Acqua e Foreste: la dote di Vientiane

La situazione in Indocina / 2: Laos
Chiuso e
isolato, fino a ieri il Laos era conosciuto soltanto per il conflitto con gli
Stati Uniti. Oggi l’ex regno cerca una sua dimensione internazionale, almeno
nell’ambito indocinese. In tanti se ne fanno paladini, mirando alle sue risorse
(acqua e foreste su tutto). Riuscirà il Laos, paese con molte etnie e un solo
partito, a progredire senza essere schiacciato?

A novembre 2012, tre eventi consecutivi hanno rilanciato
il Laos sulla scena mondiale. Anzi, per diversi aspetti ve lo hanno introdotto,
per la prima volta, con enfasi. I tre eventi sono stati: l’organizzazione
dell’Incontro Asia-Europa (Asia-Europa Meeting, Asem), l’avvio del
percorso finale verso l’accesso all’Organizzazione mondiale del Commercio
(Wto), l’inaugurazione formale dei lavori per la sua prima diga sul Mekong. Tre
eventi interconnessi e, in prospettiva, di grande rilievo.

Dopo 15 anni di percorso burocratico e di lenta
evoluzione, il paese, per molti aspetti ancora chiuso – per scelta e per
necessità – entro confini assediati da potenti e invadenti vicini, ha chiesto
formalmente di entrare nel Wto.

Lo ha fatto nel contesto del 9° Incontro Asia-Europa che
ha portato nella capitale Vientiane 51 paesi partecipanti, inclusi tutti i
membri Ue e Asean (Associazione delle nazioni del Sud-Est asiatico) e i
rappresentanti delle due organizzazioni, oltre a tre nuovi aderenti (Norvegia,
Svizzera e Bangladesh). Al centro dell’incontro – che quest’anno ha avuto come
tema «Amici per la pace partner per la prosperità» – la ricerca di un impegno
comune per superare la crisi del debito, rilanciare l’economia globale e
affrontare le questioni regionali.

L’accesso al Wto, perseguito fino dal 1997, consentirà al
piccolo paese asiatico (236.800 chilometri quadrati) e ai suoi 6,3 milioni di
abitanti di beneficiare di tariffe commerciali ridotte, un bonus per la sua
economia asfittica (il Pil annuale è di soli 8,3 miliardi di dollari). Un
ingresso facilitato, va ricordato, dalla sua condizione di nazione tra le meno
sviluppate. Di fatto il riconoscimento che la strada verso il progresso
economico sarà lunga e con ogni probabilità difficile, disseminata di riforme
del sistema politico e di nuove priorità economiche e sociali. Una strada
contrassegnata – si spera – anche dall’impegno a conservare con cura le proprie
risorse naturali, che al momento costituiscono la sola ricchezza del Laos.

DA LUANG PRABANG  A VIENTIANE

Quattro secoli e mezzo fa, con una mossa
all’apparenza sconsiderata, re Setthathirat fondava l’attuale capitale laotiana
Vientiane. A spingere allora il sovrano ad abbandonare le rive settentrionali
del Mekong e a dare vita a un nuovo centro del suo potere lungo il grande
fiume, fu la minaccia birmana. Oggi sono gli investimenti cinesi, thailandesi,
singaporeani, giapponesi, europei a mettere a rischio l’indipendenza del paese.
Mentre le nuove infrastrutture servono soprattutto agli interessi immediati
degli investitori e delle élite locali legate al partito unico e al vicino
cinese, il reddito complessivo non sembra risentire dei tanti progetti di
origine straniera, e quello pro-capite annuo resta tra i più bassi del
continente e del mondo.

Il Laos da decenni è sotto assedio affinché
il regime che governa con intransigenza da un lato ceda alla democratizzazione,
ai diritti civili e allo sviluppo del paese, dall’altro consenta, sempre
motivato dalle necessità dello «sviluppo» l’intervento massiccio di partner
stranieri. Nel tempo, forse inevitabilmente, l’immensa Cina popolare ha fatto
sentire il suo peso, mettendo via via ai margini il Vietnam, rivale strategico,
e la Thailandia, rivale economico. Oggi il Laos è una specie di protettorato
della Repubblica popolare cinese, invaso dai suoi prodotti a basso prezzo.
Ancor più sottoposto a pressioni insostenibili sulle sue risorse e, alla fine,
sulla sua autonomia. A dare concretezza a tutto ciò anche la serie di quattro
dighe costruite dai cinesi nell’alto corso del Mekong, in territorio cinese,
che influiscono sul corso più meridionale del fiume e sulle popolazioni
rivierasche.

Nonostante gli investimenti massicci, le
prospettive restano incerte per almeno due ragioni: il basso livello di
sviluppo e il costo che le realizzazioni hanno, o avranno, sulla vita delle
popolazioni in un territorio aspro e fragile.

IL PESO (POLITICO)  DEGLI INVESTIMENTI

Paese poco più piccolo dell’Italia, senza
sbocco al mare, ricco di risorse idriche e forestali, dove convivono una grande
varietà di etnie e lingue, il Laos fatica a mantenere autonomia di scelte,
indipendenza economica e ancor più l’identità sopravvissuta all’indipendenza
dalla Francia del 1949, al conflitto più o meno palese con gli Stati Uniti e,
dal 1975, alle contraddizioni del regime comunista. Identificato questo con il partito Pathet Lao,
una realtà fragile, che va lentamente perdendo in autonomia e controllo
ideologico. Crescono gli investimenti cinesi e da Pechino arriva anche il 32
per cento del sostegno internazionale al Laos. Con la costruzione di aree di
sviluppo al confine, ponti, strade e ferrovie, la Cina popolare sta integrando
sempre più le sue regioni meridionali con il vicino, il quale è determinante
anche per i suoi rapporti sempre più stretti con l’Asean.

Ricerca di sviluppo e mantenimento degli
equilibri ecologici, modeità e tradizione nei modi di vita, indipendenza e
sempre maggiore influenza straniera, socialismo e rivendicazioni
democratiche… I dualismi profondi del Laos si estendono anche alle sue due
maggiori città. Indaffarata e modea, con più velleità che eccessi, la
capitale Vientiane si affaccia da una piana polverosa sulla riva del Mekong a
fronteggiare l’ingombrante vicino thailandese. Città di templi e monumenti,
centro di una folta comunità monastica, Luang Prabang è sbocco sul grande fiume
di comunità contadine e tribali, che popolano le valli tra le montagne
ricoperte di foresta. Tra i due estremi, un paese in bilico sul proprio futuro
che a nuove strade di grande comunicazione, agli aeroporti, allo sviluppo della
propria compagnia Lao Aviation, alla costruzione di nuovi ponti sul
Mekong verso la Thailandia e a un network telefonico a banda larga
attivo dal mese scorso affida qualcosa di più che la capacità di essere più
coeso: soprattutto la possibilità di essere anche economicamente più omogeneo e
cornordinato, insieme più aperto e più competitivo verso l’esterno.

MONACI E MONASTERI

Il territorio laotiano costituisce una regione di
transito, non sempre pacifico, di popolazioni. Un passaggio reso possibile da
profonde vallate disposte in direzione Nord-Sud e dai fiumi che permettono un
rapido accesso, almeno nei periodi più propizi alla navigazione, dalla Cina
meridionale alle fertili pianure della Cambogia e della Thailandia. Il continuo
passaggio, e in parte la sedentarizzazione di popolazioni di diversi ceppi
etnici e linguistici, non poteva non lasciare una traccia e, nello stesso
tempo, non poteva non creare una situazione di costante incertezza nella sua
storia tormentata.

I vari regni Thai in Laos, di cui il primo fu fondato nel
1360, ebbero come sfondo regioni poco ospitali, caratterizzate da profonde
valli fluviali, montagne ricoperte di fitte foreste, un territorio
complessivamente povero e difficile da controllare e organizzare. Le popolazioni
Mon (Hmong) soggiogate non avevano saputo o potuto, in un tale contesto,
sviluppare una cultura avanzata, come invece avevano fatto i Mon della Cambogia,
del Siam (Thailandia) e della Birmania (Myanmar). Di conseguenza il passato di
cui i Lao (debitori di molto agli antichi Mon) sono oggi fieri è un passato in
gran parte concesso o imposto loro.

La religione induista non ha lasciato tracce
degne di nota e le tradizioni animiste, per quanto fortemente presenti, sono
inevitabilmente soverchiate dal buddhismo. Quest’ultimo, nella sua versione Hinayana,
giunse dal Siam, senza nulla concedere alla tradizione locale. Introdotto dai
vincitori, venne subito e accettato. In Laos, la scarsità di ritrovamenti
collegabili a una tradizione animista o sciamanica contrasta con la situazione
attuale che vede gli spiriti indissolubilmente connessi alla vita quotidiana.
Questo può dipendere anche dalla difficile individuazione di reperti,
eventualmente esistenti ma disseminati su un territorio montuoso e ricoperto da
un denso manto forestale, oltre che dalla storia complessa e dai frequenti
conflitti.

I gruppi che si rifanno a pratiche di
carattere animistico sono oggi spesso tra gli elementi più deboli delle società
locali, generalmente quelli che hanno meno possibilità di accedere
all’istruzione e che da sempre tramandano tradizioni orali. Di conseguenza,
l’orizzonte religioso e culturale del Laos è buddhista e il buddhismo
costituisce per i laotiani un elemento identitario e, al contempo, l’unica
forza alternativa al potere politico. Ciascun laotiano passa abitualmente un
certo periodo della vita in un monastero come novizio e a questo si aggiunge
l’attaccamento della popolazione alla dottrina del Buddha e il suo sostegno
alle istituzioni buddhiste, che permette di acquisire meriti e proseguire più
spediti sulla via della Liberazione. Ai monaci ci si rivolge per i riti
quotidiani, le occasioni festive e i momenti di passaggio della vita personale
e sociale, ma monasteri e templi sono sottoposti alla benevolenza del governo,
che sovente nella storia recente ha usato le armi della repressione e del
ricatto per tacitae proteste e rivendicazioni.

Stefano
Vecchia

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Stefano Vecchia




Scene da un matrimonio – Dalla Macedonia, un paese quasi sconosciuto

Nel 1991 la
Macedonia si staccò pacificamente dalla Jugoslavia. A oltre 20 anni
dall’indipendenza il suo nome è ancora incerto, perché la confinante Grecia lo
rivendica. Dalle regioni macedoni sono emigrati in moltissimi: 700 mila su una
popolazione di poco superiore ai 2 milioni. In Italia ne sono arrivati –
legalmente o illegalmente – un numero importante: ventimila nel solo Veneto.
Il matrimonio di Azra ed Enis, due giovani
emigrati macedoni, è l’occasione per conoscere un paese tanto vicino quanto
sconosciuto.

La Macedonia è uno di quei «nuovi» stati che difficilmente
la gente sa collocare su una cartina geografica e di cui, ancor meno, sa
descrivere la storia. Questo potrebbe essere dovuto al
fatto che è una ex repubblica jugoslava arrivata all’indipendenza – era l’8
settembre del 1991 – senza passare per una guerra, o i cui scontri etnici
interni tra albanesi e macedoni, nei primi anni 2000, non sono stati
considerati degni dell’attenzione della stampa occidentale.

L’EMIGRAZIONE HA SVUOTATO I VILLAGGI

Secondo Risto Karajkov, collaboratore di Osservatorio Balcani e
Caucaso, uno dei siti più autorevoli nel panorama dell’informazione sui Balcani
in Italia: «Si stima che la diaspora macedone all’estero sia attorno alle 700.000
persone (su 2,1 milioni di cittadini), anche se non vi è alcuna istituzione in
Macedonia in grado di fornire statistiche attendibili sul livello di
emigrazione dal paese. L’unica conclusione, riportata ripetutamente dai media, è
che è massiccia». Nell’articolo pubblicato sul sito spiega come
tradizionalmente fossero «le regioni più povere e con scarse condizioni per
sviluppare l’agricoltura ad alimentare i flussi migratori, mentre negli ultimi
anni sono anche le regioni più ricche a perdere manodopera contribuendo a
creare il mito di pecalba (la migrazione economica), la nostalgia per la
madrepatria, le vite consumate lontano dalla propria famiglia e dai propri cari».
Lo scenario che si presenta a chi arriva nei villaggi della campagna macedone –
tranne nel mese di agosto – è di abbandono e desolazione: a causa
dell’emigrazione. Nei villaggi sono rimasti solo gli anziani e chi riesce
ancora a portare avanti il lavoro nei campi, e con esso a mantenersi. I giovani
che non riescono o hanno scelto di non emigrare abbandonano comunque i villaggi
per andare a cercare fortuna in città, soprattutto a Skopje, la capitale.
Karajkov mette comunque in luce che «non si tratta di un processo nuovo: è
iniziato più di cinquant’anni fa anche se, col passare del tempo, le sue
conseguenze sono sempre più visibili. Oggi in Macedonia ci sono 458 villaggi
che hanno meno di 50 abitanti, tra questi oltre 100 che hanno meno di 10
abitanti. L’Ufficio statale per le statistiche riporta, infatti, un totale di
147 villaggi che attualmente sono completamente vuoti».



LE STRADE PER L’ITALIA

I Macedoni che emigrano in Italia scelgono prevalentemente le
regioni del Nord e, tra le città, Treviso e Piacenza, quest’ultima addirittura
ribattezzata Strumicenza per l’alto numero di persone emigrate dalla regione
macedone che porta il nome di Strumica.

Secondo Osservatorio Balcani «circa 5.000 cittadini macedoni
migrano ogni anno verso il nostro paese». Si può arrivare in Italia legalmente,
ottenendo un passaporto bulgaro (in quanto appartenenti alla minoranza macedone
in Bulgaria) o grazie a parenti o amici già residenti in Italia che facciano da
datori di lavoro. O in maniera irregolare – come è il caso di molti migranti,
non solo macedoni -, spesso diventando vittime di ricatti ed estorsioni per
viaggi della speranza in condizioni estreme e false promesse di lavoro.

Nell’inchiesta sulle comunità balcaniche a Piacenza, realizzata
per «Piacenza Sera» dal giornalista freelance Gaetano Gasparini, viene
sottolineato il peso della diaspora macedone in questa città: sono ben 1939, il
che ne fa il secondo gruppo etnico della città. I macedoni, si legge
nell’inchiesta, sono «lavoratori con nuclei famigliari stabili e una seconda
generazione già avviata». In Italia le prime generazioni macedoni lavorano
principalmente (per lo meno all’inizio delle loro carriere lavorative) nel
settore dell’edilizia, anche se non sono rari i casi di avviamento di attività
imprenditoriali autonome dopo alcuni anni di lavoro dipendente, non per forza
nello stesso settore, come testimonia un immigrato di origini macedoni
intervistato nel corso dell’inchiesta. «Sono arrivato a Piacenza nel 1999,
anch’io sono stato clandestino per un paio d’anni. Ho lavorato duro come
manovale e poi come camionista, alla fine sono riuscito a realizzare il mio
sogno ovvero aprire un salone di parrucchiere». Le seconde generazioni spesso
seguono i percorsi professionali già avviati dai genitori nonostante comincino a
emergere scelte diverse e più autonome, come l’avvio di attività transnazionali
tra l’Italia e la Macedonia.

