e le guance,
più larghi degli altri uomini, e le guance sporgono sulle mascelle. Hanno il
naso piatto e corto, gli occhi piccoli, e le palpebre che salgono sino alle
sopracciglia. Sono assai sottili di cintura, con poche eccezioni. Quasi tutti
sono di statura mediocre. La maggior parte hanno pochissima barba; alcuni
tuttavia hanno sul labbro superiore e sul mento qualche rado pelo che non
tagliano mai. Sulla cima del cranio, hanno una corona di capelli, alla maniera
dei chierici, e da un orecchio all’altro, su una larghezza di tre dita, tutti
si radono i capelli alla stessa maniera, ma lasciano crescere sino alle
sopracciglia i capelli che sono tra la corona e la rasatura; e da una parte all’altra
della fronte, hanno i capelli tagliati più che a metà; per il resto, li
lasciano crescere, alla maniera delle donne, e ne fanno due trecce che annodano
dietro l’orecchio. Hanno i piedi piccolissimi.


I detti uomini, ossia i
Tartari, sono assai più obbedienti verso i loro superiori, di quanto non lo
siano gli altri uomini… e li venerano grandemente, né osano mentire dinanzi a
loro. Contendono di rado a parole e mai con fatti. Guerre, risse, ferimenti,
omicidi, non avvengono mai tra di loro. Predoni e ladri di grandi cose non si
trovano tra di loro, perciò non usano chiudere con serrature o legature le loro
abitazioni e i carri entro i quali racchiudono il proprio tesoro. Se qualche
animale si disperde chiunque lo incontri, o lo lascia dove trovasi o lo
consegna a coloro che sono incaricati di raccoglierli. E i proprietari li
richiedono a questi, ottenendoli di ritorno senza nessuna difficoltà. Si
rispettano molto l’un l’altro e si trattano con grande famigliarità e per
quanto i viveri siano assai scarsi, pure se li passano volentieri… Le loro
mogli sono caste, né si sente mai dir nulla della loro impudicizia…


Essi sono quanto mai
altezzosi e sprezzanti verso gli altri uomini e li considerano pochissimo,
siano nobili, siano ignobili… Sono assai irosi verso gli altri uomini e
sdegnosi ed anche mentitori con gli stranieri…»


(Historia
Mongalorum
, 1247).


Scheda 2: I Nestoriani in Cina

A portare per primi il
Vangelo nell’Estremo Oriente furono missionari comunemente detti nestoriani,
appartenenti alla Chiesa Siriaca d’Oriente, diffusa in Persia e Mesopotamia.
Guidati dal monaco persiano Alopen, essi portarono il cristianesimo in Cina nel
635, durante la dinastia dei «T’ang», alquanto tollerante verso le religioni
non cinesi. Il fatto è testimoniato dalla famosa stele di Si-ngan-fu, eretta
nel 782, scritta in lingua siriaca e caratteri cinesi, scoperta nel 1625.

Caposaldo della
metodologia missionaria dei cristiani orientali erano i monasteri. Si
sforzarono di presentare le verità cristiane, adattandole alla mentalità cinese
e assumendone la lingua; disponevano di una preziosa biblioteca: 230 libri, in
parte tradotti e in parte adattati da esperti. Alcuni di questi scritti furono
ritrovati nel 1908 nelle grotte di Tunhwang (ad esempio il libro Gesù Messia).
Questo primo tentativo di evangelizzazione durò fino all’845, allorché un
editto imperiale e relative persecuzioni ne decretarono la fine.

Ma durante i secoli
XI-XIII, grazie alla «pax mongolica», che garantiva a mercanti e
missionari di viaggiare in sicurezza attraverso l’impero di Gengis Khan, la
Chiesa d’Oriente riprese vigore e fu accolta da diverse tribù turco-mongole
dell’Asia centrale e settentrionale. Gruppi di cristiani orientali furono
segnalati da Marco Polo e dai missionari francescani nell’impero mongolo.

«Sappiate, padri miei –
disse un cristiano orientale nel XIII secolo – che molti dei nostri padri sono
andati nelle terre dei Mongoli, dei Turchi e dei Cinesi, a istruirli, tanto che
sono molti i Mongoli cristiani. Vi sono perfino figli di re e regine battezzati
che professano il Cristo e ci sono chiese presso di loro. Onorano assai i
cristiani, e molti di loro sono credenti».

