EMI 5: La Missione fa Cultura

Come la stampa missionaria è considerata nei secoli.
Precursori degli antropologi, che ne apprezzano e
utilizzano il lavoro. I missionari fanno «cultura» sulle pagine dell’editoria
laica già a fine Ottocento. E oggi i temi missionari spesso «bucano» le vetrine
imponendosi nella grande editoria.

«Sul piano scientifico, i missionari hanno veramente
raccolto tutto ciò che valeva la pena di essere conservato». L’attestazione,
tanto insospettabile quanto autorevole, è di Claude Lévi-Strauss, «mostro sacro»
dell’antropologia, scienza sociale di studio dell’uomo sorta nell’Ottocento con
un intendimento prettamente «laico», se non laicista. Nel suo capolavoro Tristi
tropici
(1955, Il Saggiatore) Lévi-Strauss riconosce che per quegli
antropologi che si recavano (e si recano) in paesi lontani per scoprire la vera
natura dell’uomo, l’apporto dei missionari è determinante. Attestazione di
stima che però non ha trovato molto riscontro nel corso dei decenni successivi
dell’antropologia culturale.

Ma al di là di questo specifico caso controverso, è
indubbio che il rapporto tra cultura, editoria e mondo missionario è una pagina
significativa delle vicende di quanti hanno dedicato la vita all’annuncio del
vangelo «fino ai confini della terra».

Già nei tempi passati la figura del missionario restava
eloquente e comunque apprezzata in contesti culturali diversi da quelli del
perimetro ecclesiale. Ciò avveniva ad esempio nell’Ottocento, quando intorno al
missionario era sorta una specie di «aura d’avventuriero», per cui chi
affrontava fatiche e sacrifici per portare la «Buona novella» in posti e presso
popolazioni sconosciuti all’Occidente affascinava e conquistava anche quanti
con la chiesa nulla avevano a che fare. Questa «buona stampa» degli
evangelizzatori ad gentes permane anche oggigiorno, in un periodo in cui
la chiesa istituzionale (per diverse ragioni come i casi di pedofilia tra il
clero oppure i vari Vatileaks) soffre di un deficit di credibilità che
pare scuoterla quasi nelle sue fondamenta.

Da Salgari agli antropologi

Gli esempi non mancano. Uno scrittore di successo dei
decenni passati come Emilio Salgari, «uomo d’avventura mancato», secondo il suo
biografo Silvino Gonzato (autore di La tempestosa vita del capitan Salgari,
Neri Pozza), «pur non avendo nessun afflato religioso, ammirava molto i
missionari: ogni volta che i religiosi del don Mazza (il maestro di Daniele
Comboni, ndr) tornavano dalle spedizioni in Sudan, lui li intervistava
per il quotidiano per cui lavorava, L’Arena. A suo parere – prosegue
Gonzato – i missionari erano veri uomini di avventura: ne elogiava lo spirito
di sacrificio, la disponibilità ad affrontare fatiche e rischi, li considerava
dei veri e propri esploratori». Per capirlo basta leggere l’incipit del
colloquio, pubblicato nel 1885, in cui Salgari dialogava con don Luigi Bonomi,
uno dei preti mazziani rimasti prigionieri del Mahdi in Sudan: «Alto di
statura, scao alquanto, deve possedere muscoli d’acciaio ritemprati sotto i
terribili soli equatoriali. Si riconosce in lui l’uomo energico, risoluto e
forte – tre elementi indispensabili per chi sfida i pericoli, i cocenti calori
e le terribili privazioni del Continente Nero».

Se in Salgari si ritrova una laicissima e umanissima
ammirazione per l’impeto dei missionari, la storica Lucetta Scaraffia, docente
all’università La Sapienza di Roma, rintraccia invece una certa avversione
dell’ambiente accademico, almeno a cavallo tra Otto e Novecento, verso il
panorama missionario.

Scaraffia evidenzia una sorta di predisposta e
volontaria ignoranza degli antropologi di professione verso il lavoro etnologico
dei missionari: «Gli antropologi vedono nei missionari dei nemici potenziali
perché cercano di trasformare le società indigene in società cristiane,
distruggendo usi e tradizioni preziose agli occhi degli studiosi». La realtà,
evidenzia con una certa vis polemica la storica piemontese, è ben
diversa. E va a tutto vantaggio della caratura culturale degli annunciatori del
vangelo: gli eredi di Lévi-Strauss «preferiscono dimenticare che i missionari
sono venuti per primi in contatto con i popoli indigeni e che hanno imparato le
lingue dei nativi e studiato i loro costumi, tenendo diari e scrivendo
relazioni. […] Questi testi hanno costituito la base – soprattutto linguistica
– con cui poi gli antropologi hanno studiato le stesse popolazioni».

Storie di edizioni missionarie

In epoca più recente è soprattutto la presentazione dei
problemi, delle vicende, di un racconto di prima mano del Sud del mondo, ciò
che ha costituito il quid per il quale i missionari hanno trovato spesso
ascolto e riscontro nell’ambito della cultura (e dell’editoria).  A tal riguardo è poi interessante scoprire la
genesi di uno dei best seller missionari in campo editoriale (diverse
decine di migliaia di copie), Korogocho. Alla scuola dei poveri, di
padre Alex Zanotelli, edito da Feltrinelli. «Verso la fine del 2001, lavoravo a
quel tempo a Nigrizia, – afferma Pier Maria Mazzola, oggi direttore
editoriale dell’Emi -, ricevetti una telefonata direttamente da Carlo
Feltrinelli che mi disse: “Ci piacerebbe molto pubblicare un libro autobiografico
di padre Alex. Riuscite a convincerlo?”. In effetti, dal ritorno dalla sua
esperienza decennale di Korogocho, in Kenya, noi di Nigrizia
sollecitavamo Zanotelli a scrivere un libro sulla sua esperienza prima che
qualcuno lo facesse “a sua insaputa”. E quel libro funzionò davvero». Di Korogocho
uscirono diverse edizioni: il passaparola e la vendita nelle affollatissime
conferenze che padre Alex teneva in giro per l’Italia testimoniano la
significatività di una vicenda che ha raggiunto il grande pubblico.

Quell’ampia platea che ha potuto conoscere suor Eugenia
Bonetti, missionaria della Consolata, dal palco della manifestazione di Se
non ora, quando?
dedicata al riscatto sociale della donna – oggetto. Suor
Bonetti, responsabile del servizio anti tratta umana dell’Unione delle
superiori maggiori d’Italia (Usmi), è un’instancabile voce di difesa delle
donne sfruttate nel mercato del sesso delle nostre strade. Proprio in questa
veste è stata pubblicamente lodata dall’ex premier inglese Tony Blair in un editoriale
sul Corriere della sera e ha ricevuto premi e riconoscimenti.

In campo editoriale è singolare che, sebbene avesse già
scritto nel 2010 per San Paolo un libro sul problema cui si dedica da ormai
diversi anni (Spezzare le catene), già nel 2011 la laica Rizzoli chiese
a suor Bonetti (proprio all’indomani della sua partecipazione alla
manifestazione «rosa») di condensare la sua esperienza in un libro.

Un’altra missionaria, Chiara Castellani, è riuscita
negli ultimi anni a «bucare» le vetrine dei libri «laici»: questa laica
impegnata nella Repubblica del Congo, già protagonista di un lungo reportage di
Giovanni Porzio su Panorama (per la quale si dovette anche in un certo modo
difendere per essersi fatta raccontare da un mensile berlusconiano), ha raccolto
la sua vicenda in un libro ben accolto da Mondadori, Una lampadina per
Kimbau
, in cui narra le sue incredibili vicende mediche e umane illuminate
da un’incrollabile fede cristiana.

«Personalmente, quando ho avuto a che fare con editori
laici, ho trovato delle “praterie” davanti a me». Lo conferma, in maniera
significativa, padre Giulio Albanese, fondatore della Misna, autore per
Feltrinelli di Soldatini di piombo e Il mondo capovolto (Einaudi)
sul rapporto informazione – missionari: circa 10 mila copie ciascuno. «Non ho
mai trovato resistenze negli ambienti editoriali non cattolici alla
presentazione dei nostri temi, ovvero il racconto di un’umanità dolente, il Sud
del mondo, … – racconta il direttore delle riviste missionarie della Cei -. E
poi la mia sorpresa di vedere questi libri nelle grandi librerie degli
aeroporti o delle stazioni ferroviarie! Non posso contare i gruppi, università,
centri culturali anche lontanissimi dalla nostra sensibilità che mi hanno
invitato a incontri o conferenze. E non pensiamo solo ad ambienti “di sinistra”
o “progressisti”: anche i giovani di Confindustria mi hanno chiesto di
intervenire a un loro convegno proprio per avermi “scoperto” grazie a quei
libri. Spesso noi cattolici pensiamo al mondo laico come a un monolite: e invece
non è così. Ma per noi resta davvero un reale campo di missione». Di carta,
pagine e copertine, certo. Ma comunque sempre missione.

Lorenzo Fazzini 

Hanno contribuito a questo
dossier

Lorenzo Fazzini, direttore della Editrice
missionaria italiana (Emi).
Pier Maria Mazzola,direttore editoriale della
Editrice missionaria italiana (Emi).
Brunetto Salvarani,direttore di «Cem mondialità»
e della rivista «Qol»
.
Chiara Zappa,redattrice di «Mondo e
Missione».
Coordinamento editoriale: Marco Bello, redattore di MC.
Questo dossier è nato dalla
collaborazione tra le testate «Mondo e Missione», «Missione Oggi» e «Missioni
Consolata» e la Editrice missionaria italiana.
 

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Lorenzo Fazzini




EMI 4: Consumo, da critico a responsabile

Incontro con Francesco Gesualdi
Parla il
curatore del best seller della Emi, la
Guida al consumo critico
. Realizzata la prima volta nel 1996 dal Centro
nuovo modello di sviluppo, riscuote subito un grande successo. Arriva alla
sesta edizione in dodici anni. Ma che attualità c’è nel suo messaggio?

«Ci chiamiamo Centro nuovo
modello di sviluppo
(Cnms), ma siamo tre famiglie. Viviamo insieme da venti
anni, ma non siamo una comunità. Naturalmente crediamo nel valore della vita in
comune, ma non siamo pronti per questa scelta. Del resto, quando siamo partiti,
alla fine degli anni ’70, eravamo animati essenzialmente da ragioni di
efficacia sociale e politica». È questo l’incipit della presentazione
del noto Centro di Vecchiano, in provincia di Pisa. Il Cnms cornordinato da
Francesco Gesualdi, uno dei fondatori, ha iniziato le sue attività nel 1985 ed è,
negli anni, diventato una voce autorevole, riconosciuta per la sua serietà e
l’accuratezza delle informazioni.

Da subito il gruppo è cosciente
della «necessità della politica per rimuovere le cause profonde che generano
disagio ed emarginazione». Poi l’intuizione che caratterizzerà il lavoro del
Centro: «Così abbiamo capito l’importanza strategica del consumo e abbiamo
cominciato a chiederci come potevamo trasformarlo da strumento di complicità
con gli oppressori a strumento di liberazione per gli oppressi». Nasce il
concetto di «consumo critico».

Il Centro e la Emi

Dopo i primi anni di studio
iniziano le pubblicazioni del Centro, che hanno larga diffusione tra i
movimenti della società civile e ambientalisti. In questa fase il sodalizio con
la Emi è fondamentale.

Molti sono i titoli. Tra i più
famosi: Nord-Sud: predatori, predati e opportunisti (1997), Geografia
del supermercato mondiale
(1997), Lettera ad un consumatore del Nord
(1998) e tanti altri.

Ma il cavallo di battaglia del
Centro è senza dubbio la Guida al consumo critico, un compendio unico di
istruzioni pratiche e indicazioni per consumare criticamente e in modo equo. La
prima edizione è pubblicata dalla Emi nel 1996, per arrivare alla sesta nel
2011.

«Bisogna passare dal consumo
critico al consumo responsabile dove la sobrietà fa da sfondo a ogni scelta».
Si legge nella presentazione dell’ultima edizione.

Il concetto portante è: «La
politica si fa ogni momento della vita: al supermercato, in banca, sul posto di
lavoro, all’edicola, in cucina, nel tempo libero, quando ci si sposa.
Scegliendo cosa leggere, come, cosa e quanto consumare, da chi comprare, come
viaggiare, a chi affidare i nostri risparmi, rafforziamo un modello economico
sostenibile o di saccheggio, sosteniamo imprese responsabili o vampiresche,
contribuiamo a costruire la democrazia o a demolirla, sosteniamo un’economia
solidale e dei diritti o un’economia animalesca di sopraffazione reciproca».


Incontro con l’autore

Ci siamo intrattenuti con
Francesco Gesualdi, prolifico autore della Emi, per avere la sua visione del
momento attuale e delle prospettive per l’editoria missionaria.

La collaborazione tra il Centro e
la Emi, partita a metà degli anni ’90, si è subito rivelata vincente. Ma oggi
ci si chiede che futuro abbia l’editoria che tratta questi temi. «La piccola
editoria continua a impegnarsi per le idee innovative, quelle che si impegnano
sempre meno sono le grandi case editrici che si orientano ormai verso una
logica da supermercato: bisogna fare cassa e per questo ci dirigiamo verso gli
autori affermati, anche se perfino loro non riescono a stare sulla bancarella
per più di 15 giorni. È la novità che deve dominare e se riesco a cambiare il
prodotto invito a comprare con una maggiore frequenza. La grande editoria sta
cambiando in peggio, ha bisogno di ricambio continuo per acquisti veloci. La
piccola editoria continua a provarci, ma ha mille difficoltà, non ultima quella
di arrivare in libreria, e di non affogare in tutto ciò che si pubblica: si
parla di oltre 100 nuovi titoli al giorno in Italia.

Ogni tanto mi dico che è meglio
non pubblicare niente, altrimenti ingolfiamo l’editoria!».

Francesco Gesualdi osserva che non
è lui che può dare consigli, e continua: «Mi rendo conto che è difficile.
Sarebbero meglio pochi prodotti, ma buoni. Quindi selezionare molto bene quello
che si pubblica.

Noi come Centro continuiamo a
produrre, il nostro obiettivo non sono i soldi, ma fare circolare le idee. Le
guide al consumo critico, sono raccolte di dati che invecchiano rapidamente,
per questo sarebbe molto più agevole la via informatica che la carta stampata.
Si potrebbe aggioare con più agilità e con costi molto minori. Attualmente
non ci riusciamo, perché non abbiamo forze sufficienti».

Passiamo ad affrontare con
Gesualdi i temi «caldi» del momento.

La crisi

«La crisi che stiamo vivendo poteva
essere l’occasione per cambiare, per ridurre il peso della finanza, che sta
alla base di questa situazione. Perché è stato l’uso della finanza in maniera
totalmente avida, fino ad arrivare alle scorrettezze, a portarci fin qui.

Chi gestiva e produceva titoli
tossici, lo faceva con consapevolezza, sapeva di proporre prodotti che non
erano basati su cose sicure e chi avrebbe comprato si sarebbe poi trovato nei
guai». Ci racconta Francesco Gesualdi, che da anni si occupa di modelli
economici alternativi.