IL MATRIMONIO DI AZRA ED ENIS 

Dall’aeroporto di Treviso partono voli diretti per Skopje due
volte alla settimana. La maggior parte dei Macedoni residenti in Italia vive
infatti in Veneto (19.870 persone alla fine del 2010, 7.686 solo nella
provincia di Treviso). In alcune regioni della Macedonia, soprattutto nella
parte occidentale, la lingua italiana, così come il dialetto veneto, sono
estremamente diffusi per l’altissimo numero di immigrati macedoni in questa
regione dovuto alle catene migratorie (parenti e amici) che dagli anni ’90
hanno cominciato a legare alcuni villaggi macedoni alle città del Veneto.
Durante l’estate i villaggi, quasi completamente disabitati nei mesi invernali,
sembrano tornare a vivere. Per le vacanze infatti la diaspora macedone torna,
rigorosamente su macchine con targa italiana, dall’Italia alla Macedonia, per
trascorrere le vacanze nel proprio paese di origine, visitare i parenti rimasti
lì o rientrati anch’essi per le vacanze, sistemare alcuni affari e celebrare
feste e momenti importanti, come i matrimoni. Il mese di agosto sembra infatti
essersi ormai trasformato nel mese dei matrimoni. Il matrimonio cui abbiamo
avuto il privilegio di partecipare è stato celebrato nel villaggio di Borovec,
nella provincia di Struga, nella parte occidentale della Repubblica di
Macedonia. Gli sposi erano Azra ed Enis, due giovanissimi macedoni, residenti
in Italia (anzi, per essere precisi, figli di immigrati macedoni in Italia,
quelli che vengono chiamati «seconda generazione»). In queste zone vivono i
Torbeshi, una comunità di slavi cristiani islamizzati durante la dominazione
ottomana, che hanno affinità sia con i Pomacchi dei Monti Rodopi sia con i
Gorani di Albania e Kosovo. Anche tra i Torbeshi ci sono moltissimi immigrati
in Italia detti pechalbari (emigranti, appunto). I matrimoni tra i
Torbeshi si festeggiano secondo l’antica tradizione e durano per tre giorni.
Flauti e tamburi, sax e fisarmoniche accompagnano le danze che si ripetono
senza sosta giorno e notte, perché nei matrimoni macedoni ballare è molto più
importante che mangiare.

Anche il matrimonio di Borovec è stato celebrato nel rispetto di
tutte le tradizioni dei Torbeshi, custodite dagli anziani della comunità:
mentre i festeggiamenti, canti e balli, erano in corso a casa dello sposo, un
gruppo di uomini, parenti dello sposo, è partito per incontrare gli uomini
della famiglia della sposa e «sigillare con loro l’affare del matrimonio». Poi
la sposa è stata coperta con un broccato, «rapita» e portata a casa dello
sposo.

Nelle comunità musulmane macedoni, lo sposo e sua madre non
prendono parte al corteo nuziale che conduce la sposa dalla sua casa natale a
quella dello sposo, ma la attendono insieme alle donne della famiglia. Queste
accolgono la futura sposa all’entrata del paese, mostrando in questo modo la
propria approvazione, poiché, attraverso il matrimonio, una nuova donna entrerà
a far parte della famiglia. La sposa viene accolta con canti e danze e
accompagnata così fino a casa dello sposo. Lo sposo dalla propria casa cerca di
vedere «di nascosto» la sposa attraverso un anello, pronunciando una formula
rituale di buon auspicio. A quel punto la sposa entra nella casa dello sposo e
riceve offerte dai testimoni dello sposo che «riempiono» di soldi le sue scarpe
fino a quando «potrà calzarle». La sposa per la maggior parte del tempo tiene
gli occhi bassi e non sorride, mostrando così la tristezza per aver abbandonato
la propria famiglia e la propria madre, mentre la suocera celebra la sua gioia
nell’aver acquisito una nuora. I festeggiamenti durano per tre giorni, le donne
indossano vestiti tradizionali ricamati a mano e tutta la comunità si riunisce
attorno agli sposi riconoscendo e benedicendo la loro unione. Quelli che si
svolgono d’estate in Macedonia sono matrimoni tradizionali, ma che non hanno
alcun valore legale o religioso. La benedizione dell’Imam, infatti, i
futuri sposi l’hanno ricevuta un anno prima, in occasione del fidanzamento
ufficiale e il matrimonio civile viene contratto in comune nei giorni
successivi, ma come mera formalità. Questo dimostra l’importanza della
tradizione comunitaria che sacralizza i legami tra i suoi membri e la loro
appartenenza a essa.

EMIGRAZIONE DI PERSONE…

A un’analisi più approfondita ci si rende conto che i matrimoni
(così come altre celebrazioni importanti) che gli emigrati continuano a
celebrare nel paese di origine, servono, soprattutto alle prime generazioni,
per espiare una «colpa» (quella di aver lasciato il paese) e controbilanciare
l’effetto perturbatore suscitato dall’emigrazione. La naturalizzazione degli
immigrati e, in maniera ancora maggiore, l’ottenimento della cittadinanza
italiana per i loro figli, infatti, rendono retrospettivamente più chiara la
funzione disgregante che l’emigrazione ha per le comunità di origine quando
essa è protratta nel tempo, quando si ripete per un grande numero di individui,
uomini e donne, e di famiglie. Come dice il sociologo Sayad nel libro La
doppia assenza
, infatti: «Emigrare significa “disertare”, “tradire”. In un
certo modo significa indebolire la comunità da cui ci si separa, anche quando
lo si fa, appunto, per rinforzarla, per favorire la sua prosperità. Ogni partenza
e ogni emigrato rappresentano altrettante mutilazioni. Così, a partire dalla
stessa origine dell’emigrazione, si comprende come essa contenga i rischi di
una rottura con lo spirito e non soltanto con il corpo. Si capisce, così,
che per far in modo che il tabù della naturalizzazione funzioni, non è
sufficiente biasimarla e biasimare il naturalizzato, ma bisogna sacralizzare
(nel senso forte del termine) la comunità e l’appartenenza indefettibile (un
tipo di fedeltà assoluta) alla comunità in quanto gruppo sociale, e sacralizzare
a sua volta il gruppo in quanto struttura o insieme di strutture comunitarie –
che è ciò che succede, ad esempio, coi matrimoni. Bisogna sacralizzare i
legami che uniscono tra loro i vari membri della comunità, soprattutto quando
sono dispersi, e i legami che li uniscono alla comunità, soprattutto quando ne
sono separati, per poter esorcizzare il demone della contaminazione sovversiva
a cui l’emigrazione espone e che la naturalizzazione consacra».

La vera prova dell’integrazione o del mantenimento dei legami con
la terra di origine sarà la seconda, e soprattutto la terza generazione. Rimane
da vedere se prevarrà la «volontà» di sentirsi italiani al 100% o se la crisi o
i casi di discriminazione subita porteranno a un ripiegamento sulle proprie
origini e a ipotesi di ritorno. Questa sarà la sfida che spetterà ai figli dei
primi migranti che saranno magari in grado di esplorare e appropriarsi di una
terza via, un nuovo modo di essere italiani-macedoni, in Italia, in Macedonia o
altrove.

IMMIGRAZIONE DI CAPITALI

Da sempre le migrazioni presentano anche aspetti positivi per i
paesi nativi dei migranti. Le rimesse, infatti, aiutano la crescita del Pil
nazionale. La Macedonia, così come altri paesi di emigrazione, si è resa conto
dell’immenso potenziale delle rimesse e degli investimenti esteri, e ha dato
vita a un processo per favorire gli investimenti in Macedonia. Il governo
macedone, appoggiandosi a un’incisiva campagna mediatica, ha intrapreso riforme
radicali per attirare e orientare gli investimenti da parte degli emigranti,
portando la Macedonia a essere uno dei paesi con le tasse più basse in Europa.
Ha offerto massicci incentivi agli investitori stranieri, promosso aree economiche
libere e si è impegnato in una intensiva comunicazione con i singoli
investitori. Due giovani macedoni incontrati al matrimonio, ad esempio,
residenti in Italia dalla fine degli anni ’90, ormai perfettamente bilingui e
con una conoscenza profonda dei contesti italiano e macedone, stavano, proprio
nel corso dell’estate, concludendo tutte le pratiche per dare vita ad
un’attività di business transnazionale tra l’Italia e la Macedonia, con
installazione di fabbriche e laboratori in Macedonia per la produzione di
manufatti da vendere poi sul mercato italiano ed europeo.

Il futuro della Macedonia e della sue genti è ancora tutto da
costruire, in patria e fuori.

Viviana Premazzi

Box:
DALLA JUGOSLAVIA
A OGGI

TRA SKOPJE E ATENE, UN NOME DI TROPPO

Fino al 1991 è stata la «Repubblica socialista di macedonia».
Oggi è un paese senza un nome condiviso. Tanto facile è stato il distacco dalla
Federazione jugoslava quanto complicate sono le relazioni tra Skopje e Atene.

Nonostante siano paesi confinanti, i collegamenti tra
la Macedonia e la Grecia non sono facili. Da Skopje a Salonicco c’è un solo
autobus al giorno e i treni non sono garantiti. Il mezzo più «comodo» e veloce è
quindi il taxi privato anche se non tutti i tassisti se la sentono di
attraversare il confine o chiedono un compenso extra per le questioni che
potrebbero nascere alla frontiera.

Questo perché le relazioni tra i due paesi, così come
l’ingresso della Macedonia nella Nato e nell’Unione europea, sono ancora ad un
punto morto a causa della disputa sul nome. Se ripercorriamo la storia possiamo
capie i motivi.

L’8 settembre del 1991 la «Repubblica socialista di
Macedonia», una delle sei entità statuali che costituivano la federazione
jugoslava, dichiara la propria indipendenza in seguito a un referendum e il 17
novembre dello stesso anno il parlamento di Skopje adotta la costituzione della
«Repubblica di Macedonia». Nel 1992 con l’idea di costituire la «Grande
Macedonia» il nuovo governo di Skopje stampa carte geografiche che comprendono
anche la Macedonia dell’Egeo nella loro neo-nata nazione, battendo anche
cartamoneta con la Torre bianca, emblema di Salonicco, seconda città greca.
Queste iniziative secondo l’esperto macedone Risto Karajkov «hanno provocato la
Grecia, per niente disposta a cedere nome, storia e identità macedone alla
Macedonia, appunto, e che le ha bollate come mire espansionistiche di Skopje
sulla Macedonia dell’Egeo. La Grecia ritiene, inoltre, che il nome “Macedonia”
sia parte esclusiva della propria storia e della propria eredità culturale, e
sostiene che, prendendo questo nome, il proprio vicino settentrionale utilizzi
indebitamente questa eredità». Le definizioni contemporanee di Macedonia, però,
potrebbero essere considerate dubbie, poiché i limiti della regione geografica «Macedonia»
sono stati spostati diverse volte nel corso della storia. Rudy Caparrini su
mondogreco.it riporta la definizione dei confini della Macedonia data dai
geografi: «Quella vasta area della penisola balcanica (66mila chilometri
quadrati) suddivisa oggi fra Fyrom, Grecia, Bulgaria e Albania. […] Oltre la
metà della superficie complessiva di tale regione, però – specifica più avanti
-, appartiene alla Grecia (precisamente 34.231 kmq) mentre solo poco più di un
terzo è parte della Fyrom (Ex Repubblica Yugoslava di Macedonia). Mai nella
storia, inoltre, è esistita un’entità sovrana denominata semplicemente
Macedonia». Anche se è vero che il Regno di Macedonia, a cui la regione odiea
deve il suo nome, era situato quasi interamente dentro i confini greci,
comprendendo una piccolissima parte di ciò che oggi è la regione.

Così nel 1992, in seguito alla richiesta della
Grecia, l’Unione europea adotta la «Dichiarazione di Lisbona», che proibisce al
nuovo stato, ancora non riconosciuto a livello internazionale, di utilizzare il
nome «Macedonia». Il 7 aprile 1993, un anno e mezzo dopo la data di
proclamazione dell’indipendenza della Repubblica di Macedonia, a causa
dell’ostruzionismo greco, il Consiglio di sicurezza dell’Onu, invece, approva
la risoluzione 817, con la quale ammette il paese nell’organizzazione delle
Nazioni Unite, ma con la denominazione temporanea di Fyrom (Former Yugoslav
Republic of Macedonia
). Skopje, però, non gradisce tale soluzione, argomentando
l’incongruenza del riferimento alla Jugoslavia, con cui i ponti vanno rotti una
volta per tutte, anche a livello lessicale. Nel febbraio 1994 poi la Grecia
sottopone la Macedonia a un embargo, chiudendo completamente i confini comuni.
L’embargo è causato dalla decisione di Skopje di adottare, come bandiera
nazionale, il cosiddetto «Sole di Vergina», simbolo legato ad Alessandro Magno.
La Grecia protesta anche contro un articolo della costituzione macedone, nel
quale si parla di sostegno e protezione delle minoranze macedoni presenti negli
stati confinanti. Dopo diciotto mesi di embargo, che causa alla Macedonia danni
stimati intorno ai due miliardi di dollari, nel settembre 1995 Atene e Skopje
firmano un trattato, sotto l’egida dell’Onu, col quale si impegnano a cercare
una soluzione mediata alla disputa. Nel trattato, i due paesi non sono citati
con i propri nomi costituzionali, ma come «Primo contraente» e «Secondo
contraente». Nell’ottobre 1995, a seguito della modifica della bandiera e
dell’articolo conteso la Grecia riapre le frontiere. Alla fine dello stesso
anno i due paesi iniziano dei negoziati bilaterali, sotto il patrocinio delle
Nazioni Unite per risolvere la disputa sul nome. All’inizio la Grecia si
dichiara assolutamente contraria ad ogni riferimento alla parola «Macedonia»
per il possibile nome costituzionale del proprio vicino. Nel corso degli anni,
però, questa posizione si ammorbidisce, e oggi questa possibilità non viene
esclusa a priori, anche se si preferirebbe un nome composito. La posizione
macedone è, invece, quella di utilizzare una doppia formula: il nome Repubblica
di Macedonia nei rapporti col resto del mondo, e di trovare un nome diverso per
i rapporti bilaterali con la Grecia. La Grecia però non è d’accordo, e vuole un
nome unico e approvato da tutti. Nel corso degli anni, la Macedonia viene
riconosciuta col suo nome costituzionale da 120 paesi, inclusi tre membri
permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, Russia, Cina e, il 4 novembre
2004, gli Stati Uniti. Tuttavia, la questione del nome non è risolta e
complica, ad esempio, il processo di integrazione euroatlantica di Skopje. Da
parte greca la questione si incancrenisce, trasformandosi in motivo di orgoglio
nazionale che non può ammettere cedimenti, mentre il partito al potere a Skopje
lega le proprie fortune elettorali alla contrapposizione con la Grecia. A
ottobre 2012 però la Commissione europea decide di procedere coi negoziati per
l’ingresso della Macedonia nell’Unione Europea anche senza che si sia risolta
la disputa sul nome, cosa che fino a qualche tempo fa era la soluzione proposta
dalla Macedonia. (Viviana Premazzi)

(1) Per approfondire: www.balcanicaucaso.org

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Viviana Premazzi




Piccole schiave (tra le mura domestiche) La lotta di una piemontese contro il lavoro minorile

Possono avere anche soltanto 5 anni.
Preparano il cibo, fanno le pulizie, le compere, l’assistenza. Lavorano per
15-18 ore al giorno, senza alcuna paga, alle dipendenze di «padroni» senza
cuore e senza scrupoli. Come se ciò non bastasse, subiscono anche le attenzioni
particolari dei maschi di casa. Le chiamano «lavoratrici domestiche», ma in
realtà sono «piccole schiave». In Perù pare siano un esercito di 120-150 mila
persone. Da oltre 30 anni, una piemontese lotta al fianco di queste
bambine-donne, vittime della società e degli adulti. Siamo andati a trovare
Vittoria Savio a Cusco, nella casa dove lei le accoglie. Ecco cosa ci ha
raccontato.

Cusco. Una grande
zucca tagliata a metà sta in mezzo al tavolo, pronta per essere pulita e
sminuzzata. A Cusco, città andina a 3.400 metri d’altezza1, le minestre sono un piatto sempre ben accetto.
Vittoria, la padrona di casa, ha fisico asciutto e folti capelli bianchi. Il
suo volto, segnato da rughe profonde, è come un’opera d’arte che cresce di
valore con il passare del tempo. Parla con voce rauca, probabilmente segnata
dalle sigarette che fuma una appresso all’altra. Un vizio personale che lei
difende senza indugio.

