Sempre più divisi

Mentre a Davos si celebra l’incontro dei
potenti, le disuguaglianze nel mondo crescono. E questo fatto indebolisce le
democrazie. Ma c’è chi propone soluzioni.
E i ricchi fanno orecchie da mercante.

All’inizio
del 2013, sulle montagne immacolate della Svizzera, si è celebrato ancora una
volta l’appuntamento di Davos. Lo strano convegno di oltre duemila tra capi di
stato, accademici, manager, giornalisti, invitati da una fondazione
privata, non viene scalfito né dal tempo (siamo alla 26esima edizione), né
dalla protesta dei no global (sempre meno clamorosa), né dalla crisi
finanziaria.

Il World Economic Forum (Wef) si riunisce per
migliorare il mondo: «improving the state of the world». Che non serva a
nulla è evidente, visto che il mondo, con tutti i suoi disastri, non cambia; ma
bisogna riconoscere che è uno dei rari momenti in cui i mezzi di informazione
trattano di temi globali, cosa che non succede, purtroppo, quando si tengono le
conferenze dell’Onu. Certo i partecipanti al Forum sono meno ingessati dal
cerimoniale, l’agenda è meno formale, insomma l’evento ha più colore, ma la
vera spiegazione è che a Davos si ritrovano i veri potenti, quelli che
detengono il controllo della finanza, dei mercati e della politica. E il potere
esercita una grande attrazione sui media.

Chi cerca di intrufolarsi, nel tentativo assai difficile
di far valere le proprie tesi, sono le Ong, da quelle ambientaliste come Greenpeace
a quelle che lottano contro la fame come Oxfam. Proprio a quest’ultima
va dato il merito di aver proposto a Davos un tema fastidioso: l’insostenibilità
della ricchezza smodata che va di pari passo con il crescente divario tra
ricchi e poveri.

In occasione del Wef, Oxfam ha presentato un
documento dal titolo «Il costo dell’ineguaglianza: come la ricchezza estrema ci
fa male».

Negli ultimi trent’anni – sostiene Oxfam –  la disuguaglianza si è drammaticamente
accentuata in quasi tutti i paesi del mondo e il reddito di alcuni ha toccato
vette mai viste prima. In Cina il 10% della popolazione possiede oggi il 60%
del reddito, lo stesso accade in Sudafrica.

La
globalizzazione con il suo mito del trickle down, lo sgocciolamento
della ricchezza fino agli strati più bassi delle società, non ha funzionato. La
crescita economica non ha portato migliori condizioni di vita per tutti, ma
l’abbondanza esagerata per pochi. Il mercato dei beni lussuosi raddoppia ogni
anno e anche dopo la crisi, la domanda di yacht, macchine sportive, champagne,
giornielli non ha subito rallentamenti. Ma l’espansione dei consumi di lusso non è
sufficiente a far ripartire l’economia, la concentrazione del potere di
acquisto in poche mani è, dunque, inefficiente dal punto di vista economico.

Anche il problema della povertà non può essere risolto
da una ricchezza così mal distribuita: in Sudafrica, dove il tasso di crescita annuo
del Pil supera il 3%, un milione di persone verranno spinte sotto la soglia
della povertà nei prossimi 5 anni, a meno che il governo non prenda
provvedimenti.

Le società ineguali sono poco dinamiche perché
impediscono la mobilità sociale: se un bambino nasce povero in una società
ingiusta vivrà e morirà da povero. L’ascensore sociale scende verso il basso,
ma non riesce a salire. Il motivo: la qualità dei servizi pubblici peggiora,
mentre le eccellenze nella scuola, nella sanità, nella previdenza, vengono
riservate a chi le può pagare profumatamente.

Durante la «Grande depressione» il presidente Roosevelt
dichiarò: «L’uguaglianza politica che abbiamo conquistato diventa priva di
significato di fronte alla disuguaglianza economica». 

Nelle
società ineguali la democrazia risulta fortemente indebolita, perché la
politica si piega al volere della grande ricchezza: lobby ben oliate e
con potenti mezzi impediscono interventi a favore della ridistribuzione, come
la tassazione progressiva su redditi e patrimoni.

Dopo la seconda guerra mondiale, lo sviluppo economico
dell’Europa è andato avanti per tre decenni puntando sull’allargamento delle
opportunità e sulla creazione di società più inclusive. La stessa cosa è
avvenuta nelle «tigri asiatiche»: la Corea del Sud ha distribuito i benefici
della crescita ai propri cittadini, incrementandola ulteriormente, anche il
governo brasiliano negli ultimi quindici anni ha basato la propria crescita
inarrestabile sulla lotta alla povertà e sull’aumento del benessere della maggioranza
della popolazione.

Dunque le ricette non mancano, ma il primo passo – dice Oxfam
– per poter risolvere il problema è quello di riconoscerlo e consideralo una
priorità politica. Dovrebbe avvenire così anche in Italia che, tra i paesi
europei, è uno dei più diseguali.

Sabina Siniscalchi

Sabina Siniscalchi




Bartolomé De Las Casas

Bartolomé De Las Casas (1484 – 1566) una delle figure più
rappresentative dell’opera evangelizzatrice e di difesa degli indios del
continente scoperto (o conquistato?) da Cristoforo Colombo, ha accettato di
colloquiare con noi sulla sua vita avventurosa e suggestiva.

Da parte mia c’è un po’ di
soggezione di fronte a una persona così carismatica, ma allo stesso tempo sono
ansioso di porti alcune domande. Innanzitutto presentati ai nostri lettori.

Sono
nato a Siviglia nel 1484. Mio padre e mio zio avevano partecipato alla seconda
spedizione di Cristoforo Colombo nel 1493. Nel 1502, all’età di 18 anni, misi
piede per la prima volta in America, sull’isola di Hispaniola (l’attuale Santo
Domingo) al seguito del governatore Nicolás de Ovando. A partire dal 1505 mi fu
assegnato in encomienda un certo numero di indios che lavoravano per me
nelle miniere e nelle terre, facendo prosperare i miei affari.

Parli di «encomienda»: per noi del
XXI secolo è un termine non facile da capire fino in fondo. Di che cosa si
trattava?

L’encomienda
coloniale, che in italiano si può tradurre con «incarico», consisteva
nell’affidare a degli encomenderos, cioè a noi spagnoli, determinati
territori abitati da un gruppo di indigeni con lo scopo di rendere fruttuosa la
terra con le nuove tecniche agricole. Gli indigeni dovevano quindi lavorare
(gratis) per noi che avevamo l’obbligo di colonizzarli e cristianizzarli. L’encomienda
fu quindi una geniale istituzione che permise alla Corona di Spagna di
consolidare la colonizzazione dei nuovi territori, attraverso l’assoggettamento
fisico, morale e religioso delle popolazioni precolombiane.

Quindi il tuo andare nelle terre
appena scoperte non era legato a motivi prettamente religiosi come portare alla
fede gli indigeni e diffondere il Vangelo?

Niente
affatto. Partii per le Americhe con l’idea di far fortuna e rimpinguare il
patrimonio di famiglia, assottigliatosi per una serie di disavventure
familiari.

Cosa cambiò la tua visione di vita
dopo aver preso conoscienza della nuova realtà?

Durante
una messa celebrata sull’isola di Hispaniola nel dicembre 1511, il frate
domenicano Antonio Montesinos pronunciò un vibrante sermone in difesa della
vita e dei diritti degli indios. La sua omelia era il risultato della
riflessione e dell’impegno di una piccola comunità domenicana, presente da poco
tempo sull’isola; una comunità che si era lasciata interrogare dalla realtà
drammatica in cui viveva e che aveva trovato il coraggio di denunciare il
comportamento dei conquistadores. Ne rimasi affascinato e colpito!

Fu lì che ebbe inizio la tua
conversione?

Direi
proprio di sì! Anzi, dirò di più: il sermone di fra’ Montesinos, in quella
terra appena conquistata dagli spagnoli, ha avviato un processo importante che
ha attraversato i secoli. Da quel giorno nell’Ordine Domenicano è nata una
riflessione in cui la figura dell’indigeno veniva vista in maniera diversa, un
cambio di prospettiva che con il tempo creò addirittura le basi della
Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo.

Che effetto fecero su di te quelle
parole?

Presi
coscienza che non potevo sfruttare gli indigeni, gente che fino a pochi anni
prima viveva libera sulla propria terra e che solo alcuni decenni dopo era
assoggettata al volere dei nuovi arrivati. Vedevo sempre più deperire gli
indigeni, ammalarsi e, quello che è peggio, perdere qualsiasi prospettiva per
il futuro con un minimo di speranza per la vita loro e per i loro figli. Toai
in Europa, entrai nell’Ordine dei Domenicani, dove nel 1507 venni ordinato
sacerdote di Cristo.

Però in Europa non sei rimasto a
lungo.

Dopo
alcuni anni ritornai nelle Americhe; in quel periodo viaggiai molto: Guatemala,
Nicaragua, Cuba, Santo Domingo, Puertorico, Messico, mettendomi al servizio dei
nativi e allo stesso tempo cercando di convincere i nuovi arrivati a trattare
questi esseri umani nello stesso modo in cui trattavano i loro simili. Ma il
mio modo di fare e quello dei miei confratelli cozzava contro la sete di
conquista e di potere che avevano gli avventurieri, approdati nel nuovo mondo
al solo scopo di far fortuna e arricchirsi.

Di fronte all’insensibilità dei
tuoi compatrioti quale linea di azione hai seguito?

Nell’ottobre
1515, insieme a fra’ Antonio de Montesinos, decidemmo di ritornare in Spagna
per informare la Corona sulle ingiustizie commesse contro gli indigeni e sulle
sofferenze che essi pativano.

Foste ricevuti dal re?

Certamente.
Lo ponemmo al corrente di quello che succedeva nelle sue colonie nel nuovo
mondo. Impressionato da quanto gli esponevamo, ci fissò una seconda udienza,
purtroppo il re morì qualche mese dopo. Tutto rischiava di finire in una bolla
di sapone.

Come vi siete comportati allora?

Decidemmo
di andare nelle Fiandre per parlare col principe Carlo, diventato l’imperatore
Carlo V. Prima però incontrammo a Madrid i cardinali Francisco Jiménez de
Cisneros e Adriaan Florenszoon Boeyens, il futuro papa Adriano VI, e li
mettemmo al corrente sulla realtà creatasi nelle colonie. L’imperatore emanò
uno scritto in cui ordinava di applicare agli indigeni gli stessi atteggiamenti
riservati agli spagnoli. Il cardinal Cisneros mi nominò addirittura «protettore
degli indios» e inviò una delegazione per verificare la situazione. Dopo tali
delibere tornai in America.

E che trovasti al tuo ritorno?

Purtroppo
la delegazione, venuta a controllare le condizioni degli indigeni, si lasciò
abbindolare dai conquistadores e ne assunsero le posizioni: giudicarono
gli indigeni persone di poco conto, da trattare poco meglio degli animali.
Indignato, tornai in Spagna per informare l’imperatore di come gli spagnoli
trattavano i nativi. Purtroppo anche in Spagna stava attecchendo l’idea assurda
che gli indigeni fossero esseri inferiori agli uomini bianchi.

Non ci posso credere!

Figurati,
che un intellettuale del tempo, tale Juan Gines de Sepúlveda, sosteneva
l’inferiorità degli indios e la necessità di sottometterli per evangelizzarli.
Egli definiva i nativi americani non come uomini ma come «humuncoli»,
cioè esseri di razza inferiore. Tuttavia, i pensatori domenicani in Europa e
nelle Americhe, l’Università di Salamanca non erano d’accordo e sostenevano che
i nativi americani fossero uomini come noi, con tutti i nostri stessi diritti.

Di fronte a tali idee, che
rischiavano di compromettere tutto il lavoro che portavate avanti, non
rimanesti con le mani in mano.

Carlo
V volle che la controversia fosse discussa a livello accademico tra Sepúlveda e
il sottoscritto. Io sostenevo che gli indios americani fossero uguali a noi,
mentre Sepúlveda sosteneva che essi non avevano la stessa dignità degli
europei. La disputa si tenne a Valladolid e durò diversi mesi senza esclusione
di colpi da una parte e dall’altra, ma alla fine la spuntai e quella che era la
dottrina tradizionale della Chiesa, del pieno rispetto e piena dignità di ogni
uomo, schiavo, pagano o cristiano che fosse, alla fine trionfò. Le idee di Sepúlveda
vennero condannate e gli scritti proibiti; ma il confronto ebbe il merito di
sollevare il problema dell’evangelizzazione dei nuovi popoli.

Qual era il punto più spinoso con
cui bisognava fare i conti?

Il
punto più controverso era quello di stabilire se era giusto usare la forza per
evangelizzare i nativi oppure – come sostenevo io – se bisognava rispettare la
loro coscienza e procedere nell’annuncio del Vangelo nel pieno rispetto della
dignità della persona.

Il tuo compito era concluso in
terra di Spagna?

Direi
di sì. La Corona promulgò degli editti in cui era fatto divieto ai conquistadores
di maltrattare e obbligare gli indios ai loro voleri. Purtroppo tali leggi
furono largamente disattese! E il prezzo di questa miopia la pagate ancora
oggi.

Le tue mosse successive quali
furono?

Con
questa vittoria, teologica per un verso e morale per un altro, feci ritorno nel
Nuovo Mondo, dopo essere stato consacrato vescovo, con ben quaranta missionari,
anche loro decisi a procedere con l’evangelizzazione nel rispetto più totale
delle persone.

Come ti accolsero al tuo ritorno?

Gli
spagnoli, in virtù dell’opera di convincimento a favore degli indigeni che
avevo fatto presso la Corona, mi ricevettero con freddezza e ostilità. Il
governatore non fu molto tenero nei miei confronti: fedele al principio «promoveatur
ut amoveatur
», mi assegnò una diocesi nel territorio di Ciudad Real, in una
zona del sud-est messicano, denominata Chiapas (oggi San Cristóbal de Las
Casas).

E come operasti nella nuova sede
in Chiapas?

Come
vescovo mi adoperai subito per visitare tutti i villaggi e feci in modo che i
nativi della zona fossero trattati con umanità e rispetto. Nei sinodi che si
tenevano in quel tempo cercai di portare avanti ciò che mi stava più a cuore:
il rispetto verso quelle creature il cui destino era stato particolarmente
ingrato.

Sei rimasto in America fino alla
fine dei tuoi giorni?

Dopo
alcuni decenni di apostolato in terra messicana, ammalato, vecchio e stanco, ma
con l’indomabile ardore di sempre, feci ritorno in Spagna dove completai la
scrittura di diverse opere, sempre in difesa degli indios, la più famosa delle
quali è: Brevissimo rapporto sulla distruzione delle Indie. E in Spagna
conclusi la mia vita terrena, conservando fino all’ultimo nel cuore l’affetto e
il rispetto sconfinato per i miei indios americani.

Don Mario Bandera
Direttore Missio Novara

Mario bandera




Cooperazione per l’acqua

Le Nazioni Unite hanno dichiarato il 2013 anno internazionale
della cooperazione per l’acqua e hanno incaricato l’Unesco, la loro agenzia più
multidisciplinare, di cornordinare le iniziative legate a questo tema che tocca
in modo trasversale ambiti diversi, dalle scienze naturali e sociali,
all’istruzione, alla cultura, alla comunicazione.

Obiettivo dell’Anno Internazionale, si legge
nel sito dell’agenzia Onu che si occupa dell’acqua, Un Water, è quello
di accrescere la consapevolezza sia delle aumentate possibilità di cooperazione
su questo tema sia delle sfide relative alla gestione dell’acqua. Sarà anche
un’occasione, conclude Un Water, per sfruttare il momentum, lo slancio
generato dalla Conferenza Onu sullo sviluppo sostenibile, nota come Rio+20
poiché si è svolta vent’anni dopo una precedente conferenza organizzata proprio
a Rio de Janeiro, in Brasile, sullo stesso tema.

A
quale momentum le Nazioni Unite si riferiscano rimane piuttosto dubbio,
visto che molti degli esponenti della società civile internazionale intervenuti
a Rio+20 hanno giudicato l’evento un flop e il documento conclusivo, intitolato
Il futuro che vorremmo, una semplice raccolta di buoni propositi priva
di qualunque rilevanza operativa e concreta. Non sono state date risposte
efficaci a gridi d’aiuto come quello di una donna mozambicana riportato da p.
Alex Zanotelli su Nigrizia nei suoi articoli da Rio: «La multinazionale
brasiliana Vale do Rio Doce – ha urlato la donna al microfono – sta costruendo
una diga nel mio paese, derubandoci delle nostre terre e delocalizzando la
nostra gente».