Poteva essere l’occasione buona per
mettere dei freni alla finanza, e regolamentae fortemente il ruolo. In
particolare per creare una divisione tra banche commerciali e banche di
investimento, in modo che i clienti risparmiatori normali non venissero più
messi a rischio. Porre fine alle attività rischiose delle banche e riportarle
al loro mestiere: fare credito per l’economia reale. «Si poteva impedire la
speculazione su fondi di interesse comune (i debiti sovrani) e sarebbe stata
l’occasione per mettere in discussione lo scippo della sovranità monetaria agli
stati in Europa. Questi ultimi non riescono più a giocare il ruolo sovrano
proprio di un sistema democratico perché sono in balia del mercato», continua
Gesualdi.

Negli Usa è stata varata la legge Dodd
– Frank Act
(gennaio 2010), un tentativo di mettere regole alla finanza. Ma
quando si è trattato di scrivere i regolamenti attuativi, ci sono state fortissime
pressioni affinché tutto finisse in una bolla di sapone.

«In Europa, invece, tutte le scelte
si sono fatte con l’attenzione a non pestare i piedi alle banche o agli altri
fondi della finanza. Non si è tenuto in conto l’interesse collettivo. Peggio:
ci dicono che occorre assecondare le ricette speculative dei mercati, perché
questi sono così potenti che se per caso osiamo metterci contro di loro ci
puniranno. La grande ipocrisia: farci credere che più serviamo i mercati, più
facciamo i nostri interessi, perché evitiamo il peggio. È una politica
chiaramente contro la collettività che pone tutte le premesse per andare sempre
più a fondo».

Una «conversione culturale»

Ma la crisi potrebbe anche avere
effetti positivi, come quelli di indurre la gente a consumare meno e meglio.
Secondo Gesualdi: «Questa situazione sta facendo pagare le famiglie, ma senza
che queste abbiano fatto un percorso di crescita interiore. Sarebbe positivo se
ci fosse una consapevolezza, una conversione culturale. Ma se questa è vissuta
soltanto come un’imposizione estea, una maledizione, allora c’è il rischio
che si alimenti il populismo più gretto che promette l’impossibile. Oggi invece
bisogna avere il coraggio di sfidare i mercati. Chi non lo fa (i politici, ndr)
e propone solo riduzione di tasse o si butta nel taglio delle spese dei
servizi, che quindi saranno poi pagati, ancora una volta, dalle famiglie, ci
sta prendendo in giro».

Ma il Cnms ha delle sue proposte
per contrastare i mercati?

«Primo: mettere regole che
impediscano la speculazione sul debito pubblico. Secondo: quando un popolo è in
difficoltà per diverse ragioni, non deve pagare soltanto la gente, rinunciando
ai propri diritti, ma anche i creditori, tanto più che molti di loro hanno già
lucrato sul debito pubblico. Terzo: arrivare più in là e riformare la Bce
(Banca centrale europea), facendo tornare la sovranità monetaria sotto governi
e parlamenti, affinché la moneta sia gestita per la piena occupazione e per
garantire la stabilità del sistema economico. Bisogna uscire dalla logica, su
cui è improntata oggi la Ue, per cui la moneta è gestita per permettere alle
banche di arricchirsi».

Si è visto che con un meccanismo di
decrescita i primi a rimetterci sono i lavoratori meno tutelati, che perdono il
posto di lavoro.

«Questo discorso vale se il quadro
di riferimento continua a essere questo sistema, basato sugli interessi delle
imprese e messo al loro servizio: è ovvio che i primi a rimetterci sono i più
deboli.

Non è possibile parlare di decrescita
senza mettere mano all’impostazione del sistema economico, con ristrutturazione
forte del ruolo del mercato, dell’economia pubblica e della moneta.

Occorre progettare un sistema
economico che funzioni secondo altri criteri. E non basta orientarsi verso una
vita più sobria, più eco compatibile a livello di singola famiglia. Dobbiamo
ripartire dalla domanda: qual è la funzione dell’economia? Se l’obiettivo è
vivere tutti in maniera dignitosa, sappiamo di dover rispettare una serie di
limiti che ci impongono il pianeta e gli impoveriti della terra. Loro hanno
diritto di accrescere il proprio consumo e la propria produzione, ma potranno
farlo soltanto se noi accettiamo di sottoporci a una cura dimagrante».

Lavoro ed economia pubblica

Secondo il fondatore del Cnms
occorre introdurre dei cambiamenti di carattere culturale, a partire dal
lavoro.

Si chiede: qual è la funzione del
lavoro? Se l’unica strada per soddisfare i nostri bisogni è il mercato, la
funzione del lavoro è guadagnare un salario, perché per entrare nel mercato
abbiamo bisogno di denaro. Allora dobbiamo vendere il nostro tempo.

«Per ribaltare questa logica diremo
che la funzione del lavoro non è guadagnare un salario ma garantire i nostri
bisogni. Altre possibilità si realizzano attraverso il «fai da te», ma anche la
solidarietà collettiva. Un luogo dove non si compra nulla, ma si ottiene
qualcosa grazie a un patto di solidarietà che abbiamo fatto al nostro interno»
sostiene Gesualdi.

«È il principio dell’economia
pubblica. La domanda nuova è come farla funzionare senza che essa dipenda  dalla crescita generale dell’economia.

Io dico che bisogna eliminare la
dipendenza dell’economia pubblica dal denaro, perché è questo che la tiene
legata al resto dell’economia.

Ci vuole un altro modo di concepire
la partecipazione, che non si fermi a eleggere i nostri rappresentanti nelle
istituzioni, ma si spinga fino al coinvolgimento nei servizi. Questo richiede
che ci sia una certa organizzazione, un apparato di apprendimento.

Ma il problema più serio è la
nostra chiusura mentale: noi non accettiamo che ci possa essere una dimensione
collettiva alla quale dedicare parte del nostro tempo. È così fuori dal nostro
immaginario che la viviamo come un’oppressione infinita».

Idee queste sperimentate in
piccolo, in comunità e gruppi circoscritti di persone, molto difficili da
estendere a livello paese. Dice Gesualdi: «Dobbiamo ricostituire le comunità.
Poi il livello organizzativo dipende dal tipo di servizio considerato. Ci sono
dei servizi che partono dal condominio. Ad esempio gli anziani: si può dare una
risposta a livello condominiale, se gli abitanti sono disposti a farsi carico
delle situazioni di bisogno degli anziani che vivono nel palazzo. Ci sono
alcuni che necessitano di assistenza specializzata, altri hanno bisogno che si
faccia loro la spesa, o che si tenga loro la cucina pulita.

Possiamo immaginare di risolvere il
problema degli anziani con un esercito di assistenti domiciliari pagati? Non lo
può fare neanche la ricchissima Svezia. O ci inventiamo un altro tipo di
coinvolgimento oppure andremo verso il degrado sociale più spaventoso. I
livelli organizzativi vanno adattati a quella che è la peculiarità del servizio
da garantire. Tanti servizi vanno riportati al livello micro del territorio,
compreso quello sanitario. Parlando di cura, molte malattie sono banali e si
possono curare nel piccolo centro, con pochi posti letto. Oggi questa logica
non è pensabile perché ci scontriamo con la questione dei costi: l’aspetto
monetario diventa ostacolo. Con strutture che diano servizi gratuiti, e nel
contempo godano anche di lavoro gratuito, il problema monetario non ci sarebbe
più.

Penso a migliaia di microstrutture
a livello di comunità che replicano lo stesso servizio e soddisfano quindi i
bisogni».

Marco Bello

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Marco Bello




EMI 3: L’Immagine del Missionario

Tre intellettuali «leggono» la missione in italia
Una società che cambia. Un ruolo e un’immagine quelli
dei missionari, che attraversano i secoli. Ma cosa sono oggi i missionari
nell’immaginario collettivo italiano? Lo abbiamo chiesto a personaggi «non
sospetti».

Come sta cambiando, nel nostro paese, l’immagine dei
missionari e della missione? Vale a dire: a mezzo secolo dal documento
conciliare Ad gentes e dalla definitiva decolonizzazione, a oltre venti
dalla fine dell’utopia comunista e oltre dieci dall’11 settembre 2001, nel
contesto di un mondo in fuga (T. Giddens) e sempre più globalizzato. E mentre
la storia sembra al di fuori del nostro controllo, e noi non sappiamo dove
stiamo andando.

Le prime grandi missioni delle chiese cristiane fuori
dall’Europa – dopo la stagione pionieristica del primo millennio d.C. – erano
intrecciate al colonialismo, dal sedicesimo al ventesimo secolo: spagnoli e
portoghesi portavano con sé i loro frati mendicanti, così come olandesi e
inglesi i loro missionari protestanti.

I missionari potevano, di volta in volta, sostenere o
criticare i conquistatori, ma avevano in comune il senso di dove la storia si
stava dirigendo: verso il dominio occidentale del mondo. Verso la civiltà
cristiana. Un dato che, in ogni caso e al di là della buona fede dei singoli,
determinò il panorama della scena missionaria.

Nella seconda metà del secolo scorso, la missione si è
venuta a trovare in un nuovo contesto: il conflitto tra i due blocchi di
potenze, quello orientale e quello occidentale, tra il comunismo e il
capitalismo. Alcuni missionari possono aver pregato per il trionfo del
proletariato e altri per la sconfitta del comunismo ateo, ma tale conflitto
rappresentava il palcoscenico inevitabile dell’opera missionaria.

Ora, i missionari non vengono più
mandati per nave verso paesi sconosciuti e, quasi ovunque, non sono più lontani
che un giorno di viaggio. In un quadro così frastagliato, quanto e com’è mutato
l’immaginario collettivo sul missionario e la missione in Italia (un paese che
sta vivendo la stagione di passaggio dalla religione unica degli italiani
all’Italia delle religioni)? Abbiamo cercato di capirlo interrogando alcune
personalità illustri della cultura laica nazionale: Salvatore Natoli, Annamaria
Rivera e Giuliano Vigini.

L’esperto e il filosofo

Per Giuliano Vigini, uno dei nomi più noti
dell’editoria, dalla vasta attività critica e bibliografica, l’impegno
missionario di religiosi e laici che operano in Italia ha un duplice effetto: «Da
un lato, quello di essere sempre uniti, in una tensione costante di fede e
carità, a tutti coloro che in tanti paesi offrono la loro vita per la
predicazione e la testimonianza al vangelo: orizzonte e paradigma di ogni
attività ecclesiale, come ha ribadito anche di recente Benedetto XVI». In tal
senso, «tutti coloro che, con la preghiera, il sostegno economico e l’impegno
diretto, cornoperano alla missione e insieme contribuiscono in Italia alla
formazione di una coscienza missionaria, sono come dei costruttori di ponti che
collegano e avvicinano mondi lontani, facendoli sentire parte integrante della
vocazione e della vita della Chiesa».

Dall’altro lato, si tratta di «essere attivamente
impegnati in questa terra di missione che – come tanti altri paesi di antiche
radici cristiane – è diventata l’Italia, anch’essa dunque da rievangelizzare
per essere restituita alla fede viva del vangelo». Peraltro, «in questa società
sempre più crocevia di fedi, lingue e culture, il missionario è chiamato anche
a nuovi compiti: l’ascolto e il dialogo religioso e interculturale, la
partecipazione ai problemi e alle sofferenze della gente, la solidarietà sempre
più generosa verso i più poveri, antichi e nuovi».

A parere di Salvatore Natoli, docente di filosofia
teoretica presso l’Università di Milano Bicocca, un pensatore dichiaratamente
laico eppure aperto al confronto con le istanze cristiane, per cogliere
l’immagine del missionario occorre evidenziare due aspetti, complessivamente in
sintonia con quanto sostiene Vigini: «Prima di tutto, visto il sempre più
profondo processo di secolarizzazione, egli è colui che s’impegna per la nuova
evangelizzazione, dato che viviamo ormai in una terra pagana. In secondo luogo,
il missionario è poi colui che si propone di fornire delle risposte sensate ai
nuovi bisogni, cercando di porre un freno alla dilagante miseria, di carattere morale
e materiale, impegnandosi dunque in un’opera di misericordia morale o corporale».

Riguardo all’interrogativo su quale immagine dei
missionari abbiano i nostri connazionali, Vigini ammette che, non conoscendo
indagini o sondaggi in tal senso, gli è possibile semplicemente esprimere una
sensazione personale: «Gli italiani, orientati in questo senso anche da tante
trasmissioni e immagini televisive, vedono prevalentemente il missionario
impegnato in attività filantropiche e sociali. Costruiscono case, ospedali,
scuole; si curano della miseria, delle malattie e delle necessità di tante
persone che, senza la loro presenza e il loro lavoro, sarebbero abbandonate a
se stesse. Per questo loro impegno, i missionari sono certamente apprezzati e
aiutati dagli italiani». Tuttavia, egli conclude che «tutto questo rischia di
mettere un po’ in ombra, nell’opinione corrente, l’obiettivo religioso primario
della loro vocazione».

Secondo Natoli, presso gli italiani la figura del
missionario – non dandosi oggi, in realtà, una riflessione significativa al
riguardo – risulta molto più sfumata, rispetto al passato: «Peraltro, ho
l’impressione che si conceda loro una larga fiducia, particolarmente sotto il
profilo di esercitare un’assistenza alle popolazioni coinvolte». Per questo,
alla fine, il loro giudizio pare a Natoli comunque positivo.

Infine, ma non da ultimo per importanza, è lecito
domandarsi quanto l’azione dei missionari in vari ambiti (lotta alla fame nel
mondo, nuovi stili di vita, beni comuni, mondialità, dialogo interreligioso,
lotta al razzismo…), raccontati anche attraverso la Emi, sia servita per
diffondere sia tali temi sia la loro voce in Italia. Secondo Vigini, è
innegabile che tale azione sia servita, e non poco: «Quanto i missionari fanno
in molti campi è servito in particolare a radicare negli italiani due
convincimenti: che pochi come loro si spendono per il bene degli altri e che ci
si può fidare di loro, perché sono testimoni credibili». Mentre «sarebbe anche
importante far capire la radice e lo spirito del servizio che i missionari
svolgono per il bene della chiesa e dell’uomo».

Più articolata la riflessione di Natoli in proposito: «Il
missionario ci permette di fare un’opera di transfert: piuttosto di
impegnarmi in prima persona in un cambiamento individuale, è più semplice fare
l’offerta al missionario, cosa che ci fornisce sollievo pur non producendo una
trasformazione interiore». Alla fine, il rischio è di procurarsi un alibi,
perché «monetizzare la carità è facile, in quanto ci evita di entrare in
contatto diretto con la sofferenza».

L’antropologa

Intriganti sono poi le considerazioni di Annamaria
Rivera, antropologa, saggista, scrittrice, docente di etnologia e di
antropologia sociale presso l’Università di Bari, editorialista per i quotidiani
Il Manifesto e Liberazione, che, interrogata in merito, afferma: «Fino
ad alcuni anni fa i missionari erano per me principalmente quelli di cui si
parla nella letteratura antropologica. Ciò che sapevo di loro riguardava,
dunque, lo straordinario contributo alla conoscenza delle lingue locali, il
patrimonio d’informazioni e conoscenze sulle più varie popolazioni e culture
esotiche, accumulato nel corso dei secoli, la redazione delle prime monografie
etnografiche, quindi il contributo implicito alla nascita dell’antropologia: la
disciplina che ho insegnato per alcuni decenni nell’università e che pratico
nel lavoro di ricerca.

Sapevo anche del loro rapporto complesso con
l’espansione coloniale: dapprima strenui oppositori del sistema schiavistico e
appassionati difensori dei diritti delle popolazioni indigene, poi – in epoca
contemporanea, quando si generalizzarono i movimenti per l’indipendenza dei
popoli colonizzati compromessi talvolta con il colonialismo. E tuttavia la loro
vocazione universalista, mutuata dal cristianesimo, il più delle volte li mise
al riparo dai miti nazionalisti e dalle loro conseguenze nefaste».

