God Bless America!

La «religione civile» statunitense

Gli Stati Uniti, melting pot sociale, hanno avuto bisogno di un collante. È così nato il «culto alla nazione», con i suoi riti, profeti, luoghi e scritture sacre. E gli Usa di oggi celebrano e proteggono queste tradizioni.

Gli Stati Uniti sono la nazione che meglio è riuscita nel corso della storia ad incarnare una profonda religiosità civile e a farla convivere con le più diverse forme di religiosità «spirituale». Fino all’articolo (1967) di Roberth Bellah, Civil Religion in America, che ha coniato il termine «religione civile», gli studi precedenti avevano cercato di dimostrare come lo stato-nazione e la sua idea nazionalistica secolarizzante fossero ritenuti i successori del sentimento comunitario religioso. L’articolo di Bellah però, scritto soprattutto per giustificare l’intervento americano in Vietnam, ha dimostrato come proprio il nazionalismo possa assumere vesti religiose e come ci sia perfettamente riuscito negli Stati Uniti. Il melting pot degli americani, venuti da tante terre diverse, funziona, secondo il sociologo, perché tutti – pur mantenendo nella maggior parte dei casi la loro religione d’origine – adottano una «religione civile» che ha i suoi simboli e i suoi riti: la bandiera, l’inno, le feste, le parate, il culto della presidenza. Tutti siamo abituati, ad esempio, ad udire benedizioni come il famosissimo God bless America alla fine dei discorsi dei presidenti. Il merito della religione civile americana, secondo Bellah, sta non solo nell’aver saputo evitare i conflitti con le «religioni religiose», ma anche nell’aver trovato creative forme di convivenza e sovrapposizione. Sono stati costruiti, infatti, simboli potenti di solidarietà nazionale che sono riusciti a mobilitare livelli profondi di motivazione personale per il raggiungimento di traguardi nazionali. La religione civile, inoltre, non è assimilabile a un generico «culto della nazione americana», ma si può intendere come «una comprensione dell’esperienza americana alla luce di una realtà ultima ed universale».

I riti americani
Ma dove è oggi più visibile la religione civile e con che strumenti è più facile conservarla e trasmetterla di generazione in generazione? Di sicuro nei discorsi dei presidenti e in tanti simboli, riti e feste nazionali sacre che scandiscono il ritmo stagionale dei cittadini americani: l’Indipendence Day, il Thanksgiving Day, il Veterans Day e il Memorial Day. Ma anche nei tanti luoghi sacri nazionali oggi preservati grazie al lavoro del National Park Service. Questo ente nasce  nel 1916, proprio con lo scopo di custodire il patrimonio storico (e naturalistico) della nazione, prendendosi cura dei luoghi in cui la storia è avvenuta, secondo l’idea che, si legge nel sito: «La storia è ovunque, è parte di ciò che noi eravamo, di ciò che siamo e di ciò che saremo». La religione civile, infatti, è ciò che unisce nel profondo un popolo e le sue istituzioni, è la «narrazione» della sua vicenda storica e della sua tradizione culturale. La storia e il servizio offerto dai parchi storici, dunque, si inserisce nel più ampio orizzonte dell’educazione del cittadino americano. Diversi sono infatti i servizi offerti dai parchi per studenti ed insegnanti perchè è attraverso la trasmissione della memoria storica e la conoscenza di alcuni luoghi di importanza simbolica, che si crea e si sostiene l’orgoglio e un forte senso di appartenenza nazionale.