L’importanza
dell’acqua per la vita umana è di un’evidenza che non richiede dimostrazioni,
ma è interessante citare alcuni esempi di come la sua gestione crei diatribe
che si trasformano molto spesso in veri e propri conflitti armati. World
Water
, un progetto del pluripremiato istituto di ricerca Pacific
Institute
di Oakland, Califoia, ha stilato una lista che conta 225
conflitti legati all’acqua dal 3.000 a.C. al 2010. Il sito del Centro di
Documentazione dei conflitti ambientali
, con sede a Roma, fornisce i
dettagli di oltre sessanta conflitti in corso che riguardano la gestione
dell’acqua: deviazione di fiumi, costruzione di dighe, fumigazione di
coltivazioni illegali e altri interventi simili stanno pesantemente inquinando
le acque del globo e mettendo in discussione l’esistenza di interi popoli.

Avere a disposizione acqua pulita fa la differenza fra
vivere e morire in moltissimi contesti. Secondo Un Water, la diarrea
rimane la principale causa di malattia e morte nel mondo e nove casi di decesso
su dieci, tra quelli causati da malattie intestinali, sono dovuti alla mancanza
di acqua potabile e di igiene. Ogni venti secondi un bambino muore a causa
delle condizioni igieniche insufficienti. Lavarsi le mani con il sapone e acqua
pulita potrebbe ridurre di quasi la metà queste morti.

Altro esempio: il tracoma, infezione agli occhi diffusa
nel sud del mondo, colpisce circa quaranta milioni di persone; circa sei
milioni sono gli abitanti del pianeta oggi privi della vista a causa di questa
malattia, che si diffonde principalmente dove le condizioni igieniche sono
insufficienti per la mancanza di acqua e di sanificazione. Secondo l’Unicef,
intervenire per migliorare l’accesso a fonti idriche adeguate potrebbe ridurre
del 25% l’infezione.

Unicef ricorda poi che anche nella lotta all’HIV l’acqua
ha un ruolo cruciale: i pazienti affetti da Aids sono più suscettibili alle
malattie legate all’acqua di quanto lo siano gli individui sani e si ammalano
più gravemente per questo tipo di infezioni rispetto a persone il cui sistema
immunitario non è compromesso. Per questo è ancora più importante garantire
loro accesso ad acqua adeguata.

Molti
sarebbero gli esempi da citare per illustrare il peso decisivo dell’acqua nel
salvare vite umane o anche solo nel garantire standard di vita accettabili;
altrettanti, però, sono gli esempi di abuso delle risorse idriche che minaccia
la piena fruizione di questo bene fondamentale. Questa rivista si occupa da
anni di segnalare tali abusi, che vanno dal prosciugamento delle falde
acquifere del Kerala (India) da parte di Coca Cola Company (vedi Moiola,
Acqua del rubinetto? Sì, grazie!
, MC 6/2006) all’utilizzo di acqua nella
coltivazione di fiori per i mercati europei in paesi, come il Kenya (ma non
solo), pur afflitti con cadenza annuale da ondate devastanti di siccità
(Anataloni, La vergogna della fame, MC 9/2011).

I missionari della Consolata per l’acqua

L’accesso
all’acqua è uno dei temi portanti del lavoro dei missionari della Consolata nel
mondo e i progetti realizzati nelle missioni spaziano dai micro-interventi alle
iniziative di più ampia portata, dalla risposta alle emergenze all’ascolto
delle esigenze quotidiane delle comunità. Qui, per ragioni di spazio, ne
vediamo solo alcuni fra i più recenti e significativi.

Africa – Kenya


Il
più monumentale degli interventi legati all’acqua è probabilmente quello che da
quarant’anni fratel Giuseppe Argese porta avanti a Mukululu con il Tuuru
Water Scheme
. I numeri del sistema idrico messo in piedi da fratel Argese
con la diocesi di Meru fanno impressione: oltre un quarto di milione di persone
e oltre settantamila capi di bestiame della zona circostante la foresta di
Nyambene ricevono acqua grazie a questo enorme impianto che, con i suoi 250
chilometri di tubature, conta centinaia di punti di erogazione d’acqua e serve
dispensari, strutture sanitarie, scuole e privati. Ciò che vale la pena di
ricordare è che fratel Argese sta portando avanti i lavori – con tutte le
difficoltà connesse – per costruire la terza diga, che permetterebbe di
risolvere in maniera definitiva i problemi di siccità della zona (vedi
Anataloni, Mukululu: ricominciare, sempre, MC 1/2013). Su questo
progetto si è critto molto negli anni e c’è buona documentazione. L’iniziativa
di sponsorizzare i punti di distribuzione dell’acqua sta raccogliendo buoni
consensi. Il progetto si può sostenere anche online attraverso ilMiDono.

Meno noto è il grande lavoro delle diocesi di Marsabit e
di Maralal, perennemente alle prese con la mancanza di acqua o con la presenza
di acqua salata. Hanno scavato centinaia di pozzi, sistemato cistee per la
raccolta di acqua piovana vicino a ogni tetto di asili, scuole, centri sanitari
e missioni, piazzato mulini a vento, risanato sorgenti dividendo l’accesso del
bestiame da quello delle persone, aiutato la gente a costruire piccoli bacini
artificiali per la raccolta della pioggia, propagandato l’uso corretto
dell’acqua per vincere le malattie attraverso corsi di formazione per donne,
leader, operatori sanitari… una miriade di iniziative che hanno certo
contribuito al miglioramento della vita in una regione semi-desertica. L’enorme
diocesi di Marsabit, prima della divisione da Maralal, aveva un gruppo
specializzato per seguire esclusivamente i numerosissimi progetti sull’acqua su
tutto il territorio. Ora le due diocesi continuano l’impegno attraverso i
rispettivi Uffici dello Sviluppo.

Sempre
in Kenya, Missioni Consolata Onlus ha seguito l’anno scorso la realizzazione di
un progetto idrico – sostenuto con fondi messi a disposizione da Caritas
e da un’associazione calabrese amica – che ha premesso alla scuola secondaria
di Mukothima, nel Tharaka, di dotarsi di una fonte d’acqua per irrigare il
campo adiacente alla scuola. Grazie al campo e alla serra costruita accanto a
esso, è ora possibile coltivare frutta e verdura per la mensa della scuola e
abbattere così i costi di gestione.

RD Congo e Mozambico


In
Repubblica Democratica del Congo, presso l’ospedale Notre Dame della Consolata
di Neisu, è in corso un progetto finanziato dalla Water Right Foundation della
Toscana e da altri partner della zona dell’ATO3 Medio Valdao. Il
progetto prevede la costruzione di tre pozzi nei dispensari che fanno capo
all’ospedale e la formazione della popolazione locale sul corretto uso delle
risorse idriche e, in Italia, diverse iniziative di sensibilizzazione
sull’acqua (vedi MC 3/2013).

Ai progetti classici sull’acqua, che comprendono la
costruzione di pozzi (come quello ultimato l’anno scorso a Nseue, Mozambico), l’installazione
di cistee per le scuole e le risposte alle emergenze siccità come quella del
2012 nel nord del Kenya, i missionari affiancano ormai da diversi anni altre
iniziative che riguardano meno il fare, il costruire e si
concentrano invece più sulla formazione delle persone. Si stanno cioè
moltiplicando i progetti che, da un lato affiancano alla foitura dell’acqua i
corsi di formazione su come gestirla correttamente e, dall’altro mirano ad
aumentare nelle comunità la consapevolezza del proprio diritto all’acqua.

Obiettivo
di questa formazione è sostenere la popolazione locale nel suo tentativo di
relazionarsi con le istituzioni pubbliche locali per esigere dai propri
amministratori interventi incisivi che ampliino l’accesso all’acqua pulita.
Indicativo è stato l’esempio del Mozambico, al quale Mco ha dedicato la
campagna di Natale del 2012: i missionari della Consolata che operano nel
gigante lusofono dell’Africa meridionale hanno segnalato all’unisono e con
molta decisione l’urgenza di mettere le comunità locali in condizione di
partecipare alla crescita economica del paese, creando in esse competenze
professionali e conoscenze giuridiche attraverso le quali tentare di avere voce
in capitolo nella ripartizione delle risorse nazionali, fra cui l’acqua, che
rischiano oggi di essere invece alienate e svendute a multinazionali straniere.

America Latina


Mco
ha seguito lo scorso anno due progetti a Bahia (Regione Nordeste del
Brasile), a Monte Santo e Jaguararì. Le due municipalità si trovano nel
cosiddetto poligono della siccità, caratterizzato dal bioma della caatinga,
foresta grigia, nome che deriva dalla presenza di piante che sono per la
maggior parte dell’anno secche. Le precipitazioni sono cronicamente scarse e la
struttura geologica della zona rende molto difficile raccogliere e
immagazzinare acqua. I fiumi sono stagionali e nella maggior parte dei casi
l’acqua del sottosuolo è salina, utilizzabile per la pulizia e l’abbeveraggio
del bestiame ma inadatta al consumo umano. Nell’entroterra,
una grande parte della popolazione locale riceve acqua potabile attraverso il
cosiddetto carro-pipa (camion cisterna), un servizio fornito
dall’esercito, mentre le città sono alimentate dalla Empresa Baiana de Águas
e Saneamento
(Embasa), una società privata il cui maggior azionista è il
governo dello stato di Bahia. Il rifoimento di acqua avviene una volta al
mese.

Durante
l’estate 2012, quest’area ha sperimentato la peggiore siccità degli ultimi
quarantasette anni (vedi MC 7/2012). Per dodici mesi non ci sono state
precipitazioni e le dighe e i fiumi che, in condizioni normali, riescono a
rifoirsi di acqua durante le piogge, si sono completamente prosciugati. «La
gente di Monte Santo», scriveva all’epoca dell’emergenza p. Stanley Thinwa
Muriuki, «spende anche un’intera giornata a cercare fonti spostandosi a piedi o
a dorso d’asino per lunghe ore. I bambini, anche loro coinvolti in questo
sforzo, sono costretti a perdere le lezioni scolastiche per aiutare le famiglie
a procurarsi acqua. Gli animali, spesso unica fonte di sostentamento in una
zona dove coltivare è praticamente impossibile, sono sempre più debilitati».

Per
far fronte a questa emergenza P. Stanley e P. Vidal Moratelli hanno proposto
una serie di iniziative che Mco ha riunito in una campagna di raccolta fondi
lanciata nel corso dell’estate 2012: oltre alla risposta immediata, che
prevedeva il trasporto di acqua alle comunità attraverso camion cisterna e
taniche, i missionari hanno previsto anche la perforazione di pozzi e
l’installazione di cistee che possano, in futuro, mettere al riparo la
popolazione dai danni della siccità endemica nella zona.

Jaguararì, a circa 150 chilometri da Monte Santo,
condivide gli stessi problemi. Per questo, i padri Domingos Forte e Aquileo
Fiorentini si sono impegnati nella costruzione di cistee da installare presso
le abitazioni delle famiglie della zona in modo che possano immagazzinare acqua
durante la stagione delle piogge e far fronte così ai momenti più difficili.
Grazie al sostegno di diversi donatori, l’intervento procede in modo lento ma
costante e di recente otto nuove cistee sono state installate. «In un primo
momento sono state scelte le aree dove era più grave la mancanza di acqua»,
scriveva p. Aquileo lo scorso novembre raccontando lo svolgimento del progetto,
«per poi passare all’identificazione delle famiglie più bisognose, cioè quelle
più numerose e con presenza di bambini. Famiglie che vivono vicine hanno
accettato di condividere una cisterna. Un bel segno di condivisione». E di
cooperazione. Per l’acqua.

Chiara Giovetti
Alcuni articoli sull’acqua in MC:
C. Giovetti, Acqua per la salute, 3/2013.
J. Patias, Questione di vita o di morte, 7/2012.
L. Anataloni – S. Tavella, Come una goccia di rugiada, 9/2010.
U. Pozzoli, Acqua delle nostre brame, 5/2009.
L. Anataloni, Mukiri, l’uomo dell’acqua, 2/2008.
AA.VV., Le mani sull’acqua (dossier), 6/2006.

Chiara Giovetti




America, il continente aperto

Riflessioni e fatti sulla
libertà religiosa nel mondo – 08
Continente che ospita 948 milioni di persone, l’America è l’area
geografica che fa registrare i livelli più bassi di restrizioni governative e
di ostilità sociali riguardanti la religione. Ma, come il resto del mondo,
anch’essa vede un aumento di pressione sulla libertà religiosa. Tra gli esempi
più significativi di tale aumento c’è quello degli Usa, ma anche del Messico,
di Cuba e della Colombia.

Era il 6 agosto scorso quando
l’ennesima notizia di una strage avvenuta negli Usa per mano di un «folle»
girava il mondo: sette persone morte, tra cui lo stragista, tre ferite
gravemente, decine sotto shock. Quell’episodio ne seguiva di simili, avvenuti
nelle settimane anteriori, e ne precedeva altri che avrebbero riacceso il
dibattito statunitense sulla vendita di armi. Esso però aveva una sua
peculiarità: nell’assalto il killer aveva preso di mira un tempio sikh.
«È importante notare che questo è solo uno di un numero crescente di episodi di
violenza che i sikh hanno sperimentato negli ultimi anni», dichiarava alcuni
giorni dopo il direttore esecutivo della «Sikh coalition» Sapreet Kaur. «L’assassino
sarebbe un ex militare congedato dall’esercito nel 1998, per cattiva condotta
[…] – si affrettava a informare tra gli altri Radio Vaticana -. I sikh, noti
per la barba lunga e il turbante (stimati tra i 78mila e i 500mila negli Usa,
ndr.), sono scambiati spesso per musulmani e fatti oggetto di attacchi dopo
l’11 settembre 2001». La strage quindi aveva sullo sfondo, tra i moventi, un
problema di odio religioso. Secondo i rilievi dell’Fbi sulla criminalità,
citati dal rapporto 2011 del Pew Forum, gli Usa hanno avuto più di 1.300
crimini d’odio religioso nel 2009. La maggior parte dei quali anti-ebraici (931
dei 1.303 reati, il 71%; mentre l’8% era motivato da pregiudizi anti-islamici).

Gli Stati Uniti sono uno dei 16 paesi del mondo che hanno fatto
registrare un significativo incremento di entrambi gli indici (Restrizioni
Goveative e Ostilità Sociali) durante l’anno preso in esame dal Rising
tide of restrictions on religion
, l’ultimo studio del Pew Forum
sulla libertà di religione nel mondo con dati riguardanti il 2010. Durante
quell’anno c’è stato un «aumento del numero di incidenti a livello statale e
locale nei quali membri di diverse religioni hanno incontrato restrizioni nella
capacità di praticare la loro fede». Ad esempio «incidenti nei quali agli
individui è stato impedito d’indossare un certo abbigliamento o di portare
simboli religiosi, compresa la barba, in prigioni, penitenziari e altre
strutture correzionali». Alcuni gruppi religiosi hanno incontrato anche grandi
difficoltà nell’ottenere permessi per la costruzione o per l’ampliamento di
luoghi di culto.

Per quanto riguarda l’aumento di ostilità sociale, il Pew Forum
individua tra le sue cause «un picco di attacchi terroristici di matrice
religiosa» nell’anno preso in esame. «L’incremento di ostilità sociali negli
Stati Uniti si riflette anche nell’aumento del numero di denunce di
discriminazione sul posto di lavoro».

Il continente con minori limitazioni

L’America è l’unico continente in cui il livello più alto di restrizioni governative e di ostilità
sociali non viene registrato in nessuno dei paesi che lo compongono. In media
il grado di Gri è basso (1,1). Il solo paese ad everlo alto è Cuba; mentre
altri otto ce l’hanno moderato (si veda tabella). L’America è anche
l’unico continente a non aver fatto registrare un aumento di ostilità sociali,
il cui livello in media rimane molto basso (0,4): il solo paese ad averlo alto è
il Messico; mentre altri cinque paesi fanno registrare un livello moderato (si
veda tabella
).

Spiccano quindi nel continente americano Cuba e Messico, i due
paesi toccati lo scorso anno dalla visita pastorale di Benedetto XVI. E assieme
a essi, Usa e Colombia, per avere un livello moderato in ambedue gli indici.
Tutti gli altri paesi del continente hanno i due indici a un grado mediamente
basso, o al più uno solo dei due a livello moderato.

MESSICO

Il Messico è il secondo paese al mondo, dopo il Brasile, con più
alto numero di cattolici: circa 96,3 milioni, l’84,9% della sua popolazione (i
protestanti sono l’8,3%, gli altri cristiani l’1,7%, i non affiliati ad alcun
credo il 4,7%, i membri di altre religioni lo 0,3%); e il paese americano con
minore libertà religiosa a causa del livello alto di ostilità sociali e del
livello moderato di restrizioni governative.