PRIGIONIERE (E LA NASCITA DEL CAITH) 

Nata in Piemonte nel 1934, insegnante di matematica al
Liceo classico di Carmagnola, nel 1979 Vittoria Savio decide di lasciare tutto
e partire. «Sarei voluta andare in Nicaragua ad aiutare la rivoluzione
sandinista. Invece mi ritrovai in Perú con il Mlal, un’organizzazione di
volontariato allora molto attiva».

Trascorre i primi anni a Puno. Poi, a causa della
presenza di Sendero luminoso, il Mlal è costretto a chiudere i progetti.
Mentre quasi tutti i suoi colleghi rientrano in Italia, Vittoria decide di fermarsi
a Lima. Qui conosce il fenomeno delle ragazze che, lasciati i villaggi di
campagna e le poverissime famiglie, si trasferiscono in città per lavorare come
domestiche nelle case dei più benestanti. Rimane così colpita dal dramma umano
che sta dietro questo tipo di lavoro domestico, che decide di andare in
provincia per capire e soprattutto per tentare di fare qualcosa. Dato che il
console italiano non le consente di andare ad Ayacucho, lei sceglie Cusco, dove
inizia a lavorare da sola. Nel 1994, con l’arrivo di Josefina e Ronald, i due
primi soci, il progetto si formalizza nella nascita del «Centro di appoggio
integrale per la lavoratrice domestica» (Centro de apoyo integral a la
trabajadora del hogar,
Caith).

Il Caith nasce come luogo di assistenza e accoglienza
temporaneo. Ma il fenomeno è più grave di quanto inizialmente pensato. «Capimmo
– racconta Vittoria – che il maggior problema era ed è quello delle bambine che
lavorano in casa. Piccole che possono avere anche soltanto 5 anni! Modificammo
quindi lo statuto dell’associazione per superare il vincolo della temporaneità
e consentirle di ospitare le bambine fino all’età di 14 anni. E successivamente
aiutarle a reinserirsi nel mondo del lavoro».

Vittoria racconta un mondo di vera e propria schiavitù. «La
bambina non può andare a scuola, non può uscire. Dipende totalmente dalla
famiglia in cui lavora. È a disposizione dei suoi membri 24 ore al giorno. Se
alle due del mattino, la signora si mette in testa di volere un tè, la bambina
si deve alzare, preparare la bevanda e portargliela».

Ricorda il caso di una bambina che bussò alla porta
all’una e trenta del mattino: « “So che qui date da dormire alle donne che
lavorano in casa…”. Faceva impressione sentire parlare di donne da lei che
era alta un metro e dieci e aveva soltanto 8 anni. Raccontò di essere stata
licenziata alle 11.30 della notte. “Ho cominciato a camminare per le strade e
poi mi è venuto in mente che c’eravate voi”».

Voi è il «Centro Yanapanakusun» che, dal 2001, ha
inglobato il Caith, svariate attività educative, un centro di produzione
agricola, e alcuni programmi di turismo responsabile.

«COME UNA FIGLIA»

In lingua quechua, Yanapanakusun significa «aiutiamoci».
Un verbo coniugato in vari modi da Vittoria e collaboratori. Ad esempio, mandando
le ospiti più piccole a scuola e le più grandi a lavorare con un contratto
stilato in base ai principi della legge peruviana sul lavoro domestico2
e sottoscritto anche da Vittoria, in qualità di direttrice del centro. Ma la
strada è lunga.

Il ministero del lavoro stima che in Perú ci siano circa
700 mila lavoratori domestici, in gran parte donne (trabajadoras del hogar).
Di queste almeno 120 mila sarebbero bambine3. A Cusco,
dove Vittoria e i suoi collaboratori lavorano, si parla di 5.000 piccole schiave.

Il modo in cui una bambina diventa una lavoratrice
domestica è una storia che nasce dalla povertà e dallo sfruttamento.

«La persona, di solito una donna, va nei villaggi più
poveri a cercare le bambine – racconta Vittoria -. Quando ne trova qualcuna, promette
a lei e alla famiglia che la manderà a scuola e che la tratterà come una figlia».
La bambina arriva in città, dove – non conoscendo nessuno – rimane subito
isolata dal mondo. Quello nuovo, ma anche quello vecchio.

«A volte i genitori vanno a trovarle, ma i padroni hanno
svariati metodi per fare sì che essi desistano velocemente. Ad esempio, la
prima volta dicono loro: “Tua figlia non è in casa”. La seconda: “Tua figlia si
vergogna di te”. Il padre – che già ha complessi d’inferiorità (perché parla quechua,
perché è povero, perché viene dalla campagna) – se ne va, convinto che la
figlia lo rifiuti. A quel punto la signora dice alla bambina: “Guarda i tuoi
genitori che razza di persone sono: sei qui da mesi, ma non sono mai venuti a
trovarti». Dunque, la violenza è doppia: le bambine sono sfruttate dalla
famiglia in cui vivono e allontanate dalla famiglia d’origine. Non ci si deve
stupire se in molte subentra un sentimento di rabbia su cui Vittoria e
collaboratori cercano di lavorare.

«Quando arrivano qui, per prima cosa noi cerchiamo di
ricostruire un concetto di famiglia, dicendo: “Guarda che i tuoi genitori ti
hanno mandata a lavorare perché speravano o si illudevano che saresti stata
meglio”. Ricordiamoci che le famiglie mandano le figlie nella convinzione che –
perlomeno – esse avranno un’esistenza migliore della loro».

Perché la vita in molti villaggi rurali di questo Perú
profondo, lontano dalle rotte turistiche, è di una durezza estrema. A tal punto
che, la maggioranza delle bambine, pur confessando di aver sofferto molto, dice
che non ritoerebbe nei campi. «Occorre riconoscere – avverte Vittoria – che
non c’è soltanto il fenomeno del reclutamento, ma può esserci anche un
allontanamento volontario per scappare alla povertà e alla violenza familiare».

Al Centro, le bambine possono arrivare in tre modi: o
perché mandate dal tribunale, o perché si presentano spontaneamente dopo essere
scappate dalla loro prigione, o perché portate da altre bambine.

Dal 1994 al 2012, al Caith sono passate circa 1.500 lavoratrici
domestiche all’anno. Attualmente vi risiedono 27 minori e alcune maggiorenni.
Ma una parte consistente del lavoro del Centro si svolge in periferia. «Noi
lavoriamo in 30 comunità con 14 promotori sociali ed educatori. Qui cerchiamo
di fare un’opera di sensibilizzazione con i genitori delle bambine, ma anche
con insegnanti e alunni».

Sensibilizzare sulla problematica del lavoro domestico
infantile è un obiettivo fondamentale. «Le famiglie che reclutano bambine –
spiega Vittoria – non sono necessariamente ricche. La signora individua una
piccola di una famiglia povera o almeno più povera della sua. Sa che quella è
manodopera non qualificata ma che non costa nulla. Tante volte mi sono chiesta:
“È meglio essere disprezzati da chi ha una faccia diversa dalla tua o da chi ha
la stessa faccia di tua madre?”. Purtroppo, capita spesso – lo vedo ad esempio
al mercato – che ci siano ex lavoratrici domestiche che si vendicano su altre
bambine di quanto esse stesse hanno sofferto da piccole. Ho chiesto una volta a
una di loro perché non mandasse la bambina a scuola. Lei mi ha risposto: “Perché
dovrei? Io non ci sono mica andata”. Non è raro che l’oppresso, appena si
presenti l’occasione, diventi oppressore».

IL GARZONE E IL LATTAIO

Vittoria e collaboratori lavorano soltanto con donne e
bambine, ma esiste anche un problema declinato al maschile.

«I maschietti che lavorano in casa sono ancora più
vilipesi perché fanno un lavoro considerato da femmina e di conseguenza – in un
paese machista come il Perú – senza valore. Per questo, quando riusciamo
ad incontrarli, si vergognano a parlarne. Ci sono poi i ragazzini che lavorano
la notte. Per esempio, i garzoni dei foai. C’era una bambino di nemmeno nove
anni che portava qui la gerla del pane alle tre e mezza del mattino».

Eppure, anche nell’ambito del lavoro minorile, c’è chi
sta peggio: sono i minori che non hanno neppure una famiglia. «Dormono per
strada o nei dormitori. Se non lavorano (o non sono capaci di rubare), loro non
mangiano. In questo, i bambini lavoratori che vivono in famiglia risultano meno
sfortunati: sono costretti a lavorare però, per quanto male possa andare,
almeno hanno un tetto e qualcosa da mangiare».

Per tutto questo, Vittoria e collaboratori hanno aperto
la loro scuola, inizialmente pensata per le sole lavoratrici domestiche, anche
ai ragazzi lavoratori.

«Il giovane che ci porta il latte, oggi avrà 17 anni, è
totalmente analfabeta. Quando ci porta il conto, dice a me di leggerlo».

L’INGIUSTIZIA  (TRA PENA E RABBIA)

Il Centro Yanapanakusun è oggi composto da
vari edifici, abitativi e di servizio. Su un muro esterno della struttura
centrale c’è una grande riproduzione del Quarto Stato, il celebre quadro
di Giuseppe Pellizza da Volpedo4. Per
Vittoria non è soltanto un omaggio all’arte e alla storia italiana tra le Ande
peruviane. «È la speranza. Guardate la donna che apre la fila: è una donna che
non copia l’uomo. Ha la gonna, ha un bambino in braccio e cammina con gli
uomini. Il messaggio è: una donna può essere utile alla società anche senza imitare
i maschi. Secondo me, questo quadro è più femminista che
proletario. Fossero stati rappresentati soltanto i proletari maschi, forse non
mi sarebbe interessato».

Il QuartoStato sintetizza la scelta di vita di Vittoria
Savio: lottare a fianco dei più deboli e in particolare delle donne, fino alle
bambine rese schiave tra mura domestiche.

«Mi arrabbio quando la gente ha pena dei
poveri. Le vittime dell’ingiustizia non debbono far pena, ma suscitare rabbia.
La pena è sterile. O serve soltanto a qualcuno per sentirsi più buono.
L’ingiustizia dovrebbe far scatenare la rabbia dentro le persone. Attraverso di
essa si potrebbe cambiare il mondo».

Paolo Moiola
 

Conoscenza e turismo responsabile


OLTRE MACHU PICCHU

Soltanto attraverso un’opera di sensibilizzazione sulle
situazioni e sulle problematiche è possibile far crescere un turismo diverso, «responsabile».
Per ora esso interessa percentuali esigue del movimento turistico globale.

Cusco. Per anni ha insegnato matematica in un liceo
piemontese. Se Vittoria Savio dovesse tornare davanti a una classe di studenti
come presenterebbe il Perú, suo paese d’adozione? «Agli studenti direi che il
Perú è una realtà interessantissima. Anche
perché fa riflettere su noi stessi». Il mondo attuale è un mondo in cui convive
una pluralità di canali e di strumenti informativi, ma la qualità
dell’informazione e della conoscenza lascia spesso a desiderare. Cosa
aggiungerebbe di politicamente scorretto la professoressa Vittoria? «Guardate,
direi agli studenti, che la difficile situazione in Perú e in generale nei
paesi del Sud del mondo è colpa vostra. Non soltanto vostra, ma di certo anche
vostra. Porterei l’esempio del voto. Quando gli italiani vanno a votare, essi
scelgono i candidati in base alle loro posizioni rispetto alle tasse, alla
casa, ai servizi pubblici. Quante persone votano valutando anche le idee di
politica estera dei candidati in lizza?».

Una conoscenza completa e corretta è fondamentale per fare
scelte responsabili. Anche nel campo dei viaggi e del turismo.

Il Centro Yanapanakusun si autofinanzia anche con programmi
di turismo responsabile. «La gente che viene da noi – spiega Vittoria – arriva
con delle domande in testa. Sono persone che, oltre a parlare di siti
archeologici, si interessano anche dell’umanità che vive qui. È vero che questo
turismo ci serve come strumento di autofinanziamento, ma è anche vero che è
parte della nostra filosofia mostrare un Perú diverso e altro, un Perú di gente
che soffre, che lotta quotidianamente per sopravvivere. Noi offriamo alle
persone visioni alternative, anche nelle comunità campesine. Ma – questo deve
essere chiaro – non per portare caramelle o altre cose materiali come fosse la
visita a uno zoo».

Pur in costante crescita, questo tipo di turismo rappresenta
ancora un’esigua percentuale rispetto al movimento turistico complessivo. «Sì, è
vero – conferma Vittoria -. Ma questi turisti responsabili (o
responsabilizzati) possono avere un’influenza importante. Ad esempio, io sono
convinta che un viaggio in Perú raccontato da queste persone ha un impatto
diverso rispetto a coloro che parlano soltanto di Machu Picchu».(Paolo Moiola)

 
PER SAPERNE DI PIÙ
Libri:
• Gisella Evangelisti, Perú.
Luna grande dietro le montagne
, Edizioni del Noce, 1999.
• Maite Rofes Chávez, “Estás
bien?”: Caith, la cultura del afecto con trabajadoras del hogar
, Lima 2002.
 
Documentari:
• Stefano Cavallotto, Yanapanakusun,
continuiamo a crescere insieme
, Settembre Film (Alba), 2009.
 
Siti internet:
• www.yanapanakusun.org
• www.caith.org
 
 

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Paolo Moiola




Disarmare il Dolore col Sorriso Un incontro speciale: il Mago Sales

È stato in decine di paesi in tutto il
mondo, incontra migliaia di bambini ogni anno: «Vado da loro per regalare un
sorriso e fare una promessa». E per il 2013 ha in programma progetti anche in
favore dei missionari della Consolata. Incontrare il sacerdote salesiano mago
Sales è un’esperienza ricca, perché ricca è la sua condivisione che non perde
di vista la sofferenza, la vera gioia e la ricerca della verità. Grazie alla
medicina dell’allegria.

Lo incontriamo per interesse missionario: il mago Sales
porta da due decenni la sua allegria (e i suoi aiuti) in alcune decine di paesi
in tutto il mondo; e per curiosità: un prete salesiano dedito ai giochi di
prestigio, a vederlo in alcuni video su youtube una macchietta con la
croce al collo. Dopo l’intervista abbiamo avuto la piacevole sensazione di aver
incontrato non un ruolo (sacerdote) o un mestiere (mago), scatole che possono
rimanere vuote, pur tra l’ammirazione generale; neppure l’«impegno per i poveri»,
idea che a volte impoverisce di umanità chi la persegue; ma una persona. La sua
vita, allegra e dolente allo stesso tempo, e quindi la sua grande ricchezza.

Don Silvio Mantelli (questo il suo nome) ci
colpisce per la schiettezza – riguardo ai contrasti con alcuni confratelli
causati dal suo «mestiere», o a esperienze di sofferenza provocate in parte da
lui stesso -, e per la vulnerabilità che lascia trasparire dal suo volto. Forse
la sua franchezza priva di acredine viene proprio da quella vulnerabilità
accettata e testimoniata. Si potrebbe chiamarla anche trasparenza, o
addirittura misericordia. «I bambini in genere sono i critici più spassionati:
se hanno qualcosa da dirti te lo dicono senza problemi. Io mi sono accorto di
essere dalla loro parte, di essere un po’ un bambino» ci dice. E noi crediamo
che sia vero.

UN
MISSIONARIO DELLA CONSOLATA… MANCATO

Capelli bianchi, grandi occhiali posati su un
grande naso, sopracciglia foltissime. Sul petto una croce keniota, segno dei
progetti cui contribuirà nel 2013 per portare acqua alle popolazioni di quel
paese africano. Ci attendevamo di trovarlo con una bacchetta magica, un
copricapo colorato e vesti catarifrangenti. Ci accontentiamo della serie
concentrica di rombi che disegnano in modo ipnotico la trama del suo maglione. «Mi
definisco un prete che fa il mago: ho scelto di fare il mago, ma non di essere
prete. La vocazione è come la vita: nessuno chiede di venire al mondo. La vita è
un dono. La vocazione, cristiana e sacerdotale, pure».