La nascita della nazione
Il principale luogo sacro nazionale che celebra l’origine degli Stati Uniti d’America è di sicuro la colonia di Plymouth in Massachusetts. Qui, infatti, quattro secoli fa, sbarcarono i primi Padri Pellegrini, dopo un duro viaggio attraverso l’Oceano Atlantico. Oggi a Plymouth c’è la Plymouth Plantation, un «museo vivente» che mostra l’insediamento originario della colonia attraverso una ricostruzione del villaggio inglese del XVII secolo. Nella sezione del museo ad esso dedicata, gli attori parlano, si comportano e vestono in modo adeguato per il periodo. Gli abitanti della colonia raccontano la dura vita degli inizi, ma anche il sogno, la fede e la perseveranza che li accompagnava nella costruzione di una nuova società basata su diritti e libertà.
Tra i passaggi decisivi nello sviluppo della religione civile in America, il primo e, forse, più importante, è legato alla rivoluzione americana (1775-1783). Partita dalla capitale del Massachussets, Boston, con la rivolta del tè, la rivoluzione ha consacrato la figura di George Washington a «Mosè nazionale» in grado di guidare il suo popolo verso la liberazione. Non c’è nessun altro periodo della storia americana, durante il quale così forte si sia sentito il dovere e il diritto di creare un nuovo mondo, una nuova società, come durante la rivoluzione americana. Thomas Paine catturò lo spirito del tempo, usando, ancora una volta, riferimenti «religiosi», quando scrisse: «Abbiamo in nostro potere la possibilità di far ricominciare il mondo, ancora una volta. (…) La nascita di un nuovo mondo è a portata di mano». Oltre all’appello per la creazione di un mondo nuovo, la rivoluzione ha prodotto profeti (come George Washington, Thomas Jefferson e Thomas Paine, tra gli altri), martiri, rituali, bandiere, festività e vacanze sacre, e pure una «Sacra Scrittura»: la Dichiarazione di indipendenza e la Costituzione.
Il Minute Man Historical Park, tra Lexington e Concord, in Massachusetts, è il luogo in cui è cominciata la Rivoluzione, il 19 aprile 1775 (A Revolution begins – A Nation is bo). I visitatori hanno la possibilità di attraversare il campo in cui è stato sparato il colpo che dette inizio alla rivoluzione: «The shot heard round the world» (il colpo che si è udito in tutto il mondo), riprendendo una frase che è poi divenuta la strofa iniziale dell’Inno di Concord di Ralph Waldo Emerson e che già dimostra l’importanza e la carica simbolica attribuita all’evento. Quel colpo, sparato forse accidentalmente, dà inizio alla rivoluzione americana e ai successivi scontri tra i due eserciti: la milizia e l’esercito regolare britannico che avevano combattuto fianco a fianco pochi anni prima nella guerra franco-indiana. È il momento fondante della ribellione, quando prende vita ed esce allo scoperto dopo una serie di azioni segrete. È anche la prima volta che un esercito composto di miliziani sfida il più potente esercito dell’epoca.
Nel parco è presente una statua dedicata al Minute Man, il soldato della milizia, che diventa il simbolo di una battaglia e dell’impegno per l’affermazione degli ideali di democrazia e libertà, contro chiunque, anche se più grande e potente, come nel caso dell’esercito britannico, voglia negarli o metterli in discussione.

Il «non ritorno»
Moltissimi sono i parchi celebrativi della rivoluzione americana ed un altro che merita attenzione è il Saratoga National Historical Park: A Crucial American Victory (Una vittoria americana cruciale). A Saratoga, infatti, nell’autunno del 1777 le forze americane incontrarono, sconfissero e costrinsero alla resa l’esercito britannico, segnando «il punto di svolta della rivoluzione americana», espressione con cui la battaglia di Saratoga è poi stata conosciuta e tramandata. Saratoga ha, infatti, rinnovato le speranze di indipendenza e, nell’epica che circonda la rivoluzione, «ha cambiato per sempre il volto del mondo». Il forte significato simbolico della battaglia di Saratoga sta nel fatto che l’imponente esercito inglese fu costretto ad arrendersi agli americani, cioè, ancora una volta, a coloro che volevano creare un nuovo mondo basato su libertà, democrazia e giustizia.
La religione civile sembra finora aver garantito un’unità culturale, basata sulla conquista e la difesa della democrazia, sulla libertà e l’uguaglianza di diritti e di doveri, per un popolo dalle diverse fedi e culture. Ma in un momento storico caratterizzato dalla globalizzazione e dallo sviluppo di società sempre più complesse e multiculturali permane il dubbio se la religione civile possa ancora essere il collante in grado di tenere insieme una nazione. E se gli americani saranno ancora in grado di riconoscersi come cittadini di questo Paese.