«La Costituzione messicana e le altre leggi e politiche
generalmente proteggono la libertà religiosa – ci informa l’Inteational
Freedom Report for 2011
-, ma ci sono alcune limitazioni a livello statale
o locale. […] Alcuni capi e autorità delle comunità locali, in particolare
nel Sud, utilizzano la religione come pretesto per conflitti legati a
controversie politiche, etniche, o relative alla terra. […] Funzionari del
governo federale e locale, spesso non puniscono i responsabili di atti di
intolleranza religiosa».

Mentre a livello istituzionale nel 2011 non si sono registrati
cambiamenti, né in positivo, né in negativo (e nel 2012 una riforma
costituzionale che ha inserito un riferimento esplicito alla libertà religiosa è
stata vista con entusiasmo da alcuni e con criticismo da altri osservatori
della libertà religiosa), a livello sociale invece ci sono state numerose
segnalazioni di abusi e discriminazioni. Mormoni, membri delle comunità
ebraiche e buddiste affermano di non trovare particolari ostacoli alla pratica
della loro religione, mentre – afferma sempre l’Inteational Freedom Report
for 2011
– invece diversi gruppi evangelici sostengono di subire frequenti
molestie. Soprattutto nelle regioni centrali e meridionali essi lamentano
l’espulsione dai loro villaggi, la perdita dei diritti di comunità e del
possesso di beni personali, percosse, minacce di morte, l’incendio delle loro
chiese e case.

CUBA

Cuba, che registra un alto livello di restrizioni governative ma
uno basso di ostilità sociali, conta 5,82 milioni di cattolici, il 51,7% della
popolazione (i protestanti sono il 5,6%, gli ortodossi lo 0,4%, gli altri
cristiani l’1,5%, i non affiliati a nessun credo il 23%, i seguaci di religioni
tradizionali il 17,4%, gli hindu lo 0,2%, e i membri di altre religioni lo
0,2%). Dopo l’apertura registrata nel corso del 2011 che aveva indotto il
Dipartimento di Stato Usa a sottolineare nel suo rapporto annuale il
miglioramento del governo cubano nel rispetto per la libertà religiosa, «anche
se restrizioni significative sono rimaste inalterate, e il Partito Comunista di
Cuba, attraverso il suo Ufficio degli affari religiosi, ha continuato a
esercitare il controllo regolamentare su molti aspetti della vita religiosa»,
le notizie che arrivano dall’isola caraibica tra fine 2012 e inizio 2013 fanno
temere una nuova ondata di restrizioni.

«Drammatico aumento di violazioni della libertà religiosa nel 2012»
intitolava un suo comunicato stampa l’organizzazione Christian Solidarity
Worldwide
a inizio 2013: «Mentre la Chiesa Cattolica riporta il maggior
numero di violazioni, per lo più riguardanti l’arresto e la detenzione
arbitraria di parrocchiani che tentano di frequentare le attività della chiesa,
anche altre denominazioni e gruppi religiosi sono stati colpiti. Chiese
battiste, metodiste e pentecostali in diverse parti del paese hanno riportato
molestie costanti e pressioni da parte di agenti di sicurezza dello stato.
Inoltre, i funzionari del governo hanno continuato a rifiutare la registrazione
di alcuni gruppi, tra cui la rete protestante del “Movimento
Apostolico”, minacciando chiusure di chiese, e chiudendo un luogo di culto
mormone […]. Uno dei casi più gravi ha riguardato il violento pestaggio di un
pastore pentecostale [che] ha subito danni permanenti al cervello. Il pestaggio
sembra essere stato orchestrato da funzionari locali del Partito comunista. A
oggi nessuna indagine a riguardo è stata effettuata».

COLOMBIA

Tra i primi 50 paesi della World Watch List, la classifica
compilata dall’organizzazione cattolica Open Doors dei paesi in cui
maggiormente vengono perseguitati i cristiani, la Colombia è l’unico del
continente americano a essere presente, figurando al 46° posto: «La Colombia –
in cui i cristiani sono il 92,5% della popolazione (cattolici 82,3%,
protestanti 10%, altri cristiani 0,1%), i non affiliati il 6,6%, e i seguaci di
religioni tradizionali lo 0,8% – […] formalmente è una modea democrazia
dove la supremazia della legge è consolidata e la libertà religiosa garantita.
Tuttavia ampie zone del paese sono sotto il controllo di organizzazioni
criminali, cartelli della droga, rivoluzionari e gruppi paramilitari – scrive Porte
Aperte
nel suo profilo del paese -. Le ricerche di Open Doors hanno
evidenziato che le organizzazioni criminali prendono di mira in particolar modo
i cristiani […]. Il crimine organizzato percepisce come una minaccia quei
cristiani che si oppongono apertamente alle loro attività, soprattutto quando
essi sono attivi in politica o in programmi sociali. […] Teme che i cristiani
inducano i membri della comunità locale o persino gli aderenti alle sue
organizzazioni a opporsi alle loro attività criminali. Nel suo rapporto 2010
l’Ong cristiana Justapaz ha riportato 95 minacce di morte o tentati
omicidi, 71 sgombri forzati, 17 omicidi, 2 sparizioni e molti casi di
sequestri, torture, pestaggi e reclutamento forzato […]».

Il 5 febbraio l’Agenzia Fides annunciava il terzo omicidio
di un prete cattolico in Colombia dall’inizio dell’anno: «Secondo l’elenco
realizzato annualmente dall’Agenzia Fides, nel 2012, per la quarta volta
consecutiva, l’America ha registrato il numero più alto di operatori pastorali
uccisi rispetto agli altri continenti. In Colombia nel 2012 è stato ucciso un
sacerdote; nel 2011 sono stati uccisi 6 sacerdoti e 1 laico; nel 2010 […] 3
sacerdoti e un religioso; nel 2009 […] 5 sacerdoti ed 1 laico».

Una sintesi continentale

La sintesi continentale del rapporto Acs (Aiuto alla Chiesa che
Soffre) 2012 sulla libertà di religione offre una panoramica frastagliata: se
in generale la situazione della libertà religiosa nel continente non è grave,
si notano passi avanti di alcuni paesi controbilanciati da passi indietro. «Se
in Argentina il 25 novembre è stato proclamato “Giornata Nazionale della Libertà
Religiosa”, in Bolivia – dove la Costituzione del 2009 riconosce la libertà di
religione – si sono verificate tensioni tra il presidente Morales e la Chiesa
cattolica» che ha denunciato la tendenza del governo «a utilizzare l’esperienza
religiosa dei nostri popoli per creare riti paralleli ai sacramenti cristiani
cattolici o ad altre espressioni popolari della fede». Rapporti Stato-Chiesa
tesi anche in Venezuela. Mentre sembra non essere legata a motivi religiosi «l’uccisione
del sacerdote cattolico don Romeu Drago, avvenuta il 19 febbraio 2011 in
Brasile, dove la Costituzione tutela pienamente la libertà religiosa […]. In
Cile si notano dei positivi passi avanti, come le informative ministeriali
sull’assistenza religiosa nei luoghi di cura e nei penitenziari, e sul rispetto
dell’uguaglianza dei culti all’interno delle aule scolastiche. Avviate,
inoltre, iniziative legislative per riconoscere i giorni sacri ai musulmani e
ai Bahá’í».

«Atti di vandalismo e violenza contro edifici religiosi, immagini
sacre e sacerdoti sono stati compiuti in Nicaragua», unico paese americano ad
aver registrato un aumento delle ostilità sociali molto significativo. «Preoccupano
in Ecuador alcune proposte di legge orientate alla limitazione della libertà
religiosa (garantita a livello costituzionale). Tra questi un progetto di legge
circolato informalmente nell’agosto del 2011 che prevedeva anche la chiusura
delle scuole confessionali e proibiva ai sacerdoti di indossare l’abito al di
fuori dei luoghi di culto». Contesto positivo invece in Paraguay, in Perù,
nella Repubblica Dominicana e in Uruguay.

Luca Lorusso

Luca Lorusso




Quale Cesare abbiamo scelto come nostro Dio? | Rendete a Cesare (2)


Per leggere la prima parte

Rendete a Cesare quel che è di Cesare | Rendete a Cesare (1)


«Un servitore non può servire due padroni» (Gv 19,15; Es 20,3)

Durante la passione di Gesù, secondo la versione di Giovanni (cf Gv 18-19), gli stessi che presentano la moneta con l’effige dell’imperatore si trovano davanti a una scelta, come i loro antenati al tempo di Samuele: scegliere tra Dio e Cesare. Consapevolmente e senza esitazione essi rinnegano Dio come re e riconoscono Cesare come loro signore e padrone. Quando Pilato, in rappresentanza dell’imperatore, li obbliga a scegliere, essi non hanno esitazione:

«13Se liberi costui, non sei amico di Cesare! Chiunque si fa re si mette contro Cesare… 14Pilato disse ai Giudei: “Ecco il vostro re!”. 15Ma quelli gridarono: “Via! Via! Crocifiggilo!”. Disse loro Pilato: “Metterò in croce il vostro re?”. Risposero i capi dei sacerdoti: “Non abbiamo altro re che Cesare”» (Gv 19,12.14-15).

Una questione antica

Nel secolo VI a.C., quando furono redatti i libri di Samuele, gli antenati degli scribi e dei farisei, agirono allo stesso modo, rinnegarono Dio come loro re e chiesero a Samuele un imperatore che li giudicasse: «Stabilisci per noi un re che sia nostro giudice, come avviene per tutti i popoli» (1Sam 8,5). A Dio dispiacque questa richiesta perché «non si può servire due padroni» (Lc 16,13). Con quella risposta, essi annullarono la specificità d’Israele che fu scelto tra tutti i popoli, come «popolo di Dio»; essi invece vollero essere «come avviene per tutti i popoli».

In forza della Scrittura e in nome della loro storia privilegiata, storia di elezione e di alleanza sponsale, gli Ebrei dovrebbero farsi ammazzare piuttosto che contaminarsi con l’immagine dell’imperatore, che pretende di usurpare la regalità di Dio. Essi, al contrario, fanno una professione pubblica di fede davanti a Cesare: «Non abbiamo altro re che Cesare», che è l’opposto esatto del primo comandamento: «Non avrai altri dèi di fronte a me» (Es 20,3). Ci troviamo in piena apostasia, allo stesso modo che nel deserto del Sinai, quando gli Ebrei sostituirono il Dio di Mosè con un vitello d’oro fuso, che invocarono come loro liberatore (Es 32,4.8).

Le parole dei suoi correligionari, per di più pronunciate davanti al rappresentante del potere romano, che era potere di occupazione, devono essere risuonate amare e scandalose nelle orecchie di Gesù. La questione era talmente delicata che al tempo di Gesù, lo stesso procuratore romano, Pilato, per non urtare la sensibilità degli Ebrei, la cui religione vietava le immagini sacre, aveva fissato la propria residenza a Cesarea Marittima, cioè lontano dal tempio, centro religioso della vita degli Ebrei. A Cesarea, egli può tenere le insegne con le effigi dell’imperatore, ma quando andava a Gerusalemme evitava di portarle con sé, per rispetto degli Ebrei, ma anche per paura di sommosse popolari.

Il rappresentante dell’imperatore ha, per la religione ebraica, quel rispetto che gli stessi membri del sinedrio dimostrano di non avere. Essi sanno bene che portare le monete romane significa macchiarsi di contaminazione e d’impurità, perché con le monete portano con sé l’effige di Cesare. Essi usano il denaro di Cesare nei loro traffici e con questo si dichiarano sudditi e schiavi, abdicando non solo dalla loro condizione di figli, ma anche dal loro ruolo di guide del popolo. Se l’autorità stessa rinnega il Dio della creazione, come può pretendere di guidare il popolo verso l’autorità di Dio? Gli stessi che portano con sé l’immagine di Cesare, proibiscono ai Giudei di entrare nel tempio con la moneta romana, proprio perché riproduce l’effige dell’imperatore romano che si considerava e veniva considerato «divino», cioè figlio di Giove e a lui bisognava prestare culto.

La questione è molto grave e lo si deduce anche da un altro fatto: poiché il denaro romano portava l’effige dell’imperatore, non poteva essere versato nel tesoro del tempio perché sarebbe stato un sacrilegio. Per ovviare a ciò nel portico del tempio vi erano i cambiavalute, che scambiavano la moneta romana con lo shèkel, la moneta ufficiale israeliana. È questo il motivo per cui Gesù nel tempio scaccia i cambiavalute e i venditori con l’accusa di avere trasformato la casa di preghiera di Dio in un covo di ladri (cf Gv 2,13-19): essi per interesse trafficano l’«immagine di Cesare» nel tempio di Gerusalemme, il trono della Gloria di Dio che aveva posto la sua «immagine» nella carne di ogni uomo e donna, sacramento della sua presenza nella storia.

La moneta romana, «sacramento imperiale»

Portando con sé e trafficando negli affari con la moneta dell’imperatore, i capi dei sacerdoti, gli scribi e i farisei, cioè la gerarchia religiosa nel suo complesso, dichiarano pubblicamente di avere sostituito «l’immagine» di Dio (cf Gen 1,27), di cui erano custodi, con quella mercantile del re pagano che, come un novello faraone, tiene sotto sequestro il popolo eletto.

Per affermare la propria autorità, Roma aveva tolto al sinedrio il diritto di comminare la morte (ius gladii) e, contemporaneamente, custodiva le vesti solenni del sommo sacerdote, che erano consegnate ogni volta che servivano. I due fatti erano il segno clamoroso e umiliante della sottomissione totale, giuridica e religiosa. Doveva essere chiaro chi era «il re d’Israele».

La conseguenza logica che si deduce dai testi e dai fatti è semplice: i rappresentanti della religione ufficiale, i capi responsabili del popolo, quelli che hanno in mano i mezzi di governo e anche dell’economia, rinnegano Dio come loro Re e Signore. Essi si adeguano alle convenienze e vogliono essere «come tutti gli altri popoli»: cioè schiavi di un dittatore che li spreme come limoni, perché fa loro pagare le tasse per sé, per il senato e concede anche, bontà sua, che paghino una tassa supplementare per il tempio. Gesù aveva messo in guardia: «Coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni [perché] dominano su di esse e i loro capi le opprimono» (Mc 10,41).

Senza rendersene conto, chi pone la domanda a Gesù se sia lecito pagare le tasse, mette in evidenza una questione che riguarda la persona di Dio e il rapporto che ogni Israelita ha con lui. Gesù, con la sua risposta, mette a nudo il loro dramma e li richiama alla responsabilità della «teshuvàh – conversione».

Le parole svelano le intenzioni del cuore

Tenendo conto di questo quadro, vediamo il testo. Alla luce di questa panoramica contestuale che tiene conto di tutta la Scrittura, il contesto immediato dei tre Sinottici, e particolarmente in Lc, è di complotto e di tensione:

– Lc 20,19: «Gli scribi e i capi dei sacerdoti cercarono di mettergli le mani addosso, ma ebbero paura del popolo». È in atto una macchinazione per perseguire un fine ingiusto.

– Lc 20,20: «Si misero a spiarlo e mandarono informatori, che si fingessero persone giuste, per coglierlo in fallo nel parlare e poi consegnarlo all’autorità e al potere del governatore». È evidente una collusione/ complicità con il potere pagano e impuro, con l’obiettivo esplicito di servirsi del potere pagano.

– Lc 20,25: «Egli disse: “Rendete dunque quello che è di Cesare a Cesare e quello che è di Dio a Dio”». La risposta di Gesù, tecnicamente, si configura come risposta ad hominem, cioè diretta. Egli non fa un discorso generale sulle tasse, ma riprende, strettamente parlando, la risposta da essi data: poiché l’immagine della moneta appartiene a Cesare, come essi stessi ammettono, è un suo diritto, dice Gesù, averla indietro.

Se Gesù si fosse limitato a questa prima parte, tutto sarebbe finito con un insegnamento esemplare e coerente: poiché voi vi servite del denaro di Cesare che vi offre un servizio, è giusto che vi chieda un qualche corrispettivo. Se volete contestare l’autorità di Cesare, non usate il suo denaro, cioè siate voi stessi coerenti. La novità di Gesù sta nella seconda parte della risposta, con la quale riprende quello che i suoi interlocutori avevano omesso o dimenticato: Dio. Il testo greco dice alla lettera:

«E pertanto, dunque/di conseguenza, restituite (una volta per tutte) le cose di Cesare a Cesare e (= nello stesso tempo) le cose [che sono] di Dio [restituite] a Dio – Ho de eîpen pròs autoús: Toìnuyn apòdote ta Kàisaros Kàisari kài ta toû theoû tōi theōi».

Le parole hanno un senso oltre le apparenze

La parola «toínyn», in greco è una congiunzione cornordinante consecutiva o conclusiva (cf Blass-Debrunner §451,9) e per questo traduciamo in modo da dare alla risposta un tono definitivo e conclusivo. In questo modo, Gesù afferma che con la loro risposta sono essi stessi a darsi la risposta. Gesù si limita a trarre la conclusione logica e coerente di quanto affermato da loro. In altre parole, la risposta di Gesù non è una sua conclusione, ma quella cui essi stessi obbligano con il loro agire e con il loro pensare.