Il mago Sales faceva le magie già prima della
vocazione, «quindi ho semplicemente continuato. Le faccio anche per
riconoscenza: credo di aver ricevuto molto dalla vita, allora restituisco il
debito e regalo dei sorrisi. Mi piace molto farlo!». Piemontese, nato nelle
langhe, a Novello, nel ‘44, Silvio arriva piccolissimo a Torino col papà
impiegato di banca, e la mamma commercialista. I genitori non lo possono
seguire «allora sono stato bocciato in prima media. Andavo bene solo in
educazione fisica. Poi i miei mi hanno mandato dai salesiani coi quali ho fatto
le medie e il classico faticando molto. A 19 anni un sacerdote straordinario
con la sua testimonianza di vita mi ha dato l’input: volevo diventare
missionario della Consolata! Ma i miei non erano d’accordo sulle missioni, e un
giorno ho trovato a casa un salesiano che mi ha portato nella sua
congregazione. Io volevo entrare nella Consolata perché a Novello conoscevo un
medico condotto, il dottor Dagnino, che quando era rimasto vedovo era diventato
missionario della Consolata, ed era andato in Kenya a testimoniare il Vangelo
come prete facendo il medico».

LA
TIMIDEZZA, LA MAGIA E GESÙ CRISTO

Sul viso e nella voce un sorriso affabile.
Inaspettatamente il mago Sales appare timido, perfino impacciato. Già dal primo
sguardo su di lui dobbiamo fare i conti coi nostri schemi e pregiudizi. Per
fortuna ci eravamo preparati a incontrarlo leggendo la sua gustosa e poetica
autobiografia sul sito magosales.com.

«Io sono molto timido. La timidezza non la
vinci mai completamente. Fare spettacoli mi ha aiutato». Don Silvio dice di non
essere un’eccezione: «Molti personaggi dello spettacolo sono timidi. Io ho
insegnato ad Arturo Brachetti, star a livello mondiale. Quando l’ho
incontrato era un ragazzino timido. Lo spettacolo l’ha aiutato a venire fuori.
Vasco Rossi, ad esempio, è timidissimo. Io l’ho conosciuto. I timidi hanno una
potenza in più perché, non esprimendosi nel sociale, interiorizzano, e la loro
fantasia diventa molto creativa».

La timidezza e la creatività, lo spettacolo
che fa esprimere l’interiorità. Tutto ciò ci fa intuire che la magia per don
Silvio non è uno strumento posticcio, un’espediente per attirare l’attenzione e
catechizzare il suo pubblico, ma un modo di essere, di esprimersi. Forse
allora, al contrario di quanto lui stesso ci ha detto, la magia per la sua vita
è più simile a una vocazione che a una scelta.

«Ogni tanto ricevo delle mail di gente
che mi chiede se non mi vergogno a fare il mago, io che sono prete. La magia è
parte di me. In fin dei conti se la religione è soprannaturale, la magia è
soprannaturale in finzione. Magia e religione non sono da equiparare, ma in
qualche modo tra loro c’è un legame. Gesù faceva miracoli. La magia, come il
miracolo, non è il fine, ma un mezzo per far capire realtà che altrimenti
sarebbero difficili da spiegare. Poi per me la magia è il modo in cui mi
avvicino alla gente. In tanti territori sono entrato non come prete ma come
animatore per bambini. In Vietnam c’è una legge che impedisce riunioni di più
di dieci persone. Io ne avevo di fronte più di mille e mi lasciavano fare. Lo
stesso a Cuba, in Somalia, in Palestina. Vado a regalare un sorriso, non a fare
politica o conversioni».

FAR
GUARIRE ATTRAVERSO IL SORRISO

Con una leggera inflessione dolente nella
voce il mago Sales d’improvviso parla del male del mondo: la magia e Gesù sono
legati tra loro dalla passione per l’umanità, in particolare quella sofferente.
«Il male del mondo non può lasciare indifferenti, soprattutto se colpisce un
bambino. Uno dovrebbe usare ogni mezzo per lenirlo. Il gioco è un valore
fondamentale. Molte volte in giro per il mondo i bambini mi hanno detto: “Grazie
perché mi hai regalato un sorriso”. Una volta in Somalia, alla fine di uno
spettacolo in un orfanotrofio dove, tra l’altro, c’erano tre suore della
Consolata, l’unica presenza cristiana in quel momento nel paese, un medico è
venuto da me e mi ha detto che quell’ora di spettacolo aveva annullato la
sofferenza di venti anni di guerra, era stata la prima volta che aveva riso e
si era divertito. Un’altra volta Dominique La Pierre mi ha detto: “Far
sorridere in situazioni di povertà e sofferenza significa in un certo senso già
guarirla”. Era il mio sogno: diventare come il dottor Dagnino, medico e prete,
far guarire col buon umore e il sorriso».

Il mago Sales porta ai bambini un aiuto
duplice: da un lato il divertimento, dall’altro i fondi raccolti in Europa. «Vado
da loro per regalare un sorriso e fare una promessa. Non puoi andare da un
bimbo, farlo divertire, scattare due foto e chiudere tutto lì!».

ESSERE
INCOMPRESO…

Immaginiamo che per i confratelli di don Silvio,
e non solo per loro, deve essere difficile accettare una modalità così
eccentrica di essere sacerdote. «Come capita a tutti, ho incontrato persone che
mi hanno capito e voluto bene, e altre che… non è che non mi abbiano voluto
bene, però…».

Il mago Sales parla con molta onestà dei suoi
contrasti coi confratelli. Ci fa capire che in alcuni ambienti si preferisce
non dire nulla, o al massimo alludere. Lui invece sembra non farsi remore. E la
sua semplicità, l’assenza di rancore e di quella superbia di chi crede di
essere nel giusto e vuole dimostrare gli errori degli altri, c’incantano.

«Le difficoltà servono a stimolare la
ricerca. Di solito il fatto che io faccia il mago non piace. Pensano: “Ma
questo deve fare il prete!”. I confratelli non te lo dicono. Poi te lo fanno
sapere per vie traverse. Anche don Bosco una volta fu portato in manicomio dai
suoi preti perché lo prendevano per matto. Si trovano sempre persone così».

UNA
STORIA DOLOROSA

Nella sua autobiografia il mago Sales, tra le
altre cose, narra anche di una storia d’amore che tre decenni fa l’aveva
portato fuori dalla congregazione, in cui è poi rientrato dopo alcuni anni.
Leggerla ci ha stupito, non tanto per la vicenda in sé, quanto per il fatto di
trovarla scritta di suo pugno nel suo sito web. Evidentemente per lui
essere testimoni dell’amore di Dio non significa mostrare solo quelle parti di
sé che corrispondono alle aspettative della gente ma – come dice lui – «vivere
integralmente la tua vita» con il male e il bene che in essa inevitabilmente si
intrecciano.

«È una cosa risaputa. Non l’ho mai nascosta.
Il sentimento e la sessualità non si possono annullare. Io non ho ricevuto
un’educazione in questo campo. I miei non ne parlavano. Mi dicevano che ero
nato sotto un cavolo. Non ho avuto mai smentite, né aggioamenti. Poi a scuola
il problema del sesso, della masturbazione, era una cosa da combattere a tutti
i costi. E forse questo mi ha influenzato. Forse pensavo che entrare nella
religione come prete avrebbe annullato la tentazione. “Sei più vicino a Dio”,
pensavo…

Ho incontrato una donna, sposata, con un
figlio. È nato un sentimento. Abbiamo anche pensato di andare a vivere insieme.
Dopo è valsa la ragione. Abbiamo fatto delle scelte. Lei dalla sua, io dalla
mia. La più sfortunata è stata lei: un giorno ho saputo che era in ospedale. Si
era presa un cane, come fanno tante persone che si sentono sole. Era su una
panchina e le è venuto un aneurisma. Non ha più ripreso conoscenza. Io sono
andato in ospedale a trovarla. Mi ha fatto impressione perché era senza
capelli, immobile. Io l’ho chiamata con il termine con cui ci chiamavamo, e dai
suoi occhi sono venute fuori delle lacrime. Alla fine le ho dato una
benedizione».

GIRARE IL
MONDO DAI 49 IN POI

Ci verrebbe da chiudere l’intervista qui,
sulle parole commosse di quest’uomo che ci mostra com’è fragile, imprevedibile,
sconcertante, e allo stesso tempo intensamente bella la vita. Ma sul mago Sales
ci sono molte cose da dire ancora. E allora proseguiamo. Don Silvio oggi
impiega gran parte della sua attività per i poveri del mondo. La cosa curiosa è
che questa mondialità, presente nella sua vita da sempre, è rimasta inespressa
fino ai suoi 49 anni: «Ho sempre fatto le cose in ritardo. Sono pigro oltre che
timido. Nel 1993 sono andato in Brasile, in un lebbrosario. Lì c’era Paolino di
otto anni che mi ha chiesto di fare una magia per lui: non la guarigione, ma di
farlo tornare da papà e mamma. Ci sono sofferenze che vanno al di là del male
fisico. Allora ho pensato: “Se guarisce, magari i genitori lo riprendono con
loro”. È nata così l’idea di aiutare i bambini del mondo attraverso gli
spettacoli. I soldi si sono trovati: Paolino è guarito. Però non è stato
accettato dai genitori. Ora è sposato, ha dei figli, ha la sua famiglia».

Da quell’anno il mago Sales ha visitato
almeno venticinque paesi: «In ognuno compro una stola. A Cherasco ho fatto una
cappellina in cui le ho appese tutte. Ce ne sono certamente più di venticinque!
Dovrei contarle.

Il paese che mi ha colpito di più è il Madagascar.
È stato il secondo viaggio che ho fatto. Poi ci sono tornato molte volte. Lì ho
avuto degli incontri importanti. Ma ogni paese ha le sue ricchezze. Haiti ad
esempio. Mi ricordo che un tempo portavo i quotidiani ai missionari. Erano così
felici che passavano la notte a leggere. E poi la sera raccontavano le storie.
Tant’è che ho iniziato a scrivere un libro sulle vite di alcuni bimbi. Sono
stato in Myanmar e mi sono fatto raccontare la vita di un bimbo monaco… poi
scriverò la vita di un bambino soldato, di un altro che lavora al mercato…».

Nel 2012 don Silvio è stato in Messico dove
sta finanziando un progetto per la formazione di giovani con 20mila euro
raccolti dal cinque per mille, poi è stato ad Haiti per visitare una scuola
costruita con 120mila euro dati da una fondazione bancaria. «Sono andato con
una persona di Cuneo che due anni fa ha perso la sua unica figlia in un
incidente stradale, e ora è un socio della fondazione mago Sales. Lui viene con
me e mi ringrazia perché vede cosa accade nel mondo. Non che così annulli la
sofferenza, perché certi dolori non li puoi mai vincere, però…».

Dopo Haiti è stato in India e Myanmar, e
infine in Palestina.

«L’ACQUA…
UN BENE PREZIOSO»

Per il 2013 la fondazione mago Sales ha
assunto due progetti dei missionari della Consolata in Kenya, entrambi relativi
all’acqua. Il primo riguarda la costruzione di vasche di raccolta di acqua
piovana a Karare, Marsabit, nel Nord, zona desertica in cui lavora suor
Serafina: già finanziato nel 2012, il progetto è solo all’inizio. Il secondo,
noto ai nostri lettori (si veda MC gen.-feb. 2013, p. 29) e agli
estimatori di fratel Argese, riguarda la costruzione di una diga per
raccogliere acqua utile in caso di siccità nell’area di Mukululu, nel Nyambene,
Meru.

«Nel mondo ogni sei secondi muore un bambino
di fame o di sete. Seicento bimbi ogni dieci minuti: un aereo che cade al
suolo. È una cosa che dipende da noi: una distribuzione più giusta delle
risorse.

Poi l’acqua è legata a Gesù: quando dice “avevo
sete”, si riferisce a questo».


UN PO’
COME LA MALARIA

Concludiamo l’intervista chiedendo a don
Mantelli chi glielo fa fare di lavorare con tanta intensità a 68 anni. Lui ride
soione. Negli occhi si accende un guizzo di ironia: «Forse è una malattia, un
po’ come la malaria, che quando ti entra rimane latente… La pensione è come
l’anticamera del Paradiso. “Finalmente, dopo aver lavorato e faticato, sei in
pensione, ti puoi riposare!”, assomiglia a preghiere come: “L’eterno riposo…”.
Che monotonia! Io mi auguro che il Paradiso non sia così. Sarebbe una rottura».
Poi ritornando un po’ più serio, aggiunge: «Quando smetterò di fare spettacoli
mi metterò a scrivere e a leggere… e a pregare. Ho un compagno che si chiama
don Lajolo, anche lui vive come me fuori comunità. Ha messo su tre case per i
tossicodipendenti. Da un anno ha mollato tutto per vivere ad Assisi come un
eremita: la preghiera è la sua vita. Ho pensato che ha fatto bene. Non so, sarà
una mia tentazione…». Il mago Sales nel corso del nostro incontro ha già parlato
della preghiera: «È un punto su cui sto facendo un esame di coscienza» ci ha
detto. «A un certo punto, quando sei sempre in mezzo alla gente, vorresti
chiudere un po’ il sipario». Forse per lui andare in «pensione» sarebbe come
chiudere un’ultima volta il sipario e rimanervi dietro definitivamente. Una
condizione ambivalente: da un lato desiderata, dall’altro temuta, come quando
si cerca la verità su se stessi. «Il backstage è il momento in cui
rifletti! La crisi di molti che fanno rappresentazioni è questa: chiudi il
sipario, e nel backstage cos’hai? Se non si ha qualcosa dentro, come la
preghiera… c’è chi si butta nella droga, nell’alcornol. Dopo gli applausi, arriva
il momento in cui devi fare i conti non con quello che presenti, ma con quello
che sei».

Luca Lorusso

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Luca Lorusso




Oltre le sbarre Don Pierluigi Murgioni: testimone e martire

Da 20 anni, il 24 marzo, anniversario dell’assassinio di Oscar
Romero (1980), arcivescovo di El Salvador, si celebra la «Giornata di preghiera
e di digiuno in memoria dei missionari martiri». Per tale giornata, presentiamo
la figura di Pierluigi Murgioni, missionario fidei donum in Uruguay dal 1968 al
1977, durante la dittatura militare, quando predicare il Vangelo e parlare di
giustizia significava essere un pericoloso avversario del potere e si rischiava
di essere messi a tacere. Don Pierluigi, infatti, fu imprigionato e torturato
per cinque anni e poi espulso dal paese. È morto a soli cinquantun anni,
lasciandoci come ultimo regalo la traduzione in italiano del Diario di Oscar
Romero.

«Dalla mia cella posso vedere il
mare; stasera c’è una luna piena stupenda, bassa sul mare, rossa, con i fiocchi
di nuvole davanti: tutto uno spettacolo. Sono piccole cose che ti aiutano a “essere
fuori”. Bisogna saper accettare tutto con semplicità come è nella dolce e
terribile logica del Vangelo. Dio è amore, morto e risuscitato e perciò:
benedetti i puri di cuore, benedetti i poveri, benedetti voi che piangete,
benedetti i perseguitati, benedetti i costruttori di pace». Così scrisse in una
lettera dal carcere don Pierluigi Murgioni (1942-1993), sacerdote bresciano,
missionario fidei donum in Uruguay.

La
sua drammatica ma nel contempo straordinaria vicenda umana è descritta nel
libro pubblicato dall’Editrice Ave dal titolo: «Pierluigi Murgioni. Dalla
mia cella posso vedere il mare
». Ne è autore il professore Anselmo Palini,
docente di materie letterarie nella scuola superiore, che ha al suo attivo
diverse pubblicazioni sui temi della pace, dell’obiezione di coscienza, dei
diritti umani e della nonviolenza. In questo libro egli approfondisce la storia
umana e spirituale del prete bresciano, ingiustamente incarcerato e torturato
durante gli anni bui della dittatura militare in Uruguay, dove si trovava come fidei
donum
in servizio pastorale nella diocesi di Melo, all’interno del piccolo
paese sudamericano.