Viviana Premazzi

Viviana Premazzi




Ho sentito un grido d’aiuto

Conversazione con padre Nicholas Muthoka

Tra risate fragorose e solennità del contegno, la missione italiana di un giovane sacerdote kenyano. Un autoritratto involontario, più che un confronto su grandi temi. Un piccolo spaccato di una nuova generazione di uomini consacrati, a cinquant’anni dal Vaticano II. Mentre il papa invita la Chiesa a pregare per le vocazioni.

«Tre parroci si trovano al bar e conversano su un problema comune: la presenza di pipistrelli nelle loro chiesette di campagna. Uno dei tre inizia: “Io ho provato col fucile, ma l’unico risultato è stato di riempire di buchi la chiesa”. “Io invece ho provato col veleno e sono spariti, ma dopo un po’ sono tornati”. “Io invece – dice il terzo – ho trovato la soluzione: li ho battezzati, poi li ho cresimati, e da allora in chiesa non si sono più fatti vedere”».
Il libro di «barzellette da preti» che padre Nicholas tiene in mano mostra i segni dell’usura, e il missionario ha tutta l’aria di conoscere bene il suo contenuto. Lo sfoglia mentre ci accoglie nel suo ufficio e ci fa accomodare su una sedia molto bassa. Sulla superficie di vetro della sua scrivania, sgombra e pulita, campeggia un piccolo crocifisso di bronzo che il nostro interlocutore sovrasta dall’alto.
Padre Nicholas fa precedere e seguire alla lettura delle barzellette le fragorose risate per le quali è ormai conosciuto da molti ragazzi, giovani e famiglie di Torino e dintorni.

A Roma con Marx
Padre Nicholas Nyamasyo Muthoka, nato nel 1981 a Machakos, provincia di Easte, Kenya, è stato ordinato sacerdote nel settembre scorso: «È stata la prima ordinazione nel mio paese da 37 anni a questa parte» dice con visibile orgoglio. Entrato nel seminario minore diocesano a 14 anni, ha sentito una seconda forte chiamata all’età di 18, quando ha iniziato l’iter formativo della Consolata che l’ha portato a Nairobi, Sagana, Roma e Torino, dove ora lavora.
«Fino a 14 anni ho studiato nel villaggio: studiavo, portavo al pascolo gli animali e lavoravo a casa. I miei genitori erano insegnanti, molto quadrati. Eravamo otto figli: uno è morto a causa del morso di un serpente. Siamo cinque maschi e due femmine. Ho studiato nelle diverse scuole in cui insegnava mia mamma, e per questo durante gli ultimi due anni non sono mai stato punito dagli insegnanti: mi dava lei le botte a casa. Però un giorno in cui lei non era a scuola, nell’ultima settimana della primaria, gli insegnanti si sono vendicati: non ricordo cosa avessi fatto, forse parlavo in classe, e me ne hanno dato tante».
Padre Nicholas ha un ricordo molto positivo degli anni in seminario, a eccezione del primo anno a Roma, nel quale ha sperimentato una crisi di fede dovuta alla discordanza tra ciò che vedeva nella «città del Papa» e l’idea che si era fatto dell’Europa cristiana. «Avevo idealizzato Roma considerandola il centro della fede. Mi aspettavo un altro modo di vivere il cristianesimo. In Europa la Chiesa che ho conosciuto dai missionari non è vissuta nella società. Sono venuto a contatto con una realtà che mi è sembrata senza Dio. Non riuscivo a capire come mai gli italiani che sono venuti in Kenya portando Gesù Cristo non prendessero con serietà la fede. Un mio fratello che aveva studiato Karl Marx, quando ero piccolo mi aveva detto che il cristianesimo era una creazione dei bianchi. Quando sono arrivato a Roma ho pensato: “Mio fratello aveva ragione”. Ora sono sette anni che vivo in Italia, la perseveranza mi ha aiutato a superare la crisi e adesso mi trovo molto bene tra gli italiani».