Nel 2006, ad Annamaria capita di trovarsi a tenere una
conferenza durante un convegno organizzato da un mensile missionario, sia pure sui
generis
: «Dei missionari avevo dunque un’esperienza per lo più indiretta e
libresca nonché scarsamente aggiornata al tempo presente. Finché fui invitata
come relatrice in uno dei convegni del Cem Mondialità, a Viterbo. Fu
un’esperienza inaspettata ed entusiasmante poiché vi trovai molto di ciò che
credevo irrevocabilmente perduto con la fine degli anni ’70 e del quale
conservavo acuto rimpianto: la capacità di rendersi comunità – almeno per
alcuni giorni – condividendo convivialità e calore umano, ma anche competenza,
spirito critico, non conformismo, insieme con il senso della ricerca e
dell’impegno, dell’ironia e del gioco. Vi trovai soprattutto un’attitudine che
sembra ormai perduta nella nostra società (intendo dire nei più vari ambienti
professionali, sociali e politici dell’Italia dei nostri giorni): l’interesse
verso l’altro/a e la tendenza a valorizzarlo/a e a valorizzarsi reciprocamente.

Fu in quella occasione che conobbi un saveriano, padre
Domenico Milani. Ne fui colpita: il gran vecchio, sagace e dolce, con un gran
senso dell’umorismo, sapeva raccontare in un modo che non poteva essere più
accattivante. Narrava dei suoi incontri con donne e uomini africani,
soprattutto congolesi, con una leggerezza pari alla drammaticità della loro
condizione. Più tardi, prendendo a pretesto una visita alla preziosa collezione
etnografica conservata nel rifugio silenzioso e solenne dei saveriani di Parma,
riuscii a incontrarlo e a salutarlo per l’ultima volta».

Gli hippies della missione

Non fu, quello, peraltro, l’unico suo rapporto con il
mondo missionario: «In seguito ho avuto altre occasioni per partecipare alle
iniziative ispirate dai saveriani: un articolo per Missione oggi e
ancora altri appuntamenti di Cem Mondialità. Fino al più recente, il 17
marzo 2012, dedicato ai Nuovi spazi dell’intercultura, quando fui
invitata a parlare delle nuove forme di razzismo in Italia e dei possibili modi
per contrastarlo e superarlo, fra i quali le pratiche interculturali. Come
sempre, il convegno fu arricchito da momenti conviviali e da una performance
teatrale interattiva. Anche quest’ultima all’insegna dell’imprevedibile, del
non convenzionale, perfino dello spiazzante.

Fu mia figlia, che avevo coinvolto nella performance, a
offrirmi una chiave possibile per definire quello stile – al tempo stesso laico
e spirituale, impegnato e lieve, inteazionalista e comunitario – di leggere e
vivere la realtà. Con una battuta ironica e folgorante: “Sono dei veri hippie
e non hanno bisogno di droghe!”». Fino a concludere: «A pensarci bene, in fondo
quella di mia figlia non era solo una boutade. A caratterizzare il
movimento hippie, infatti, furono il pacifismo integrale, il senso
comunitario, l’esaltazione dell’amore e della fratellanza, l’ideologia mite e
non dottrinaria, la matrice spirituale attinta al pensiero di Gesù Cristo,
Buddha, Francesco d’Assisi, Gandhi…; nonché la controcultura che privilegiava
la performance, il teatro di strada, la musica popolare».

Ecco. Senza pretese di esaustività, ovviamente, qualche
idea in più ce la siamo fatta. Anche se il mosaico è lungi dall’esser esaurito,
e le sfaccettature della figura del missionario di oggi, sospeso tra una società
di fatto postcristiana e un Dio che sta cambiando indirizzo, posizionandosi
sempre più spesso a Sud dell’Equatore, sono – ammettiamolo – ben difficili da
afferrare pienamente.

Brunetto Salvarani

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Brunetto Salvarani




EMI 2: Pagine “missionarie”

1973 – 2013: storia di una
piccola-grande casa editrice

Era il 1973. All’inizio furono in
quattro. Oggi gli istituti missionari che sostengono la Emi sono 15. Grazie ad
alcune intuizioni precise, la casa editrice seppe riempire uno spazio culturale
prima vuoto. L’attuale crisi dell’editoria la scuote, ma l’Emi sa rinnovarsi.
Parlano i testimoni di ieri e di oggi.

Ha fatto conoscere al pubblico i
volti dei grandi protagonisti della chiesa, del mondo missionario, delle
religioni. Ha anticipato l’attenzione di massa su temi caldi come la giustizia
e la pace, la salvaguardia del creato, i nuovi stili di vita, il dialogo tra le
fedi. Di più: negli scritti dei pionieri e anticipatori della sua avventura,
per prima diede voce ai popoli di quello che allora veniva chiamato «il terzo
mondo», e riuscì a focalizzare i riflettori mediatici su di esso, sulle sue
emergenze – la fame, l’anelito all’indipendenza – e soprattutto sulle sue
ricchezze, a cominciare dalla rivendicazione del proprio protagonismo. L’Emi, Editrice missionaria italiana, ne ha fatta di strada negli
ultimi quarant’anni.

L’unione fa la forza

Ad aprile questa vitale espressione
degli istituti ad gentes italiani festeggerà l’anniversario di
quell’esperimento che – era il 1973 – vide in prima fila Comboniani, Missionari
della Consolata, Pime e Saveriani.

L’idea era ridare slancio a una
proposta culturale avviata negli anni Cinquanta da alcuni membri dei quattro
istituti, le cui case editrici avevano cominciato a curare insieme una collana
di teologia della missione e una per la conoscenza dei popoli. «In quegli anni
si viveva un entusiasmo missionario oggi inimmaginabile», ricorda padre Piero
Gheddo, del Pime, tra i promotori di quella primissima iniziativa insieme al
saveriano Walter Gardini. «In quel clima, favorito da tre encicliche, la Evangelii
praeconese,
la Fideidonum di Pio XII e la Princeps pastorum
di Giovanni XXIII, nacquero anche la Federazione della stampa missionaria
italiana (Fesmi), i primi congressi del laicato missionario italiano, l’équipe
di visitatori missionari dei seminari italiani – continua padre Gheddo – e,
ancora, assistemmo alla partenza dei primi sacerdoti fidei donum, nel
1957, o alla nascita delle “Settimane di studi missionari” dell’università
Cattolica, nel 1960».

A metà degli anni Sessanta,
tuttavia, le pubblicazioni unitarie degli istituti missionari cominciarono, per
varie ragioni, a languire. L’entusiasmo originario si era affievolito, forse
anche per la sensazione di un diminuito interesse del pubblico. Fu allora che
entrò in gioco un giovane comboniano, padre Ottavio Raimondo, che nel ’67 era
stato assegnato dai suoi superiori alla casa editrice Nigrizia.

Padre Raimondo riuscì a vincere lo
scetticismo degli altri missionari coinvolti nell’edizione delle due collane
comuni, per fare un tentativo nuovo: «Nel 1973 i quattro istituti maschili
decisero di congelare per quattro anni le rispettive editrici, per farle
confluire tutte nell’Emi, senza però che ancora avesse una personalità
giuridica», racconta padre Ottavio, che sarebbe poi diventato il direttore «storico»
dell’editrice missionaria, guidandola per 21 anni.

«Ci dicemmo: “Vediamo se funziona,
altrimenti toeremo ognuno alle nostre attività”». Invece, indietro non si
toò più. I primi anni di attività diedero subito frutti positivi, e il 17
novembre 1977 nacque la cornoperativa Sermis (Servizio missionario), con lo scopo
di dare autonomia giuridica all’Emi, la cui sede fu fissata a Bologna, e tenere
aperta la porta ad altre iniziative in campo culturale (come sarebbe successo
nel 1997, con la nascita dell’agenzia di stampa Misna).

Ben presto, ai quattro soci
fondatori si aggiunsero altri istituti, maschili e femminili, fino a
raggiungere il numero attuale di quindici: Società Delle Missioni Africane, Missionarie
di Nostra Signora degli Apostoli, Missionarie Comboniane, Padri Bianchi
(Missionari d’Africa), Verbiti, Missionarie della Consolata, segretariato
unitario per le missioni dei Cappuccini, Missionarie Secolari Comboniane, Comunità
Redemptorhominis, Missionarie dell’Immacolata e Saveriane.

Le intuizioni

«Le nostre intuizioni più
importanti, in origine, furono due», spiega padre Ottavio facendo un bilancio
di questi decenni. «Da una parte, gli istituti si resero conto che per incidere
nella realtà italiana, portando sul territorio l’idea della missione, dell’alterità, della diversità, era necessario unirsi,
sia per ottimizzare le energie sia per ovviare a una certa auto referenzialità
di ognuno. Dall’altra, l’Emi diede spazio alle voci delle giovani chiese del Sud del mondo, di cui, negli anni del
dopo Concilio, si sentiva il bisogno di conoscere la grande vitalità e
ricchezza.

Traducevamo i documenti delle
Conferenze episcopali. Ricordo che pubblicammo gli atti della Conferenza
dell’Episcopato latinoamericano di Puebla, nel ’79, prima ancora che uscissero
localmente!».

Negli anni seguenti, secondo padre
Ottavio, furono altre due le intuizioni che fecero dell’editrice dei missionari
una ricchezza per l’intera società italiana: «Si tratta della dimensione dell’interculturalità, che approfondimmo dagli anni
Ottanta, soprattutto grazie all’impulso del Centro saveriano di animazione
missionaria
e del suo Centro di educazione alla mondialità, e del
tema dei nuovi stili di
vita, che
sviluppammo negli anni Novanta, in particolare con l’apporto del Centro
nuovo modello di sviluppo
, cornordinato da Francesco Gesualdi (vedi articolo)».

Quando padre Ottavio riprese la
guida dell’Emi al rientro dalla lunga parentesi missionaria in Messico, dal ‘79
al ’93, era stata data alle stampe la prima edizione della «Guida al consumo
critico», destinata a diventare un bestseller da 200 mila copie. Fu
quello il periodo in cui l’Emi divenne catalizzatrice di un’attenzione che
cominciava a esprimersi in alcuni settori della società su temi appunto come
stili di vita alternativi al modello consumistico, finanza etica, problematiche
ecologiche: un’attenzione che solo più tardi sarebbe stata fatta propria anche
dai grandi editori.

Molti dei titoli di questo filone,
con il loro successo di vendite, aprirono all’editrice missionaria anche le
porte delle grandi librerie laiche e dei circuiti legati alle manifestazioni
dell’associazionismo, alle fiere, alle botteghe del mondo.

Un altro fronte che portò ottimi
risultati fu quello dei libri di testo per l’insegnamento della religione
cattolica. Il trend positivo continuò fino alla metà degli anni Duemila.
Ma lo spettro della crisi economica cominciava ad aleggiare.

Arriva la crisi

«Arrivai alla direzione dell’Emi in
un momento di passaggio non solo della nostra struttura, bensì globale»,
racconta padre Giovanni Munari, comboniano, che dopo trent’anni di missione in
Brasile prese le redini della casa editrice nel 2008. «La crisi ebbe degli
effetti pesanti su di noi, in modo diretto ma anche indiretto, visto che negli
ultimi anni avevamo lavorato molto con il mondo dell’associazionismo e vari
temi al centro dei nuovi titoli erano espressione della riflessione e delle
proposte provenienti proprio da quel mondo». Linfa di cui, negli ultimissimi
anni, i problemi economici hanno bruscamente interrotto il flusso.

«Ci siamo resi conto così che dovevamo
cercare di ritagliarci uno spazio nel mercato editoriale, che oggi è fortemente
competitivo, attraverso una serie di riforme, dagli aspetti grafici a quelli
contenutistici fino alla fisionomia delle collane», continua Munari. Una sfida
affrontata con successo, se è vero che la neo – quarantenne editrice è riuscita
a sopravvivere all’emergenza senza aiuti estei e continua ad aggiungere tra i
50 e i 60 libri ogni anno al suo catalogo, che oggi comprende oltre ottocento
titoli (dai volumi per l’infanzia alla recente collana di narrazioni).

Ora, però, è necessario guardare
avanti. Ma nell’attuale panorama editoriale e mediatico può esserci ancora
spazio per un’editrice missionaria? Il nuovo direttore dell’Emi Lorenzo
Fazzini, primo laico a occupare questo posto, è convinto di sì. «La narrazione
della missione, le tematiche dei nuovi stili di vita, il lavoro costante
sull’educazione, la prospettiva interculturale e interreligiosa sulle grandi
questioni contemporanee sono le peculiarità dell’Emi che si rafforzano oggi,
nell’epoca in cui la globalizzazione è un dato accertato, che non va subìto
passivamente, soprattutto dal punto di vista culturale e tanto più ecclesiale»,
afferma Fazzini. Certo serve «un surplus di fantasia, innovazione,
creatività, nella convinzione che la prospettiva missionaria, che tiene conto
del punto di vista dell’altro, che è costantemente in dialogo, che vive alla
frontiera dell’annuncio cristiano, è un arricchimento ineguagliabile per la
Chiesa ma anche per la società stessa».

La sfida è «rintracciare nuove
strade e intuire i luoghi della cultura di frontiera e di fecondità
significativa per l’annuncio missionario». Per farlo, l’intenzione è tornare a
puntare l’obiettivo sulla ricchezza – in termini di nuove prospettive di
indagine, riflessione e azione – che può venire dai paesi di missione. Fazzini
cita, tra l’altro, un personaggio come l’ex primo cittadino di Bogotà Ananas
Mockus, «esempio virtuoso di “anti politica” e di un civismo amministrativo
tutto da scoprire», la cui storia è raccontata dal volume di Sandro Bozzolo, «Un
sindaco fuori del comune», ma anche il neo cardinale di Manila Luis Antonio
Tagle, di cui Emi sta per pubblicare il primo libro in italiano, «Gente di
Pasqua». «Personalità e questioni “periferiche”, se affrontate con qualità,
possono diventare vincenti in quanto esemplificative di una cultura non
omologata». La missione, insomma, ha ancora pagine da scrivere.

Chiara Zappa

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Chiara Zappa




EMI 1: Missione di carta L’editrice Missionaria Italiana compie 40 anni

Questo dossier, oltre a ricordarci la storia della Emi, ci presenta uno
spaccato del mondo missionario in Italia – che la Emi stessa ha contribuito a
formare -, sui rapporti di tale mondo con la cultura, e ci porta la voce di uno
degli autori più popolari della Emi degli ultimi anni, Francesco Gesualdi.

40 ANNI BEN PORTATI

Unica nel panorama mondiale, la Emi, Editrice
missionaria italiana, nasce dall’intuizione e dalla caparbietà di alcuni
religiosi di quattro istituti missionari agli inizi degli anni ‘70. L’unione di
quattro case editrici è una sperimentazione che si rivela vincente.

L’editrice mette su carta storie missionarie, ma anche
diritti umani, idee innovative, nuovi stili di vita per un mondo più giusto,
equo ed eco compatibile. Senza trascurare i titoli di geopolitica riguardanti
paesi più o meno sconosciuti del mondo e crisi inteazionali. E tutto con un
angolo visuale molto particolare, dettato anche da una conoscenza approfondita
del terreno e delle problematiche.