La sua vicenda ricalca quella di
tanti testimoni che incarnando lo spirito del Concilio Vaticano II e della
Conferenza di Medellin, fecero la scelta dei poveri e di conseguenza
denunciarono le ingiustizie strutturali che in maniera pervasiva stravolgevano
la realtà sociale e civile di tutta l’America Latina. La teologia della
liberazione diede a queste persone i criteri evangelici per una corretta
analisi della situazione e le Comunità di Base – autentica linfa vitale del
cattolicesimo latinoamericano – diedero spessore ecclesiale alle scelte di
posizione che questi profeti del secolo ventesimo facevano nella realtà in cui
erano inseriti.

Don Pierluigi era arrivato in
Uruguay nel 1968 nel contesto della cooperazione e comunione tra le chiese che,
sotto il poderoso impulso dell’enciclica Fidei Donum di Pio XII, aveva
incrementato notevolmente il numero dei sacerdoti diocesani italiani impegnati
nei vari paesi così detti di missione.

In Uruguay, in particolare,
approdarono sacerdoti delle diocesi di Novara, Bergamo, Brescia e Verona. Una
perfetta miscela piemontese-lombardo-veneta che, se pur dispersa negli angoli
più reconditi dell’Uruguay, si ricompattava periodicamente attraverso degli
incontri memorabili, capaci di risollevare lo spirito e il morale ai missionari
italiani, anche nei momenti più duri, tale era l’amicizia, l’affetto e l’unione
reciproca che stava alla base di questo legame. Di questi incontri, don
Pierluigi era un po’ l’anima; purtroppo un amaro destino aveva riservato per
lui un’esperienza missionaria del tutto particolare.

Durante un’incursione nottua
compiuta dai militari che avevano preso il potere tramite un golpe in
cui avevano sospeso ogni garanzia costituzionale, venne arrestato nel maggio
del 1972, con l’accusa di appartenere al Movimento di liberazione nazionale Tupamaros
e senza nessuna spiegazione, portato e incarcerato in un luogo sconosciuto. A
suo carico non fu mai esibito lo straccio di una prova che avesse infranto la
legge uruguayana; però era tale l’astio dei golpisti nei confronti della Chiesa
schierata apertamente e decisamente dalla parte degli oppressi, che essi
vollero, attraverso lui, dare un esempio a tutti gli altri sacerdoti, al fine
di raffreddae lo slancio evangelico e solidaristico con chi era coinvolto nei
cammini di liberazione sociali, civili e politici.

Fu torturato sistematicamente,
per il solo piacere sadico di infierire su un ministro del culto cattolico, che
aveva manifestato solamente carità e solidarietà cristiana nei confronti degli
appartenenti ai Tupamaros (cosa ben diversa dal condividere ideali e
strategie di lotta). Fu privato della possibilità di celebrare l’eucarestia in
carcere e gli vennero tolti sia la Bibbia che il Breviario.

Rapato a zero, con la casacca
color kaki di tela grezza, sulla quale era cucito il numero 756, che era
diventato per imposizione dei suoi carcerieri un suo secondo nome, venne fatto
scendere nel calabozo (prigione sotterranea) dove, insieme ad altri
ragazzi appartenenti alla miglior gioventù uruguayana, passò cinque lunghissimi
anni della sua vita. Gli cambiarono cella e compagni diverse volte.
Sistematicamente, ogni due-tre mesi, veniva fatto vestire con abiti civili, per
fargli balenare la possibilità che «di lì a poco sarebbe stato rimandato in
Italia»; ma era una tragica farsa, studiata dagli specialisti della Cia che
stavano dietro le quinte dei golpisti uruguayani, per fiaccarne l’animo e lo
spirito.

Ma don Pierluigi fu forte,
resistette a ogni tortura e condizionamento; i suoi compagni di sventura lo
ricordano come colui che sosteneva la speranza di tutti, era un riferimento
preciso nella disgrazia collettiva del carcere.

Quando fu rilasciato, il 12
ottobre 1978, all’aeroporto di Montevideo, diversi furono i missionari italiani
venuti a salutarlo e a ringraziarlo per la sua incrollabile testimonianza di
fede offerta nei lunghi anni di detenzione. Il lungo abbraccio che ci
scambiammo prima che lui salisse sull’aereo resta uno dei ricordi più belli e
indelebili che tutt’ora mi porto nel cuore.

Rientrato nella sua Brescia, don
Pierluigi riprenderà il suo servizio sacerdotale come parroco in una suggestiva
località sul lago di Garda, dove tra le altre cose porterà a termine la
traduzione del Diario di mons. Oscar Romero.

Anselmo Palini con questa sua
fatica ha voluto raccogliere lettere e testimonianze di persone che hanno
condiviso la vicenda umana e spirituale di don Pierluigi. Ne è uscito un libro
ricco di pagine toccanti che aiutano a scoprire i veri testimoni del Vangelo
nei tempi in cui viviamo.

Mons. Domenico Sigalini, vescovo
di Palestrina, bresciano come don Pierluigi, compagno di studi e di ordinazione
sacerdotale, durante la presentazione del libro, avvenuta nell’Aula Magna
dell’Istituto dei padri Comboniani di Brescia, il 24 ottobre 2012, ha detto che
questi testimoni vanno tolti dalla cerchia degli affetti familiari e territoriali
e fatti conoscere a un più vasto pubblico, specialmente giovanile, per mostrare
la loro fede cristallina e la loro coerenza evangelica di vita, della quale
sono portatori nel contesto storico ed ecclesiale dei nostri giorni.

Sicuramente la lettura di questo
libro aiuterà molti a ritrovare il gusto dell’appartenenza alla Chiesa, proprio
perché si scopriranno compagni di viaggio di testimoni che hanno saputo offrire
la loro vita nell’annuncio del Vangelo e nella difesa dei diritti dell’uomo.

Don Mario Bandera
Direttore Missio – Novara

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Mario Bandera




Strage di Innocenti Violenza contro donne e minori: emergenza mondiale

Sembra impossibile, ma soprattutto
sconcerta e rincresce constatare come possa esistere tanta violenza contro le
donne in ogni parte del mondo, specialmente in Asia e in Africa. Una suora
missionaria irlandese, Maura O’Donohue, il cui lavoro di medico nel campo
dell’Hiv/Aids l’ha portata in Thailandia, Corea, Taiwan e India, è rimasta
sconvolta quando è venuta a conoscenza della giovane età di molte bambine
sfruttate sessualmente dai militari. E ancora di più quando si è resa conto del
numero di bambine e bambini costretti a entrare nel giro del commercio del
sesso per soddisfare le richieste dell’industria del turismo.

«Questa
attività criminale – ha scritto sulla rivista Concilium (3/2011, 62-63)
– è fortemente organizzata e ha la capacità di cambiare le sue strategie non
appena le strutture investigative e giudiziarie delle varie nazioni si
concentrano su di essa». Come suora missionaria e medico, che collabora con una
rete di organizzazioni impegnate nella lotta contro questo fenomeno, suor Maura
è giunta a pensare «che quella realtà rappresenti l’avanguardia della missione
della Chiesa oggi».

A cadere vittime dei trafficanti
del sesso non sono solo bambine e bambini di famiglie povere, ma anche giovani
donne provenienti da ambienti sociali, culturali e religiosi diversi, come
Iris, una studentessa universitaria poco più che ventenne. Quando fu rapita,
venne subito drogata per costringerla a sottomettersi; fu poi segregata in case
di appuntamento e, per sopportare la routine quotidiana di rapporti
sessuali con uomini di ogni ceto sociale, giunse al punto di aver continuamente
bisogno di eroina per rimanere intontita.

Suor Maura racconta altre storie
di donne e ragazze vittime di trafficanti, come quella di Amina, rapita dal
collegio a 14 anni insieme a un gruppo di compagne. Amina venne usata come
scudo umano nella lunga marcia verso il fronte di guerra. Sospettata di aver
tentato la fuga, fu condannata a duecento frustate. Nel frattempo aveva avuto
due figli, frutto della violenza cui l’aveva sottoposta l’ufficiale militare,
che aveva altre venti ragazze a sua disposizione.

A queste storie se ne aggiungono
altre, a cui noi non prestiamo attenzione, anche se giornali e televisione ne
parlano con regolarità. Sono le storie di donne portate via dall’Africa e
costrette ad attraversare a piedi per mesi il deserto del Sahara, subendo
continue violenze e soffrendo fame e sete. Quelle che raggiungono le sponde del
Mediterraneo devono affrontare il rischioso viaggio sulle «carrette del mare»
verso l’Europa, per poi finire con l’essere rimpatriate, dopo un periodo di
detenzione, perché prive di documenti.

La sofferenza e l’insicurezza
delle donne non finiscono qui. Quelle che sono reclutate in piena regola in
diverse parti del mondo per lavori domestici o come badanti, rischiano spesso
di essere sfruttate dagli uomini della famiglia che le ospitano. I casi di
questa forma di violenza non sono affatto pochi; una violenza subita facilmente
dalle donne per l’insicurezza e la fragilità che sperimentano, quando sono
separate dalle loro famiglie e lasciate sole, bisognose di tutto. Anche la loro
posizione giuridica, in quanto immigrate illegalmente, contribuisce ad
aggravare questo stato di cose.

Il caso forse più raccapricciante
e inumano della violenza sulle donne è quello praticato nel Congo ex Zaire
durante la guerra. Parlando a Roma nell’ottobre 2009 al Sinodo dei vescovi
africani, mons. Théophile Kaboy, vescovo coadiutore della città congolese di
Goma, ha gelato i giornalisti con i suoi racconti. «I conflitti e le guerre –
ha affermato – hanno portato, specialmente in Congo, alla vittimizzazione e
alla “cosificazione” della donna. Su migliaia di donne sono state perpetrate,
da tutti i gruppi armati, violenze sessuali di massa, come arma di guerra». I
loro figli, arruolati con la forza dai gruppi armati, sono stati costretti a
violentare le loro madri e le loro sorelle davanti allo sguardo impotente dei
padri. Tutto questo per incutere terrore nella gente, vincere la loro
resistenza, umiliare il nemico, mediante la violenza sulle donne.

Per lenire le conseguenze di
traumi tanto brutali, il vescovo di Goma ha affermato che bisognerebbe risalire
alla causa ultima, quale, per esempio, la crisi di governabilità causata da
guerre, saccheggi e sfruttamento anarchico delle risorse naturali, traffico
delle armi e assenza di un esercito statale forte e preparato.

Naturalmente, l’intervento
immediato in tali casi è la creazione di case di accoglienza per le donne
vittime di violenze, case che accompagnino il recupero dal trauma subito.
Tuttavia, ha ancora affermato il vescovo di Goma, «la risorsa principale contro
la cultura della violenza è costituita dalle donne stesse e dal riconoscimento
del loro ruolo da parte dell’intera comunità, anche di quella ecclesiale». «Noi
vescovi – ha affermato un altro presule, mons. Telesphore Gorge Mpundu,
arcivescovo di Lusaka nello Zambia – dobbiamo parlare in modo più chiaro della
dignità della donna alla luce delle Scritture e della dottrina sociale della
Chiesa».

È proprio questo il punto centrale
per arrivare a una presa di coscienza della dignità della donna, quella cioè di
lottare contro idee e tradizioni che la umiliano. Esempi di umiliazione,
dettati da tradizioni disumane, non mancano. In alcuni paesi la discriminazione
della donna non è limitata solo al mondo del lavoro, ma già prima della nascita
si individuano gli embrioni femminili per eliminarli. Tale drammatica
situazione si verifica specialmente in Cina e in India, al punto che l’attuale
livello delle nascite maschili, anziché alla media di 105 maschi per 100
femmine, si attesta rispettivamente a 121 e 112 per 100 femmine. Tale
dislivello è dettato in Cina dalla politica demografica del figlio unico, ma
sia in Cina sia in India anche dalla tradizionale preferenza culturale per i
maschi a scapito delle donne. Questa tendenza è pure presente nei paesi del
Caucaso, come Azerbaigian, Georgia e Armenia, e nei Balcani.

Ma c’è di peggio. Una notizia
riportata domenica 26 giugno 2011 dal giornale indiano Hindustan Times e
ripresa da altri quotidiani, riferisce che se prima in alcune parti dell’India
esisteva l’infanticidio o l’abbandono di bambine e poi l’aborto selettivo di
feti di sesso femminile, ora si farebbe strada l’intervento chirurgico di «genitoplastica»,
che trasformerebbe in maschietti centinaia di bambine della fascia di età
compresa da uno a cinque anni. Se la notizia fosse vera, si tratterebbe di una
scioccante tendenza senza precedenti e non soltanto di interventi di chirurgia
correttiva. Tuttavia, per fortuna, alcuni esperti di genetica ritengono
impossibile convertire chirurgicamente una bambina normale in un maschietto.

La vicenda richiama comunque
l’attenzione su un fenomeno noto in India, specialmente negli stati
settentrionali e occidentali e nella stessa capitale Nuova Delhi, ossia la tradizionale
preferenza per i maschi che provoca uno squilibrio preoccupante tra maschi e
femmine e favorisce il traffico di donne. Uomini celibi delle regioni più
ricche dell’India e della Cina «comprano» donne dalle regioni più povere,
mentre dalla Corea del Sud e da Taiwan si fa «turismo matrimoniale» in Vietnam
per prendere moglie.

In India la selezione sessuale
porta all’eliminazione di molte bambine sia nate che non nate. Si stimano 5
milioni gli aborti selettivi di bambine negli ultimi 20 anni.

La preferenza per il figlio
maschio è dovuta a fattori religiosi, sociali ed economici. In molte famiglie
di fede indù continua a essere particolarmente sentita la convinzione che per
ottenere la salvezza sia necessario un figlio maschio. Molte cose sono però
cambiate o stanno cambiando. Le bambine indiane, quando hanno l’opportunità, si
distinguono ormai in vari ambiti, soprattutto nell’istruzione, nello sport e
nelle espressioni artistiche.

L’emarginazione della donna e la
disparità tra i sessi spiegano particolari pratiche ancora in uso in India,
quali l’obbligo di sposarsi in giovanissima età, ancora bambine, con un uomo
scelto dalla propria famiglia e a volte molto anziano. Sono pratiche entrate a
far parte del pensiero comune di larghe fasce della popolazione indiana.

È necessario perciò creare una
nuova mentalità. Nel tentativo di incidere sulla promozione di questa nuova
concezione di vita, la Chiesa di Goa, nel giorno della festa della natività
della Vergine Maria (8 settembre), ha lanciato un appello inteso ad affermare
il valore di tutte le bambine sia nella famiglia sia nella società. «Ogni vita
umana è un dono prezioso di Dio e quindi fonte di dignità», ha spiegato il
segretario esecutivo della Commissione Giustizia e Pace. Ogni bambina nata o
non nata, ha aggiunto, condivide questo diritto, a cominciare dal diritto alla
vita.

Una cosa è certa: essere donna
non sembra per nulla facile in India e in Cina, ma anche in Africa e in altri
paesi del mondo. Si può forse cercare di porvi rimedio mediante la creazione di
strutture di promozione della donna, soprattutto per mezzo della formazione
culturale, dell’alfabetizzazione e della catechesi, per assicurare alla donna
una maggiore presa di coscienza della sua dignità in modo da offrirle la
possibilità di lottare contro idee e tradizioni culturali che la umiliano.