Missione Italia
Le statistiche dicono che in Asia c’è un sacerdote ogni 47mila abitanti, in Africa uno ogni 27mila, mentre in Europa ce n’è uno ogni 3.700 e in Italia uno ogni 1.200. Queste cifre sono forse uno dei motivi per cui gli europei, gli italiani, e gli stessi missionari nati nel Bel Paese, fanno fatica a considerare l’Italia come terra di missione. «Dire ai preti, ai Vescovi italiani, i quali hanno visto la loro terra dare tanti missionari per evangelizzare il mondo, che l’Italia è terra di missione, non è difficile. La maggior parte è d’accordo, lo afferma con decisione, ma in fondo non mi sembra convinta dentro, non lo sente. Il problema è una concezione riduttiva di missione per cui “ad gentes” è uguale a “mancanza di preti”. Non è vero. È questione di proporre una vita vissuta pienamente. Può anche esserci un prete ogni mille persone, ma se poi la società va per conto suo vuol dire che c’è ancora bisogno di evangelizzazione. Io ogni settimana incontro molti ragazzi nelle scuole, insieme parliamo delle cose concrete della loro vita: questa è evangelizzazione. La Chiesa non è presente lì dove vado io, è per questo che mi considero missionario».
Il nostro interlocutore si accalora parlando degli studenti incontrati nelle scuole superiori e ci parla di un altro preconcetto che rende difficile agli italiani considerare il proprio paese come luogo di missione: «I missionari spesso sono visti come uomini che vanno dai poveri per costruire scuole, ospedali, pozzi. Se la missione è ridotta a questo, l’Italia non è una terra di missione. Nelle problematiche sociali italiane, grazie a Dio, la Chiesa ha già un impegno forte senza bisogno di noi. Qui in Italia c’è un certo senso di autosufficienza, e questo fa male a tutti: quando vado nelle scuole e faccio vedere filmati che parlano di povertà, di guerra, di Aids, di conflitti intertribali, di solito i ragazzi sono d’accordo che sono situazioni in cui l’intervento di un missionario è importante, ma quando parliamo di divorzio, droga, solitudine, depressione, sofferenze che colpiscono le persone in Italia, allora dicono che sono cose normali, che non c’è bisogno dei missionari per affrontarle».
Forse perché parla di scuola e di studenti, padre Nicholas, dietro la sua scrivania, assume un contegno solenne da insegnante, alzando l’indice. «Italia ed Europa sono luoghi di missione perché non c’è la pienezza della vita di cui Gesù ha parlato, non c’è quella pace interiore che proviene dall’incontro con Cristo. Se non si attua un intervento educativo serio, concreto, io temo che quando questi ragazzi cresceranno e diverranno politici, dirigenti, ognuno penserà per sé, e allora, altro che democrazia».
La profezia funesta del missionario viene subito seguita dalla proposta di una soluzione: «Bisogna parlare di Dio: si possono affrontare le problematiche dei ragazzi a livello psicologico, di amicizia, però finché non si arriva a Gesù Cristo, non si risolve niente. Ci sono dei demoni che vengono cacciati solo attraverso la preghiera. Ci sono certe abitudini di vita, certi vizi, che, senza Gesù Cristo, non si possono superare. La missione è andare incontro alla gente che magari non soffre materialmente – benché con la crisi attuale si rischia di soffrire anche da questo punto di vista – ma soffre dentro».