Per la restituzione (restituite), l’evangelista usa il tempo imperativo aoristo «apòdote» che indica un’azione compiuta in se stessa, avulsa dal tempo. Non può avvenire a rate o a spizzichi perché non lascia spazio per un tempo di riflessione. Deve essere un fatto unico, conseguenza di una decisione e di una conversione radicale: «Restituite una volta per tutte».

Infine, l’espressione «le cose di Cesare» ha il genitivo di origine o di appartenenza (Blass-Debrunner §162,9 e § 266, 5a): le cose in generale, qui la moneta, che sono «già» proprietà di Cesare. In altre parole Gesù dice che il possesso della moneta romana da parte dei Giudei è illegittimo, per cui restituirla al proprietario significa restaurare l’ordine della legittimità e della verità.

La questione non riguarda le tasse, come volevano gli scribi; Gesù sposta la discussione sul possesso della moneta, da parte di chi professa una religione che impone il divieto assoluto delle immagini della divinità. Questo divieto è così grave che viene codificato addirittura nel comandamento (Es 20,3). Poiché l’imperatore si considera «dio», è grave che la sua moneta, la sua «insegna», si trovi nelle mani di chi si appella al Dio di Mosè.

Si direbbe che l’autore usi la struttura della lingua greca per affermare con più forza il senso del pensiero che vuole esprimere. È straordinario come Gesù non si fermi mai alle apparenze, ma obblighi ad andare al cuore della questione. I farisei e i capi dei sacerdoti pensavano di metterlo in imbarazzo; invece, si ritrovano davanti a loro stessi, alla loro superficialità o, ancora più grave, alla loro religione di finzione, perché parlano in nome di Dio, ma ne disattendono i comandamenti.

Contesto prossimo: il complotto

Non è sufficiente, però, tradurre le parole del vangelo, bisogna anche collocarle nel contesto immediato e prossimo, se vogliamo afferrarne il senso profondo. È quello che facciamo, osservandolo da vicino.

Il capitolo 20 di Luca si apre con due polemiche fortissime:

– Lc 20,1-8: Gesù si oppone ai «capi dei sacerdoti e gli scribi con gli anziani» (v. 1) che pretendono di limitare la sua autorità; Gesù li mette all’angolo con una domanda trabocchetto: il Battesimo di Giovanni viene da Dio o dagli uomini? Se rispondono che viene da Giovanni, corrono il rischio che la folla si ribelli, perché Giovanni aveva la fama di profeta; se rispondono da Dio, si autoaccuserebbero perché non gli hanno creduto. Non hanno più alibi. In questo modo Gesù raggiunge il suo obiettivo: li mette alle strette e con le spalle al muro. Infatti, essi si rifiutano di rispondere perché non possono.

– Lc 20,9-19: la parabola dei contadini omicidi obbliga gli uditori a trarre le conclusioni, o come si dice, la morale. Infatti, gli interessati capiscono subito: «Avevano capito che aveva detto quella parabola contro di loro» (Mc 12,12). A questo punto, non si può andare tanto per il sottile, perché uno che mette in difficoltà il sommo sacerdote, che costringe all’angolo i membri del sinedrio, che contesta la loro autorità e mette in dubbio la loro moralità di trafficanti con il denaro immondo, non può restare libero. È un pericolo per l’istituzione religiosa che si sente screditata. L’autorità non si può discutere, perché s’indebolisce e si delegittima.

I capi religiosi vogliono però umiliare Gesù a ogni costo; per loro la questione delle tasse è strumentale, perché il loro vero obiettivo è il complotto per mettere Gesù fuori gioco, in modo definitivo. Il clima da servizi segreti con spie e travestimenti è descritto da Luca 20,20, in modo impressionante e preciso: «Si misero a spiarlo e mandarono informatori, che si fingessero persone giuste, per coglierlo in fallo nel parlare e poi consegnarlo all’autorità e al potere del governatore».

È il metodo del tranello e del fango, dell’inganno, della manipolazione della verità e realtà. C’è lo spionaggio che significa una scelta cosciente: pur di raggiungere il fine qualsiasi mezzo è lecito. L’atteggiamento e la perversione dei capi religiosi ha fatto scuola nella storia fino ai nostri giorni anche nella Chiesa. Un papa che si dimette, come Benedetto XVI, perché non è stato in grado di fermare «individualismi e rivalità» che hanno generato «le divisioni che deturpano la Chiesa», come egli stesso ha ammesso (Omelia delle ceneri, 13 febbraio 2013, in San Pietro), mettono in luce che, quando prende il sopravvento la religione d’interesse, gravi sono le conseguenze sul piano della fede; possono arrivare anche a produrre le dimissioni come ipotesi di soluzione del conflitto.

La risposta di Gesù: la coerenza nella verità

Gesù sventa il tranello e va alla radice della questione. Chiedendo retoricamente di chi è l’«immagine», come se lui non lo sapesse, sposta la riflessione sul problema radicale: quale autorità governa su Israele? In altre parole, più esplicite: chi è il «Dio» di Israele? È il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe e di Mosè, oppure è il «divino Cesare», imperatore di Roma?

Tutti, al tempo di Gesù sapevano che gli imperatori romani, come qualsiasi altro potente, facevano imprimere la propria effige sulle monete di metallo per due motivi di ordine pratico. In un tempo senza macchine fotografiche e senza tv, un modo per farsi riconoscere era la divulgazione dei lineamenti imperiali su tutto il regno. Il secondo motivo, più politico, era di affermare la propria autorità sui propri sudditi, perché chiunque avesse usato la moneta con l’effige, di fatto ne riconosceva la legittimità e quindi si sottometteva alla sua autorità giuridica e fiscale.

I capi religiosi che avrebbero dovuto guidare il popolo, il cui re è il Dio d’Israele (cf Sal 144/143,15), invece, riconoscono l’autorità di un imperatore che non può godere di alcun diritto di governo su Israele. In questo modo essi conducono il popolo nella schiavitù di un pagano e straniero, usurpatore della legittimità di Dio. Essi sono responsabili della decadenza religiosa e della devianza etica del loro popolo perché confondono Dio con Cesare.

(continua – 2)

Paolo Farinella




Spiritualità e pragmatismo

A 20 anni dalla morte, a Spezzano la mostra «a tutti e a
ciascuno: vita e opere di p. Giuseppe Richetti».
Il 12 gennaio è stata inaugurata presso casa Corsini a Spezzano
(Modena) la mostra in memoria di p. Giuseppe Richetti in occasione del 20°
anniversario della sua morte. Nella chiesa parrocchiale si è tenuta una
celebrazione in sua memoria, con partecipazione di tutta la grande famiglia del
missionario, e autorità e popolazione. P. Mario Barbero per i missionari della
Consolata ha ricordato la figura di p. Giuseppe e ha offerto testimonianze
dall’Africa.

Un pioniere della fede e dell’evangelizzazione.

È nitido il ritratto che restituisce il profilo di padre Giuseppe Richetti,
missionario della Consolata, di cui abbiamo ricordato i vent’anni dalla morte
lo scorso 12 gennaio. Nato a Spezzano di Fiorano il 14 marzo 1933 è morto a
Nairobi (Kenya) il 12 gennaio 1993, alla soglia dei sessant’anni; formatosi
presso il seminario di Modena-Nonantola, p. Giuseppe ha dedicato tutta la sua
vita alla missione in Africa. Thomson’s Falls (ora Nyahururu), Kerugoya, Tuthu,
Sagana e Karuri sono le tappe del suo impegno in Kenya. In quelle missioni p.
Giuseppe ha profondamente innovato, nella scia del Vaticano II, la presenza
cristiana nelle comunità africane: dal coinvolgimento dei laici nella
catechesi, alla traduzione di tutta la liturgia delle ore e della Parola in
kikuyu, la lingua maggiormente diffusa tra i locali, fino alla costruzione di
chiese, scuole, asili, oratori e luoghi di formazione. Una sintesi
straordinaria di pragmatismo e spiritualità.

Era un uomo di fede e un amante della liturgia, ma sapeva
diventare geometra, ragioniere e architetto di fronte alle esigenze delle
comunità che era chiamato a servire. E in ogni impresa era in grado di
coinvolgere, anche a distanza, i fratelli, gli amici e i parenti di Spezzano e
del modenese, in una relazione con il territorio delle sue origini che passava
dal continuo scambio epistolare ai container riempiti di materiali utili alle
missioni. In tanti sono stati coinvolti nei suoi harambee, ovvero quei
momenti contagiosi di solidarietà in cui tutti erano chiamati a dare quanto
potevano per il successo delle opere intraprese.

Padre Giuseppe è riuscito a far diventare tutti un po’ missionari.
E gli spezzanesi hanno deciso di non dimenticare quanto accaduto. Lo racconta
Francesco Richetti, fratello di p. Giuseppe, che, insieme ai familiari, ha
curato l’organizzazione della mostra «A tutti e a ciascuno, opere pensieri e
frutti di p. Giuseppe Richetti». «Insieme all’Amministrazione comunale, alla
parrocchia di Spezzano e ai missionari della Consolata, che ringrazio per la
disponibilità, abbiamo voluto offrire un momento che non fosse solo di ricordo
o commemorazione, ma che servisse ad avvicinare la figura di p. Giuseppe alla
comunità di Spezzano, soprattutto ai più giovani. Mio fratello è scomparso
venti anni fa. Il tempo passa, ma ciò che ha fatto rimane ancora oggi vivo tra
le comunità che ha servito in Africa. Conoscere le sue opere, i suoi pensieri,
i suoi scritti e condividere i frutti della sua azione è il modo migliore per
ricordarlo e allo stesso tempo per “restituire” alla sua Spezzano
consapevolezza e orgoglio per ciò che ha prodotto».

«Penso tra l’altro – continua Francesco Richetti – che nel profilo
di p. Giuseppe ci siano tante indicazioni utili per superare le difficoltà di
questo tempo di crisi. A chiunque gli ponesse una domanda, anche il solito “come
va?” rispondeva sempre “benone!”. Anche di fronte alle difficoltà, alla povertà
di mezzi e risorse, ai suoi acciacchi che non l’hanno mai abbandonato, la
profonda fede e la convinzione che insieme si può far fronte a ogni impedimento
hanno caratterizzato una vita durante la quale ha infuso speranza e amicizia
cristiana a tante persone».

«Abbiamo voluto ripercorrere le tappe
salienti del suo impegno missionario, dalla partenza da casa al seminario di Modena-Nonantola,
dagli studi a Torino con i missionari della Consolata fino alla sua ragione di
vita: la missione in Kenya, il grande impegno nella liturgia e nella catechesi,
e la costruzione di tante strutture di accoglienza, le prime in muratura di quegli
anni».

Nella giornata del 12 gennaio è stata inaugurata alle ore 16 la
mostra presso casa Corsini a Spezzano e alle ore 18, presso la chiesa
parrocchiale di Spezzano si è tenuta una celebrazione in ricordo del
missionario. Sono intervenuti il Sindaco di Fiorano Claudio Pistoni, il parroco
di Spezzano don Paolo Orlandi, P. Mario Barbero per i missionari della
Consolata che ha ricordato la figura di padre Giuseppe e ha offerto
testimonianze dall’Africa, Annalisa Vandelli autrice del libro «Continuerà a sorridere»
sulla vita di padre Richetti, e Anna Richetti in rappresentanza della famiglia.

Matteo Richetti


Il mio ricordo

La notizia della morte di p.
Giuseppe Richetti mi colpì come un fulmine mentre ero negli Stati Uniti
d’America. Non potevo crederci perché solo qualche giorno prima avevo ricevuto
una sua lettera che mi augurava Buon Natale e mi ragguagliava sulla sua attività
nella parrocchia di Karuri.

Avevo conosciuto p. Richetti, almeno di vista, prima ancora che
fosse ordinato sacerdote nel 1956, ma fu soprattutto nei dodici anni trascorsi
in Kenya che lo frequentai ed ebbi modo di apprezzare le sue doti di
missionario vulcanico e carismatico: il suo spirito di preghiera, la sua
genialità e creatività, la sua passione nell’attuare il Concilio Vaticano II e
per la formazione dei catechisti, dei laici, delle persone consacrate, dei
sacerdoti.

Fui perciò molto contento quando, lo scorso 12 gennaio, i suoi
famigliari mi invitarono a partecipare al 20° anniversario della sua morte nel
suo paese nativo di Spezzano e a portare la mia testimonianza su di lui. A
Spezzano sono stato impressionato dalla massiccia partecipazione della gente a
questo evento: dalle autorità cittadine, alla parrocchia, a tante persone dei
paesi vicini, tutti hanno risposto all’appello.

Sono stato anzitutto ammirato della sua numerosa famiglia, dai
fratelli ai nipoti ai pronipoti, tutti impegnati non solo nell’organizzazione
dell’evento ma nel condividere l’impegno missionario di p. Giuseppe.

Incontrando tante persone venute per questo anniversario, mi è
sembrato che a distanza di vent’anni p. Richetti fosse vivo lì in mezzo alla
sua gente, a richiamare la realtà della Chiesa missionaria e della
responsabilità missionaria di ogni cristiano.

L’impressione dominante è stata rendermi conto che p. Richetti è
vivo. Ripercorrendo le tappe del suo servizio missionario in Kenya nei suoi
vari aspetti, è impressionante vedere come egli sia riuscito a «contagiare»
tante persone, famigliari e amici, nei suoi impegni missionari fosse pur la
costruzione di una chiesa o di una scuola o di un centro pastorale, o la
formazione del personale: catechisti, ministri della parola, laici, famiglie.
Come ha scritto suo nipote Matteo: «P. Richetti è una sintesi straordinaria tra
spiritualità e pragmatismo».

I suoi progetti missionari sono continuati dopo la sua morte e con
un’ampiezza imprevista. Sono nati dei gruppi che hanno realizzato centinaia di
adozioni a distanza aiutando così
migliaia di famiglie keniane che hanno potuto mandare a scuola i loro figli.
Sono state costruite delle scuole, dei dispensari; si sono realizzati degli
interscambi, molte persone dall’Italia sono andate in Kenya anche solo per
brevi periodi, rientrando entusiaste per quanto hanno visto e decise a vivere
in modo nuovo il proprio impegno cristiano.

P. Richetti continua a essere un «costruttore di chiese» non solo
perché ha costruito  edifici e formato
comunità in Kenya ove ha lavorato per 25 anni, ma anche in Italia ove molte
persone, attratte dal suo dinamismo missionario, hanno riscoperto cosa significhi
essere Chiesa e hanno adottato una nuova mentalità e un nuovo stile di vita.

Mario Barbero

Matteo Richetti e Mario Barbero




Fede dietro le sbarre

Benvenuti a Kamiti, la Prigione
di massima sicurezza.
Kamiti con 3.000 detenuti e 800 guardie è la prigione maschile
più grande del Kenya. Vi si entra per non uscie più. Ospita il fior fiore dei
condannati a morte e gli ergastolani più pericolosi. Eppure proprio in Kamiti
sta fiorendo la speranza.

Kamiti è una parola che in Kenya
fa venire i brividi. È il nome della più infame prigione maschile del paese.
Infame perché costruita dai colonialisti inglesi nel periodo dell’insurrezione
dei Mau Mau. Infame perché durante il ventennio del partito unico, 1982-2002,
era il posto dove finivano molti prigionieri politici. Infame perché chi entra
là, non ne esce più, chiuso com’è nel braccio della morte in attesa di
un’impiccagione che non arriva mai – da anni non ci sono più esecuzioni, anche
se la pena di morte non è stata abolita -, o condannato all’ergastolo. Infame
perché ospita il fior fiore dei delinquenti del paese: oltre 3.000 detenuti che
hanno commesso tutti i peggiori delitti elencati nei manuali di criminologia.
Infame perché le 800 guardie, sottopagate, spesso non vivono una vita migliore
dei loro ospiti forzati, e alcune si lasciano coinvolgere in traffici non
proprio leciti. Infame perché dalla connivenza di racket di detenuti e
carcerieri corrotti, sono partite alcune delle truffe digitali più raffinate ai
danni di tanti utenti di cellulari. Infame infine perché più di una volta c’è
stato l’infausto connubio tra guardie corrotte e condannati a morte per
eseguire sanguinose rapine i cui autori sparivano misteriosamente, salvo poi
riapparire crivellati di colpi quando qualcuno cominciava a sospettare.