Christiane Kadjo, una cittadina
ivoriana, è per esempio stata premiata a Madrid il 27 ottobre 2011 con il
riconoscimento Harambee Spagna, dovuto al suo lavoro in Costa di Avorio,
rivolto a dare istruzione e pari opportunità alle donne. Attraverso la Ong Education
et developement
, ossia attraverso scuole e centri sociali, essa ha dato
alle giovani la possibilità di accedere a lavori retribuiti o di avviare
piccole attività. Questi centri limitano anche l’emigrazione, dal momento che
creano possibilità di sviluppo nel proprio paese. 

Purtroppo «la violenza contro le
donne continua a essere una tragica realtà», ha affermato mons. Silvano Tomasi,
osservatore della Santa Sede, alla 17a sessione del Consiglio dei diritti
umani, tenuta a Ginevra nel giugno 2011. Anche papa Benedetto XVI nel novembre
2011, durante la consegna delle credenziali al nuovo ambasciatore tedesco, ha
denunciato alcune tendenze materialistiche ed edonistiche diffuse nel mondo
occidentale, tra le quali la discriminazione della donna, e ha ammonito che una
relazione, la quale ignora come l’uomo e la donna abbiano uguale dignità,
costituisce un grave delitto contro l’umanità.

Giampietro Casiraghi

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Gianpietro Casiraghi




Europa, Libertà sotto stress

Riflessioni e fatti sulla
libertà religiosa nel mondo – 07

L’attacco dell’«Inteational
religious freedom report
2012» è chiaro: «In Europa sta aumentando la
diversità etnica, razziale e religiosa. Questi cambiamenti demografici sono
talvolta accompagnati da crescente xenofobia, anti semitismo, sentimento anti
musulmano, e intolleranza nei confronti delle persone considerate “l’altro”».

La libertà religiosa nel Vecchio Continente è sotto pressione, i
casi di Russia e Bielorussia ne sono l’emblema, anche per quanto riguarda il
fenomeno delle leggi contro blasfemia e diffamazione della religione.

L’allarme
è presente fin dal titolo: «Marea montante di restrizioni riguardanti la
religione». L’ultimo rapporto del Pew Forum sulla libertà religiosa nel
mondo, uscito nell’agosto scorso con dati risalenti al 2010 è netto nel parlare
di una situazione di preoccupante peggioramento della libertà religiosa nel
mondo intero, compresa l’Europa. Un incremento significativo nel Vecchio
Continente sia delle restrizioni governative (Gri) che dell’ostilità sociale
(Shi) si è registrato in 29 dei 45 paesi che lo compongono. Grecia, Macedonia,
Ucraina, ma anche Francia, Regno Unito, Germania.

C’è più libertà religiosa in Europa che in Asia e in Medio Oriente
(si veda MC ott. e nov. 2012), ma rispetto agli europei vivono in una
libertà di credo maggiore gli abitanti dell’Africa sub-sahariana (si veda MC
ago.-sett. 2012
) e delle Americhe.

È facile immaginare che negli ultimi due anni (2011 e 2012) di
crisi economica e sociale, non indagati dal rapporto del Pew Forum, le
condizioni della libertà di credo siano ulteriormente peggiorate. Lo confermano
studi più aggioati come il «Rapporto 2012» di Acs (Aiuto alla Chiesa che
Soffre), il già citato «Inteational religious freedom report for 2011» del
dipartimento di stato Usa, l’«Annual report 2012» dell’Uscirf (United States
Commission on Inteational Religious Freedom
), le copiose notizie di
violazioni di questo diritto fondamentale, e il numero crescente di analisi,
riflessioni, interventi di studiosi, esponenti religiosi e politici di tutto il
mondo.

RUSSIA

Se nello scenario europeo sono molti i paesi che destano
preoccupazione, ce ne sono due che spiccano in modo particolare: Russia e
Bielorussia hanno entrambe un elevatissimo livello di restrizioni governative,
mentre la Russia (secondo il Pew Forum) è uno dei sei paesi nel mondo
che fa registrare il livello più alto di entrambi gli indici (di Restrizioni
Goveative e di Ostilità Sociale), l’unico in Europa. Gli altri sono Egitto,
Indonesia, Arabia Saudita, Afghanistan e Yemen.

Secondo il rapporto annuale dell’Uscirf: «Le condizioni della
libertà religiosa in Russia continuano a deteriorarsi. Il governo usa
abitualmente la legge anti-estremismo contro pacifici gruppi religiosi e
individui […]. Queste azioni, insieme alla xenofobia, all’intolleranza crescente
e all’antisemitismo, sono legate a violenze e omicidi mossi da odio religioso.
[…] Il governo russo non affronta questi problemi in modo coerente ed efficace,
favorendo un clima di impunità».

In Russia vivono circa 140 milioni di persone su un territorio
ampio 57 volte l’Italia. Benché solo il 5% della popolazione dichiari di essere
«osservante», sono almeno 100 milioni quelli che si autodefiniscono cristiani
della Chiesa Ortodossa Russa. I musulmani costituiscono la più grande minoranza
religiosa con un numero di aderenti compreso tra 16,4 e 20 milioni, la maggior
parte dei quali vive nella regione Volga-Ural, nel Caucaso del Nord, a Mosca, a
San Pietroburgo e in alcune parti della Siberia. Tra le varie confessioni
cristiane, i protestanti costituiscono il secondo gruppo dopo gli ortodossi con
circa due milioni di persone, la Chiesa Cattolica Romana il terzo con circa
seicentomila fedeli. Gli ebrei, secondo alcune stime, sono un milione, quasi
tutti concentrati a Mosca e a San Pietroburgo. I buddisti (tra uno e due
milioni) vivono principalmente nelle regioni di Buryatiya, Tuva, e Kalmykiya.

Le notizie che le varie agenzie di stampa internazionale di tanto
in tanto lanciano riguardo al tema della libertà religiosa in Russia illustrano
una situazione difficile sotto molti punti di vista, soprattutto per le
minoranze. Uccisioni di personalità musulmane nelle zone calde del Caucaso,
impedimenti alla costruzione di luoghi di culto, difficoltà di registrazione di
gruppi religiosi, negazione dei visti per visitatori religiosi stranieri,
proibizione di testi, considerati estremisti, di diversi gruppi religiosi, tra
cui i Testimoni di Geova e gli affiliati a Falun Gong, multe, sequestri di
materiali proibiti, incarcerazione per chi ne viene trovato in possesso, violenze
e vessazioni, impunità.

È Asianews a informarci sul disegno di legge contro la
blasfemia che sarà probabilmente approvato in primavera: esso propone pene
pecuniarie fino a 500mila rubli (circa 16mila dollari), e lavori forzati fino a
400 ore o detenzione fino a cinque anni per insulti pubblici alla fede,
profanazione o distruzione di oggetti religiosi.

BIELORUSSIA

Definita come l’ultima dittatura europea, la Bielorussia, pur
registrando un livello moderato di Ostilità Sociale nei confronti della religione,
è il secondo paese europeo con più elevato livello di restrizioni governative:
segno della condizione generalmente difficile delle libertà e dei diritti umani
sotto il regime di Lukashenko.

Su un territorio pari a due terzi l’Italia vivono circa 10 milioni
di cittadini bielorussi. Di questi l’80% appartengono alla Chiesa Ortodossa
Bielorussa, il 10% alla Chiesa Cattolica Romana. I rimanenti si dividono tra
non religiosi, atei, e altri gruppi religiosi: protestanti, musulmani, ebrei,
Testimoni di Geova, Hare Krishna, Baha’i, Mormoni.

Il rapporto 2012 dell’Uscirf afferma che «il potere politico in
Bielorussia è concentrato nelle mani del presidente Aleksandr Lukashenko, il
cui regime continua a perpetrare violazioni dei diritti umani. Il governo vede
nei gruppi indipendenti, comprese le comunità religiose, le sfide potenziali
per il suo dominio». E, dopo aver aggiunto che «il governo viola la libertà di
pensiero, di coscienza e di religione o le convinzioni personali attraverso
leggi e politiche intrusive», denuncia l’uso di molestie, multe, e detenzioni
contro le comunità religiose e le singole persone e l’impunità per atti di
violenza e vandalismo nei confronti dei gruppi religiosi minoritari.

Benché la Costituzione tuteli la libertà religiosa, altre leggi e
politiche generalmente applicate dal potere la limitano ostacolando e impedendo
in modo selettivo e arbitrario le attività dei gruppi religiosi diversi dalla
Chiesa Ortodossa Bielorussa.

PANORAMICA SULL’EUROPA

Per una breve panoramica sul continente che
sia in grado di dare un’idea dell’ampiezza e varietà delle violazioni (sia «istituzionali»
che «sociali») del diritto alla libertà religiosa ci affidiamo al rapporto 2012
di Acs, il quale rileva innanzitutto il fatto che negli ultimi anni i
legislatori europei hanno elaborato numerose norme, esprimendo la
preoccupazione che esse possano peggiorare le condizioni della libertà di
credo: in Francia, nel 2011, «è stato presentato il cosiddetto “Codice della
laicità” volto a regolamentare il campo della libertà religiosa. Dall’11 aprile
2011 è entrata poi in vigore la legge che vieta d’indossare il velo integrale
in pubblico, divieto stabilito anche dal governo dei Paesi Bassi sui trasporti
pubblici, negli uffici e nelle strade. La possibilità di indossare il burqa
o il niqab è stata al centro di controversie in Belgio dove preoccupa il
disegno di legge che trasforma in reato la “destabilizzazione mentale” di terzi
che rischia di spianare la strada a discriminazioni nei confronti delle
minoranze religiose». Ha fatto discutere in Svizzera il referendum che ha
imposto a larga maggioranza il divieto di costruire minareti.

Oltre a esemplificare alcuni provvedimenti
legislativi, Acs accenna a episodi di vandalismo e atti d’intolleranza nei
confronti dei cristiani in diverse città della Germania e nel Regno Unito: «Secondo
un rapporto del governo scozzese sui delitti causati da odio a sfondo religioso
nel suo territorio, nel periodo 2010-2011 ci sono state 693 imputazioni “aggravate
da pregiudizio religioso”».

Altro problema, presente soprattutto nei paesi dell’Europa
orientale, è quello della mancata restituzione delle proprietà e dei beni
confiscati alle varie comunità religiose dopo la Seconda guerra mondiale. «Tra
questi Ucraina, Romania, Slovacchia, Slovenia, Montenegro e Repubblica Ceca.
Procede con disparità la restituzione alle diverse comunità in Croazia,
giudicata colpevole dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per non aver
concesso a tre comunità religiose cristiane di godere pienamente di tutti i diritti
connessi al proprio riconoscimento, tra cui l’educazione religiosa nelle scuole
statali e il riconoscimento dei matrimoni».

Anche la diffusione di una versione intollerante dell’Islam desta
preoccupazioni in alcune aree dell’Europa, come abbiamo già visto, ad esempio,
per la zona caucasica della Russia: in Albania intimorisce la presenza di «giovani
imam formati in Turchia e in Arabia Saudita, come preoccupa la
progressiva islamizzazione di alcune aree della Bosnia-Erzegovina, a seguito di
ingenti investimenti compiuti da Iran e Arabia Saudita. Nel paese balcanico
l’identificazione “etnia-religione” genera discriminazioni sociali e
amministrative verso le minoranze, e in particolare verso i cattolici che
vivono o in zone a forte presenza islamica, o a maggioranza serbo-ortodossa.
Anche in Serbia e Kosovo, i fattori etnico e religioso sono spesso inseparabili».

LEGGI SULLA BLASFEMIA

Come già accennato per il caso della Russia,
nell’area europea è forte la tentazione di emanare leggi che ufficialmente
vorrebbero garantire la libertà religiosa e che invece rischiano di rendere più
difficile il godimento di tale diritto, soprattutto da parte delle minoranze. A
riguardo il Pew Forum ha pubblicato nel novembre scorso un’analisi che
mostra il trend mondiale ed europeo: «Diverse notizie hanno riguardato
negli ultimi mesi casi di persone perseguitate dalla giustizia dei propri paesi
con l’accusa di blasfemia: ad esempio in Grecia, un uomo è stato arrestato dopo
aver pubblicato su Facebook un post satirico nei confronti di un
monaco cristiano ortodosso». Secondo lo studio del Pew Forum il 47% dei
paesi del mondo hanno leggi o politiche che penalizzano la blasfemia,
l’apostasia o la diffamazione (il disprezzo o la critica di religioni
particolari o della religione in generale). «Dei 198 paesi studiati, 32 hanno
leggi anti-blasfemia, 20 leggi che penalizzano l’apostasia, e 87 leggi contro
la diffamazione della religione».

L’analisi puntualizza: «Nei paesi che hanno
leggi contro blasfemia, apostasia o diffamazione ci sono maggiori probabilità
di avere alte restrizioni governative sulla religione o elevata ostilità
sociale rispetto ai paesi che non dispongono di tali leggi. Ciò non significa
che queste leggi causino necessariamente un aumento di restrizioni alla
religione, ma è evidente che i due fenomeni vanno spesso di pari passo».

Per quanto riguarda in particolare le leggi che penalizzano la
bestemmia, in Europa sono presenti in otto dei 45 paesi: Danimarca, Germania,
Grecia, Irlanda, Italia, Malta, Paesi Bassi, Polonia, mentre nessun paese
possiede leggi che sanzionino l’apostasia. Le leggi contro la diffamazione
della religione invece sono più comuni: in 36 paesi su 45.

Luca Lorusso

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Luca Lorusso




Malattie di tipo virale  (Malattie sessuali – 3)

Tra le malattie sessualmente trasmesse, quelle virali sono le più
recenti, diffuse e le più pericolose. Il presente articolo conclude la serie
dedicata a questo tipo di patologie di cui si parla poco, per la delicatezza dell’argomento,
ma che sono una reale emergenza a livello mondiale.

I due precedenti articoli sono apparsi su MC 2012-11, pp. 70-73 e MC 2013-01/2, pp. 59-62.

I virus trasmissibili sessualmente
sono molteplici e alcuni di essi sono responsabili delle malattie attualmente
più diffuse e spesso a esito infausto. Tra questi abbiamo l’Hiv (Human
Immunodeficiency Virus
), responsabile dell’Aids (Acquired Immune
Deficiency Syndrome
o sindrome dell’immunodeficienza acquisita), i virus
dell’epatite virale da siero (Hbv, Hcv, Hdv principalmente), gli herpesvirus
(Hsv1 e 2), il citomegalovirus (Cmv) e i papillomavirus (Hpv).

Caratteristica comune a tutti i virus è quella di essere parassiti
endocellulari obbligati. Essi non possono essere considerati esseri viventi,
poiché per riprodursi devono penetrare in una cellula e sfruttae l’apparato
della sintesi proteica per le proteine del capside virale, cioè l’involucro
proteico che contiene il genoma virale. Quest’ultimo è costituito da Dna o da
Rna (nei retrovirus come l’Hiv). Non essendo esseri viventi, i virus non
possono essere uccisi dagli antibiotici, quindi per la cura delle patologie
virali è necessario ricorrere ai farmaci antivirali. Si tratta di solito di
farmaci che bloccano specifici enzimi virali oppure i recettori di membrana,
che permettono l’ingresso dei virus nella cellula ospite. Purtroppo non sempre
esistono farmaci efficaci, come nel caso delle patologie da citomegalovirus,
oppure può esserci resistenza ai farmaci, come in certi casi di Aids, in cui si
tenta di contenere l’infezione con combinazioni di più farmaci antivirali.

I principali virus

Vediamo ora i principali virus, che per diffondersi sfruttano,
oltre ad altre modalità, anche la trasmissione sessuale.