Immaginario e realtà di due continenti
Data la sua esperienza italiana, ogni volta che torna in Kenya, padre Nyamasyo, come viene chiamato da alcuni giovani che lo frequentano, viene assalito da domande sul suo «paese adottivo» in modo del tutto simile a quello con cui in Italia si ricopre di domande il missionario che torna dall’Amazzonia o dalla Corea. «La gente è molto attratta. Quando sono stato a casa qualche mese fa ho dato dell’Europa un’immagine molto positiva: una Chiesa che ha radici, la serietà della gente nel darsi da fare, ad esempio sotto l’aspetto professionale, ma anche la sincerità delle persone. Parlo di queste cose per spronare i miei conterranei a imparare da questa società. Però poi metto in guardia, parlo della globalizzazione, dico che non tutto funziona, esorto i giovani a stare attenti ad alcuni disvalori europei come il mettere al centro i soldi invece della persona umana. Alcuni mi hanno chiesto: “possiamo venire in Europa a lavorare?”. Io ho detto loro che sarebbe meglio stare a casa per far sviluppare il Kenya».
L’immagine che nel suo paese si ha dell’Europa è quella attraente di un continente benestante in cui si vive nel benessere. È l’immagine di sé che l’occidente, tenta di dare al mondo, oltre che a se stesso, anche attraverso il possesso quasi esclusivo dei mezzi di comunicazione e d’informazione a livello globale. Chiediamo a padre Nicholas cosa ne pensa dell’immagine stereotipata dell’Africa che propongono i mass media italiani, accompagnati e confermati a volte da Ong e da missionari: quella di un continente in guerra, che soffre fame e malattie, popolato di gente priva di iniziativa, incapace di badare a se stessa, disperata. Il missionario, dopo la sua risata di rito, ammette di averci sofferto: «Temevo che incontrandomi, la gente pensasse di trovarsi di fronte a un poveretto, bisognoso di aiuto. Era una questione di autostima, di complesso d’inferiorità. Ora, avendo quotidianamente contatto con la gente e conoscendo i suoi pregiudizi, non ci soffro più. Un po’ è vero quello che viene raccontato dell’Africa: quando si parla di gente povera è vero. È vero che gli slums sono luoghi invivibili, che nel mio villaggio ci sono situazioni di orfani, di Aids, è vero che ci sono gli animali, ci sono i safari. È tutto vero. L’Africa non è tutta oro, però non è nemmeno tutta problemi! Che venga raccontata la verità non mi fa problema, l’importante è che tutti ci accorgiamo di non essere autosufficienti. Renderci conto che in Italia abbiamo i nostri problemi, che in Kenya abbiamo i nostri problemi».
L’immagine di Africa veicolata dai media fa il paio con l’immagine degli immigrati. «Io tecnicamente sono straniero, interiormente no. Ci sono miei amici che hanno vissuto esperienze di razzismo. Personalmente non ho mai subito discriminazione. Forse perché sono prete. Anche nelle famiglie che incontro, o con gli anziani. Parlando con loro ho riscontrato che c’è paura del migrante, dell’invasione, però è una paura ideale, che non ha conseguenze nell’incontro personale. Ad esempio mi capita che persone mi fermino per chiedermi indicazioni sulle strade. Se ci fosse razzismo, non chiederebbero a me». In ogni caso, il problema dell’intolleranza nei confronti dell’altro è una caratteristica di tutti i popoli: «In Kenya c’è tra le diverse etnie. L’arrivo di migranti non è percepito come un problema di per sé, non c’è la paura di un’invasione. Se l’arrivo di somali, ad esempio, provoca reazioni di intolleranza è per questioni di etnia. Per i kenyani il problema sta nel fatto che siano somali. L’intolleranza è quella tra le diverse etnie per questioni storiche. Ad esempio per l’etnia dei kamba, a cui io appartengo, nei tempi antichi l’intolleranza verso altri era una questione di orgoglio: l’etnia kamba era quella perfetta, scelta da Dio, aveva gli usi e costumi più belli. Gli altri erano stranieri, cattivi. I miei antenati andavano regolarmente ad attaccare i masai, che erano i nemici perfetti, non perché avessero fatto chissà cosa, ma perché erano masai. È una questione storica che si deve leggere negli usi e nelle tradizioni, e poi c’è la manipolazione dei politici a fini elettorali».