Ma Kamiti non è solo questo. Per molti è luogo di speranza e
redenzione. Come lo fu nel 1957 per Dedan Kimathi, un capo militare dei Mau
Mau, impiccato proprio in quella prigione dagli Inglesi: la sua non fu una
morte da disperato. L’incontro con p. Nicola Marino, un missionario della
Consolata che visitava regolarmente i prigionieri Mau Mau, gli cambiò la vita e
Kimathi morì completamente riconciliato con Dio e con gli uomini, «come un
santo», scrisse il cappellano che l’accompagnò all’esecuzione.

Nella prigione c’è una cappella interconfessionale in pietra, 200
posti a sedere, costruita dagli Inglesi nel 1954. È ancora perfettamente
conservata e funzionante: la sua croce di legno, i banchi tradizionali e le nude
pareti di pietra a vista offrono un rifugio spirituale a molte anime tribolate.
La usano credenti delle più svariate denominazioni, e anche i cattolici, che
sono circa un sesto dell’intera popolazione carceraria.

La comunità cattolica è molto organizzata, con un bel gruppo di
catechisti che seguono i detenuti nei vari blocchi, con un cappellano ufficiale
delle varie prigioni del paese, che visita periodicamente anche Kamiti, e
diversi volontari estei che collaborano stabilmente. Tra questi le suore missionarie
della Consolata che sul terreno della prigione, ma appena fuori dalle mura,
hanno costruito il Centro Cafasso, per aiutare i pochi che hanno la grazia di
uscire da quella bolgia a reinserirsi nella vita quotidiana. E p. Eugenio
Ferrari che da sempre ha una passione particolare per i prigionieri, da buon
missionario della Consolata e «pronipote» di s. Giuseppe Cafasso, protettore
dei detenuti. Con lui e i ragazzi della rivista The Seed (Il Seme)
entriamo a scoprire dove sboccia la speranza.

Goditi la libertà intanto che
puoi

Niente mi aveva preparato alla mia prima visita a Kamiti, la
prigione di massima sicurezza. Un massiccio cancello di legno rinforzato da
sbarre di ferro marca l’ingresso alla prigione. Dopo dieci passi c’è un secondo
cancello tutto di ferro. Ovunque vedi guardie armate mazzi di chiavi
incredibilmente grandi appesi al collo.

Accolti dal capo catechista, Geoffrey Kamau, e dai suoi aiutanti,
siamo subito introdotti all’ufficiale di servizio. Ci controllano da capo a
piedi nel caso portassimo merce illegale. Mentre il pesante cancello metallico
si chiude dietro di noi, ho la sensazione che qualcosa mi sfugga, ma non riesco
a focalizzare cosa.

Dentro la struttura la mia attenzione è subito attirata dalle mura
alte almeno cinque metri e costellate dalle torrette delle sentinelle armate.
Nel cortile gruppi di detenuti ci guardano stupiti, mentre si annoiano nella
mattinata che non finisce mai.

Ci dirigiamo verso l’infermeria. Un’altra porta di ferro si apre e
chiude per noi, e lì, proprio di fronte a noi, vediamo un gruppo di carcerati
che canta allegramente le lodi del Signore. Non me l’aspettavo. Come si può
essere allegri a Kamiti? Mi dicono subito che si stanno preparando per la
messa.

Incontro Thomas N. che è qui da diciassette anni ed è convinto di
aver completamente cambiato la sua vita. Un giorno verrà liberato, questo spera
con tutto il cuore. Un desiderio impossibile da realizzare visto che è dentro a
vita per rapina a mano armata. In prigione ha scritto due libri (The Curse
e The Sweet sting) e ne ha altri cinque in cantiere. Sogna che qualcuno
gli doni un computer per scrivere più velocemente. Dice che i carcerati sono
uomini e non dovrebbero essere trattati come animali.

Un altro cancello si è aperto e chiuso. Siamo in un altro reparto.
Qui ci sono molte attività in corso: falegnameria, meccanica, sartoria,
lavorazione del cuoio, produzioni artistiche e stampa delle targhe delle auto.
Potrebbe essere chiamata «l’area industriale» di Kamiti. Alcuni dei lavori dei
carcerati sono stupendi. Riesco ad avere uno dei loro souvenir, un anello
multicolore in stile maasai.

Più in là c’è l’area della scuola: elementari, medie e superiori
sotto lo stesso tetto, le classi divise da tende di sacco. Determinazione è
dipinta sulle facce degli studenti e degli insegnanti. Hanno anche un giornale:
The Kamiti Times magazine. Tutti gli insegnanti sono carcerati, compreso
il preside, Albert Kitur, 17 anni di prigione. Ci sono 42 insegnanti e, nel
2012, 20 candidati per l’esame di terza media e 15 per la maturità.

Un altro cancello si apre e chiude rumorosamente. Ci troviamo in
uno degli affollati dormitori, chiamati blocchi. Qui solo gli affidabili
(carcerati premiati per buona condotta) hanno il privilegio di dormire in un
letto. Ben visibili nelle loro uniformi blu, sono un collegamento tra i
detenuti e le guardie. Tutti gli altri dormono sul pavimento quando il sole
tramonta.

Qui c’è anche un’area chiamata «Old Trafford» (come lo stadio del Manchester
United
), un cortile dove i detenuti possono giocare a pallone, suonare,
prendere il sole e rilassarsi. Hanno perfino una Kamba boy’s band.

La visita è finita. Ho cercato di essere rilassato, rassicurato
dalla presenza di Christopher Wambua che è guardia e catechista, ma sono
contento di uscire da questo posto che mi dà i brividi, anche se tutti i
detenuti sono stati di una cordialità e gentilezza incredibili.

Finalmente il massiccio cancello d’entrata si chiude alle mie
spalle a conclusione della nostra visita, resa possibile dalla politica open
doors
del governo e dalle riforme iniziate dopo il 2002 dal vicepresidente
Moodi Awori (che era anche umile parrocchiano del santuario della Consolata di
Nairobi).

E improvvisamente capisco. Ora so cosa mi è sembrato di perdere
mentre entravo: la libertà.

Fede e riabilitazione

La vita in prigione è un tempo che non finisce mai, ma Peter
Ndungu (ergastolano), si considera fortunato perché è ancora vivo pur essendo
stato condannato all’impiccagione nel 1997. Quando la corte di appello aveva
confermato la sentenza, aveva avuto la certezza che fosse la fine.
Fortunatamente lasciò il braccio della morte nel 2009 quando il presidente
Kibaki commutò la sentenza in ergastolo per 4.000 condannanti a morte.

Quindici anni dopo quel fatidico 1997, Peter è un uomo cambiato.
Ci viene incontro con una vecchia copia del The Seed, un numero speciale
del 2002 dedicato al centenario dei missionari della Consolata in Kenya. Quella
copia è specialissima per Peter, non solo perché l’ha aiutato a rinforzarsi
nella fede, ma anche perché riporta un coloratissimo disegno (a biro) che lui
fece della Madonna col bambino (ricordo con emozione quella Madonnina! ndt).

«Una volta condannato a morte, mi sono reso conto che i miei sogni
erano svaniti nel nulla. Dovevo fermarmi, pensare e approfondire di più il mio
rapporto con Dio. Avevo grandi piani, invece di colpo mi trovavo sotto stretta
sorveglianza, perquisito a ogni piè sospinto, confinato in una cella e
autorizzato a prendere il sole solo per pochi minuti ogni giorno. Avevo grandi
ambizioni e improvvisamente era tutto finito».

Fortunatamente non era del tutto nuovo al cammino di fede. A suo
tempo era stato un membro attivo del gruppo giovanile della sua parrocchia.
Chiuso in cella, cominciò a riscoprire la scintilla di fede che pensava di aver
perso tanti anni prima. «Mi sono riavvicinato alla Chiesa. Ho avuto un sacco di
tempo per essere vicino a Dio. Mi sono messo a studiare la dottrina della
Chiesa e ho letto la bibbia da capo a fondo. L’esempio di persone come Giuseppe
e Daniele che come me erano passate attraverso la prigione, mi ha dato coraggio».

Da allora Peter è cresciuto spiritualmente fino a fare anche il
corso di catechista alla «Scuola cattolica di formazione spirituale» che,
dentro la prigione, dal 2010 forma animatori e accompagnatori spirituali per
aiutare i detenuti. Peter, ora catechista e accompagnatore, sa bene quanto sia
importante per i nuovi detenuti essere aiutati ad accettare e apprezzare il
processo di riabilitazione offerto in prigione sia dallo stato che da organizzazioni
religiose. Così spende gran parte del suo tempo aiutando soprattutto i giovani
ad accettare quel che sono senza perdere il rispetto di se stessi e la
speranza, perché senza di essa molti dei nuovi si lasciano andare e diventano
deboli e malati. «Quando ti trovi in una situazione come quella, si diventa
come fratelli e la fede in Dio ti aiuta a capire che quel che vivi è solo un
fallimento temporaneo. C’è vita oltre questo mondo».

Insieme ad altri detenuti, Peter ha aiutato a iniziare il «Prison
Entertaining and Counselling Group
» che punta a coinvolgere i prigionieri
in un programma di teatro, danze e canti per incoraggiarli a non sprecare il
loro tempo e a valorizzare invece i loro talenti anche attraverso i molti corsi
professionali che la prigione offre.

Peter ha accettato la sua situazione, eppure continua a sperare di
poter ottenere, un giorno, il perdono presidenziale per tornare fuori, libero,
e partecipare al processo di costruzione della nazione. «Il miglior regalo che
la gente può farmi in questo momento è sostenermi con la preghiera, perché
attraverso la preghiera Dio compie miracoli. Ho un desiderio da esprimere a
tutti: accettate di nuovo nella comunità i detenuti che sono stati rilasciati.
Ricordate che la prigione è un po’ come un’officina, dove i carcerati, come le
macchine, sono riparati. In prigione hanno la possibilità di imparare molti
mestieri e, una volta fuori, possono guadagnarsi la vita se sono aiutati a
inserirsi e hanno la possibilità di praticare quello che hanno imparato. Molti
di noi siamo davvero dispiaciuti di quello che abbiamo fatto e desidereremmo
proprio essere riabbracciati dalla comunità se fossimo liberati. Penso che
nessuno di noi abbia voglia tornare alla vita criminale di prima, per questo è
importante il sostegno della comunità».

Incontriamo anche Sammy Musembi, anni 38. Era sposato e padre di
due bambini quando è stato arrestato nel 1998. Non era battezzato anche se nato
in una famiglia cristiana e sposato con una cattolica. Anche lui è stato dieci
anni tra i condannati a morte prima che la sua sentenza fosse commutata in
ergastolo. È profondamente convinto che Dio avesse un piano preciso su di lui
nel volerlo in prigione. Secondo lui, se non fosse stato per la prigione, non
avrebbe mai conosciuto Dio, perché il suo stile di vita e la compagnia che
frequentava non glielo avrebbero permesso. «Avessi continuato con lo stesso
stile di vita, sarei già morto». Fortunatamente quando l’hanno arrestato per
rapina a mano armata, si è trovato in una cella con dei compagni cattolici. «Pregavano
mattina, mezzogiorno e sera, e tenevano perfino discussioni sulla bibbia. Sono
rimasto profondamente colpito e mi sono unito a loro per cambiare la mia vita».
Sammy, che riconosce il crimine per cui è stato condannato, fu battezzato nel
2002 e cresimato nel 2004, e poi ha fatto il corso per diventare catechista. «Ho
imparato tanto qui dentro. Mi son reso conto che la mia vita passata non era
certo da stinco di santo. Ora sono davvero cambiato. Ho anche scritto lettere
alle persone che ho danneggiato chiedendo il loro perdono». Sua madre, pur
protestante, è stata contentissima che lui diventasse cattolico e gli ha
regalato la sua prima bibbia nel 2003.

Un prete e i suoi buddies

Ogni giovedì una Peugeot bianca si ferma davanti alla porta fortificata
della prigione di massima sicurezza di Kamiti. La guida p. Eugenio Ferrari, una
figura ben nota alle guardie. Il suo interesse è la salvezza e la dignità delle
persone chiuse dentro quelle mura che ospitano alcuni dei peggiori criminali
della nazione: assassini, ladri, rapinatori, gente che ha distrutto e
ingannato, causando pene infinite a migliaia di altri concittadini. La lista
delle loro malefatte è lunga.

È questa gente che p. Eugenio va a incontrare. Li chiama
affettuosamente i suoi buddies (amici/compagni). È così affezionato a
loro che se, per qualche ragione, deve saltare l’appuntamento settimanale se ne
cruccia tantissimo. C’è una cosa che continua a stupire questo prete italiano
nelle sue estenuanti visite settimanali: come possano persone come quelle,
condannate a morte o in prigione da così tanti anni da aver perso il conto,
essere così giorniose e partecipare all’eucaristia con tanto entusiasmo e un coro
fantastico, e come possano credergli quando dice loro che Dio li ama e aspetta
che loro ritornino a Lui. «È gente fantastica. La Messa e il sacramento della
riconciliazione trasformano la loro vita umana e spirituale. Si sentono davvero
persone umane e non cose che languiscono in prigione». In tutti questi anni p.
Eugenio ne ha battezzati a centinaia e confermati tanti. Innumerevoli sono le
confessioni ascoltate che non condividerà mai con nessuno. «Non rivelerò mai
cosa succede nell’animo di un peccatore pentito. È incredibile come la Grazia
di Dio lavori dove “abbondava il peccato”, come dice s. Paolo».

Il missionario offre molto più che semplice speranza ai detenuti.
Ha una parola buona per tutti, indipendentemente da tribù o religione. Li
visita nell’infermeria, celebra la messa nel braccio della morte, si preoccupa
anche delle guardie e mobilita ogni persona che conosce nel suo ministero di
umanizzazione. A Natale e Pasqua – e non solo -, con l’aiuto di amici e dei
parrocchiani del santuario della Consolata in Nairobi, porta pane per tutti e
poi oggetti per l’igiene personale, medicine, abiti caldi da vestire sotto la
divisa (fa molto freddo a Nairobi tra giugno e agosto), e cancelleria per chi
studia e deve fare gli esami statali. Non mancano poi palloni, riviste, libri e
carte da gioco. In questa maniera vuol dimostrare loro che, se anche hanno un
passato non proprio esemplare, Dio li ama come figli suoi, e che hanno una
dignità uguale a quella di ogni altro uomo.

_________________________

Di Michael Kalunde, Lourine Oluoch, Daniel Kikonde e Agnes
Mwonjaru. Servizio speciale pubblicato su la rivista The Seed, 8-9/2012. Traduzione e adattamento di Gigi Anataloni.

A cura di Gigi Anataloni




Luci e ombre del Brasile «nero»

Incontro con mons. Giovanni Crippa, Vescovo ausiliario di Salvador Bahia.

La Bahia è abitata dai discendenti degli schiavi africani. Stato
affascinante ma arretrato e problematico come la sua capitale, Salvador. Ne
abbiamo parlato con Giovanni Crippa, missionario della Consolata, vescovo
ausiliario di una città che rappresenta la più antica diocesi del Brasile.

Salvador Bahia. Il centro storico di Salvador domina con il suo sguardo antico e
solenne un’estensione a perdita d’occhio di case cresciute, negli ultimi
decenni, una sull’altra fino a formare un disordinato e congestionato reticolo
urbano e stradale.

Il Pelourinho, colorato, bello e decadente, è
il punto di grande attrazione per turisti, artisti alla ricerca di ispirazioni
e suggestioni forti e di lettori appassionati di Jorge Amado, probabilmente il
più grande scrittore brasiliano.

La città, vista dall’alto, è un’unica enorme
favela, da cui spuntano, qua e là, delle isole di grattacieli modeissimi e
lussuosi, e grandi centri commerciali brulicanti di auto ed esseri umani (ma in
cui ancora molti bahiani non possono permettersi di fare acquisti).

SPLENDORI E MISERIE

Salvador Bahia è sede di numerose università,
storiche e rinomate, sia statali sia federali, cattoliche, evangeliche e di
altre confessioni, nonché di un prestigioso Centro di Studi afro-orientali
della Ufba (Università federale della Bahia). È abbellita da palazzi e strade
di grande pregio artistico; è dispensatrice di musica, letteratura, pittura; di
misticismo e saggezza tradizionale; di esoterismo; di magia; dei riti
propiziatori a Madre Terra; di donne sciamane venerate e temute, in quanto depositarie
di antichi poteri e di guarigione. Nota per il suo sincretismo e anche per la
sua tolleranza religiosa, la Bahia lascia spazio a culti e pratiche di diversa
origine, che talvolta si nascondono o si mescolano l’uno nell’altro, come
avviene per i riti del candomblé, nei quali animismo africano,
paganesimo europeo pre-cristiano e cattolicesimo si confondono in celebrazioni
popolari molto seguite, ad esempio quelle in onore di Iyemanjá, la Dea del
Mare, assimilata, per certi versi, alla Madonna.