B.B.

Scheda 3: Sei secoli di grande vuoto

Con la perdita del potere per mano
della dinastia cinese dei Ming (1368), l’impero mongolo fu totalmente
disgregato e i clan rivali cominciarono a combattersi tra loro, soprattutto
nelle regioni dove l’impero cinese esercitava meno controllo.

Nel XVI secolo,
sotto Altan Khan, i principi mongoli abbracciarono il buddismo tibetano,
sistema di scrittura compreso, per non essere totalmente assorbiti nell’impero
cinese. Un secolo più tardi, sotto la dinastia Qing (1636-1911), il territorio
abitato dai mongoli fu diviso in due province: Mongolia interiore, rimasta
sempre legata all’impero cinese, e Mongolia esteriore, che ebbe un regime si
semiautonomia e, caduta la dinastia Qing, diventò oggetto di contesa tra cinesi
e russi, riducendosi nei confini attuali. Intanto cresceva il nazionalismo dei
suoi abitanti, che nel 1921, con l’appoggio della Russia, si dichiararono
indipendenti, formarono il proprio governo nel 1924, dando origine alla
Repubblica popolare di Mongolia, di stretto stampo sovietico: per 70 anni i
mongoli subirono l’ingerenza e la dittatura comunista dell’Urss, senza peraltro
entrare a far parte formalmente dell’Unione Sovietica.

Dal 1368 al 1990
nella Mongolia esteriore non si ha alcuna traccia di presenza cristiana. Nel
1864 Propaganda Fide incaricò i missionari Lazzaristi e di Scheut
(Congregazione del Cuore Immacolato di Maria) di evangelizzare l’intera
Mongolia, ma non poterono lavorare che nella Mongolia interiore. Nel 1922 la
Santa Sede eresse la missione sui iuris di Urga (rinominata Ulaanbaatar
dai comunisti), affidandola ai missionari di Scheut, ma il cambiamento politico
impedì loro di entrare. Il nuovo regime cancellò ogni segno religioso,
distrusse luoghi di culto, trucidò migliaia di monaci, abbatté monumenti
storici, sostituendoli con statue di Lenin e Stalin. Fu perfino proibito di
pronunciare il nome di Gengis Khan, eroe nazionale e «divinità» popolare.

Con l’avvento della perestrojka
sovietica, anche in Mongolia iniziò la svolta democratica, con libere elezioni
(1990) e con l’entrata in vigore di una nuova costituzione (12 febbraio 1992),
che garantisce libertà di religione. Nel frattempo una delegazione del governo
mongolo si presentò in Vaticano per chiedere di allacciare relazioni
diplomatiche con la Santa Sede, dicendo che sarebbe stata ben accolta la
presenza e il contributo di missionari cattolici alla ripresa della società
mongola.

Il 4 aprile 1992
Santa Sede e Mongolia stabilirono le relazioni diplomatiche; tre mesi dopo
arrivarono a Ulaanbaatar tre missionari di Scheut per riprendere
l’evangelizzazione del popolo mongolo, colmando così un silenzio storico durato
oltre sei secoli.

B.B.

Benedetto Bellesi




1_M: Piccola ma vivace, La Chiesa cattolica in Mongolia compie 20 anni

Consolazione in Mongolia

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Dossier di di Benedetto Bellesi, mons. Wenceslao Padilla, Giorgio Marengo La Chiesa cattolica in Mongolia è la più giovane tra le chiese particolari nel mondo: ha appena 20 anni di età e ha festeggiato con meritato orgoglio il suo ventesimo compleanno nel corso del 2012. Ad aprire le celebrazioni nella cattedrale di Ulaanbaatar è stato mons. Savio Hon, segretario della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli. Si tratta di «una Chiesa di piccole dimensioni, ma di grande vitalità» ha affermato il presule. Tale vitalità è stata espressa anche simbolicamente: a conclusione dei festeggiamenti, rispondendo all’invito del loro vescovo mons. Wenceslao Padilla, i cattolici mongoli hanno piantato un albero, come augurio che il Vangelo di Cristo affondi sempre più profondamente le radici nei cuori della popolazione mongola.