«Ho sentito il grido del mio popolo»
Il giovane missionario in altre occasioni ci aveva detto di aver capito alcune problematiche del suo paese stando in Italia, in particolare venendo a contatto con la realtà del consumo critico e parlando con le famiglie che fanno parte del Consolata GAS, Gruppo di Acquisto Solidale nato nel Centro di Animazione di Casa Madre. «Io non ho mai vissuto in uno slum. Ci sono andato una volta. Però mi sembrava normale. Vicino al mio villaggio c’è una multinazionale che produce cemento. Questo si sparge tutto attorno entrando nei polmoni delle persone che vivono nella zona. Di questo la gente non si accorge, pensa che sia tutto normale, che siano i wasungu che lavorano come sempre. Ho sempre saputo che il Kenya è un paese povero. Ciò che non sapevo era il perché. I meccanismi dell’economia internazionale, l’impoverimento, le multinazionali straniere che sfruttano le nostre terre». Il suo modo solenne di parlare, tra uno scoppio di risate e l’altro, diventa ancora più grave: «Ci sono persone abituate a fare distinzioni tra il sociale e lo spirituale. Le problematiche sociali ci interrogano, e la fede senza le opere è morta: non si può distinguere tra una Chiesa che si impegna socialmente e un’altra che si impegna spiritualmente. È l’unica fede che si esprime nell’aiuto al povero e nella preghiera: è il pane spezzato, l’unico Gesù Cristo. Allora le problematiche sociali riguardano lo spezzare il pane. “Ho sentito il grido del mio popolo”, dice il Signore a Mosé. “Date voi da mangiare”, dice Gesù. Non si può convivere con il peccato, anche con quello strutturale, ossia l’ingiustizia sistematica, lo sfruttamento dell’altro».

Italia (e giovani) in crisi esistenziale
Padre Nicholas ha assistito all’esplosione della crisi economica che sta colpendo l’Italia. Nonostante si dichiari a più riprese inadeguato a fare commenti rispetto alla situazione economica e politica italiana, gli chiediamo di dirci qualche sua impressione a pelle: «Penso che la crisi sia reale, però i timori sono esagerati. Gli italiani non sanno cosa significa non avere patrimonio, non avere niente. Io vengo da un paese povero. La mia famiglia non è povera perché i miei genitori lavoravano entrambi, e noi figli abbiamo studiato tutti. Però ho vissuto in una situazione in cui non c’era patrimonio. In Italia c’è da ringraziare Dio per il patrimonio che i genitori hanno potuto accumulare negli anni per aiutare i figli. Per dirla in poche parole, non vedo che gli italiani muoiano di fame. C’è però una seconda considerazione: i ragazzi non sono pronti a vivere nella precarietà economica, e la mancanza di lavoro li manda in crisi. La loro preoccupazione è giusta, non perché manchi qualcosa: si mangia, si comprano i biglietti per il concerto, si va al cinema, in piscina, la vita va avanti. Ma la preoccupazione è seria perché i ragazzi non sono pronti, e questo li manda profondamente in crisi. Se mio fratello sta un anno o due senza lavorare, si preoccupa, però non va in depressione. Qui entra in gioco una questione esistenziale».

Evangelizzare la cultura
Il riferimento reiterato al mondo giovanile italiano che il nostro interlocutore sta iniziando a conoscere nella sua frequentazione delle scuole, ci induce a chiedergli di descriverci un po’ meglio in cosa consista il suo lavoro di evangelizzazione: «L’Occidente ha un ruolo importante nel mondo, e i ragazzi che incontro nelle scuole saranno i futuri leader dell’Europa. Bisogna essere presenti dove si crea la cultura per mettervi la luce del Vangelo. Stimolare i ragazzi a prendere sul serio la loro vita. Il lavoro che faccio nelle scuole consiste in un confronto culturale ed evangelico con i popoli del mondo, partendo dal grosso patrimonio accumulato dai nostri due istituti di missionari e missionarie della Consolata. Come vivono gli altri il corpo, la sessualità, la libertà, la progettualità, la condizione giovanile, gli aspetti profondi della vita? Partiamo da questi aspetti, poi ci interroghiamo su come i nostri ragazzi vivono le stesse esperienze, e infine arriviamo alla visione cristiana».
Per padre Nicholas è un lavoro di evangelizzazione: la sua intenzione è vocazionale, vuole cioè che i ragazzi si rendano conto della serietà della vita, e aiutarli a scoprire la loro strada.
«I missionari sono quelli che vanno. I primi missionari andavano nei villaggi. Leggendo la realtà di Torino mi sono chiesto: quali sono i villaggi nei quali posso andare? Ho identificato la scuola, e in essa mi sto impegnando».