La Emi diventa ben presto strumento di comunicazione e
di produzione di «cultura missionaria» in Italia. E non solo di cultura
missionaria, in quanto molto importante è il sodalizio con associazioni e
movimenti della società civile italiana, che trovano nella Emi un valido
alleato.

La Emi resiste alle crisi, e oggi
compie 40 anni di attività.

Per questo motivo, insieme alle
riviste «Mondo e Missione», «Missione Oggi» e «Nigrizia», «Missioni Consolata»
ha deciso di dedicare all’evento un piccolo spazio di riflessione. Nasce così
questo dossier, che oltre a ricordarci la storia della Emi, ci presenta uno
spaccato del mondo missionario in Italia – che la Emi stessa ha contribuito a
formare -, sui rapporti di tale mondo con la cultura, e ci porta la voce di uno
degli autori più popolari della Emi degli ultimi anni, Francesco Gesualdi.

Terminiamo con un augurio di altri 40 anni sempre sulla «cresta
dell’onda».

Marco Bello

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Marco Bello




Rendete a Cesare quel che è di Cesare | Rendete a Cesare (1)


Per andare al secondo articolo su Rendete a Cesare:

Quale Cesare abbiamo scelto come nostro Dio? Rendete a Cesare (2)


(Mc 12,13-17; Mt 22,15-22; Lc 20,19-26)

«Non abbiamo altro re che Cesare …Non avrai altri dèi di fronte a me» (Gv 19,15; Es 20,3)

 

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Premessa

Con MC di gennaio-febbraio 2013 abbiamo concluso il commento del racconto dello sposalizio di Cana, riportato nel vangelo di Giovanni al capitolo 2. In totale appena undici versetti che ci hanno impegnato per quattro anni, avendo iniziato nel febbraio 2009. È la prova che una vita sola non basta per leggere in profondità tutta la Bibbia o anche una parte di essa. Se fossimo solo riusciti a suscitare un po’ più di rispetto per la Parola di Dio, il nostro obiettivo, come autore e come rivista, è stato raggiunto. Di fronte ad ogni singola parola di Dio dobbiamo avere un sentimento di «ascolto» interiore perché essa non si esaurisce nel significato immediato, ma esige di scendere in profondità perché Dio è inesauribile. Se poi fossimo anche riusciti a suscitare un atteggiamento di rispetto che ci impedisce di «improvvisare», allora siamo proprio contenti e pensiamo di avere reso un servizio a noi e alla Chiesa. Il nemico più pericoloso della Scrittura è l’improvvisazione e il pressapochismo.
Ora cominciamo un nuovo ciclo. Per la verità avevo pensato anche di sospendere per un po’ questo servizio, per me molto impegnativo sotto ogni punto di vista (e anche costoso per l’aggiogamento); ne ho parlato anche con qualche amico che legge MC. Per poco non mi scomunicava, dicendomi che parlava anche a nome di altri. Ho ricevuto, infatti, segnali e suggerimenti dai nostri lettori per continuare. Li ringrazio tutti per le loro parole affettuose e riconoscenti. Mi ritengo un servo della Parola e nulla di più. Ho riflettuto molto, prima di prendere una decisione, e ora sono in grado di comunicare il mio progetto ai lettori di MC che pur non conoscendo, sono parte di me e del mio popolo con cui condivido l’Eucaristia e la ricerca di Dio.
Con la prossima primavera, dopo Pasqua, verso la fine di aprile, inizierò nella mia parrocchia di Genova una «Scuola di Sacra Scrittura», un Corso biblico organico e al contempo elementare, partendo dal presupposto che non conosciamo la Bibbia. Noi cattolici siamo soliti «sentire» la Parola di Dio quasi esclusivamente nella Liturgia, quindi in forma discontinua, ma poco sappiamo del «libro» in sé, la sua storia, il travaglio della sua formazione, i tempi della sua scrittura, dopo la sedimentazione della trasmissione orale. Molti dicono che si sono cimentati nella lettura della Bibbia, ma poi si sono dovuti arrendere perché «non ci capisco niente». È ovvio che ciò accada perché ai cattolici manca la conoscenza delle chiavi di lettura, gli strumenti storici, letterari e religiosi per capie la mentalità, il contesto storico, l’ambiente geografico e le circostanze delle varie fasi. Non possiamo leggere la Scrittura con la nostra mentalità occidentale perché è un libro, sintesi di una grande esperienza, nato in oriente e sviluppatosi in una cultura diversa dalla nostra, con linguaggi diversi dai nostri e con strumenti che bisogna conoscere. Diceva Pio XI ai seminaristi del Seminario Lombardo, già negli anni ’20 che «spiritualmente noi siamo semiti» ed è pertanto necessario acquisire una mentalità semitica, se vogliamo cogliere il senso proprio della Scrittura e dei suoi singoli libri.
Alla luce di questa premessa, sollecitato, pressato e minacciato dalla mia comunità, ho deciso di mettermi all’opera, iniziando un percorso che non so quando finirà, ma spero di riuscire ad offrire almeno gli strumenti necessari perché ciascuno possa cominciare a leggere e a pregare la Bibbia come il libro-codice della fede. Dopo una introduzione sulla composizione della Bibbia e la sua divisione, il corso prevede la lettura esegetica, centellinata, cioè approfondita dei primi 11 capitoli della Genesi, la storia dei Patriarchi nomadi da Abramo a Giacobbe, la grande epopea dell’esodo, che è l’atto fondativo di Israele come popolo, i profeti, l’esilio, la letteratura sapienziale, la preghiera sedimentata nei Salmi per giungere al dominio romano e diaspora d’Israele. In un secondo momento si passerà al Nuovo Testamento. Tutto questo esige preparazione, studio e tempo, molto tempo.
Poiché le richieste di partecipazione sono oltre ogni aspettativa, ho deciso che scriverò tutto il corso per poterlo pubblicare in un secondo momento. Per non privare i lettori di MC di questa opportunità, ho pensato che dal mese di giugno questa rubrica potrebbe ospitare il corso a puntate. Nel frattempo, per i mesi da marzo a maggio 2013, offro ai nostri lettori una lettura esegetica di un passo controverso del vangelo che spesso, anche dai vescovi, sento usare in modo maldestro e fuorviante, segno che nella Chiesa c’è bisogno non di catechismo, ma di «scuola della Parola», fatta in modo sistematico, continuo e progressivo. Spero di non essere andato fuori tema e mi auguro che i lettori di MC possano gradire questa proposta che ci impegnerà a lungo, finché il Signore ci darà la forza e la grazia di poterla realizzare. Passiamo quindi all’esegesi del testo sinottico: «Rendete dunque quello che è di Cesare a Cesare e quello che è di Dio a Dio» (Lc 20,25).

Rendete a Cesare … rendete a Dio»

(Mc 12,13-17; Mt 22,15-22; Lc 20,19-26)

Per comprendere il brano del vangelo è necessario capirne la portata, altrimenti lo si usa a sproposito, come comunemente fanno tutti, anche vescovi e cardinali, dimostrando così una strutturale «ignoranza delle Scritture» e fomentando interpretazioni che col vangelo non hanno nulla a che fare. San Girolamo già nel sec IV ci metteva in guardia: «Ignoratio Scripturarum ignoratio Christi est – L’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo» (S. Girolamo, Commento al profeta Isaia, Prologo; citato nella Dei Verbum 25). Il testo del versetto appartiene alla triplice tradizione sinottica (in Gv è assente), segno di una tradizione attestata a cui la comunità primitiva ha attribuito molta importanza: il testo si trova in Mt 22,15; Mac 12,21 e Lc 20,17. Di solito quando si cita questo versetto lo si applica senza alcuna mediazione alla separazione tra Stato e Chiesa: CesareDio come due dirimpettai antagonisti, stabilendo una forma di idolatria perché pone Cesare sullo stesso piano di Dio. In questo modo si fa «eis-egesi», si mette cioè dentro il testo la nostra comprensione (o se si vuole la nostra ideologia contemporanea, che però è estranea alla Scrittura) e non «es-egesi» che invece è la scienza che estrae dal testo il senso genuino nel rispetto della «mens» dell’Autore. Proviamo a lasciarci guidare dal testo nel suo contesto per capire che cosa i sinottici (Mc, Mt e Lc) vogliono dire con l’espressione citata. Leggiamo il testo

Il testo

Da un punto di vista critico le varianti testuali, abbastanza notevoli (segno di un percorso travagliato) specialmente in Mc e Lc non sono decisive per quanto concerne il contenuto perché riguardano prevalentemente la forma. In più il versetto decisivo, cioè la risposta di Gesù, è riportato dai tre sinottici in modo uniforme con piccole varianti di tipo stilistico. Nella nostra riflessione ci facciamo guidare dal testo di Lc che meglio esprime il contesto di complotto e di tensione. Leggiamo però in forma di sinossi i tre testi, avendo presente quando si parla di «erodiani» ci si riferisce al partito di cortigiani e sostenitori di Erode, favorevoli ai Romani; e il «denaro» che Gesù chiede di vedere è il denaro d’argento di Tiberio che recava l’immagine dell’imperatore, il quale in questo modo affermava la propria autorità su chiunque avesse avuto in mano la sua moneta.

Mc 12,(12).13-17
Mt 22,15-22
Lc 20,19-26
12E cercavano di catturarlo, ma ebbero paura della folla; avevano capito infatti che aveva
detto quella parabola contro di loro [contadini omicidi: cf Mc 12,1-12]. Lo lasciarono e se ne andarono.
15Allora i farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come coglierlo in fallo nei suoi discorsi. 19In quel momento gli scribi e i capi dei sacerdoti cercarono di mettergli le mani addosso, ma ebbero paura del popolo. Avevano capito infatti che quella parabola l’aveva detta per loro.
13Mandarono da lui alcuni farisei ed erodiani, per coglierlo in fallo nel discorso. 16Mandarono dunque da lui i propri discepoli, con gli erodiani, 20Si misero a spiarlo e mandarono informatori, che si fingessero persone giuste, per coglierlo in fallo nel parlare e poi consegnarlo all’autorità e al potere del governatore.
14Vennero e gli dissero: “Maestro, sappiamo che sei veritiero e non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno, ma insegni la via di Dio secondo verità. È lecito o no pagare il tributo a Cesare? Lo dobbiamo dare, o no?”. a dirgli: “Maestro, sappiamo che sei veritiero
e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno. 17Dunque, di’ a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?”.
21Costoro lo
interrogarono: “Maestro, sappiamo che parli e insegni con rettitudine e non
guardi in faccia a nessuno, ma insegni qual è la via di Dio secondo verità. 22È
lecito, o no, che noi paghiamo la tassa a Cesare?”.
15Ma egli, conoscendo la loro ipocrisia, disse loro: “Perché volete mettermi alla prova?
Portatemi un denaro: voglio vederlo”. 16Ed essi glielo portarono.
18Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: “Ipocriti, perché volete mettermi alla prova? 19Mostratemi la moneta del tributo”. Ed essi gli presentarono un denaro. 23Rendendosi conto della loro malizia, disse: 24“Mostratemi un denaro:
Allora disse loro: “Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?”. 20Egli domandò loro: “Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?”.
di chi porta l’immagine e l’iscrizione?”.
Gli risposero: “Di Cesare”.
21Gli risposero: “Di Cesare”.
Risposero: “Di Cesare”.
17Gesù disse loro: “Quello che è di Cesare rendetelo a Cesare, e quello che è di Dio, a Dio”. Allora disse loro: “Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”. 25Ed egli disse: “Rendete dunque quello che è di Cesare a Cesare e quello che è di Dio a Dio”.
E rimasero ammirati di lui.
22A queste parole rimasero meravigliati, lo lasciarono e se ne andarono. 26Così non riuscirono a coglierlo in fallo nelle sue parole di fronte al popolo e, meravigliati della sua risposta, tacquero.

–      Il testo di Mc 12,17 che sta alla base degli altri due (cf Mt 22,21 e Lc 20,25) tradotto alla lettera, è il seguente: «16Di chi è l’immagine (eikôn) e l’iscrizione? Ed essi risposero: “Di Cesare”. 17Gesù, quindi, disse loro: “Le cose [che sono] di Cesare restituite a Cesare, «e»  le cose [che sono] di Dio [restituite] a Dio”».

–      Luca a differenza di Mc aggiunge: «E disse quindi [Gesù] a loro: “Pertanto dunque/di conseguenza ri-date/restituite le cose [che sono] di Cesare a Cesare «e» le cose [che sono] di Dio [restituite] a Dio”».

Si capisce subito che la questione è solo una trappola perché qualunque risposta Gesù possa dare, lo metterebbe a mal partito: in caso di risposta affermativa, Gesù sarebbe stato additato al popolo come fautore dell’imperatore pagano; in caso di risposta negativa, poteva essere accusato presso l’autorità romana come sobillatore antigovernativo.

Osservazione morfologica: tra la prima parte e la seconda troviamo la congiunzione coordinante copulativa «kài – e» che qui ha valore fortemente «avversativo» perché Gesù intende riportare i suoi ascoltatori davanti alla loro responsabilità di avere messo sullo stesso piano «Dio» e «Cesare», cadendo così nell’apostasia. La congiunzione quindi non ha valore coordinante, ma oppositivo: non quindi «a Cesare quello che è di Cesare e (= allo stesso modo, contemporaneamente) a Dio quello che è Dio», ma «a Cesare quello che è di Cesare e (= ma al contrario, ritornate a restituire a Dio quello che è Dio», segno che i Giudei avevano confuso Cesare e Dio. Tutta la questione, come vedremo, riguarda non il potere, ma «l’immagine», cioè la propria identità in relazione al Creatore.

Una questione antica

Per capire il brano del vangelo bisogna andare indietro, ad uno scritto del sec. VII a. C. che a sua volta descrive con ogni probabilità eventi avvenuti nel sec. XIII a. C. di cui però è difficile se non impossibile stabilire la cronologia. Il testo appartiene al ciclo dei «Giudici di Israele», qui l’ultimo di essi, Samuele, a cui la tradizione biblica attribuisce due libri, il 1 e 2 Samuele che nella Bibbia ebraica corrispondo al 1 e 2 libro dei Re.

 «1Quando Samuele fu vecchio, stabilì giudici d’Israele i suoi figli. 2Il primogenito si chiamava Gioele, il secondogenito Abia; erano giudici a Bersabea. 3I figli di lui però non camminavano sulle sue orme, perché deviavano dietro il guadagno, accettavano regali e stravolgevano il diritto. 4Si radunarono allora tutti gli anziani d’Israele e vennero da Samuele a Rama. 5Gli dissero: “Tu ormai sei vecchio e i tuoi figli non camminano sulle tue orme. Stabilisci quindi per noi un re che sia nostro giudice, come avviene per tutti i popoli”. 6Agli occhi di Samuele la proposta dispiacque, perché avevano detto: “Dacci un re che sia nostro giudice”. Perciò Samuele pregò il Signore. 7Il Signore disse a Samuele: “Ascolta la voce del popolo, qualunque cosa ti dicano, perché non hanno rigettato te, ma hanno rigettato me, perché io non regni più su di loro”» (1Sam 8,8).