Non è la prima volta che la Buona Notizia viene annunciata a questa popolazione. Già nel secolo VI i monaci della Chiesa siriaca orientale (i cosiddetti nestoriani) si erano spinti fino alle steppe dell’Asia orientale, costituendo solide comunità che neppure le persecuzioni del IX secolo riuscirono a soffocare completamente. Nel secolo XIII, in seguito all’espansione dell’impero mongolo creato da Gengis Khan e dai suoi successori, l’evangelizzazione dei mongoli riprese sotto forma di «missioni diplomatiche», affidate ai missionari francescani, fino a costituire la diocesi di Khambaliq (oggi Pechino), con l’arcivescovo che aveva autorità «in toto dominio Tartarorum» (in tutto l’impero dei Tartari). Ma tutto fu troncato a partire dal 1368, quando i cinesi della dinastia Ming posero fine all’impero mongolo.

Dopo oltre sei secoli di vuoto, in cui dall’attuale Mongolia scomparve ogni traccia di presenza cristiana, la Chiesa cattolica è rinata nel 1992, con l’arrivo di tre missionari del Cuore Immacolato di Maria (Cicm) e ha continuato a crescere in numero e qualità: oggi, dopo 20 anni, la Prefettura apostolica di Ulaanbaatar conta sei parrocchie e numerose iniziative in campo sociale, di promozione umana e di dialogo interreligioso.

Negli ultimi due secoli, in verità, ci furono vari tentativi, promossi da Propaganda Fide, per entrare nell’attuale Mongolia passando dalla Cina. Uno di essi fu programmato dai Cistercensi, che nel 1883 stabilirono la loro comunità a Yang Kia Ping, nel nord della Cina, vicino alla grande muraglia. Il monastero fu intitolato a Nostra Signora della Consolazione, titolo suggerito da Giovanni Bosco, quando il fondatore della trappa, don Ephrem Seignol, priore del monastero di Tamié nella Savoia, prima di partire per la Cina si recò a Torino per salutare il suo amico. In tale occasione, oltre ai consigli, don Bosco gli diede un’immagine della Consolata, con scritto nel retro: «Che Dio benedica voi e le vostre opere, che la Santa Vergine Consolata vi benedica sempre».

Fiorente di vocazioni e attività, agli inizi del XX sec. la trappa contava oltre 100 monaci in maggioranza cinesi, tanto da sentire il bisogno di dare vita a una nuova fondazione. «Consolazione mandò una colonia in una provincia centrale cinese - racconta Thomas Merton - e questo nuovo monastero era stato messo sotto il controllo di un priore titolare Cinese, don Paolino Li... I monaci stavano preparando i piani di espansione nella Mongolia, quando l’esercito rosso occupò entrambe le case e pose fine ad ogni progetto futuro» (T. Merton, Le acque di Siloe, pag. 301).

Erano gli anni 1947-48, durante la guerra tra l’armata rossa di Mao Tze Tung e i nazionalisti di Chiang Kai-shek; i monaci della seconda fondazione si rifugiarono a Hong Kong, ma dei 75 monaci di N. S. della Consolazione, sottoposti a torture inaudibili, 33 morirono e l’abbazia fu rasa al suolo.

Ma la Consolata ha trovato ugualmente le sue vie per entrare in Mongolia: il 27 luglio 2003 atterrarono nella capitale mongola due padri e tre suore della Consolata. Oggi la loro presenza è raddoppiata e quest’anno festeggiano con gioia il decimo anniversario della loro presenza di «Consolazione» in Mongolia.