L’allegria e la festosità dei bahiani sono
contagiose. La loro lentezza esasperante, la disorganizzazione e il cronico
ritardo sono elementi di cui presto ci si dimentica di fronte alla simpatia
della gente, che non perde l’occasione per inscenare balli e canti neanche
mentre prepara la acarajé, un piatto afrobrasiliano delizioso. O mentre
aspetta che diventi notte giocando a carte su un tavolino improvvisato vicino a
un venditore abusivo di cd.

Salvador è, allo stesso tempo, bella e
intrigante, brutta e violenta. Piena di storia e di cultura, ma ancora
arretrata, problematica e recettrice di marginalità e disagio. È l’emblema di
tutta la splendida Bahia, lo stato nero del Brasile da cui è impossibile non
venire ammaliati.

L’INVASIONE DEI «GRINGOS»

Come Iyami-Ajé / Iyami Oxorongá (nella
mitologia orixás, figura femminile donatrice di vita e di morte), la
Bahia è creatrice, ma anche distruttrice. Come in tutto il paese, ricchezza e
povertà, cultura e ignoranza, lusso e miseria, convivono in un unico luogo, con
contrasti enormi e aggressivi, a distanza di pochi metri l’uno dall’altro.

Lungo il Litorale di Salvador e di Mata de
São João, fin quasi al confine con lo stato del Sergipe, umili villaggi di
pescatori si sono trasformati in meno di dieci anni in cittadine artificiali
per ricchi epuloni brasiliani e stranieri, che hanno investito in immobili,
facendo salire alle stelle il prezzo dei terreni, delle costruzioni e degli
affitti. I nativos (popolazione locale), come vengono chiamati dai gringos
con un malcelato disprezzo, sono stati relegati, per scelta o per necessità, in
altri villaggi adiacenti meno glamour e benestanti, o in vie fatiscenti
e sporchissime in zone meno visibili e transitate dai turisti. È il caso,
emblematico, della famosa e frequentata (affollata) Praia do Forte, che in un
decennio è passata da umile borgo di pescatori e raccoglitori di cocchi a città
dai tanti e lussuosi condominios fechados (condomini chiusi) e centro
commerciale a cielo aperto. La popolazione locale, discendente degli schiavi
neri deportati dall’Africa con le tratte secolari, ha in gran parte venduto
terreni e casette ai forestieri, che ne hanno fatto negozi, ristoranti e
abitazioni per milionari, oppure li ha ceduti in affitto a prezzi altissimi.

Il boom edilizio di tutta l’area costiera e
le ondate di turismo hanno portato benessere anche agli autoctoni, ma ciò non è
stato accompagnato da sviluppo umano, educazione scolastica e servizi
medico-sanitari, con il risultato di produrre un ulteriore disagio sociale, un
abuso di alcolici e sostanze stupefacenti, abitudini sessuali precoci con
conseguenti mateità nel periodo adolescenziale.

A tutto questo si sovrappone, come
causa-effetto, una gestione pubblica deficitaria e indifferente ai bisogni reali
della popolazione di tutto lo stato, e un’organizzazione della politica che
ricorda ancora i tempi dei latifondisti e dei fazendeiros, e dove domina
corruzione, voto di scambio e vuote promesse.

La scuola pubblica è totalmente inadeguata a
qualsiasi standard dignitoso. La sanità è una sorta di «emergenza» perenne mai
trasformata in medicina specialistica o diagnostica. Chi ha soldi si fa curare,
chi non ne ha s’arrangia e può sperare che la medicina tradizionale, con le sue
mille erbe e radici, possa fare miracoli anche con i virus portati dai turisti.

La famiglia è un concetto dalla difficile
definizione: le ragazzine più povere e
con scarsa scolarizzazione iniziano a far figli a 12-14 anni, e non poche a 30
si ritrovano già nonne e con diversi matrimoni alle spalle.

CATTOLICA E AFRICANA

In un afoso pomeriggio di febbraio, poco
prima che il Caevale renda inaccessibili le già engarrafadas
(imbottigliate) strade di Salvador, e il suo caotico centro storico, a Garcia,
nella sede dell’Arcidiocesi, incontriamo il vescovo ausiliario, il simpatico e
attivissimo dom Giovanni Crippa, italiano e missionario della Consolata.

Dom Giovanni, cosa vuol dire essere vescovo
in Bahia?

«L’Arcidiocesi di São Salvador da Bahia è la
prima diocesi del Brasile (1551). I suoi numeri sono importanti (vedi box,
cfr
). L’arcivescovo, dom Murilo Sebastião Ramos Krieger, conta su due
Vescovi Ausiliari: dom Gilson Andrade da Silva e il sottoscritto. Un terzo, dom
Gregorio Paixão, è stato recentemente nominato vescovo di Petrópolis.

È una realtà che devo ancora imparare a
conoscere, ma che già amo e cerco di servire. La grande sfida è mantenere viva
l’azione della Chiesa in un territorio così esteso e con una popolazione
considerevole, incentivando uno spirito di comunione tra i sacerdoti e
promuovendo il senso di appartenenza alla Chiesa locale di tutto il popolo di
Dio come dice il mio motto episcopale: “In aedificationem Corporis Christi”,
cioè, “Per edificare il Corpo di Cristo” (Ef 4,12), che è la Chiesa».

Ci descriva una sua giornata-tipo…

«Dalla mia poca esperienza posso dire che non
esiste una giornata-tipo. Il Direttorio per il ministero pastorale dei Vescovi,
al n. 70 dice: “Il Vescovo ausiliare è dato per raggiungere più efficacemente
il bene delle anime in una Diocesi troppo estesa o con elevato numero di
abitanti o per altri motivi di apostolato”.

Per quanto mi riguarda, l’arcivescovo mi ha
affidato il territorio del Recôncavo (la parte più intea della regione
metropolitana) per concretizzare il progetto di una futura Diocesi. Per questo
risiedo prevalentemente nella città di Cruz das Almas, a circa 150 km da
Salvador, per poter seguire da vicino le parrocchie attraverso le visite
pastorali, gli incontri con il clero, con i religiosi, i movimenti e i vari
servizi pastorali.

All’inizio di febbraio abbiamo acquistato
anche una radio Am (Rádio Alvorada), un grande investimento economico, che sarà
di grande aiuto per l’evangelizzazione. Le parrocchie, infatti, hanno un
territorio molto esteso e sono formate da diverse comunità dove la presenza del
sacerdote è saltuaria.

Stiamo anche pensando all’apertura di un
seminario propedeutico per la futura Diocesi dove accogliere i giovani che si
sentono chiamati al sacerdozio.

Oltre alle parrocchie del Recôncavo mi occupo
anche di quelle dell’isola di Itaparica prospicente alla Bahia de Todos os
Santos.

Quando è necessario ritorno nella capitale
bahiana per collaborare nella pastorale, nelle celebrazioni di cresime e feste
patronali. Non mancano impegni di conferenze in varie istituzioni (università,
collegi, parrocchie…) e ritiri. Collaboro anche con la Radio Excelsior da
Bahia con un programma settimanale di 45 minuti sulla liturgia della Parola
della domenica.

Per la mancanza di professori, nel primo
semestre, insegno Storia della Chiesa nella Facoltà cattolica di Feira de
Santana, così ho l’occasione per incontrare persone amiche che hanno fatto
parte della prima tappa della mia vita in Brasile.

L’agenda di un vescovo è sempre piena, come
lo è quella di un prete dedicato al suo servizio, ma le occasioni più belle ce
le riserva lo Spirito quando ci sfida con l’imprevisto».

Quali sono i principali problemi della Bahia
e di Salvador?

«Salvador è una città antica (1549) la cui
origine coincide con la scoperta/conquista da parte dei portoghesi. Ogni suo
angolo, con le chiese, monumenti e vie, è segnata da questa storia che ha
marcato il nome della città stessa: Città del Salvatore della Bahia di Tutti i
Santi.

Salvador, meravigliosa, ricca di storia e di
bellezze naturali, è una città abbandonata, dimenticata e maltrattata. Per
l’incompetenza dei suoi amministratori è cresciuta in un modo disordinato ed è
diventata una grande favela. Ad eccezione di alcune “isole”, la maggior parte
della popolazione vive ammucchiata in quartieri dove mancano le infrastrutture
necessarie per soddisfare i bisogni essenziali. L’esempio più eclatante è la
costruzione della metropolitana, iniziata 13 anni fa e ancora oggi senza
nessuna prospettiva di conclusione dei lavori. Tuttavia, in pochi mesi, il
governo dello stato è riuscito a costruire lo stadio della “Fonte Nova”, per la
Coppa delle Confederazioni e i prossimi Mondiali di Calcio.

Nel 2012 c’è stato uno sciopero dei
professori che è durato 115 giorni e uno sciopero della Polizia militare, di 12
giorni, che hanno provocato grandissimi disagi tra i cittadini.

Un altro grave problema è l’accesso alla
sanità. Le istituzioni sanitarie pubbliche sono carenti e precarie. Non ci sono
strutture sufficienti per garantire i servizi alla popolazione.

Il “Plano de saúde” (Assicurazione
sanitaria) privato è costoso, e una famiglia media con figli difficilmente se
lo può permettere. Questa situazione è una piaga che colpisce soprattutto il
Nordest del Brasile.

Un’altra grande lacuna è quella della scuola
pubblica, soprattutto quella gestita dallo Stato: mancano le strutture, c’è
degrado, scarsa preparazione curricolare – purtroppo anche degli insegnanti -,
abbandono degli studi, ecc.

Da parte dei politici, anche in questo
ambito, si nota disinteresse, perché si sa, è più facile governare un paese
ignorante che uno istruito.

La mancanza di educazione e istruzione tra
gli adolescenti, la disgregazione familiare, e la pedofilia – uomini adulti che
hanno rapporti con ragazzine – portano al fenomeno, piuttosto diffuso, delle
gravidanze precoci.

Le famiglie popolari, in Bahia, sono centrate
sulla figura della donna, della madre. Molte volte l’uomo fugge dalle sue
responsabilità, è assente. C’è molto machismo, da una parte, e strutture
sociali matriarcali, dall’altra. Tutto questo, insieme all’assenza dello Stato,
concorre a creare un clima di violenza che ha raggiunto livelli molto alti.
Secondo la Segreteria di sicurezza pubblica (SSP), nel 2012 sono stati
registrati 2.391 omicidi in Salvador e nelle città della Regione metropolitana,
con un aumento del 12,5% rispetto al 2011». 

Un elemento che balza gli occhi, in tutta la
Bahia (e nel resto del Nordest), è la crescita delle chiese evangeliche e
pentecostali. Ce ne sono in ogni angolo e sempre di più. Come spiega questo
fenomeno?

«I dati sulla religione del Censimento del
2010 mostrano che tra il 2000 e il 2010 la percentuale della popolazione che si
dichiarava cattolica è passata dal 73,6% al 64,6%.

Gli evangelici costituiscono il 22,2% della
popolazione. Tuttavia, il segmento evangelico è molto diversificato o diviso:
il 60% sono pentecostali, il 18,5% appartiene alle chiese storiche o
tradizionali e il 21,8% a una categoria che l’Ibge (Instituto Brasileiro de
Geografia e Estatística
) chiama “evangelici non determinati” dei quali alcuni
non sono praticanti.

Gli adepti allo spiritismo sono passati
dall’1,3% al 2% e i cosiddetti senza religione sono passati dal 7,3% all’8%.

Stiamo vivendo un profondo cambiamento nella
società brasiliana, anche a livello religioso. Se è vero che la Chiesa
cattolica sta perdendo fedeli, è altrettanto vero che le chiese protestanti
(luterana, presbiteriana, battista e avventista) stanno attraversando una crisi
profonda. Si moltiplicano le chiese evangeliche, frutto di una divisione e di
una guerra intea alla ricerca di spazio e visibilità.

Questa disputa intea al cristianesimo
favorisce la crescita del numero di persone indifferenti al Vangelo.

Un fenomeno molto in voga in questi tempi, è
quello della “teologia della prosperità”, di tipo calvinista: il successo
materiale è il riscontro della fede. I predicatori attuano vere e proprie
“strategie”, e la tecnica usata è quella dell’auto-motivazione. La tattica è
approssimativamente questa: incontrano persone in difficoltà economiche,
psicologiche, sociali e iniziano a motivarle a ottenere dei risultati
materiali, dei cambiamenti chiedendo di affidarsi a Dio. Se questo è certamente
positivo, il problema sorge quando le esperienze di successo ottenuto sono
fittizie, raccontate da “comparse” allo scopo di indurre il fedele ad
abbandonarsi alle istruzioni del predicatore, che adotta vere tecniche di
vendita e ne approfitta, spesso arricchendosi alle spalle dei poveracci che
donano tutto ciò che hanno nella convinzione di ricevere una ricompensa da Dio.
La fede diventa così un prodotto di scambio commerciale, materialista, egoista.
Non c’è più il dono agli altri, gratuito, ma solo un dare per avere.

D’altro canto, però, la Chiesa cattolica si
rende conto di quanto già sapeva da secoli, cioè che esiste un grande numero di
cattolici battezzati, ma non evangelizzati.

Il grande pericolo è che questa nuova
configurazione non ha come obiettivo di unire i cristiani per trasformare il
mondo seguendo il desiderio di Gesù, ma quello di promuovere ideologie
rivestite di una vernice religiosa che procura interessi personali o di gruppi
che si auto-definiscono chiese. La maggior parte di queste “chiese” incoraggia
un proselitismo riduzionista e disgregante della società, cercando di imporre
un pensiero unico. La Chiesa cattolica rispetta tutte le religioni e desidera
essere rispettata». 

La Bahia è nota per i rituali di candomblé, una sorta di religione
sincretista, con riferimenti a culti animisti, pagani pre-cristiani e
cattolici. Qual è il rapporto tra la Chiesa cattolica bahiana e questi gruppi?
Ci sono fedeli che alla domenica vanno a messa e alla sera ai rituali
afro-brasiliani?

«La Bahia è terra di un popolo ospitale e
amico che offre la sua casa, le sue tradizioni e la sua culinaria a tutte le
persone che qui arrivano.

La religione fa parte dell’espressione
culturale di un popolo. Non tutti i bahiani seguono le tradizioni legate alle
religioni afro-brasiliane. È ingenuo pensare che tutti gli afro-discendenti
siano legati al candomblé. Purtroppo, la religione afro è sempre più confusa
con il folclore. Il patrimonio musicale religioso del candomblé, per
esempio, è usato per fini commerciali.

Il punto di partenza deve essere il rispetto
di qualunque forma religiosa lasciando all’individuo la libertà della scelta.
Il sincretismo religioso, però, è riduzionista e mette il seguace della
religione del candomblé in una posizione di servilismo o sottomissione
all’uomo bianco. All’inizio della colonizzazione, i neri venuti dall’Africa
erano obbligati a “mentire” se volevano continuare a praticare la loro
religione, che era proibita, in un paese cristiano. Per mantenere i propri riti
attribuirono nomi di santi cattolici ai propri orixás (divinità). Oxalá,
per esempio, poteva essere il Senhor do Bonfim. Era una forma intelligente, di
saggezza politica, per mantenersi indenni e per non essere puniti.

Oggi, la Costituzione brasiliana permette a
ogni cittadino di abbracciare liberamente la propria religione. Vivere un
sincretismo, praticare allo stesso tempo il candomblé con il cristianesimo
significa riconoscere che il primo non è capace di soddisfare o di offrire
quello che si sta cercando. Lo stesso si può dire dei cristiani che frequentano
il candomblé.

La teologia e l’antropologia cristiane
differiscono totalmente da quella del candomblé. Per questo le persone del
candomblé devono vivere liberamente la loro scelta, così come quelli che
professano altre religioni. Buona parte delle Iyalorixá (sacerdotesse o
dirigenti spirituali) di Salvador sono contrarie al sincretismo, specialmente coloro
che hanno una formazione accademica, per evitare che venga considerata una mera
espressione folclorica.

La Chiesa è convinta che deve predicare il
Vangelo di Gesù, vivendo i valori cristiani e rispettando le differenze».

Per concludere, monsignore. Cosa le piace
della Bahia e di Salvador in particolare?

«Prima di tutto la gente. Gente felice,
ospitale, cordiale che ti mette subito a tuo agio, che ti fa sentire a casa.
Gente che sempre chiede la benedizione, che vuole salutarti, stringerti la
mano, abbracciarti.

Ci sono poi alcuni luoghi significativi per
la bellezza di cui la natura li ha dotati e per il significato storico,
religioso e culturale che hanno acquisito lungo il tempo.

La Cattedrale metropolitana della
Trasfigurazione del Signore: una chiesa che apparteneva ai gesuiti e che
accoglie le spoglie mortali di alcuni vescovi che lì hanno svolto il loro
ministero. Persone che hanno amato e servito questa Chiesa come il card. Dom
Lucas Moreira Neves che mi ha ordinato diacono a Roma nel 1985. Chi immaginava
di diventare vescovo ausiliare in questa Chiesa di cui lui è stato pastore?