Il virus che più fa parlare di sé attualmente è l’Hiv, ovvero il
responsabile dell’Aids, che è stata riconosciuta come malattia a sé nel 1981. I
numeri di Hiv/Aids sono impressionanti: allo stato attuale sono più di 34
milioni al mondo le persone infettate dal virus Hiv e ci sono circa 2,5 milioni
di nuovi casi d’infezione ogni anno (dati del rapporto Unaids 2012).
Ogni anno muoiono al mondo circa 1,7 milioni di persone con Aids ed il numero
complessivo di morti a partire dal 1981 è di oltre 45 milioni. Nella classifica
mondiale del maggior numero di morti per Aids, i primi 23 posti sono occupati
da paesi africani, con in testa il Lesotho con 680 morti su 100.000 abitanti
nel 2009, tuttavia le cifre sono molto preoccupanti anche nel mondo
occidentale. Negli Stati Uniti, ad esempio, dal 1981 sono stati segnalati oltre
un milione di casi di Aids, più di 500.000 persone sono morte e attualmente
oltre un milione di persone convive con il virus Hiv.

La convivenza è resa possibile dai farmaci sopra citati, che non
sono in grado di far guarire dalla malattia, ma permettono di sopravvivere con
un’aspettativa di vita simile a quella di una persona non infetta. Purtroppo i
costi di tali farmaci continuano ad essere troppo elevati per le popolazioni
del Sud del mondo e questa, unitamente alla mancanza d’informazione sulle
modalità di trasmissione della malattia e sui mezzi di prevenzione, è una delle
cause principali dell’elevatissimo numero di malati e di morti.

Trasmissione dell’HIV

L’infezione da Hiv si trasmette attraverso tre diverse modalità:
la via ematica, la via materno-fetale e la via sessuale.

La prima modalità consiste nella trasmissione attraverso il sangue
ed è tipica delle persone dedite al consumo di droghe per via iniettiva, con
scambio di siringhe e di aghi infetti, ma può interessare anche coloro che si
sottopongono a piercing, tatuaggi e mesoterapia effettuati con aghi non
sterili. Anche le cure odontorniatriche effettuate con materiali non monouso e
non adeguatamente sterilizzati possono rappresentare un serio rischio, quindi è
opportuno evitare di ricorrere a studi odontorniatrici che offrono cure a prezzi
stracciati. Infine le trasfusioni possono rappresentare un rischio, anche se
attualmente molto ridotto grazie ai test per Hiv.

La seconda modalità è tipica delle donne sieropositive o con Aids
conclamato, che trasmettono l’infezione al feto per via transplacentare oppure
al bambino durante il parto o con l’allattamento. Il rischio per una donna
sieropositiva di trasmettere l’infezione al figlio è del 20%.

La terza via è quella dei rapporti sessuali di ogni tipo,
specialmente di quelli violenti, che possono provocare sanguinamento, e
interessa tanto gli eterosessuali che gli omosessuali. Questi ultimi sono stati
la categoria maggiormente colpita agli esordi della malattia, per la possibilità
di lesioni durante i rapporti, tuttavia l’Aids si è presto diffuso alla
popolazione eterosessuale per il carattere insidioso dell’infezione, che può
essere presente in forma inapparente, per cui la persona è infetta da Hiv e lo
può trasmettere con un rapporto non protetto, pur non presentando alcun segno
di malattia. Questo è il caso di coloro che si trovano nel cosiddetto periodo
finestra, ovvero nel periodo che intercorre tra l’ingresso del virus attraverso
le mucose, che possono essere anche integre, e la positività ai test per l’Hiv
(da poche settimane a 3 mesi). Ci sono inoltre i cosiddetti «portatori sani»,
cioè coloro che hanno contratto l’infezione da Hiv, ma che per le
caratteristiche del loro sistema immunitario riescono per un tempo anche
prolungato a controllare il virus senza sviluppare la malattia, quindi senza
alcun sintomo, ma con identica possibilità di trasmettere l’infezione. La
trasmissione avviene per mezzo del contatto con i liquidi biologici infetti e
le mucose.

Per quanto riguarda la saliva, fino a non molto tempo fa non
esistevano studi scientifici che provassero la possibilità di trasmissione del
virus attraverso i baci, data la sua modesta carica virale; tuttavia
recentemente è stato documentato un caso di trasmissione attraverso il bacio
dal Cdc (Center for Disease Control and Prevention) di Atlanta (Usa),
dovuto al fatto che la persona sieropositiva presentava gengive sanguinanti e
in tal modo ha infettato la compagna baciandola.


Il Virus HIV

L’Hiv è un retrovirus che colpisce le cellule del sistema
immunitario caratterizzate dalla proteina di superficie Cd4, cioè i macrofagi
ed i linfociti T helper. L’Hiv quindi mina le difese immunitarie
dell’ospite, che diventa suscettibile a infezioni batteriche, virali, protozoarie
o fungine, nonché a diversi tipi di tumore, spesso con esito fatale. Tra le più
comuni patologie che insorgono in pazienti affetti da Aids ci sono le polmoniti
e le tubercolosi batteriche, le encefalopatie virali, il linfoma di Burkitt, il
linfoma primario del cervello e il sarcoma di Kaposi.

Per prevenire l’infezione da Hiv è indispensabile astenersi dai
comportamenti a rischio, cioè è opportuno evitare di cambiare ripetutamente
partner o i rapporti con persone appartenenti a categorie a rischio, come
soggetti dediti alla prostituzione, oppure omosessuali o bisessuali o facenti
uso di droghe per via iniettiva. è
indispensabile l’affidabilità del partner. Nel dubbio si possono intraprendere
solo due strade, cioè l’astinenza dai rapporti sessuali oppure l’uso dell’unico
mezzo efficace di barriera, che è il profilattico usato in modo corretto ovvero
dall’inizio del rapporto (di ogni tipo). Non eliminano invece la possibilità di
contagio altri dispositivi come il diaframma, la spirale, la pillola anticoncezionale,
né pratiche come le lavande dopo un rapporto. è
evidente che la fedeltà di coppia riduce drasticamente il rischio di contrarre
questa infezione con un rapporto sessuale, sempre che uno dei due componenti
non abbia contratto l’Hiv per via ematica.

Allo stato attuale si sta assistendo a un aumento del numero di
nuove diagnosi d’infezione da Hiv anche nel Nord del mondo, in particolare
negli Stati Uniti, e pare essere terminato il declino della morbilità e della
mortalità da Aids riscontrato negli anni ’90 del secolo scorso, grazie all’uso
dei farmaci antivirali combinati. Questo fenomeno è dovuto alla grande capacità
del virus Hiv di acquisire resistenza ai farmaci grazie alla sua estrema
variabilità genetica. Quest’ultima è anche responsabile delle enormi difficoltà
incontrate nella produzione di un vaccino efficace poiché essa comporta una
continua variazione delle caratteristiche antigeniche dell’Hiv. Appare chiaro
che al momento per contrastare la diffusione di questa infezione sono indispensabili
una corretta educazione sanitaria della popolazione e l’astensione dai
comportamenti a rischio.

Epatiti

Altre infezioni molto diffuse e particolarmente gravi per la
salute umana sono le epatiti da siero causate dai virus Hbv, Hcv ed Hdv. Si
tratta di virus trasmessi con le stesse modalità del virus dell’Aids, per cui
occorre seguire le medesime precauzioni. L’epatite virale da siero può essere
acuta o cronica. L’organo bersaglio è il fegato, che nella malattia acuta può
andare incontro al blocco epatico con esito fatale. Nella cronicizzazione della
malattia, il fegato subisce una serie di sequele, che portano alla cirrosi
epatica, la quale può essere seguita da un tumore. Anche in questi casi l’esito
è di solito la morte. Attualmente più di 100.000 persone in tutto il mondo e
5.000 nei soli Stati Uniti muoiono ogni anno per le conseguenze dell’epatite B,
che può presentare la coinfezione dell’Hdv, un virus difettivo, che necessita
della presenza dell’Hbv e che aumenta la gravità del quadro clinico. Il virus
Hcv è responsabile negli Stati Uniti di almeno 25.000 nuove epatiti all’anno e
di circa 10.000 morti per cancro al fegato o cirrosi.

Oggi esiste un vaccino efficace contro l’epatite B obbligatorio in
Italia dal 1991 per i nuovi nati e per il personale sanitario, mentre non
esiste alcun vaccino contro l’epatite C. In Italia attualmente ci sono 2
milioni di persone infette da Hcv, con oltre 10.000 decessi e 3.000 nuovi casi
all’anno. L’Italia risulta essere il paese europeo più colpito da questa
infezione, soprattutto al Sud, con un record di casi in Campania, Puglia,
Calabria e Sicilia.

Occorre ricordare che per i virus dell’epatite esistono i
portatori sani, fatto che aumenta enormemente il rischio di contagio attraverso
i rapporti sessuali, lo scambio di siringhe tra i consumatori di droga, le
pratiche di piercing e di tatuaggio, che comportano l’uso di aghi
potenzialmente non sterili. Inoltre anche i virus epatitici vengono trasmessi
da madre a feto.

Herpesvirus

Gli herpesvirus di tipo 1 (Hsv1) infettano normalmente la
bocca e le labbra causando le febbri vescicolari e occasionalmente possono
infettare attraverso la saliva altre regioni del corpo, tra cui quella
ano-genitale, ma quest’ultima è prevalentemente colpita dal tipo 2 (Hsv2), con
formazione di vescicole dolorose. L’infezione può essere trasmessa al neonato
per contatto, al momento del parto e può dare quadri di diversa gravità, che
vanno dall’assenza di sintomi ad una malattia sistemica con danni cerebrali,
spesso mortale. Alle donne infette viene pertanto consigliato il parto cesareo.

Il citomegalovirus (Cmv) è uno degli herpesvirus più
diffusi, essendo presente nel 50-85% della popolazione sopra i 40 anni. Negli
individui sani l’infezione è asintomatica, ma diventa pericolosa negli
immunocompromessi come i malati di Aids o i pazienti trattati con farmaci
immunosoppressori come i trapiantati, alcuni malati di cancro ed i dializzati,
nei quali provoca polmoniti, retiniti, epatiti e gastroenteriti spesso fatali.
Il virus può essere trasmesso al feto e può arrecare gravi danni al bambino,
come la perdita dell’udito o della vista, il ritardo mentale, deficit nella
cornordinazione dei movimenti e nei casi più gravi convulsioni e morte. L’85-90%
dei neonati con infezione congenita è asintomatico, ma il 10% degli
asintomatici presenta sequele tardive, con i quadri succitati.

Altri virus

Tra i più diffusi virus sessualmente trasmessi ci sono i papillomavirus
umani
(Hpv), circa 120 ceppi virali diversi dei quali il 6 e l’11 sono a basso
rischio e responsabili di lesioni benigne, solitamente localizzate nella
regione ano-genitale, dette condilomi acuminati o creste di gallo per la tipica
forma a cresta o a cavolfiore. Esiste però una decina di ceppi tra cui
soprattutto i 16, 18, 31 e 33, che sono ad alto rischio per la loro capacità di
indurre carcinomi alla cervice uterina e alle mucose genitali maschili. La
diffusione di questi virus nella popolazione mondiale è tale che attualmente
una diagnosi su tre è di Hpv. La maggior parte delle infezioni è asintomatica,
tuttavia nei soli Stati Uniti ogni anno 6 milioni di persone contraggono l’Hpv,
circa 10.000 donne sviluppano il cancro della cervice uterina e di queste ne
muoiono circa 3.700. Attualmente sono in commercio due vaccini diretti uno
contro 4 e l’altro contro 2 dei precedenti 4 ceppi virali.

La grande campagna vaccinale fatta attualmente per questi vaccini,
caldamente raccomandati alle ragazze adolescenti, ma anche ai ragazzi, presenta
notevoli distorsioni della realtà, poiché non tiene conto del fatto che tutti
gli altri ceppi virali restano liberi di agire e probabilmente risultano
rafforzati dal blocco dei 4 succitati. Inoltre questi vaccini non sono stati
adeguatamente testati, come dovrebbe essere qualsiasi farmaco prima di essere
commercializzato, per cui non ci sono dati sulla loro reale efficacia, mentre
purtroppo sono già numerose le segnalazioni di casi avversi, con conseguenze
che in alcune situazioni hanno portato nalla morte o in gravissime neuropatie (vedi
su Facebook
: «Le nostre figlie non sono cavie da esperimento»). In compenso
il business di questo vaccino è elevatissimo, poiché è gratuito per le
adolescenti solo il primo ciclo (a carico del sistema sanitario nazionale), che
va ripetuto ogni 5 anni, con un costo intorno ai 500 euro a carico della
paziente.

Rosanna Novara Topino

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Rosanna Novara Topino




Acqua per la salute (a Neisu)

Un
progetto per l’ospedale di Neisu nel Nord-Est della RD
Congo finanziato
da Water Right Foundation della Toscana.

Il
progetto «Acqua per la salute» in corso all’Ospedale Nostra Signora della
Consolata di Neisu (RD Congo) è al giro di boa: dopo sei mesi dall’inizio delle
attività, avviate nel settembre 2012, è tempo di tracciare un parziale bilancio
dell’iniziativa proposta da Mco e «Annulliamo la Distanza» alla Water Right
Foundation
e ai comuni di Calenzano e Scandicci, che hanno accolto e
finanziato il progetto.

L’intervento
prevedeva la costruzione di tre pozzi (con pannelli fotovoltaici, pompa,
cisterna e lavabi) in altrettanti dispensari periferici collegati all’ospedale
di Neisu, la sostituzione della pompa dell’ospedale e l’organizzazione di corsi
di formazione della popolazione e attività di sensibilizzazione sul corretto
utilizzo dell’acqua. Allo stato attuale, la pompa è stata acquistata, il corso
di formazione realizzato e i pozzi sono in fase di completamento. Vediamo nel
dettaglio la genesi e lo sviluppo dell’intervento.

L’Ospedale di Neisu, la forza di una rete sanitaria

Una delle caratteristiche che contraddistingue
l’Ospedale di Neisu è quella di essere il centro attorno a cui gravita una rete
sanitaria: tredici dispensari periferici, denominati centres o postes
de santé
(centri o postazioni di salute) a seconda delle dimensioni e dei
servizi offerti, fanno capo all’ospedale vero e proprio e garantiscono la
copertura capillare di un territorio difficile, privo di infrastrutture e di
collegamenti, che dall’esterno si raggiunge praticamente solo volando da Kampala,
in Uganda, e impiegando fino a una settimana di viaggio lungo i percorsi
dissestati che collegano l’Uganda alla Provincia Orientale della Repubblica
Democratica del Congo, dove si trova Neisu.

Il centro più lontano dall’ospedale si trova a oltre
sessanta chilometri dal villaggio di Neisu, in una zona totalmente priva di
strade asfaltate dove i tempi di percorrenza in 4×4 possono arrivare a intere
giornate per poche decine di chilometri. Il mezzo di trasporto più conveniente
per percorrere i laghi fangosi in cui si trasformano le strade durante la
stagione delle piogge sono le moto di piccola cilindrata, che possono seguire
la minuscola striscia di terra asciutta ai bordi della strada principale. Sono
diffuse anche le biciclette, che non di rado si rivelano le uniche ambulanze
possibili e vengono perciò riadattate con una seduta posteriore (spesso una
semplice sedia di legno legata al portapacchi) per il trasporto del paziente.

In un contesto del genere, la presenza di centri
sanitari periferici è fondamentale perché raggiungere l’ospedale centrale
richiede tempi che possono mettere seriamente a rischio la sopravvivenza del
malato. Fino all’approvazione del finanziamento da parte della Water Right
Foundation
, tre dei centri periferici non disponevano ancora di un pozzo.
Gli infermieri responsabili delle piccole strutture, dunque, erano costretti a
recarsi ai vicini fiumi per procurarsi l’acqua e dovevano poi procedere a
depurarla con metodi – come la bollitura – che richiedevano tempo sottratto
all’assistenza ai pazienti senza garantire una soddisfacente salubrità
dell’acqua. Con il completamento dei pozzi, la qualità dell’acqua e
dell’assistenza sanitaria subirà un decisivo miglioramento.