La richiesta di un re su Israele è illegittima perché il popolo scelto da Dio per la sua epopea di salvezza dovrebbe essere solo Yhwh, il Dio liberatore e creatore (cf 1Cr 16,31; Sal 93/92,1; 96/95,10; 97/96,1; 99/98,1Gv 12,13). Da questo momento comincia un tempo burrascoso per Israele e la monarchia non attecchirà mai, ma sopravvivrà solo per un paio di secoli e sarà causa di distruzione, di morte e di afflizione per tutto il popolo. Non bisogna perdere di vista questo testo quando leggiamo il racconto dello scontro tra i capi dei sacerdoti e Gesù perché di questo si tratta: stabilire chi è il re d’Israele, anzi chi è il Dio dei capi dei sacerdoti e degli scribi.

Il popolo esige un re come giudice «come avviene per tutti i popoli» (1Sam 8,5). Il popolo sa che il re lo dissanguerà, che ruberà i loro figli e li manderà in guerra, che rapirà le loro figlie per farne schiave nel suo harem, che farà solo gli interessi di sé, della sua famiglia e di coloro che lo adulano, eppure il popolo vuole un re per essere governato da un aguzzino, avverando la Parola di Dio detta per mezzo di Samuele:

«10Samuele riferì tutte le parole del Signore al popolo che gli aveva chiesto un re. 11Disse: “Questo sarà il diritto del re che regnerà su di voi: prenderà i vostri figli per destinarli ai suoi carri e ai suoi cavalli, li farà correre davanti al suo cocchio, 12li farà capi di migliaia e capi di cinquantine, li costringerà ad arare i suoi campi, mietere le sue messi e apprestargli armi per le sue battaglie e attrezzature per i suoi carri. 13Prenderà anche le vostre figlie per farle sue profumiere e cuoche e fornaie. 14Prenderà pure i vostri campi, le vostre vigne, i vostri oliveti più belli e li darà ai suoi ministri. 15Sulle vostre sementi e sulle vostre vigne prenderà le decime e le darà ai suoi cortigiani e ai suoi ministri. 16Vi prenderà i servi e le serve, i vostri armenti migliori e i vostri asini e li adopererà nei suoi lavori. 17Metterà la decima sulle vostre greggi e voi stessi diventerete suoi servi. 18Allora griderete a causa del re che avrete voluto eleggere, ma il Signore non vi ascolterà”. 19Il popolo rifiutò di ascoltare la voce di Samuele e disse: “No! Ci sia un re su di noi. 20Saremo anche noi come tutti i popoli; il nostro re ci farà da giudice, uscirà alla nostra testa e combatterà le nostre battaglie”» (1Sam 8,10-20).

Gli anziani d’Israele chiedono al profeta un re «come avviene per tutti i popoli» e Dio li accontenta, consapevole che hanno rifiutato lui, loro liberatore e creatore. La storia di ripete, perché i loro discendenti, faranno lo stesso aggravando la situazione. Non più davanti ad un profeta, ma davanti al procuratore romano, rappresentante dell’imperatore pagano che occupa la terra santa d’Israele, essi proclamano ufficialmente di non avere altro Dio che Cesare e quindi consegnano la loro fedeltà ad un re usurpatore in sostituzione di Dio. [Continua – 1]

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Paolo Farinella




CARI MISSIONARI

Colombia, viaggio di Vita

Sono
Alberto Cancian, un ventisettenne che abita in provincia di Pordenone. A marzo
del 2012 sono andato in Colombia, a trovare per alcune settimane lo
stimatissimo p. Bruno Del Piero, mio compaesano e da cinquant’anni missionario
della Consolata in Colombia, attualmente a Florencia, nel Caquetà. L’esperienza
è stata molto forte e formativa. Ad ottobre, sempre del 2012, il nostro paese,
Roveredo in Piano, ha celebrato i 100 anni di dedicazione della Chiesa
Parrocchiale, p. Bruno era presente ed in questa occasione è stato pubblicato,
con il contributo della parrocchia e di alcuni enti del luogo ed il patrocinio
del comune, il libro «Colombia. Viaggio di Vita». è un piccolo diario di viaggio con testi e foto che parlano
della mia esperienza ma soprattutto dell’impronta che p. Bruno ha lasciato in
quelle terre nelle quali è smisuratamente amato in cinquant’anni di missione.

L’occasione
ha quindi fatto sì che in paese e un po’ più in là, si sia potuta toccare con
mano l’opera di questo missionario amato dalla nostra gente e nominato per
l’occasione Cittadino Benemerito. Sia le presentazioni che ho fatto in
questi mesi che le vendite del libro hanno avuto un successo davvero
soddisfacente (vedi qui sopra il volantino promozionale per Natale).
Tutto il ricavato della vendita è devoluto a p. Bruno per la sua missione.

Ho
pensato che sarebbe bello, soprattutto per lui e per il nostro paese che questo
venisse menzionato nella vostra ricchissima rivista. Ringraziandovi
anticipatamente

Alberto Cancian
Email 09/01/2013

Grazie, Don Paolo

Carissimi,

dopo aver letto l’ultima puntata del «racconto
delle nozze di Cana» del magistrale don Paolo Farinella, non ho potuto che
mettermi al computer e scrivervi queste poche righe per ringraziare voi
tutti della redazione per la scelta stupenda di voler tradurre, spiegare anche
ai lontani (inteso come lontananza chilometrica) il profondo significato nascosto
nella Parola di Dio, ma soprattutto per ringraziare l’estensore.

Ho
iniziato a leggere quasi per caso il primo articolo a commento della parabola
del figliol prodigo, e non sono più riuscito a staccarmi. Attendevo e attendo
quasi con ansia la rivista per attingere a quegli articoli quasi fossero una
sorgente d’acqua limpida. Il procedere ossessivamente lento, la disamina
estrema di ogni singola parola alla ricerca di quanto in essa era celato dallo
Spirito ispiratore, la metodica analisi del vero e originale significato
delle parole del testo a noi pervenuto, il costante raffronto con brani
dell’Antico Testamento, hanno fatto sì che queste pagine riuscissero
ad aprire orizzonti mai finora osservati (almeno da me!).

Spesso
ci si accontenta, noi poveri mortali indaffarati, di rincorrere le fatuità che
la modea cultura ci propina, di quello che una lettura superficiale,
mediocre e ripetitiva ci trasmette senza che nemmeno un dubbio ci oscuri
le certezze interpretative antiche. Ma basta, almeno a me è capitato,
che qualcuno ti indichi dove mettere il piede, ti mostri quale sentirnero
percorrere, per trovarti a camminare in un paesaggio diverso, mai
esplorato, ma affascinante.

Grazie
a voi quindi e un particolare grazie a don Paolo Farinella per il suo prezioso
apporto e per la sua instancabile ricerca del cuore inscrutabile e profondo che
Dio Padre ci ha voluto mostrare.

Giacomo Fanetti 
11/01/2013

Qualcuno
ha già telefonato per sapere quando le 38 puntate su Cana diventeranno un
libro. Per ora non ci sono notizie a riguardo. Se don Paolo deciderà di fae
un libro, vi informeremo tempestivamente.

Tutto o niente?

Cari
Missionari,
sperando di fare cosa non sgradita, vorrei cogliere questa occasione per dirvi
che la scelta di privilegiare le testimonianze dei missionari, dei volontari e
di coloro che si recano fisicamente nelle terre di missione, lasciando da parte
la politica e la polemica politica, è apprezzabile. Certi argomenti o non si
toccano per niente oppure vanno approfonditi con un po’ di ragionevolezza
sentendo tutte le campane, quelle dei simpatici e quelle dei meno simpatici…

Se
si tirano in ballo questioni come l’Ici, l’Imu, lo spread, il decreto
salva Italia, il contributo dato dal governo Monti e segnatamente dal ministro
Riccardi al rilancio della cooperazione con i paesi dell’Asia, dell’ America
Latina e dell’Africa, bisogna considerare i risvolti comodi ma anche quelli
scomodi, imbarazzanti, bisogna avere l’onestà di riconoscere le novità positive
ma anche quelle negative… Bisogna soprattutto avere la delicatezza e la
cortesia di chiamare le cose con il loro vero nome, altrimenti si rischia di
diventare complici di chi vuol continuare a simulare, a camuffare a frodare.

Per
esempio, quando si parla di Ici o di Imu, non ci si può limitare a qualche
fugace allusione polemica contro chi vorrebbe imporre queste tasse alla Chiesa
cattolica e alle sue attività di evangelizzazione e di promozione umana. Non
bisogna vergognarsi di definire l’Ici e
l’Imu per quello che sono realmente, ovvero macchine divora-stipendi e
divora-pensioni, non imposte comunali, non imposte municipali, non imposte
sugli immobili, non imposte federaliste.

Leggendo
certi vostri articoli, sembrerebbe di capire che anche per voi Monti e Riccardi
hanno giovato all’Italia e alla sua immagine in Europa e nel mondo (a
cominciare da quello povero), facendo cose che i precedenti governi non avevano
fatto. A me invece risulta che l’ultima legge di stabilità assicura 8,5
miliardi di euro a Finmeccanica, la più grande produttrice ed esportatrice
(anche nel mondo povero, quello con cui si cerca di migliorare la cooperazione)
di armi e sistemi d’arma made in Italy e 2,5 miliardi alla TAV. Risulta
anche che l’anno di Monti e della cura Monti si è concluso con la retrocessione
dell’Italia dal 69° al 72° posto nella classifica di Transparency
Inteational
. Per oggi mi fermo qui ma penso che, in un modo o nell’altro,
ci risentiremo.

Francesco Rondina
Fano, 27/12/2012

Egregio
sig. Francesco,
grazie del suo scritto. Gli argomenti che lei affronta nella sua lettera sono
particolarmente scottanti in questa nostra Italia d’inizio 2013. Probabilmente
quando lei leggerà questa risposta, sapremo già chi è il nuovo premier,
mentre al momento in cui scrivo siamo ancora completamente nella nebbia.


C’è
un insegnamento che mi è stato inculcato fin da bambino, glielo scrivo in
dialetto bresciano, il mio: «fa miò l’öff fôrò de l’öferò» (non fare l’uovo
fuori della cesta). Era una calda raccomandazione a non fare le cose a
sproposito o nel posto sbagliato.


Su
questa rivista facciamo ovviamente degli accenni alla politica e alle faccende
italiane. Come potremmo evitarlo, soprattutto quando le scelte politiche hanno
delle conseguenze su argomenti che ci appassionano, come sviluppo, giustizia,
pace, cooperazione, libertà religiosa e toccano direttamente o indirettamente
il mondo missionario? Ma non trattiamo specificamente di politica, come lei ha
giustamente notato. La Chiesa cattolica ha altre pubblicazioni più competenti
in materia.


Che
abbiamo simpatia per Monti o Riccardi e meno per altri, può essere vero o no.
Certamente, come persone e cittadini, abbiamo la nostra opinione ed è
inevitabile che a volte traspaia. Cerchiamo di non cadere nella trappola del «far
politica», per mantenere viva la libertà di giudizio e la capacità critica di
chi cerca di leggere la realtà con gli occhi del sud del mondo, dalla parte
degli impoveriti.


Continueremo
a scrivere su temi che toccano anche la politica ed economia italiana. Lo
faremo anche in collaborazione con le altre riviste missionarie della Fesmi.
Questo non per schierarci pro o contro qualcuno, ma perché certi argomenti
sfidano la responsabilità di tutti, sempre, e non solo in questi mesi di
emergenza economica.

Dall’Albania alla RD Congo

Cari
amici di MC,
è da tempo che avevo in mente di scrivervi. Sono un giovane laico della diocesi
di Nardò-Gallipoli in missione in Albania con una comunità della diocesi di
Reggio Emilia. Siamo a Gomsiqe, un piccolo villaggio in provincia di Scutari,
siamo senza tv, la radio funziona a malapena, come del resto i telefoni
cellulari e l’internet. Tutte queste sono decisamente delle fortune!
Personalmente mi sento in fase di disintossicazione dalla dipendenza da
notiziole e talk show piccoli piccoli, in cui si parla e non si
capiscono i veri problemi e non si cercano soluzioni, in cui si dettano le
preoccupazioni più urgenti della nazione, a seconda di quelle che sono le
priorità immediate di 4 o 5 leader politici.

L’esperienza
di missione in questa terra bellissima (a cui spesso anche il vostro giornale
si è interessato) e MC mi hanno aiutato ad aprire gli occhi sul mondo, a
rendermi conto di quanto siano piccole e drogate le piccole beghe di paese che
in Italia sono chiamate notizie e di quanto i grandi fenomeni di questo tempo,
le grandi ingiustizie, quello che davvero succede nel mondo, semplicemente ci è
estraneo.

Grazie,
anche a nome della piccola comunità di cui faccio parte, a tutti voi, che siete
come un buon amico, intelligente e attento, che appena tornato da un viaggio ci
racconta quello che ha visto, aiutandoci a capire cosa c’è dietro e un po’
anche cosa possiamo fare noi, con i nostri stili di vita, con il nostro piccolo
ma prezioso impegno.

Finita
questa premessa, arrivo ad una richiesta di approfondimento: su un giornale
italiano abbiamo letto un interessante reportage sul Movimento M23 in Congo e
un’intervista a mons. Rugero Runiga guida spirituale del movimento.

Proprio
in quei giorni ci è arrivato anche il numero di Novembre di MC, in cui c’era
l’articolo sul Rwanda e l’approfondimento sugli interessi ruandesi nella RDC.
Mi chiedevo se la Chiesa congolese e quella ruandese abbiano una posizione
ufficiale su questo movimento e soprattutto qual è la situazione di mons.
Runiga?

Enrico Giuranno e comunità di
Gomsiqe (Albania) 29/12/2012

Enrico,
grazie delle tue parole incoraggianti. Per quanto riguarda Jean-Marie Runiga
Lugerero, il vescovo presidente del movimento M23, posso solo dirti che non è
un vescovo cattolico. Ho cercato di capire quale sia la sua chiesa, ma
non ci sono riuscito. Ci sono migliaia di chiese evangeliche diverse in Africa.


L’Agenzia
Fides scrive: «Jean-Marie Runiga Rugerero (o Lugerero), sedicente leader
dell’ala politica dell’M23, il movimento ribelle che agisce nel Nord Kivu, (est
della Repubblica Democratica del Congo), non è un vescovo cattolico, come
invece è stato presentato da alcuni organi di stampa inteazionali» (Fides
2/1/2013).


Quanto
alla Conferenza Episcopale del Congo, così scrive Fides: «“No alla
balcanizzazione del Congo. No alla divisione del Paese”, affermano i Vescovi
della Repubblica Democratica del Congo, in un messaggio reso pubblico al
termine della loro Assemblea Plenaria che si è tenuta a Kinshasa dal 2 al 6
luglio 2012. Si tratta di un riferimento esplicito alla situazione dei due
Kivu, nell’est del paese, dove l’M23, movimento ribelle formato da soldati
disertori e appoggiato dal Rwanda, come afferma un rapporto dell’Onu, sta
seminando morte e distruzione, costringendo la popolazione alla fuga.


«Di
fronte a questo ennesimo tentativo di dividere la RDC, che mira a impossessarsi
delle sue ricchezze naturali, i Vescovi congolesi denunciano “l’occupazione irregolare
del nostro territorio”, e riaffermano l’unità del paese secondo le frontiere
stabilite nel 1960, anno dell’indipendenza nazionale. “L’integrità del
territorio nazionale non è negoziabile” affermano i presuli. I Vescovi invitano
i responsabili politici e i cittadini congolesi ad un “sussulto patriottico per
non essere complici di questo macabro piano di disintegrazione e di occupazione
territoriale del nostro paese”. La Conferenza Episcopale Congolese (Cenco) si
rivolge a tutti i congolesi in patria e all’estero, perché si mobilitino per
bloccare il piano di divisione del paese. A questo fine la Cenco intende
promuovere “azioni concomitanti in tutte le parrocchie della RDC e nelle
cappellanie dei congolesi all’estero, per esprimere il nostro rifiuto
categorico a questo piano e implorare la grazia della pace”» (Agenzia Fides
10/7/2012).