B.B.
Benedetto Bellesi




L’Attesa

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Aspettare. I primi giorni di marzo in cui scrivo sono i giorni dell’attesa: l’attesa di un nuovo papa, l’attesa del nuovo governo, l’attesa che in Kenya le elezioni si concludano senza un nuovo bagno di sangue. Ero ancora là, a fine 2007, quando in poche ore il paese fu travolto da un’ondata di violenza politica organizzata senza precedenti. Le notti illuminate dai bagliori rossastri dei roghi degli slum di Kibera, i bruschi risvegli ai colpi di arma da fuoco, gli incendi di chiese, le informazioni convulse, l’odio che come peste stava contagiando tutti, preti compresi, e insieme le scarne notizie di speranza, la resistenza dei pacifici, la solidarietà discreta di chi dava rifugio e salvezza a vicini di tribù «nemiche», e l’incessante preghiera di tantissimi, come quelli che si trovavano nella cappella dell’adorazione del Santuario della Consolata a Nairobi che mai chiuse le sue porte, anche nelle notti di grande paura… E le lacrime per le persone amate, di ogni tribù, coinvolte nella furia degli eventi. E l’impotenza di fronte a tanta pazzia. Sono ricordi che non mi lasciano. Come il grido-promessa: «Mai più!».

Attendiamo. Anche se vorrei poter scrivere subito che in Italia abbiamo un nuovo governo di persone che non fanno giochi di potere, ma davvero si curano del bene comune e della pace. E che lo Spirito Santo si è preso gioco delle mille elucubrazioni dei media e ci ha dato un papa a sorpresa, uno secondo il cuore di Cristo. E, infine, che in Kenya la gente ha dato una lezione di democrazia e partecipazione ai suoi politici arroganti e maneggioni e ha fatto una scelta di pace e stabilità.

L’attesa è speranza. L’attesa è fiducia nella parte migliore di ogni uomo. E allora il grido-promessa di cinque anni fa, «Mai più!», oggi diventa una preghiera. Mai più politici corrotti e corruttori. Mai più prelati che ragionano in termini di potere e di carriera. Mai più violenza per sopraffare gli altri, per vincere ad ogni costo, per imporre le proprie idee, per difendere i propri interessi. Mai più la vergogna di essere lo zimbello del mondo (basta provare a vivere all’estero per un po’!) perché italiano. Mai più una politica miope che costruisce barriere, che prende e non dà, che ragiona in termini di forza e armi invece che di giustizia, corresponsabilità e pace.

Se non credessimo in un mondo diverso, se non avessimo fiducia nell’uomo, in ogni uomo, se non amassimo questa nostra terra e gli italiani, con i quali in tutti questi anni abbiamo fatto e vissuto cose meravigliose e condiviso un grande cammino, dovremmo chiudere immediatamente questa rivista, che invece è una voce di speranza, di utopia, di universalità.

Non so quali saranno le sorprese del primo aprile, primo giorno di vita ufficiale di questo numero della rivista che è nelle vostre mani. Sarà il primo giorno dopo Pasqua, la festa di cui ogni nostra speranza e ogni nostra attesa si alimentano. Noi siamo fiduciosi e scommettiamo sul futuro. Per questo continuiamo questa pubblicazione con passione e cura, rinnoviamo il nostro sito e investiamo nell’ambizioso progetto dello sfogliabile MC che radicandosi nel passato alimenta il futuro (il progetto cioè di mettere in rete tutte le annate della rivista in pdf da sfogliare, ricercare, scaricare, stampare e molto di più).

Qualcuno la chiama pazzia: scommettere sulla carta e investire sul web. Sì, proprio una scommessa, anche con quelli che ritenendo la rivista cartacea causa di degradazione dell’ambiente e fonte di inquinamento, preferirebbero che noi sparissimo dalla circolazione. Scommessa con chi riceve la rivista (magari ereditata dalla nonna) e la butta automaticamente nel cestino senza nemmeno aprirla. Scommessa con i figli e i nipoti di tanti nostri amici e benefattori che ritengono un passatempo inutile e alienante quello che invece ha riempito il cuore dei loro cari. Scommessa con chi crede che il mondo sia fatto solo di Nord e non si accorge che il Nord non ha senso senza le splendide albe dell’Est, il calore del Sud e gli infuocati tramonti dell’Ovest. Scommessa che facciamo insieme a chi usa la rete non solo per divertirsi o vivere l’illusione di amicizie, ma soprattutto per trovare informazione sostanziosa, documentata, vissuta, libera e aperta a nuovi orizzonti di frateità e impegno.

Non ci aspettiamo miracoli. Per questo viviamo un’attesa operosa, dando ragione della nostra Speranza.

Gigi Anataloni