Il lavori di scavo e costruzione dei pozzi sono stati
effettuati a mano, da una squadra di operai armati di badili e picconi. A
Neisu, dove il suolo è costituito da rocce relativamente friabili di caolino,
limonite e argilla e dove basta scavare una ventina di metri per trovare
l’acqua, lo scavo manuale è certamente difficoltoso ma comunque possibile. Ciò
che invece risulterebbe impossibile è trasportare sulle strade sterrate locali
trivelle e attrezzature meccaniche per lo scavo.

L’altro intervento strutturale previsto dal progetto era
l’acquisto e installazione di una pompa per l’ospedale principale, poiché
quella in uso stava dando preoccupanti segni di cedimento. «Abbiamo subito
comprato la pompa», scrive padre Richard Larose, responsabile del progetto
all’ospedale di Neisu, «ma abbiamo preferito non installarla fino alla fine
della stagione delle piogge: non volevamo rischiare che un fulmine ce la
bruciasse subito». Certo, il problema dei fulmini si ripresenterà alla prossima
stagione delle piogge; ma evitare un danno nell’immediato e assicurare qualche
mese in più all’attrezzatura a disposizione è spesso l’unica strategia che un
missionario può mettere in atto in una zona come Neisu.


L’importanza dell’acqua pulita

Che
ci sia una relazione diretta, e fondamentale, fra acqua pulita e qualità del
servizio sanitario è ovvio: basta pensare all’importanza dell’acqua per la
pulizia e sanificazione degli ambienti e strumenti sanitari e alla quantità di
patologie (ferite da taglio o malattie sessualmente trasmissibili, solo per
fare due esempi) che vengono aggravate dalla presenza di agenti patogeni
nell’acqua utilizzata per lavarsi. È vero che la falda da cui attinge il pozzo
non è necessariamente pulita e diversi accorgimenti vanno utilizzati pur avendo
a disposizione un pozzo. Ma la probabilità che l’acqua di un pozzo si contamini
è significativamente più bassa rispetto a quella di un fiume, dove vengono
scaricati i rifiuti dei villaggi vicini e dove è possibile trovare elementi
inquinanti come le carcasse di animali.

Ciò
che è meno ovvio, invece, è che in una realtà come Neisu siano chiare e note le
regole per l’utilizzo corretto dell’acqua e per avere comportamenti
igienicamente adeguati. «La formazione sull’acqua prevista da questo progetto è
fondamentale», scriveva la dottoressa Barbara Terzi, in forze all’Ospedale di
Neisu fino al 2012. «A volte mi capita di vedere mamme che cambiano il
pannolino ai loro bambini e subito dopo danno loro da mangiare, senza lavarsi
le mani. O, ancora, c’è chi va a prendere acqua al fiume prelevandola a poca
distanza da un animale in decomposizione».

Spiegando
che certi accorgimenti possono salvare vite, sarà possibile alleggerire il
carico di lavoro dell’ospedale prevenendo malattie evitabili. A questo scopo,
sono stati coinvolti nel progetto i membri dei cosiddetti comitati di salute (Codesa)
dei villaggi dove si trovano i centri periferici. I comitati, composti da
alcuni membri delle comunità, hanno una funzione fondamentale poiché sono
l’anello di congiunzione fra struttura sanitaria e popolazione locale. Queste
persone ricevono periodicamente una formazione che permette loro di diffondere
nei villaggi conoscenze relative alle pratiche igieniche corrette e ai servizi
a disposizione presso le strutture della rete sanitaria; al tempo stesso,
operano una costante osservazione delle patologie che si manifestano nelle
proprie comunità e riferiscono al personale sanitario in modo che questo possa
intervenire il più tempestivamente possibile. Nel caso di questo progetto, i
membri dei Codesa hanno seguito un corso di formazione sull’acqua di
cinque giorni a Neisu e sono ora al lavoro per condividere con il resto della
comunità quanto hanno imparato.

Educare al valore dell’acqua: le
attività in Italia

Parte
integrante dell’iniziativa sono anche una serie di eventi pubblici in Italia il
primo dei quali è stato una conferenza stampa di presentazione del progetto che
si è tenuta a fine settembre 2012 a Calenzano; il secondo evento, realizzato a
metà ottobre durante la fiera di Scandicci, ha visto i partner del
progetto impegnati in un dibattito pubblico dal titolo «Una goccia d’acqua per
tutti», che ha registrato una buona partecipazione.

La
Water Right Foundation, come ha ricordato nel corso degli incontri uno
dei suoi referenti, Oliviero Giorgi, nasce per volontà di Publiacqua
l’azienda che gestisce il servizio idrico nel territorio dell’Ato 3 Medio
Valdao
– con il contributo degli enti locali e del mondo scientifico e
accademico. Accantonando un centesimo di euro per ogni metro cubo di acqua
consumato dagli utenti, Publiacqua ha costituito il Fondo «L’Acqua è di
tutti» e ne ha affidato la gestione alla Wrf che da anni finanzia numerose
iniziative in paesi dove l’acqua è carente o male utilizzata.

Monica
Squilloni, assessore alla Cooperazione internazionale del Comune di Calenzano e
Gabriele Coveri, suo omologo al Comune di Scandicci, hanno ribadito
l’importanza di sostenere la solidarietà internazionale e hanno sottolineato il
ruolo delle istituzioni locali italiane nel continuare a sensibilizzare i
propri cittadini a valorizzare le risorse idriche ed evitare gli sprechi. I
prossimi eventi sono previsti a fine progetto, a settembre 2013, e daranno
conto dei risultati ottenuti nel corso dei dodici mesi di attività.

Chiara Giovetti

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Chiara Giovetti




San Francesco di Sales

San Francesco di Sales (1567-1622), vescovo di Ginevra e
dottore della Chiesa, è certamente un santo che ha realizzato nel migliore dei
modi il detto popolare: «Si prendono più mosche con un cucchiaio di miele che
con un barile di aceto». Vissuto in un tempo in cui le guerre di religione tra
i vari stati europei lasciavano tracce indelebili nelle popolazioni coinvolte
per la violenza con cui si consumavano e producevano lacerazione nelle
coscienze per motivi di fede, egli seppe arrivare al cuore degli avversari
attraverso un modo di essere e di relazionarsi, caratterizzato da uno stile
sobrio e pacato nell’esporre le sue ragioni e, soprattutto con scritti
raffinati ed eleganti, seppe guadagnarsi la stima di tutti.


Sei un santo un po’ speciale,
parlaci della tua vita.

Sono
nato in Savoia il 21 agosto 1567 nel castello di Sales, proprietà della mia
antica e nobile famiglia. Fin dalla più tenera età ho ricevuto un’accurata
educazione che ho completato con gli studi in giurisprudenza nelle Università
di Parigi e di Padova.

Quindi la tua carriera era già
definita fin dall’infanzia; in fondo un giovane ricco e nobile, laureato a
pieni voti in Università così rinomate, aveva la strada spianata per il futuro.

Infatti ritornato in patria fui subito nominato avvocato
del Senato di Chambéry, capitale della Savoia, dove però rimasi pochi anni perché
la vocazione sacerdotale, che avevo avvertito fin dai primi anni della mia
giovinezza, mi portò verso gli studi di teologia: ricevetti l’ordinazione nel
dicembre del 1593, con grande delusione dei miei familiari e di quanti si
aspettavano che seguissi le orme dei miei avi.

Se non vado errato, sei vissuto in
un’epoca caratterizzata dalle conseguenze della Riforma protestante avviata da
Lutero e da altri riformatori come Calvino, Zwingli, ecc.

È vero. Il clima sociale e religioso era quello
travagliato e tormentato del periodo tra il XVI e il XVII secolo: alla Riforma
protestante faceva seguito la Riforma Cattolica (spesso chiamata erroneamente
Controriforma). Buona parte dei principi tedeschi aveva abbracciato le idee di
Lutero, trascinando con sé le popolazioni da loro governate e, ancor peggio, i
loro eserciti.

Erano proprio tempi cupi allora?

Alcuni
avvenimenti aiutano a comprendere meglio la realtà nella quale vivevo: nel 1600
l’Inquisizione aveva mandato al rogo Giordano Bruno e nel 1622 (anno della mia
morte) iniziava il processo a Galileo. Guerre e sommosse religiose scandivano
gli anni come un doloroso rosario intriso di sangue e sofferenze. Nel 1571
avvenne la battaglia di Lepanto contro i turchi-ottomani, battaglia che
contrapponeva cristiani contro musulmani; l’anno seguente (1572) ci fu la notte
di San Bartolomeo, dove furono assassinati migliaia di ugonotti francesi (gli
storici parlano di 20-30 mila), aprendo così una ferita profonda fra i
cristiani cattolici, evangelici e riformati, il cui strascico è visibile ancora
oggi.

Come e in che misura poteva
incidere in quella realtà la tua azione sacerdotale?

Come
sacerdote cercai di testimoniare con un’irreprensibile condotta di vita e di
avvicinare tutti con una preparazione meticolosa e meditata delle omelie. Ma
visti gli scarsi frutti, passai alla pubblicazione di foglietti volanti che io
stesso facevo scivolare sotto gli usci delle case o affiggevo ai muri.

E così sei diventato patrono dei
giornalisti!

Ai
miei tempi non c’erano giornali. Fu molto apprezzato non tanto l’aver scritto
trattati in difesa della fede cattolica, ma piuttosto il fatto di stampare su
dei fogli volanti le mie riflessioni e prediche: non era come i giornali di
oggi, ma vi assomigliava. I risultati iniziali furono scarsi, ma col tempo
migliaia di calvinisti ritornarono in seno alla Chiesa Cattolica.

Nel 1602 fosti nominato vescovo di
Ginevra, caposaldo della predicazione di Calvino, come ti accolsero da quelle
parti?

Ginevra,
città di lingua e cultura francese, aveva abbracciato la fede «riformata»
predicata da Giovanni Calvino e i suoi compagni (Guglielmo Farel, Theodore
Beza, John Knox), per cui la presenza di un vescovo cattolico non era per
niente gradita. Per tutti i miei 20 anni di episcopato risiedetti ad Annecy;
come vescovo profusi il meglio delle mie energie visitando ad una ad una tutte
le 450 parrocchie, curai molto il catechismo dei fanciulli e, perché fosse
insegnato come si doveva, addestrai un discreto numero di laici creando la così
detta «Confrateita della Dottrina Cristiana».

Alla fine, anche i protestanti,
che disprezzavano i cattolici chiamandoli papisti, impararono a rispettarli:
come ci sei riuscito?

Ho
seguito il principio della 1a lettera di San Pietro: essere «sempre pronti a
rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi; ma questo
sia fatto con dolcezza e rispetto». Il modo di confrontarsi con chi non la
pensa come te deve essere improntato soprattutto alla comprensione di ciò che
l’altro vuole dire e al tempo stesso all’esposizione di ciò che porti nel cuore
con chiarezza e senza rancore, con dolcezza e tenerezza. Bisogna imparare a
dialogare non con i pugni chiusi ma con le palme aperte.

Anche i tuoi scritti, come «L’introduzione
della vita devota» e «Il trattato del divino amore», sono diventati dei
classici: ti valsero il titolo di dottore della Chiesa, ti diedero fama di
grande scrittore anche nel mondo laico.

È
vero. Nella letteratura francese la mia prosa viene additata per la vivacità
delle immagini, la ricchezza delle espressioni, la serena affabilità del
discorso; tutto ciò lo facevo per creare un dialogo proficuo con quelli che non
la pensavano come me e si erano allontanati dalla fede cattolica.

Quindi il proverbio citato
all’inizio si addice perfettamente al tuo carattere.

Direi
proprio di sì. Ma quel proverbio deve trasformarsi in stile di vita che
conquisti le persone. Proclamare la verità con una faccia scura o imporre con
coercizioni di ogni tipo la partecipazione ai riti religiosi può essere
proficuo in un primo tempo, ma alla lunga più nessuno ti segue.

Una bella lezione anche per noi,
più propensi a mostrare le difficoltà ad essere un bravo cristiano, che la
gioia dell’incontro con il Signore Gesù.

Soprattutto
in campo ecumenico, pur esprimendo il proprio pensiero, tutto venga fatto nella
gioia dell’incontro con chi la pensa diversamente. Mi sembra che, dopo secoli
di scomuniche reciproche, il cammino ecumenico intrapreso sia proprio questo,
anche se la strada è ancora lunga. Da colui che è Padre ci siamo allontanati un
po’ tutti; ora, ritornando a Lui, impariamo a vivere da fratelli che
condividono la gioia di essere figli dello stesso Padre. Papa Roncalli, che per
certi versi mi assomiglia, aprendo il Concilio ha chiesto di distinguere sempre
tra «errore ed errante»; lo stile da assumere con chi non è «dei nostri» è
proprio quello avviato dal sottoscritto, in tempi difficili, ma esaltanti dal
punto di vista del dialogo.

Come nacque l’amicizia con
Giovanna de Chantal?

A
Digione, durante una visita pastorale, incontrai una nobildonna: era appunto
Giovanna Francesca de Chantal, con la quale avviai un rapporto di sincera e
spirituale amicizia che nel tempo, attraverso una tenerissima corrispondenza
epistolare, diede i suoi frutti nella fondazione della congregazione religiosa
della Visitazione. L’idea originale alla base del nostro carisma fu di chiamare
le religiose fuori dal chiostro, nel mondo, per predicarvi la carità, senza
trascurare l’importanza della preghiera, creando nel contempo un ramo
contemplativo accanto a uno di vita attiva.

In
un tempo come il vostro si fa fatica a capire e accettare tutto questo, eppure è
proprio così; del resto io stesso curai molto le amicizie e, oltre a Giovanna
Francesca de Chantal, ebbi come figlio spirituale Vincenzo de Paoli e Madre
Angelica Aauld, oltre a molte altre persone di ogni ceto. Con tutti loro ebbi
una fitta corrispondenza epistolare.

Oltre al rapporto particolare con
i poveri, normale per un santo, curasti una forte relazione con gli
intellettuali del tuo tempo, fondando per loro addirittura un’accademia,
denominata «Florimontana», o sbaglio?

Tutt’altro! Questa mia idea di mettere insieme gli
intellettuali in una fondazione in cui potessero liberamente confrontarsi sui temi
più svariati, fu copiata nientemeno che dal cardinale Richelieu, che diede vita
alla famosa Académie française. Non bisogna mai lesinare fatiche ed
energie per costituire dei luoghi e avviare dei percorsi in cui confrontarsi.
Ai miei tempi (ma anche ai vostri!) invece di dialogare si preferisce inveire,
sbraitare e condannare; così facendo il dialogo si inaridisce e le posizioni si
irrigidiscono, tutto a scapito del rispetto reciproco e della carità
vicendevole.

Il tuo esempio fu seguito da altri
santi che, ispirandosi alla tua azione pastorale, seppero leggere i segni dei
loro tempi.

Per
Vincenzo de Paoli, che ebbi come figlio spirituale, fu abbastanza facile
seguire le mie indicazioni; ma il santo che più si ispirò al mio modo di fare,
muovendosi in un altro contesto e avendo un carisma particolare per i giovani
fu Giovanni Bosco, originario della regione italiana più vicina alla Savoia;
visti i santi «sociali» torinesi coevi a don Bosco, si può dire che l’aria di
queste zone favorisce uno stile del tutto speciale per chi vuole seguire il
cammino del Vangelo.

Per concludere che suggerimenti
dai a noi cristiani del XXI secolo?

Considerando
che avversari alla Verità ce ne sono sempre, in ogni tempo e luogo, imparate a
gestire il confronto con chi non la pensa come voi dialogando con affabilità e
rispetto: condanne e scomuniche non portano da nessuna parte; e ricordatevi
sempre che questo mondo prima di voi è stato amato fino all’inverosimile da
nostro Signore Gesù Cristo, che per salvarci tutti non ha esitato a dare la sua
vita per tutti, cattolici e calvinisti, credenti e non credenti.

Don Mario Bandera – Direttore Missio Novara

Mario Bandera