Popolare la terra

Cari
Missionari,
premetto che da anni sostengo le missioni con denaro destinato «alla fame nel
mondo», e con questa mia desidero aprire un serio e pubblico dibattito sulle
nascite e sulla fame sul nostro giornale. Non è ora che si elevi forte la voce
di limitare le nascite? Il Buon Dio ci disse di popolare la terra e a questo
fine nella sua magnificenza ci ha donato il cervello per capire che ciò non significava
sovrappopolarla; forse noi uomini abbiamo interpretato in maniera distorta la
sua parola. Guardiamo in giro nel nostro cortile e nei cortili del mondo quanta
sofferenza e povertà vi sono sulla terra: è proprio necessario nascere per vivere e morire di fame, stenti,
malattie e di chissà quante altre calamità? Si fa in fretta dire che il
cristiano ha il dovere di aiutare il prossimo; ma questo prossimo che aumenta
ogni anno è diventato sterminato e i denari e le risorse per vivere sono sempre
meno e non bastano mai come si constata chiaramente. Nostro Signore ha fatto un
mondo bello e ce l’ha donato affinché godessimo della Sua creazione (bellezze
naturali e spirituali). Ma gli infelici bimbi africani che nascono e muoiono
cosa godono del dono della creazione di nostro Signore? E anche se ricevessero
quel poco, godrebbero della magnificenza del creato a noi donata? La
popolazione mondiale è aumentata a dismisura e ci stiamo mangiando suolo e
risorse del mondo tanto che si ipotizza un’altra terra per sopperire a ciò che
il numero enorme di uomini necessita: a quanti miliardi di popolazione umana
vogliamo arrivare? E che risorse lasceremo ai nostri nipoti se consumiamo
tutto ora noi?

Il
mio parroco mi ha sempre giustamente detto che la pateità e la mateità
devono essere responsabili, ma parlando del Sud Italia, per esempio, che
prolifera sapendo che la disoccupazione e la mancanza di industrie è endemica e
che la tendenza è ben lungi da essere invertita, è proprio necessario avere
quasi trenta milioni di cittadini in quella terra? Loro sono purtroppo
destinati alla mancanza di lavoro per decenni, dato che il lavoro non si
inventa domani con la bacchetta magica né si compra al supermercato dopodomani.
E che dire dei tantissimi extracomunitari che ormai dilagano per Milano, e non
solo, a chiedere elemosine, a mangiare alla mensa dei poveri, a chiedere aiuto
alle parrocchie? è vita quella di
non avere di che vivere sentendo la propria dignità venir meno e non aver
speranza per un futuro migliore? Ripeto quanto detto prima, sono ormai
tantissimi e non si può dare qualcosa a tutti.

Concludo
ribadendo che il rapporto fra popolazione e risorse deve avere un giusto
equilibrio, in mancanza del quale inevitabilmente queste due entità entrano in
sofferenza e che il contenimento della crescita umana deve essere aumentato e
soprattutto pubblicizzato. Un atto d’amore fra un uomo ed una donna (quello
vero) non deve sfociare per forza in una vita, infatti nel Vangelo non mi
pare ci sia alcunché, contrariamente a quello che per tanto
tempo ci è stato inculcato in testa. Non si può rimandare la soluzione di
questo problema al Buon Dio, perché così facendo si metterebbe in dubbio la sua
volontà nell’averci voluti e creati diversi dagli animali foendoci cervello,
intelligenza, capacità di risolvere i problemi di quella umanità che è venuto a
salvare con tanto prezzo ed Amore. Cordialmente

Luigi Palumbo
Collegno, 26/12/2012

Egregio
sig. Palumbo, grazie del lungo scritto. Provo a essere sintetico nella mia
risposta.

Sovrappopolazione.

La
inviterei a leggere l’articolo di Paolo Mastrolilli su La Stampa, 12 gennaio
2013, pag. 14
: «L’Onu ci ripensa, “Sempre meno figli, rischio crescita
zero”. – Le previsioni di catastrofe demografica sono state ribaltate. I
programmi per il controllo delle nascite hanno funzionato». In sostanza
l’articolo ricorda che se si continua così, gli europei come tali sono
destinati all’estinzione e, dopo il picco di fine secolo (10 miliardi nel
2100), la popolazione mondiale decrescerà drasticamente, e se ci si stabilizzerà
sul livello riproduttivo di 1,5 entro il 2300 ci sarà solo un miliardo di
persone sulla terra.

Sfruttamento della terra e mancanza di cibo.

C’è
un altro interessante articolo apparso sullo stesso quotidiano: «Quasi metà del
cibo del mondo gettato senza riciclo»

(http://www.lastampa.it/2013/01/10/scienza/ambiente/ambiente-quasi-la-meta-del-cibo-del-mondo-gettato-senza-riciclo-arAYbhu2WlMGvPNM7nhwCO/pagina.html).

L’Ansa
sintetizzava così: «La metà del cibo che viene prodotto nel mondo, circa due
miliardi di tonnellate, finisce nella spazzatura, benché sia in gran parte
commestibile. Il dato sconcertante emerge da un rapporto dell’Institution of
Mechanical Engineers
, associazione degli ingegneri meccanici britannici.
Fra le cause di questo spreco di massa, ci sono le cattive abitudini di milioni
di persone, che non conservano i prodotti in modo adeguato. Ma anche le date di
scadenza troppo rigide apposte sugli alimenti e le promozioni che spingono i consumatori
a comprare più cibo del necessario».

(http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/mondo/2013/01/10/Meta-cito-mondo-finisce-spazzatura_8053030.html).

Carità e giustizia.

Quanto
fanno le organizzazioni umanitarie e la carità della comunità cristiana, di cui
i missionari sono gli agenti di frontiera, è indispensabile, perché risponde a
dei bisogni reali con tempestività ed efficacia. Ma la carità da sola non può
risolvere i problemi: tampona i sintomi e gli effetti immediati della malattia
ma non cura le cause. Occorrono soluzioni politiche ed economiche che
riguardino tutto il pianeta. Sono
necessari interventi che tocchino le cause originanti del problema, che
costruiscano pace, giustizia, equità, che creino rapporti nuovi tra i popoli e
una cultura nuova più responsabile nell’uso delle risorse.

Ci sono molti altri temi che lei tocca nella sua
lettera. Se altri lettori volessero intervenire, sono i benvenuti. La mia
opinione è chiara: questi problemi non si risolvono con il controllo delle
nascite, ma con giustizia ed equità (cf. MC1-2/2013 p.7), con
investimenti sullo sviluppo integrale delle persone e con la coscienza che in
questo mondo o ci salviamo tutti insieme o insieme periremo.

A mio zio

Caro
Padre Gigi,
mi
permetto di chiedere la pubblicazione del seguente scritto in ricordo del mio
carissimo zio materno Flaviano Scapin, mancato il 25 novembre scorso.
Ringraziando lei e tutti i collaboratori di MC.

UN ANGELO PIUTTOSTO INQUIETO

Zio
Flaviano carissimo,
ci hai lasciati in punta di piedi domenica 25 novembre 2012 all’ospedale di
Treviso, per la nuova vita, quella piena e magnifica che non avrà più fine. C’è
tanto sgomento e c’è tanta confusione in me perché eri un «presidio» importante
e inespugnabile contro la provvisorietà dei sentimenti, le ingiustizie
perpetrate nella vita e nel lavoro, l’approssimazione e lo sfruttamento nella
coltivazione dei prodotti della terra, i dubbi nell’esercizio della fede. La
tua esistenza intessuta di dignità e di grandezza umana è stata caratterizzata,
infatti, dall’affetto sempre più profondo per le persone a te vicine; è stata
animata dalle indignazioni nei confronti dei potenti, politici e proprietari,
per i soprusi verso i deboli e in particolare i lavoratori, con un riferimento
frequente agli operai delle industrie chimiche di Marghera; è stata connotata
dalle ire riguardo lo sfruttamento eccessivo delle coltivazioni con il
conseguente impoverimento di quella risorsa naturale che è la terra, quale
custode e nutrimento dei semi, tesori di valore inestimabile e scrigni preziosi
di vita nuova; è stata, infine, esaltata dal costante rapporto con Dio, vissuto
attraverso l’appuntamento settimanale con la celebrazione eucaristica,
appuntamento che mai hai interrotto nel corso dei diversi cambiamenti di
abitazione. Hai onorato nel modo più sublime il nome Flaviano, appartenente a
diversi martiri del IV secolo d.C., che mio nonno aveva scelto proprio per te,
terzogenito di quattro figli. Ora che il tuo essere «presidio» con la presenza
fisica è venuto meno mi sento defraudata di difese, più sguaita di solidi
puntelli, più esposta agli assalti della precarietà, della superficialità,
dell’«usa e getta». Sono certa, in ogni caso, che ancora continui e continuerai
ad essere «presidio», invisibile ma reale, sicuro ed inviolabile, accanto a
tutti coloro ai quali hai voluto bene, a me in modo speciale. Abbiamo ed ho
ancora e sempre bisogno di te; conto quindi su di te per onorare al meglio
possibile quanto ci hai dato e quanto sei stato per noi!

Tua nipote Milva
Collegno, 25/12/2012

Vieni, servo buono e fedele

Sono
le prime parole che mi sono passate per la mente quando, purtroppo con tanto
ritardo, ho appreso dell’improvvisa scomparsa di padre Lello Salutaris
da un amico missionario comboniano e l’ho verificata sull’ultimo numero di
Missioni Consolata, arrivato proprio pochi giorni fa.

Il
mio pensiero è andato al 1990, quando l’allora rettore del Seminario di Nairobi
(padre Masino Barbero) ce lo proponeva come seconda adozione con borsa di
studio durante gli anni della teologia fino all’ordinazione sacerdotale, la
prima adozione fu quella di padre Paskal Baylon Libana, ma con Lello fu tutta
un’altra esperienza perché conosceva la lingua italiana e così si iniziò una
corrispondenza che tuttora conservo. Andando a rileggere quelle lettere
emergono le caratteristiche della sua personalità: innamorato di Dio, la sua
apertura di carattere tale da metterti a tuo agio, la sua condivisione, ma,
come è stato rimarcato dai più, la sua gioia di abbracciarti perché ti
considerava un fratello e una sorella.

Dalla
sua missione in Etiopia ci perdemmo fino a quando arrivò nel 2003 una
telefonata in casa: «Sono Salutaris…». Si scusò del lungo silenzio: aveva
smarrito il numero telefonico e l’indirizzo e aveva chiesto a sua madre in
Tanzania di inviargli la sua agendina. Così ci si organizzò per incontrarci e
salutarci e da Montiano (un paesino vicino a Gambettola) organizzammo con mia
moglie Gabriella e nostra figlia Caterina, adottata dalla Colombia, un incontro
a Bevera.

Non
c’eravamo mai visti prima di allora e nonostante noi fossimo più adulti di lui
di nove anni, ricordo quell’abbraccio affettuoso, così carico di gratitudine
come a sdebitarsi dell’aiuto ricevuto durante gli studi e ci disse: «Sapete, io
provengo da una famiglia numerosa di nove figli e voi per me siete stati come
la seconda famiglia». Fu
quella l’occasione per iniziare una vera e propria direzione spirituale anche
se a distanza. Ci portava nel cuore anche per l’esperienza che stavamo vivendo
con la figlia adottata nel pieno della sua adolescenza. Lo visitammo spesso
anche a Vittorio Veneto fino al saluto ultimo a Nervesa nel giugno 2005, prima
del suo ritorno in Tanzania.

Ricordo
che nel luglio del 2004 venne a farci visita e lo portammo alla Vea. Si era
commosso per questa sorpresa e ci disse che si sentiva la persona più felice in
quel giorno. Come
dimenticarlo? L’unico rammarico è quello di non averlo più sentito da alcuni
anni. Avrei desiderato scrivergli, un padre della Consolata di Gambettola ci
consigliò di farlo attraverso fax. Non mi ero ancora organizzato. Ora, caro
Lello, non c’è più bisogno né di fax, né di internet, né di telefono; ci
possiamo parlare apertamente nella preghiera e così saprai che nostra figlia
Caterina, che portavi nel cuore, si è sposata la seconda domenica di settembre
ultimo scorso con un giovane in gamba ed ora sono catechisti in parrocchia.

Eh
sì caro Lello, la tua vicinanza si è sempre sentita e noi ringraziamo la  Madonna Consolata per questo grande dono:
l’averti conosciuto prima nell’adozione, poi direttamente nella tua professione
di missionario ed infine come fratello in Cristo!  Ciao
Lello, a presto!!!

I tuoi genitori adottivi  nello studio,
Ginaldo e Gabriella Torelli, Longiano (Fc) 17/12/2012.

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a cura del Direttore




BENEFICENZA E CARITÀ

Incontrare dei missionari (rari, per grazia di Dio) che, pur avendo
dedicato la loro vita all’Africa fino alla consumazione di tutte le loro forze,
rivelano atteggiamenti di profondo razzismo verso gli africani, mi ha sempre
causato un disagio profondo fin dai tempi in cui ero un giovane studente di
teologia. Non è certo la norma, e non voglio né giudicare né scandalizzare
alcuno, ma proprio non sono mai riuscito a capire come un missionario possa
fare tanto del bene agli altri senza amarli, mantenendo anzi atteggiamenti di
superiorità e quasi di disprezzo. Per «amare gli altri» intendo qui accettarli
e trattarli come uguali a sé, avee stima per quel che sono, credere in loro,
rispettarli anche nella loro diversità.

Il caso di quei
missionari è emblematico. Succede infatti, e più spesso di quanto immaginiamo,
che si aiutino gli altri e si faccia beneficenza e volontariato anche a prezzo
di indicibili sacrifici personali, ma senza mai far scattare quell’extra che è
unico del cristiano: l’accettazione totale dell’altro come fratello o sorella,
anzi di più, come Cristo stesso che mi visita. Finché l’altro rimane “inferiore”
a me, tutto va bene. Non faccio esempi, perché farli è fin troppo facile ma
potrebbe essere fuorviante.

Il dramma, anche di tanti
cristiani, è quello di fare delle opere di bene per obbligo o per abitudine,
come l’elemosina in chiesa. Oppure per commozione. Non c’è niente che faccia
aprire le borse come l’immagine di un bimbo che soffre. Guardate negli occhi la
bimba della copertina, col suo abitino bello arrivato da chissà dove attraverso
il mercato dei vestiti usati, e il fagottino del fratellino addormentato (o
malato) in braccio. Bisogna far qualcosa! …

E qualcosa si fa, anche
tanto. Il volontariato e la solidarietà sono due grandi elementi di speranza in
questa nostra Italia. Però poi si continua a mantenere un atteggiamento
razzista verso gli extracomunitari, a essere pieni di pregiudizi verso quelli
del Sud, a sostenere amministrazioni che discriminano i rom, a votare per un
partito xenofobo, a sostenere l’aborto e il controllo (anzi, più politicamente
corretto, la «pianificazione») delle nascite, ad avere un atteggiamento irresponsabile
verso l’ambiente, e amenità simili… E tutto sembra perfettamente normale.