Il Santuario-Basilica del Senhor do Bonfim,
dove si confondono fede e tradizione, religiosità popolare e catechesi,
preghiera e emozione vissuta da una miriade di persone di ogni ceto e razza.

La Basilica Nossa Senhora da Conceição da
Praia, patrona della Bahia, espressione della devozione mariana della gente che
lì accorre quotidianamente.

La Bahia de Todos os Santos: non ci si stanca
mai di contemplare questa bellezza naturale. Ogni giorno sembra diversa,
soprattutto nei colori quando il sole tramonta.

Il Recôncavo: composto da vari municipi che
circondano la Bahia de Todos os Santos, qui si mischiano il verde della
vegetazione con l’abbondanza della frutta; le varie espressioni della
religiosità popolare con le feste tradizionali; la bontà della gente con la
bellezza delle sue chiese.

L’isola di Itaparica dove la popolazione vive
di pesca e di turismo. Qui la gente è padrona del tempo, ha imparato ad essere
paziente e ad avere sempre fiducia nella Provvidenza divina.

Le periferie della città dove, nonostante la
povertà, la violenza e l’ambiente disumano, le persone vivono e soprattutto
cercano di trovare il senso della vita a partire dal Vangelo e dalla vita
comunitaria, dove le celebrazioni sono sempre una festa e un punto di partenza
per costruire il Regno di Dio».

Angela
Lano*

 (*) Gioalista e scrittrice,
Angela Lano vive con la famiglia nello stato brasiliano di Bahia.

Angela Lano




Senza Nazione né Confini

I Sami: ultimo ceppo indigeno presente in Europa.
I Sami (impropriamente detti Lapponi) sono una popolazione
indigena della penisola scandinava. Nonostante il secolare processo di
colonizzazione e assimilazione, hanno conservato lingua e cultura. Oggi contano
circa 75 mila unità, sparse nelle regioni più settentrionali della Norvegia,
Svezia, Finlandia e Russia. Popolo senza confini né nazione, godono di
determinate concessioni che permettono loro di rafforzare la propria identità e
preservae gli aspetti culturali e tradizionali.

«Ascolta fratello, ascolta sorella!
Ascoltate la voce della madre primordiale! La terra è la nostra madre; se le
rubiamo la vita, moriremo anche noi…». Le note della canzone di Mari Boine,
una delle cantanti Sami più conosciute, si diffondono nella casa di Ari
Kangasniemi, poco lontano da Rovaniemi. Qui, Ari assieme alla moglie Irene, si è
trasferito nel 1995 trasformando lo stile di vita lappone, in un vero lavoro.

Considerato un’icona vivente nel
mondo dell’artigianato locale, Ari lavora le coa di renna trasformandole in
oggetti d’arte: coltelli, lampadari, statuine. Irene, invece, fabbrica vestiti,
monili, scarpe dalle fatture tradizionali di un mondo perduto, di cui sente la
mancanza.

«La città non ci piace, siamo
fuggiti dalla città per restare qui, immersi nella natura. Se non la tradisci,
la natura, la terra ti accoglie e ti offre tutto quello di cui hai bisogno»
afferma Irene mentre, nella sua casa in legno, mi offre una torta fatta in casa
e un succo di mirtilli raccolti nel bosco.

Chi può dirsi sami?

Un po’ animista, un po’
ambientalista, Irene è la tipica lappone che potrebbe vivere senza supermercati
e senza elettricità. Adora la cultura Sami, come dimostrano i tappeti, i quadri
e i tamburi di cui sono tappezzate le stanze in cui abita. Però, sia lei che
Ari, sami non lo sono, anche se potrebbero esserlo. E anch’essi, come molti
altri finlandesi, norvegesi, svedesi che vivono in Lapponia, incespicano quando
chiedo loro quali caratteristiche occorre possedere per potersi definire sami.

Questa titubanza mi conforta: dopo
diverse settimane di soggiorno in Lapponia, non ho ancora capito cosa significa
essere sami e chi si può qualificare tale ed ero arrivato al punto di pensare
di non aver capito nulla di questo gruppo etnico, l’ultimo ceppo indigeno
presente in Europa. Tutte le persone che ho interrogato sull’argomento, mi
hanno offerto risposte variegate: è sami chi parla una delle nove lingue sami
(in questo caso, secondo i dati del parlamento sami svedese, il 70% di chi si
dichiara ufficialmente sami, non dovrebbe esserlo); è sami chi è nato da almeno
un genitore sami (dunque sarebbero sami anche l’attrice Renée Zellweger e la
cantante Joni Mitchell, nate rispettivamente da madre e padre sami); è sami chi
alleva le renne (i sami che vivono di pesca, allora, a quale gruppo
apparterrebbero?).

L’ambiguità si ripercuote anche
tra gli stessi rappresentanti politici. Egil Olli, presidente del Samediggi
(il parlamento sami) norvegese, fatica a trovare una descrizione adatta,
rimandandomi alla definizione ufficiale: «Una persona è considerata sami se
egli stesso si considera sami e se ha imparato a parlare sami avendo almeno un
genitore o un nonno che parla sami come madrelingua».

Storia di colonizzazione

La difficoltà nel codificare
questo gruppo etnico scandinavo è figlia della violenta storia di
colonizzazione di cui i Sami sono stati vittime a partire dal XVI secolo. Sino
ad allora i Fenni, come li aveva chiamati nel 98 d.C. Tacito nel suo Germania,
non hanno mai avuto bisogno di identificare se stessi, essendo vissuti praticamente
isolati e commerciando pacificamente con i finnici, con cui condividono il
ceppo linguistico ungro-finnico.

A parte il fugace accenno di
Tacito, i Sami rimasero pressoché sconosciuti nel continente europeo sino al
medioevo, quando Svezia, Danimarca e Russia iniziarono a contendersi la regione
settentrionale della penisola scandinava, imponendo tasse ai suoi pochi
abitanti. La necessità di procurarsi legname, di cui sono tuttora ricche le
terre del Nord, favorirono la colonizzazione da parte degli abitanti del sud:
norvegesi, russi, svedesi, finlandesi cominciarono a spostarsi oltre il Circolo
Polare Artico, appoggiati da numerosi decreti reali che favorivano gli
insediamenti e assegnavano terre «permanentemente disabitate appartenenti a Dio
e alla Corona Svedese e a nessun altro».

Poco importa se le terre «permanentemente
disabitate» erano, in realtà, già da millenni territori dei Sami: in quanto
pagani e idolatri, non avevano diritto a ciò che Dio aveva creato per i
cristiani.

L’alleanza tra Chiesa e stato, fu
una miscela esplosiva per la cultura sami: ossessionati dalla stregoneria, i
missionari luterani consideravano satanico tutto ciò che aveva un collegamento
con l’aldilà. Gli sciamani cominciarono a essere emarginati dai siida (i
villaggi), gli yoik, i canti tradizionali che identificavano ciascun
gruppo o addirittura il singolo individuo, vennero proibiti, mentre i tamburi
con i quali si cercava un passaggio nel mondo degli spiriti, furono distrutti,
tanto che i pochissimi esemplari superstiti sono gelosamente custoditi nei
musei.

L’obbligo della messa domenicale,
impose ai sami convertiti di organizzare dettagliatamente i loro spostamenti,
limitando il nomadismo e il collegamento con altri villaggi. La Chiesa, con i
suoi rituali e i suoi dogmi, giocò, quindi, un ruolo di primaria importanza
nella politica che lo stato perseguiva per sottomettere i Sami. Le varie case
reali (svedesi, danesi, russe) sfruttarono con abilità le avanguardie
missionarie perché preparassero il terreno a successive colonizzazioni.

«Oggi la Chiesa guarda in modo
differente la cultura locale» mi dice Erva Nittyvuopio, teologa finlandese
specializzata in cultura sami: «Le varie diocesi cercano di appoggiare la
società sami permettendo la pratica di usanze un tempo proibite, come il canto
dello yoik in chiesa o l’uso dei tamburi, sempre che siano finalizzate a
perpetuare la gloria di Dio».

A distruggere lo stile di vita
sami fu, però, il potere statale: la scoperta dell’argento a Nasafiaell e,
ancor più, di giganteschi giacimenti di ferro a Kiruna e a Gallivare, nel XVII
secolo, indusse la casa reale svedese a emanare la famigerata Lapland Bill,
la legge che, regolando l’uso della terra, toglieva ai Sami il diritto al suo
sfruttamento.

Ottant’anni più tardi, nel 1751,
la demarcazione dei confini tra il regno di Svezia-Finlandia e quello tra
Danimarca-Norvegia, segnò il definitivo colpo di grazia per i nativi lapponi.
Costretti a scegliere una nazionalità, venne loro tolto il diritto di migrare
nelle terre dei loro avi. «È questo, forse più di ogni altro decreto o più di
ogni altra imposizione religiosa, l’atto che segna il punto di svolta della
storia sami» spiega Evjen Bjorg, professore di sociologia al Centro di Studi
Sami dell’Università di Tromso.

Oggi i Sami sono divisi in
quattro nazioni: 50.000 vivono in Norvegia, 25.000 in Svezia, 7.500 in
Finlandia e 2.000 in Russia.

Ricerca di identità

Nel XIX secolo, vessati dallo
stato, emarginati dalla società, ostracizzati dalla Chiesa, i Sami cercarono di
trovare una propria identità aderendo al Laestadianismo. Creata da un
prete svedese, Lars Levi Laestadius, questa nuova dottrina cristiana cercò di
dare modo ai Sami di esplicitare la propria fede traendo esempio
dall’esperienza personale, veicolandola nella cultura locale minacciata
dall’alcol, dal materialismo e dal commercio.

Giunto sull’orlo di un collasso
esistenziale a causa delle sue tristi vicende famigliari (la morte della prima
moglie, dell’amato fratello Petrus e del suo primo figlio), Lars riuscì a
risalire la china grazie alla seconda moglie, Maria. Fu per merito di questa
donna, rimasta sempre in secondo piano, che Laestadius riprese vigore e fiducia
nella vita e nella fede, dedicandosi alla protezione della cultura sami. I suoi
sermoni, pronunciati nella chiesa di Karesuando, erano talmente pieni di pathos
che ogni domenica la chiesa si riempiva di indigeni.

«Il laestandianesimo si propagò
tra i Sami perché il suo fondatore fu uno dei primi preti a saper comunicare il
messaggio cristiano usando immagini e linguaggi che i Sami potevano facilmente
comprendere» dice Birgitta Simma, pastore della Chiesa Svedese presso la
comunità sami nella diocesi di Luleaa. Il modo di contestualizzare i riti, con
canti, danze, preghiere, letture, non era però approvato dalla Chiesa Svedese,
che vedeva nel laestandianesimo una forma di liikutuksia, un’estasi al
limite dell’eresia.

Da parte loro, anche i mercanti
norvegesi e svedesi cominciarono a lamentarsi: Laestadius aveva severamente
proibito l’alcornol, fedele alleato dei commercianti che lo utilizzavano per
obnubilare la mente dei Sami durante le contrattazioni.

Sobri e finalmente fieri della
loro natura, i Sami cominciarono a rifiutare le imposizioni estee. Il
laestadianesimo, che ormai veniva visto come una peculiarità dell’essere sami,
si diffuse rapidamente oltre che in Svezia anche in Norvegia, ma soprattutto in
Finlandia. Era ormai divenuto un pericolo sia per la Chiesa Svedese, che vedeva
l’eresia affondare radici sempre più profonde tra i Lapponi, sia per la Corona,
che riceveva resoconti allarmanti di sollevazioni nel nord del paese.

Sempre più oppressi da svedesi e
norvegesi, l’8 novembre 1852 un gruppo di sami laestadianisti organizzò una
rivolta a Kautokeino per abolire il commercio di liquori. Ben presto la
ribellione si trasformò in un movimento etnico che, imbracciati i fucili,
espresse le proprie frustrazioni uccidendo lo sceriffo, un mercante di liquori,
e dando fuoco alle loro case.

Sebbene sedata in poche ore, la
rivolta di Kautokeino divenne il simbolo di rivalsa dei Sami, come è stato ben
descritto in The Kautokeino Rebellion, il film del norvegese Nils Gaup,
egli stesso discendente di uno dei rivoltosi, poi impiccato.

La renna fonte di vita e cultura

Non è un caso che proprio in
questo minuscolo villaggio di 1.600 abitanti, sorga l’unica università sami
riconosciuta dall’ordinamento scolastico di Norvegia, Finlandia, Svezia e
Russia, le quattro nazioni in cui si dividono gli 85.000 sami. Tra le materie
studiate, vi è anche Allevamento delle renne: «Una delle tradizioni su
cui si basa tutta la struttura sociale sami
– spiega la professoressa Ellen Inga Turi -. L’adattamento dei Sami ai
cambiamenti politici, come la divisione del loro territorio secondo nazionalità,
e ai cambiamenti climatici in atto, potrebbe darci molte risposte al futuro
stesso dell’umanità. I Sami, per un certo verso, sono le nostre avanguardie del
mondo che verrà domani». L’importanza della renna nella vita sami si riflette
anche nel vocabolario: eallin, vita, si trasforma in eallu,
mandria, e, ancora, in eadni, madre.

Dopo che i Sami da pescatori si
convertirono in allevatori di renne, questo ruminante divenne la loro
principale fonte di sostentamento. La renna è l’animale che, letteralmente,
dona la vita: di lei non si butta nulla. La carne, magrissima e ricca di Omega
3, di ferro, selenio e calcio, viene fatta essiccare; la pelle si trasforma in
coperte, abiti, nei caratteristici goikkehat, gli stivaletti con la
punta rialzata, in cappelli; le coa e gli zoccoli vengono lavorati per fae
manici di coltello e oggetti di uso quotidiano che danno lavoro ad artigiani
come Ari Kangasniemi.

Dalla lavorazione della pelle,
abbiamo importato il termine nappa, vocabolo sami, così come sami è la
parola tundra. I Sami sono più vicini a noi di quanto pensiamo.
L’influenza della renna nella cultura sami è talmente evidente che anche un
architetto come Alvaar Alto ha disegnato l’urbanistica della città di Rovaniemi
riproducendo sul terreno la figura di una testa di renna con le coa.

Infine, le orecchie dei 120.000
cuccioli di renna che ogni anno nascono alla metà di maggio negli allevamenti
sami, vengono marchiati con segni distintivi durante una cerimonia a cui
partecipa tutto il villaggio. In quest’occasione anche i Sami che, per svariate
cause, hanno dovuto trasferirsi in città o al sud, tornano al loro siida,
rinsaldando così i legami tra le famiglie. «Ogni volta che too con la moglie
e i figli, i nostri genitori ci preparano il lavvu (la tenda Sami). È
qui che, abbandonando per qualche giorno le comodità della casa, ritrovo la mia
identità» mi confida Emel Perrtula, che dalle pendici del monte sacro Saana, a
Enontekio, si è trasferito a Helsinki, dove oggi lavora come ricercatore
chimico. «Mangiare in silenzio attorno al fuoco e dormire su brandine, permette
a tutti noi di unirci ai nostri antenati e non dimenticare dove affondano le
nostre radici».

Emel mi confida che sua moglie,
dopo aver avuto due figlie, pregava l’intervento di Jouksahkka, lo spirito che
permette al feto, che secondo le credenze sami all’inizio è sempre femminile,
di trasformarsi in sesso maschile. «So che è illogico e che la scienza nega
questa credenza, ma alla fine abbiamo avuto il desiderato bambino».

Fierezza ritrovata

La consapevolezza e, soprattutto,
l’orgoglio di appartenere al gruppo sami, sono rinati alla fine degli anni
Settanta, dopo che per secoli i governi svedese, finlandese e quello norvegese
con particolare accanimento, avevano cercato di smantellare la cultura indigena
per affermare l’unità dello stato sulla base di uno specifico gruppo nazionale
predominante. Le battaglie combattute dalle associazioni sami, spesso isolate
dai loro stessi consanguinei, hanno portato i loro frutti: nelle scuole si è
ricominciato a insegnare la lingua sami, la musica tradizionale viene
riscoperta e ci sono radio che trasmettono radiogiornali dalla Samiland,
programmi per bambini e per giovani. La Radio Sami Norvegese, la più
strutturata tra le tre esistenti in Scandinavia, trasmette anche circa 20 ore
di programmi televisivi al mese, mentre l’ufficio locale di Kiruna della
televisione nazionale svedese, ne trasmette dieci.