Ma per un cristiano questo normale non è. Per lui, umanitarismo,
solidarietà, beneficenza, elemosina, volontariato, e quanto altro si voglia
includere, hanno la loro sintesi e radice nella parola chiave «carità», che a
sua volta si coniuga con giustizia e frateità. Invece succede che, come dice
Benedetto XVI nel messaggio per la Quaresima 2013, talvolta «si tende a
circoscrivere il termine “carità” alla solidarietà o al semplice aiuto
umanitario». è lo svilimento – da
noi stessi inconsciamente favorito – di una Parola che invece ha una portata
rivoluzionaria. Ci si accontenta del «fare la carità», invece di vivere nella
Carità, con la Carità e per la Carità, imitando, cioè, Gesù stesso.

Ma la Carità, continua il
messaggio, è «un processo che rimane continuamente in cammino: l’amore non è
mai “concluso” e completato. Da [esso] deriva per tutti i cristiani […] la
necessità della fede, di quell’incontro con Dio in Cristo che susciti in loro
l’amore e apra il loro animo all’altro, così che per loro l’amore del prossimo
non sia più un comandamento imposto per così dire dall’esterno, ma una
conseguenza derivante dalla loro fede che diventa operante nell’amore. Il
cristiano è una persona conquistata dall’amore di Cristo e perciò, mosso da
questo amore – caritas Christi urget nos (2 Cor 5,14) -, è aperto in
modo profondo e concreto all’amore per il prossimo». «Tutto parte dall’umile
accoglienza della fede (il sapersi amati da Dio), ma deve giungere alla verità
della carità (il saper amare Dio e il prossimo), che rimane per sempre, come compimento
di tutte le virtù (cfr 1 Cor 13,13)». «Carissimi
fratelli e sorelle – conclude il Papa -, in questo tempo di Quaresima, in cui
ci prepariamo a celebrare l’evento della Croce e della Risurrezione, nel quale
l’Amore di Dio ha redento il mondo e illuminato la storia, auguro a tutti voi
di vivere questo tempo prezioso ravvivando la fede in Gesù Cristo, per entrare
nel suo stesso circuito di amore verso il Padre e verso ogni fratello e sorella
che incontriamo nella nostra vita».

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Gigi Anataloni




Donne alla riscossa La società civile vuole cambiare un paese violento

Tassi di omicidio superiori a quelli di
paesi in situazioni di conflitto armato, fortissima disuguaglianza nella
distribuzione delle risorse, profondo machismo
culturale con relative violenze domestiche e femminicidi in costante
crescita, tratta di bambine e ragazze… L’Honduras è ritenuto il paese più
pericoloso al mondo, eppure qualcosa si sta muovendo, soprattutto a livello di
organizzazione femminile, per difendere i propri diritti e introdurre
importanti cambiamenti nella società.

In tutto l’Honduras risuona una sola parola
d’ordine che in questo momento interessa la popolazione: cambiamento. Sono
passati più di tre anni dal colpo di stato, e da allora tanto è stato fatto
dalla gente honduregna (anche se per l’Onu, almeno il 60% dei 7,3 milioni di
abitanti vive in situazione di povertà) per far valere i propri diritti di
scelta e creare un contrappeso ai giochi di potere dell’oligarchia delle
famiglie più influenti del paese. L’Honduras è il terzo paese in America
Latina, dopo Colombia e Haiti, ad avere maggiori disuguaglianze sociali.
Generalmente la gran parte dei governi passati avevano la tendenza a preservare
lo status quo, mantenendo il potere nelle mani di poche famiglie.



Resistenza nata dal golpe

Con il governo di Manuel Zelaya,
durato dal 2006 al 2009, destituito da un colpo di stato delle forze armate,
c’era stato un cambio di tendenza e si era visto un tentativo di introdurre
importanti cambiamenti per una maggiore giustizia sociale, tra cui l’aumento
del salario minimo e una bozza di riforma agraria. Ma queste novità non erano
ben viste da chi ha perpetrato il golpe del 28 giugno 2009. Il nuovo governo ha
raggiunto il potere successivamente con elezioni, considerate alquanto
discutibili anche dalla comunità internazionale, alle quali non sono stati
ammessi gli osservatori delle Nazioni Unite.

Ora è al potere il governo del
Partito Nazionale, un partito conservatore, il quale considera incostituzionali
alcune importanti riforme che erano state intraprese negli anni precedenti. Nel
frattempo peró una gran parte della società civile si è organizzata nel Frente
Nacional de resistencia Popular
(Fnrp) per esprimere il proprio dissenso
nei confronti di un governo che in realtà fa l’interesse di una parte piccola
della popolazione.

Il Fnrp, che dal colpo di stato ha
coinvolto nelle proprie rivendicazioni movimenti popolari e organizzazioni che
cercano una trasformazione sociale del paese, è vicino a rappresentanze di ogni
strato sociale: cittadini, contadini, operai, microimpresari, gruppi
ambientalisti e studenteschi, forze politiche progressiste e democratiche,
professionisti, donne, artisti, popolazioni indigene, comunità ecclesiali di
base, e altro ancora. Questo movimento ha un braccio politico, costituito dal Partido
Libre
(Partito Libero), la cui candidata alla presidenza è Xiomara Castro,
moglie di Manuel Zelaya, il quale è pure cornordinatore del partito e del
movimento.


Lotta per la terra

Come tutti gli esponenti politici
che si candideranno alle elezioni del 2013, la signora Xiomara avrà molte
questioni spinose da affrontare. «In primo luogo la proprietà della terra, che è
una delle ragioni principali di lotta all’interno del paese. La popolazione
dell’Honduras è prevalentemente agricola, ma la maggior parte delle terre è
paradossalmente proprietà di pochi: il 50% della superficie coltivabile è in
mano al 3,7% della popolazione», riporta Anna Schieppati, volontaria italiana
presente nel paese centroamericano da quattro anni e collaboratrice di diverse
ong locali. «Si coltiva una grande varietà di prodotti, grazie alle variazioni
climatiche del paese. Nelle zone più calde crescono anacardi, ananas, meloni;
in quelle più fredde patate, fragole, cavoli. In tutto il paese si coltivano
mais e fagioli, due elementi basilari dell’alimentazione locale». Un’ottima
varietà di prodotti, il cui ricavo però, come spesso accade, non viene
distribuito equamente tra la popolazione.

«I grandi latifondi esistenti,
invece – continua Schieppati – appartengono in maggioranza alle compagnie
bananiere e a quelle che producono olio di palma africana, pianta molto dannosa
per l’ambiente, perché rovina il suolo. Ma la gente qui non tace: le grandi
lotte di rivendicazione contadina sono iniziate proprio in Honduras negli anni
’90 con il governo di Calleja, in cui si implementò una politica a livello
regionale di carattere neoliberista (soprattutto con la Ley de modeización
y desarrollo agrícolo
), sponsorizzata dagli Stati Uniti, in cui l’accesso
alla terra non fu più amministrato dallo stato. Però, nonostante le battaglie
vinte, il modello capitalista continua a farla da padrone».

Due esempi possono dare un’idea
della situazione conflittuale nel paese. Il primo è la condizione delle
famiglie contadine del nord del paese, in un territorio chiamato Bajo Aguán, «in
cui i contadini rivendicano le terre possedute da René Morales, Reinaldo
Canales e Miguel Facussé, quest’ultimo una delle persone piú influenti del
paese, legato anche al narcotraffico», continua la volontaria italiana. Miguel
Facussé comprò le terre dallo stato proprio in seguito alla Ley de
modeización
. Peró le associazioni contadine locali affermano che le terre
in realtà furono vendute attraverso una procedura illegale e per sostenere la
loro causa nel 2001 si organizzarono nel Movimiento unido campesino del Aguán
(Muca).

La zona del Bajo Aguan è
considerata una zona di conflitto. Ciò risulta già evidente sulla strada per
arrivare in questo territorio: vi sono moltissimi blocchi stradali dei
militari, che fermano macchine, autobus, moto, camion e controllano i documenti
dei viaggiatori e il materiale che eventualmente viene trasportato. La lotta
dei dipendenti e guardie dei proprietari terrieri contro i contadini è una
lotta armata, che ha visto molti morti da entrambe le parti. Un importante
quotidiano nazionale afferma che ogni 16 giorni avviene una morte violenta.

«Esercito e polizia non sono
imparziali custodi dell’ordine; basta ascoltare cosa afferma il commissario
responsabile dello sgombero: “Sono inutili gli sforzi che fanno i contadini; è
un atteggiamento irrazionale. Abbiamo una forza normale; puó essere che ci
siano stati scontri da entrambe le parti, è uno sgombero, non è una festa. E la
loro presa di posizione è una stupidaggine, quindi noi la prossima volta non
cercheremo il dialogo come stiamo facendo adesso. Se loro si credono forti, non
hanno la minima idea di quanto siamo forti noi”» riporta Schieppati. Parole
forti, di minaccia, che fanno capire quanto sia ardua la situazione.

Un altro esempio del tutto
diverso, ma che riflette bene la realtà di un paese messo a disposizione di
tutti tranne che dei suoi cittadini, è il progetto delle ciudad modelo
(città modello). L’idea era di dare delle terre in concessione a un consorzio
nordamericano per la costruzione di città. Le ciudad modelo erano
pensate come urbanizzazioni che potevano avvalersi di una legislazione a parte,
indipendente da quella honduregna, essere esenti dalle tasse locali e avere una
polizia propria.

Le zone scelte erano aree
strategiche in quanto a locazione e risorse: uno sbocco sul mare, terre ricche
di acqua e molto fertili, strade ben asfaltate. La promessa fatta alla gente
era quella di centinaia di nuovi posti di lavoro. Il Congresso ha cercato di
far approvare questo progetto, che però, grazie anche alla pressione di molte
associazioni e semplici cittadini, che ogni mercoledì si riunivano per
protestare contro questa proposta, alla fine è stato dichiarato
incostituzionale.

Violenza epidemica

Uno dei più
grandi problemi del paese, che è andato esasperandosi negli ultimi anni, è il
clima di violenza, dovuto al fatto che l’Honduras è diventato un’importante via
del traffico internazionale di droga, passaggio preferito dai narcotrafficanti
che vengono dal Sud America e sono diretti negli Stati Uniti e in Canadà.

Un dato su
tutti: il tasso di omicidi è di 86,5 ogni 100 mila abitanti, uno dei più alti
al mondo. Basti pensare che nel non lontano Costa Rica è di 10,3, in Italia di
1,1 e la media mondiale è di 8,8.

La violenza ha varie cause, che
possono essere identificate nella grande disuguaglianza all’interno della
società e nella grande diffusione di armi da fuoco, che possono essere reperite
con facilità. Non bisogna però dimenticare anche l’aspetto culturale della
violenza che, per esempio, si esprime all’interno della società con il machismo
o maschilismo: «La donna honduregna si alza alle quattro del mattino per
accendere il fuoco e preparare la colazione per la famiglia; molto spesso
lavora fuori, oltre che in casa, generalmente coltivando i campi, dedicandosi a
lavori informali, o partecipando a microimprese – spiega Schieppati -. Spesso,
purtroppo, le donne si trovano a doversi occupare da sole della sussistenza
della famiglia; sovente i figli vengono concepiti al di fuori dell’unione
matrimoniale e non è raro che un uomo abbia figli da diverse donne. A ciò
bisogna aggiungere che molti uomini non vogliono contribuire al mantenimento
dei figli e a volte si rifiutano di riconoscerli proprio per non avere
responsabilità nei loro confronti».

Donne alla riscossa

A livello istituzionale sono state
create nuove leggi e istituzioni per combattere il machismo e la
situazione di oppressione e violenza in cui sono costrette a vivere molte donne
honduregne; ma sono soprattutto le organizzazioni civili che hanno contribuito
a fare grossi passi in avanti, pretendendo dalle istituzioni governative di
mettere in pratica quello che generalmente rimaneva solo sulla carta.

«Varie associazioni di donne nel
corso degli anni hanno lottato per introdurre importanti cambiamenti a livello
sociale, culturale, legale. Esse sono presenti su quasi tutto il territorio con
nomi e scopi differenti: Visitación Padilla, Centro de estudios de la
mujer
, Centro de derechos de mujeres, Las Hormigas, Programa
Deborah
», continua la volontaria italiana, che collabora con alcune di esse
alla promozione della parità di genere.

«Nel dare maggior potere alle
donne, queste associazioni hanno avuto un ruolo fondamentale, mettendo in atto
con intelligenza varie strategie: hanno raccolto informazioni e pubblicato
studi di alto livello sulla condizione femminile per avere più visibilità; si
sono cornordinate con la cooperazione internazionale per ottenere fondi con cui
sostenere le varie attività; hanno esercitato una forte lobbying sulle
istituzioni governative, esigendo più sensibilità da parte loro». Uno dei loro
servizi più significativi ed efficaci è l’apertura di consultori legali
gratuiti, che informano circa le leggi del paese e, se necessario, offrono
assistenza legale alle donne che non possono permettersi un avvocato.

«Proprio questi consultori sono
stati importanti per ridare dignità alle cittadine e avvicinarle alle
istituzioni, il cui personale, negli altri luoghi pubblici, tende molto spesso
a trascurare, o peggio ancora, a mortificare le donne che vi accorrono per
sporgere denuncia, soprattutto se queste vengono da aree rurali e hanno uno
scarso livello scolastico», racconta ancora Schieppati.

Benvenuti a Casa Zulema

Un ulteriore flagello che la
società civile dell’Honduras sta tentando di combattere è l’Aids. Il paese
centroamericano presenta il tasso più alto di portatori del virus Hiv del
continente, con lo 0,8% della popolazione (in Italia è 0,006%). Nonostante il
fatto che molti ospedali possano distribuire i farmaci, l’attenzione integrale
ai pazienti è rara. La cura è gratuita, il problema è che questa non è
disponibile per tutti. Data la scarsità dei farmaci disponibili negli ospedali,
la cura viene iniziata solo con quelle persone che, per condizione familiare,
stile di vita, possono garantire continuità.

Il problema è che i tre quarti
degli infettati sono persone senza tetto, che vivono per la strada, e pertanto
la loro condizione è di totale abbandono. Molte persone inoltre, una volta
contagiate, vengono abbandonate dai familiari.

«Il virus è ancora visto come uno
stigma: molte persone affermano che “la malattia è un castigo del Signore per i
peccati della carne”; tanti non dicono di avere il virus e non si sottomettono
a cure, proprio per non dover confessare ai propri cari di essere stati contagiati»
sottolinea la volontaria italiana.

Tra le realtà che combattono la
stigmatizzazione, dando un accompagnamento integrale alle persone infette senza
condizioni economiche o familiari adeguate, c’è Casa Zulema, un centro di
accoglienza per malati di Hiv-Aids in un paese a breve distanza dalla capitale
Tegucigalpa. Qui le persone sono accudite e rispettate nella loro dignità e
ricevono un’alimentazione sana ed equilibrata.

Casa Zulema prende il nome da una
donna morta in ospedale abbandonata da familiari e amici. La accompagnò nei
suoi ultimi giorni di vita padre Ramon Martinez Perez, un sacerdote spagnolo
che alla morte della donna, nel 1997, decise di costruire una casa per casi
simili. All’inizio essa aveva lo scopo di offrire la possibilità di una morte
dignitosa alle persone che si trovavano abbandonate in ospedale.