Politicamente i Sami hanno una
propria rappresentanza nei parlamenti nazionali, mentre in ognuno dei tre stati
scandinavi, vi sono parlamenti sami eletti ogni quattro anni, dove il governo
locale dibatte le questioni più spinose. Nei raduni ufficiali viene cantato il Sàmi
soga làvlla
, la Canzone dei Sami, l’inno nazionale dei Sami scritto da Isak
Saba. La fierezza del sentirsi sami la si vede girando nella Samiland dove, nei
giardini delle case sorgono le tipiche tende accanto alle quali sventola la Sàmi
leavga
, la bandiera disegnata da Astrid Bahl nel 1986.

In un territorio dove il sole e
la luna regnano sovrani alternando la propria presenza per sei mesi l’anno, è
naturale che questi due elementi vengano riprodotti anche nel simbolo
nazionale: su un campo cromaticamente variegato con i colori tradizionali,
sorge un cerchio, che simboleggia nella sua interezza il tamburo magico,
equamente diviso tra il rosso del sole e il blu della luna.

Rispetto per la natura

La preponderante presenza della
natura nella vita sami, esaltata dai fenomeni atmosferici del sole di
mezzanotte, della notte continua per diversi mesi e, soprattutto, dalle aurore
boreali, oggi spiegati scientificamente, sono stati i soggetti di un’epica
orale che, senza l’intervento della Chiesa sarebbe, probabilmente, perduta. «I
missionari cristiani possono aver commesso degli errori valutando le credenze
dei Sami, ma è ormai appurato che i primi testi tradotti in sami sono stati
redatti dalla Chiesa Svedese. Erano testi biblici, ma hanno permesso all’intera
letteratura sami di non andar perduta» chiarisce Birgitta Simma.

I sami più rispettati erano i taidis,
coloro, cioè, che possedevano il taidid, la capacità di adattamento e di
orientamento, che conferiva loro uno status superiore perché li poneva
perfettamente in simbiosi con la natura e con gli spiriti che l’abitavano.

Oggi, con l’avvento del Gps,
delle motoslitte, del goretex, forse il taidid non è poi più così
necessario per la sopravvivenza dei Sami, ma rimane comunque il fatto che la
rinnovata ricerca della semplicità, il ritorno a una vita più austera e in
linea con i cicli della natura forse permetteranno a questa civiltà millenaria
di superare anche le sfide del tempo e del progresso che tutto appiattisce.

Piergiorgio Pescali

Piergiorgio Pescali




«Venerando Dio in te… Buongiorno!»

Esperienza di Dialogo Interreligioso in Corea: Alla scoperta del
«SOO-WOON-KYO», religione autoctona coreana.
La presenza dei missionari della Consolata in Corea del Sud è caratterizzata
dal dialogo interreligioso con le molte confessioni storiche e autoctone
presenti nel paese. Padre Diego ci racconta l’esperienza da lui vissuta con una
delle religioni nate di recente nel paese: un fine settimana con il
Soo-woon-kyo.

Lo spirito religioso in Corea
affonda da tempo immemorabile le sue radici nello sciamanesimo, nel buddismo e
nel confucianesimo. Su questa base preesistente, da poco più di 200 anni in qua
si è inserito con forza anche il cristianesimo. Oltre a queste religioni «maggiori»
però, esiste in Corea tutta una galassia di altre religioni molto più «piccole»,
ma non per questo meno importanti nel panorama religioso della nazione. Si
tratta delle cosiddette «religioni autoctone coreane».

Nate in
genere nella seconda metà del 1800 dall’illuminazione di fondatori che volevano
rispondere alla sofferenza e alla situazione di vera oppressione in cui versava
allora il popolo, queste religioni hanno trovato i loro migliori rappresentanti
nel ch’on-do-kyo (la religione della «Via del cielo») e nel buddismo-won
(buddismo nato in Corea); ma sono anche state sottoposte a un inarrestabile
processo di disgregazione, che ha portato alla nascita di innumerevoli altri
piccoli gruppi. Al momento della creazione, nel 1983, dell’Associazione delle
religioni autoctone coreane che le racchiude e rappresenta tutte, queste erano
ben 34! Anche se, da allora, diverse sono praticamente scomparse.

Nel
contesto del dialogo interreligioso, ho avuto una bella occasione per conoscere
e avvicinare, per la prima volta, una di queste piccole religioni autoctone,
chiamata «Soo-woon-kyo» (pronuncia: su-un-ghio), ed ecco che cosa
ho scoperto!

L’occasione

Dal 5 al 12 maggio si era
celebrata a Seoul, e per la prima volta in Corea, la «Settimana dell’Armonia
tra le religioni», sotto gli auspici della Conferenza coreana delle religioni
per la pace (Kcrp, Korean Conference of Religions for Peace), autentico
organo propulsore del dialogo interreligioso in Corea.

Il suo attuale presidente,
l’arcivescovo cattolico Igino Kim Hui-jung, e gli altri leaders delle 7
grandi religioni della Corea, avevano aperto solennemente la Settimana con un
grande «evento» nella centralissima piazza di Kwang-hwa-moon. Poi chiunque
avesse voluto, durante la settimana era invitato ad andare a visitare 7 «luoghi
santi» delle religioni in centro Seoul. A ogni luogo visitato, la persona
riceveva un timbro, che avrebbe poi dato diritto a partecipare al programma
seguente, pensato dalla Kcrp: un fine-settimana di «esperienza diretta» presso
qualcuna delle religioni della Corea. Vivendo ormai da quasi quattro mesi a
Dae-jeon, città a 170 km da Seoul, dove noi missionari della Consolata stiamo
costruendo il nostro nuovo Centro di dialogo interreligioso, avevo potuto
partecipare solo ai momenti più importanti della «Settimana dell’Armonia tra le
religioni», ma poi ho scoperto con piacere che uno dei fine-settimana di «esperienza»
delle altre religioni si sarebbe svolto proprio a Dae-jeon, e mi sono subito
iscritto per partecipare.

Si trattava di far visita,
conoscere e sperimentare, per quanto possibile, la religione Soo-woon-kyo. Non
ne avevo mai sentito parlare prima, e perciò ero particolarmente incuriosito.
Il fine-settimana in questione era da venerdì 13 a domenica 15 luglio. 

I partecipanti

Vivendo a soli 5 km dal quartier
generale del Soo-woon-kyo, sono arrivato presto al luogo del raduno, e ho
cominciato a salutare i presenti. Innanzitutto il segretario generale
dell’Associazione delle religioni autoctone coreane, di cui il Soo-woon-kyo fa
parte, il signor Kim Jae-wan, una simpatica persona di una certa età, che mi ha
preso subito a benvolere (ero l’unico straniero presente!) e che è rimasto con
noi per tutto il tempo. Ho salutato poi il professor Pak Kwang-su, del
Buddismo-won, un caro amico che non vedevo da molti anni, e altri ancora.
Infine è arrivato il pullman da Seoul, da cui è sceso un folto gruppo di
partecipanti, guidati dal professor Pyon Jin-hung, cattolico e segretario
generale della Kcrp.

Tra i partecipanti, conosciuti
poco a poco durante il fine settimana, c’erano una monaca e un monaco buddisti;
una signora confuciana; alcuni buddisti laici; altri non meglio identificati
(si trova un po’ di tutto nell’ambiente del dialogo interreligioso!); e un buon
gruppo di cattolici. Stranamente i protestanti, che di solito si trovano
dappertutto, hanno brillato per la loro assenza: hanno fatto solo una fugace
apparizione per qualche ora un prete anglicano e un pastore protestante che
partecipano regolarmente agli incontri della Kcrp. In tutti eravamo quasi una
trentina.

Ai partecipanti «estei», però,
bisogna aggiungere tutti i volontari del Soo-woon-kyo, che erano là ad accoglierci
e accompagnarci. Erano tutti vestiti, uomini e donne, con una classica
giacchettina coreana grigia, sulla quale spiccavano ben visibili le strisce di
5 colori che contrassegnano il Soo-woon-kyo: il giallo, il rosso, il verde, il
bianco e il nero, che simboleggiano l’universo. Tra di essi c’erano gli «esperti»
della religione, incaricati di spiegarcela e mostrarcela, i «sacerdoti» che
presiedono ai riti e le signore che, come da tradizione, si sono occupate della
cucina per tutti noi (radicalmente vegetariana!).

La prima cosa che tutti abbiamo
imparato dal Soo-woon-kyo è il modo di salutare. Non si dice semplicemente «buongiorno»,
ma si fa riferimento al Dio del cielo (ovviamente inteso in senso orientale,
non una entità «personale» come siamo abituati a pensarlo noi); un Dio presente
sia in me sia nella persona che mi sta davanti, viene «riconosciuto e venerato»
fin dal saluto. Perciò: «Venerando Dio in te… buongiorno!».

Visita ai luoghi sacri

Non c’è dubbio che i nostri
ospiti del Soo-woon-kyo abbiano dato fondo a tutta la loro fantasia, per
prepararci un programma da svolgere, che più «vario» non poteva essere.

Abbiamo cominciato con una visita
ai «luoghi sacri» della religione: questi sono immersi in un parco naturale
molto esteso e bellissimo, ai piedi del monte Kum-byong, pieno di alberi
secolari e di verde, campi coltivati a verdure e sentirneri che s’inoltrano nel
bosco. Abbiamo visitato innanzitutto il tempio centrale, To-sol-ch’on, che ci
ha rivelato subito la complessità di questa religione. Ci è stato spiegato che
un riquadro centrale dorato, al centro del tempio, rappresenta il «Dio del
cielo» (che non si vede e non si tocca); ma poi ci sono i simboli degli altri
personaggi che vengono venerati nella religione: Tan-gun (il mitico fondatore
della Corea); Buddha (nella sua versione «escatologica» di Amita-bul); e
Confucio. Questa religione infatti pretende di «unificare» in se stessa le
dottrine e i principi religiosi di Confucianesimo, Buddismo e Taoismo.

Accanto al tempio principale c’è
un altro tempietto che ospita l’immancabile campana, di cui ci sono state
spiegate le caratteristiche artistiche e di costruzione. La campana viene
suonata ogni mattina e ogni sera, ritmandone il suono alle invocazioni cantate
a Buddha. Infine il «Pop-hwe-dang», cioè il luogo dove si svolgono i
riti religiosi e la preghiera.

A tutto questo è da aggiungere
una costruzione modea, nella quale siamo stati ospitati e nella quale abbiamo
svolto tutte le attività del fine-settimana.

I riti

Il sabato mattino, alle 4.00,
eravamo tutti radunati nel luogo apposito per la preghiera. Fui colpito nel
vedere come ci fossero molti «sacerdoti», vestiti con un abito da cerimonia
molto particolare e in testa una specie di corona a cinque stadi. A tuo hanno
presieduto la preghiera, che consiste in una prima offerta solenne di incenso a
Buddha, seguita da una serie di prostrazioni profonde, e poi nella ripetizione
cantata del «credo» basico della religione; seguita da altri canti e
prostrazioni, durante le quali l’intera assemblea si gira tutta verso i quattro
punti cardinali. Il tutto è accompagnato dal suono ritmico del «mok-tak»,
tamburello di legno concavo, tipico strumento buddista. 

Anche la domenica abbiamo potuto
assistere alla celebrazione domenicale, questa volta per fortuna alle dieci del
mattino; celebrazione che si è svolta quasi uguale alla prima a cui avevamo
assistito, con l’aggiunta di una lettura dagli scritti del fondatore della
religione e una semplice spiegazione/omelia sulla parte letta; per l’occasione,
aveva a che fare con il non lasciarsi vincere dal desiderio della ricchezza.

La sera prima, pur sotto la
pioggia, avevamo partecipato a una processione davanti al tempio centrale,
lungo un «percorso sacro» segnato da pietre disseminate sull’immenso prato,
preceduti dai portatori di bandiere, e ciascuno avevamo in mano una candela
accesa… Il tutto mentre lassù in alto, dentro il tempio, un sacerdote faceva
le prostrazioni di rito e offriva incenso a Buddha.

Fui molto impressionato dalla
devozione che tutti i fedeli Soo-woon-kyo mostravano durante la preghiera. I
rituali sono precisi e complicati (retaggio del Confucianesimo); per fare la
prostrazione, per esempio, gli uomini devono mettere a terra per prima la mano
sinistra (le donne, quella destra) e appoggiare il piede sinistro sopra quello
destro (le donne al contrario), e così via… Le formule cantate, per me
incomprensibili, devono essere molto ripetute, perché tutti le sapevano a
memoria e le cantavano a occhi chiusi, con grande concentrazione.

Attività di contorno

A me, a dir
la verità, sarebbe piaciuta una spiegazione più calma e completa della «teologia»
della religione, ma evidentemente gli organizzatori del programma non devono
averla pensata come me, perché questa parte, pur importante, è stata coperta
con una conferenza di un’oretta, senza lasciare tempo a eventuali domande di
spiegazione e di approfondimento. Tenete presente che ogni religione ha il
proprio «linguaggio» che, per uno straniero come me, non sempre è facile da
capire. Molte altre ore sono state, invece, impiegate in attività di esperienza
della cultura tradizionale coreana, con la quale il Soo-woon-kyo (come tutte le
religioni autoctone coreane) ha profondi legami. Abbiamo così fatto un esercizio
di origami
: si trattava di piegare e ripiegare quattro fogli di carta
colorata per ottenee un han-bok, cioè un vestito classico coreano in
miniatura.

Poi un’iniziazione alla danza
sacra
con i cembali, di chiara matrice buddista, e anche molto faticosa
dal punto di vista fisico, perché non si tratta solo di suonare i cembali, ma
anche di ruotarli in aria mentre si eseguono alcuni passi di danza,
volteggiando su se stessi.

Poi la preparazione di un piatto
tradizionale coreano
: esperienza alla quale mi sono discretamente
sottratto, date le mie quasi nulle doti culinarie.

Infine ci siamo accaniti tutti, a
gruppetti, in una specie di gioco dell’oca, ricalcato su un gioco
tradizionale ancora molto in voga in Corea, ma «trasformato» in base alle
credenze del Soo-woon-kyo. Secondo il punteggio ottenuto, facendo rotolare un
grosso «dado» di legno, i giocatori passavano attraverso un percorso tortuoso,
complicatissimo e pieno di insidie, dal «mondo reale degli uomini» per arrivare
al «mondo intermedio» e infine raggiungere il «mondo del regno di Dio».

Ci è stato spiegato che i fedeli
prendono questo gioco molto sul serio, quando lo fanno nel giorno di capodanno,
in quanto credono che il loro percorso sulla carta-guida del gioco determini
davvero le vicende della loro vita di un anno intero. È poi successo che abbia
vinto proprio io, e questo fatto mi è valso una grande popolarità tra tutti i
presenti!

Per concludere

Tutto sommato, è stata una bella
esperienza, che ha arricchito di un altro tassello il mio cammino di impegno nel
campo del dialogo interreligioso.

Personalmente, lo ripeto, avrei
preferito meno attività di contorno e più incontri di «sostanza» con i
rappresentanti del Soo-woon-kyo. Trovo curioso che, più una religione è
piccola, più la sua «dottrina» si presenta complessa e di difficile
comprensione. La pretesa di unificare in una sola le tradizioni religiose di
Confucianesimo, Buddismo e Taoismo, mi appare eccessiva, specie vedendo come,
di fatto, la parte del leone sia fatta dal Buddismo: il fondatore del Soo-woon-kyo
era un ex-monaco buddista!

Allo stesso modo trovo
sorprendente il fatto che, nonostante la piccolezza della religione e il suo
profondo e perfino «esagerato» legame con la cultura tradizionale coreana, i
fedeli del Soo-woon-kyo siano convinti di avere una «missione universale» da
svolgere, per costruire il regno di Dio sulla terra. Una missione che sentono
come particolarmente affidata al «popolo coreano», visto quasi come un messia
per il mondo intero. Di fatto invece, a mio parere, la religione si trova
troppo «chiusa» nel mondo culturale coreano e non credo possa ancora vantare
nessun tentativo concreto di apertura reale al mondo.

Insomma, l’esperienza mi ha
lasciato in cuore un mucchio di domande sulle quali mi sarebbe piaciuto
dialogare con i fedeli del Soo-woon-kyo! Ad ogni modo, come ho detto a tutti al
momento della cerimonia di chiusura dell’esperienza stessa, il fatto che adesso
io abiti a pochi chilometri dal quartiere generale della religione mi offrirà
certamente, in futuro, altre occasioni di incontro e dialogo, che spero possa
diventare proficuo.

Un’ultima considerazione:
certamente un’occasione come questa era preziosa per il Soo-woon-kyo per farsi
conoscere e mettersi in mostra, ma ciò non toglie nulla al commovente impegno e
all’entusiasmo con cui molte persone si sono prodigate per noi, in molti e
diversi modi, in questo fine-settimana. Tutti noi partecipanti abbiamo
sottolineato questo aspetto e li abbiamo ringraziati di tutto cuore.

«Venerando Dio in voi…
arrivederci!», fratelli e sorelle del Soo-woon-kyo.

Diego Cazzolato

Diego Cazzolato