Oggi, con i progressi della
ricerca medica, la casa è diventata principalmente un luogo di recupero, in cui
la gente apprende le nuove abitudini necessarie per portare avanti la cura con
successo, imparando ad accettare e convivere con la malattia per poi tentare di
reinserirsi all’interno della società.

A Casa Zulema vivono donne,
uomini e bambini senza limiti di età, religione o razza (il 90% della
popolazione honduregna è meticcia). «L’unico requisito necessario per
alloggiarvi è che il paziente non abbia atteggiamenti violenti o aggressivi,
che mettano in pericolo gli altri abitanti», spiega dogna Laura, la
responsabile della struttura. «La vita in Casa Zulema inizia alle 7 di mattina,
con la colazione nella sala da pranzo comune e la prima distribuzione dei
farmaci. Poi i bambini vanno nella scuola vicina, mentre gli adulti
contribuiscono, a seconda delle condizioni fisiche e psicologiche, alla pulizia
della casa e del giardino, alla preparazione del pranzo e della cena. Nel
pomeriggio c’è un momento di preghiera e di riflessione spirituale. La sera,
dopo la nuova tornata di farmaci, che sono molto forti, la gente sente presto
il bisogno di riposare. La domenica spesso si organizzano escursioni nei
dintorni».

Nella casa operano volontari e
persone che ricevono uno stipendio, anche se minimo, come la cuoca, la donna
delle pulizie e un’amministratrice tuttofare. Solo due sono le persone che
vivono 24 ore su 24 nella casa: dogna Laura e Claudia che accompagnano e
si prendono cura della vita di circa 20 persone tra adulti e bambini.

«La casa vive principalmente di
carità e sono molte le aziende, le parrocchie e semplici individui che offrono
ciò che è necessario: cibo, vestiario, biancheria, prodotti d’igiene personale,
quadei e giochi per i bambini, medicine; ma non gli antiretrovirali, che sono
dati dall’ospedale. Sono molte le persone e i gruppi che si ricordano della
casa per condividere quello che hanno» ribadisce la responsabile.

Esiste, quindi, tutta una parte
di Honduras che ha a cuore il prossimo e che sta alzando la propria voce. Il
futuro prossimo dirà se riuscirà a dare un volto nuovo, migliore, al proprio
paese.

Daniele Biella

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Daniele Biella




Il Paese che non c’è Territorio palestinese. Lezioni di resistenza pacifica

Alcuni villaggi sulle colline a sud di Hebron, in Area C
(territorio palestinese sotto controllo e amministrazione israeliani),
rischiano di scomparire per far posto a insediamenti di coloni e avamposti
militari israeliani, totalmente illegali anche per le leggi d’Israele. La popolazione
locale, per lo più composta da pastori e agricoltori, nonostante le violenze
che subisce da anni, resiste con azioni nonviolente per difendere i propri diritti,
sostenuta dai volontari dell’Operazione Colomba (vedi:
www.operazionecolomba.it). Anche l’autore di questo articolo vi ha portato la
sua esperienza di resistenza pacifica.

«Loro hanno le armi e le pietre,
noi i bastoni del pastore. Loro hanno la polizia dalla loro parte, noi nessuno,
solo le nostre famiglie. Loro fanno quello che vogliono e noi dobbiamo tacere.
Loro vengono e buttano giù le nostre case, distruggono le nostre cistee; noi
le dobbiamo ricostruire di nascosto. Fino a quando?». Il lamento di Abud è il lamento
di un popolo.

Una convivenza difficile

Ormai la nascita di uno stato
palestinese sembra un sogno impossibile. Il territorio di Gaza, sul mare
Mediterraneo con una uscita verso l’Egitto è considerato un’immensa prigione a
cielo aperto. Il territorio della Cisgiordania è una pelle di leopardo, nella
quale i villaggi dei pastori devono convivere con gli insediamenti israeliani
serviti da strade, luce elettrica, acqua in abbondanza.

Un solo ulivo dei coloni beve in
un giorno tanta acqua quanta ne beve un villaggio palestinese con donne, uomini
e bambini. Con l’acqua abbondante chiunque è capace di far fiorire il deserto.

Gerusalemme est e Betlemme con i
territori vicini vede un muro costruito al di fuori di ogni logica, che non sia
quella del disprezzo dei valori e della giustizia, tagliando pascoli, dividendo
famiglie e comunità, distruggendo relazioni, isolando le fonti di acqua a
favore del più forte. Come si può pensare a due stati e due popoli?  Si dovrebbe spostare mezzo
milione di israeliani, che adesso vivono fuori dai confini ufficiali dello
stato d’Israele.

A fine novembre 2012 si è tentato
ancora una volta un qualche riconoscimento della Palestina alle Nazioni Unite,
nonostante la minaccia d’Israele di ridurre alla fame la comunità palestinese.
Eppure il riconoscimento della Palestina come membro osservatore (stesso status
del Vaticano), ruolo finora svolto dall’Organizzazione per la Liberazione della
Palestina (Olp), ha avuto i numeri necessari per diventare realtà. Nel
settembre 2011 Mahmoud Abbas aveva cercato di ottenere il riconoscimento della
Palestina come stato membro, ma era stato bocciato dal veto americano al
Consiglio di Sicurezza, mentre altri stati, tra cui l’Italia, esprimevano la
loro neutralità sulla faccenda. Adesso poi, dopo la guerra dei nove giorni, la
posizione di Fatah, dominante in Cisgiordania, appare più debole rispetto a
quella di Hamas della striscia di Gaza.

E tutti, paesi arabi della
primavera, Stati Uniti, Europa e lo stesso Israele, si lasciano impressionare
di più da chi fa la voce grossa: non certamente l’autorità palestinese
dialogante, ma quella che spara i razzi fabbricati in Iran. Il più forte e il
più rumoroso aggiunge degli argomenti importanti alle proprie ragioni.

Intanto continua l’ostilità
quotidiana: pecore uccise, ulivi tagliati, pietre sui bambini che vanno a
scuola, asini rubati… Sono le azioni dei coloni, normalmente integralisti
ebrei, convinti che tutta questa terra sia stata data loro da Dio. «Terra», sì,
ma con della gente dentro, non una terra vuota.

Segni di cambiamento

Oggi non mancano gli israeliani
che mostrano solidarietà e sensibilità verso i palestinesi. Sono i giovani che fanno
obiezione di coscienza contro il servizio militare obbligatorio per uomini e
donne. Essi sono disposti ad andare in prigione pur di non imbracciare le armi
contro i pastori.

Sono gli avvocati, alcuni già in
pensione, che suggeriscono gli articoli di legge favorevoli ai palestinesi, che
difendono chi viene imprigionato, che esigono, quando possibile, l’abbattimento
di insediamenti israeliani.

Ci sono i poveri di Jaffa ai
quali vengono tolte le case per lasciare spazio a ville e resort lungo
la riva del mare, non importa se palestinesi o israeliani.

Si comincia a vedere la lotta dei
poveri contro i prepotenti. La lotta delle femministe dell’associazione Ahoti
for Women in Israel
(Sorelle per le donne in Israele), che a Tel Aviv
aprono le porte del loro piccolo centro d’incontro a tutti per denunciare,
appoggiare e cercare vie di uscita per i poveracci che, arrivati dall’Africa,
vengono abbandonati senza nessun futuro, nel parco vicino.

È chiaro che i palestinesi hanno
anche i loro problemi interni; il primo e forse il più profondo è la spaccatura
tra Hamas e Fatah. Fino a che punto si può essere
mansueti a Gaza, un luogo invivibile, con 5.800 persone per chilometro quadrato
(in Italia ce ne sono 201), con problemi gravi di acqua, energia elettrica,
mancanza di ospedali, scuole… sotto blocco permanente per terra e per mare,
un territorio tagliato fuori dagli altri territori palestinesi. È evidente che
la maggioranza della popolazione si senta identificata con chi si oppone in
modo più violento alla dominazione israeliana.

Intanto la Cisgiordania è
praticamente divisa in tre zone:

– Territorio a controllo e
amministrazione palestinese (Area A);
– Territorio a controllo
israeliano, ma con amministrazione palestinese (Area B);
– Territorio a controllo e
amministrazione israeliana (Area C).

Mentre il primo copre un 17% del
territorio con il 55% della popolazione palestinese, il secondo copre il 24%
del territorio con il 41% della popolazione, il terzo fa riferimento al 59% del
territorio con appena il 4% di palestinesi.

La nonviolenza

Hafez non è l’unico ma è un
tassello importante e riconosciuto nelle colline a sud di Hebron. Lui stesso
racconta la sua storia.  Quando era poco più che un
ragazzo vide sua madre maltrattata e picchiata da coloni israeliani tanto da
finire in ospedale. Andò a trovarla e le assicurò che avrebbe trovato il modo
di vendicarla. «Cerca un’altra strada – gli
disse lei -. Se ti vuoi vendicare potrebbero distruggere il nostro villaggio e
noi ti perderemo. Alla fine, che cosa si guadagnerebbe? Un’altra strada.
L’unica possibile è quella di resistere usando altri metodi: la non violenza
attiva. Come? I bambini, andando a scuola; i pastori portando il gregge al
pascolo. Se c’è un attacco dei coloni, tutti gli abitanti si fanno presenti. Se
distruggono la moschea, scuola, strade… le ricostruiamo. Noi restiamo qui e
continuiamo a resistere alle politiche di aggressione con la non violenza».

Il piccolo villaggio di At-Tuwani
ha così conquistato il suo diritto a esistere. Nel 1999 tutti gli abitanti
hanno resistito a ogni evacuazione, anzi, hanno ospitato altri pastori evacuati
a loro volta dalle loro terre poco lontane. Con l’aiuto di attivisti israeliani
e di un avvocato si è capito che non tutti gli israeliani sono soldati o
coloni.

Oggi una presenza preziosa è
quella dei giovani dell’Operazione Colomba, corpo non violento di pace
dell’associazione Comunità Papa Giovanni XXIII. Armati di macchine fotografiche e
videocamere si muovono continuamente per documentare, dare appoggio con la loro
presenza pacifica e diventando l’occhio che vede e discee i fatti. Un continuo, a volte quotidiano, report
fa arrivare all’estero la documentazione in italiano e in inglese. La gente si
sente collegata con la solidarietà internazionale, i soldati e i coloni hanno
sopra di loro gli occhi attenti di tanti che non accettano l’ingiustificabile.

Dal 2010 At-Tuwani è collegata
con la linea elettrica, che arriva da Yatta, la più grande città palestinese
della zona, facendo passare i cavi sopra la bypassroad, (una strada che
collega le colonie israeliane) cosa finora impensabile. L’acqua è assicurata più o meno
grazie ad alcuni depositi, cistee che sono state legalizzate. I bambini arrivano dal villaggio
di Tuba accompagnati da una scorta dell’esercito israeliano che li difende
dagli attacchi dei coloni. Se un colono si presenta incappucciato lungo la
strada per terrorizzare i ragazzi, gli inteazionali e le famiglie arriveranno
in tempo per proteggerli mentre i soldati cercheranno di mostrare la loro
affidabilità. 

Un momento privilegiato

A fine ottobre l’Unione Europea
ha organizzato un workshop, un momento di incontro, riflessione,
solidarietà. Grazie ai responsabili dell’Operazione Colomba sono stato scelto
per accompagnare quel momento.
– Te la senti?
– Non saprei. Proviamo.

È stata una settimana che si
andava costruendo quasi di giorno in giorno. Incontri che creavano altri
incontri. Dal Centro di Informazione Alteativa a Beit Sahour, a est di
Betlemme siamo passati al «Kairos Palestina», un movimento di cristiani,
che hanno prodotto un documento serio e profondo per costruire cammini di pace
e riconciliazione nella Terra Santa. E ancora incontri con il gruppo della
Teologia della liberazione palestinese, un gruppo piuttosto agguerrito, e le
femministe di Tel Aviv, con gli avvocati che difendono le case di Jaffa, finché
sarà possibile, ecc.

Le date poi cambiavano, affinché
non coincidessero con la festa di Ismaele, quando bisognava sacrificare
cammelli e mucche. Finalmente il lunedì 29 ci siamo
trovati a Al Mufaqara, su, in alto sulla collina. Erano riuniti i capi di
diversi villaggi, i giovani, le donne e i bambini del luogo. Mi avevano proposto un tema: «Lotta
nazionale e perdono personale». Non avevo voluto preparare nessun
testo. Volevo vedere con i miei occhi la realtà, il volto della gente, entrare
nelle loro case, nelle loro grotte. Penso che sia stata una scelta giusta. Come
si può parlare di perdono in questa situazione? Mi sono posto questa domanda ad
alta voce in italiano, tradotta in arabo: «Un mese fa mi hanno ucciso una
pecora e posso perdonare, una settimana fa mi hanno ucciso una pecora e posso
perdonare, ieri mi hanno ucciso una pecora e posso perdonare. Ma domani me ne
uccideranno un’altra, e tra una settimana, e tra un mese e tra due mesi…
Posso perdonare al futuro? All’infinito?». Forse il tema del perdono risulta
corto, non più sufficiente. Vedevo quegli occhi che mi guardavano con
attenzione e ho continuato a parlare: «La lingua ci separa, ma il cuore ci
unisce».

Dovessi riassumere non saprei che
cosa ho detto, ma ho parlato di resistenza e di non violenza attiva. Della
necessità di non perdonare i fatti, ma di guarire la ferita che quei fatti
producono in noi per poter reagire in modo pacifico e umano. «Purtroppo gli israeliani hanno
sofferto molto in Europa e poi anche qui. Ma hanno imparato a reagire con la
forza. Sanno combattere con chi è violento, ma non sanno gestire la non
violenza. Rimangono spiazzati. Alla fine preferiscono avere a che fare con
Hamas e con la guerriglia. A ogni colpo rispondono con il pugno duro, ma con
quelli che sanno resistere senza essere violenti? Come si fa?».

E alla fine, al momento del
riposo, nessuno si è mosso, e sono invece iniziate delle domande a cui ho
risposto come potevo. Un prete cattolico che parlava a
una comunità totalmente musulmana. Ma non ci ho neppure pensato. Ero uno che
parlava e che imparava. Finita la giornata intensa, due
giovani volevano a tutti i costi che andassi anche al loro villaggio, un po’
lontano di lì. «Insh’Allah, se Dio vuole». È rimasto il desiderio. Forse
sarà per un’altra volta.

La conclusione

Alla sera, quando eravamo già
scesi ad At-Tuwani, l’esercito e la polizia israeliani hanno catturato lo scheich,
un pastore molto conosciuto, guida spirituale del villaggio. Stava lavorando
alla sua cisterna. Aveva guidato l’invocazione
iniziale al mattino. Il suo lavoro non era permesso, ma neppure proibito.
Quando la figlia si interpose tra il papà e i militari e fu colpita, egli si
ribellò. Ecco l’accusa: resistenza a pubblico ufficiale. Le ragazze della
Colomba, subito informate, hanno ripreso la scena e si sono guadagnate
anch’esse qualche spintone. Non si può fare di più. Intanto
la gente, accorsa in buon numero, non ha potuto impedire che se lo portassero
via. Lo avevano già messo nella loro camionetta. A quel punto tutti si sono
ritirati: i pastori e i soldati. Quando tutto sembrava finito la gente toò
su, si organizzò e terminò il lavoro. Quando lo scheich toerà dalla
prigione troverà la sua cisterna, così come lui avrebbe voluto realizzarla. Ecco la resistenza pacifica.

Gianfranco Testa

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Gianfranco Testa