Vocazioni, dono della carità di dio
Il 29 aprile si celebrerà la giornata mondiale di preghiera per le vocazioni. Il messaggio del papa si intitola: «Le vocazioni, dono della carità di Dio», e lo slogan pensato dalla Cei per la stessa giornata è: «Rispondere all’amore… si può». «Io ho iniziato il cammino per diventare prete perché ho visto il mio parroco lavorare. Ho visto quello che faceva e ho pensato: “Posso anche io fare questo”. La mia vocazione è nata in un contesto di Chiesa che vive e serve. E la maggioranza delle vocazioni nascono così, come doni della carità di Dio e non come risposta a un’esigenza personale, o della propria famiglia. La vocazione è questo: rispondere all’amore che abbiamo ricevuto. Chi ha ricevuto tanto dona tanto e viceversa. Nel contesto dell’Italia di oggi, i ragazzi che incontro, non so quanto amore abbiano ricevuto. Dio dona alla Chiesa le vocazioni, ma a seconda dell’amore che le persone hanno ricevuto. La missione è aiutarle a sperimentare veramente l’amore di Dio. Quando l’avranno sperimentato, si potranno donare. Un ragazzo a scuola mi diceva: “L’amore non è possibile: i miei si sono separati e nessuno mi ha interpellato. Litigavano, volavano i piatti. Mia sorella si è sposata e si è separata. Mia cugina si è sposata ed è durata un anno”, sembrava una litania. E questa situazione oggi è generalizzata. Dobbiamo buttarci a insegnare a questi ragazzi e alle famiglie come vivere l’amore, così che si possano donare. Come dice padre Franco Gioda: “Lì dove c’è una lacrima noi dobbiamo esserci”».
Padre Nicholas, al richiamo del pranzo ormai pronto nel refettorio della Casa Madre dei missionari della Consolata, ci congeda, mettendo nuovamente al centro il libro con il quale ci aveva accolti: «Un giovanotto va dal parroco gesuita della sua parrocchia a chiedergli in prestito l’automobile. Il gesuita gli dice: “Non te la darò se prima non ti tagli i capelli!”. Il ragazzo fa: “Padre, ma anche Gesù aveva i capelli lunghi…”. E il gesuita: “Infatti andava a piedi”».

Luca Lorusso


Luca Lorusso




L’Arca secondo Anna

Una vita dentro l’Arca

Anna, 68 anni, è italiana di nascita ma francese di adozione. Il suo racconto ci porta sui passi di una conversione personale verso la non violenza.

C’è un termine portoghese, cantinho, che descrive al meglio la sensazione che si ha entrando in casa di Anna. Il cosiddetto cantinho si utilizza per indicare un angolo familiare e accogliente nel quale rifugiarsi per trovare ristoro. Così è l’appartamento di Anna: piccolo, profumato di legno chiaro e con una vista impagabile sull’abbazia di St. Antornine. Il dialogo con Anna è un tempo di perfezione «assoluta». Si instaura quella semplice intimità che solo la verità può trasmettere. Anna è forte e la sua forza le regala un aspetto giovanile e dinamico. Con voce calda e modulata si racconta e racconta.
«Provengo dalla cultura degli anni ‘60, quando i giovani si sentivano desiderosi di scoprire culture diverse, vivere la spiritualità in maniera più autentica, conoscere l’India. Il grande sogno era potersi differenziare dai propri genitori e stravolgere il mondo».

Anna, cosa ti spinse a ricercare uno stile di vita diverso?
«Tre aspetti influenzarono le mie scelte: la cultura degli anni ‘60 e il sogno che rappresentava (nel 1968 mi trovavo a Parigi), la ricerca di una vita spirituale coerente e di un’esistenza “giusta”. Nel 1969, mio marito ed io, che al tempo abitavamo in Franca, conoscemmo Lanza del Vasto. Fu durante la conferenza che tenne, nella piccola cittadina della Bretagna dove ci trovavamo. Mi accorsi che dietro il dibattito filosofico c’era una proposta di vita reale. Lanza del Vasto aveva fondato una comunità di gente che aveva scelto di abbandonare una vita privilegiata e di battersi per la giustizia».

La decisione di entrare in comunità fu immediata?
«Non immediata ma risoluta. Con Lanza del Vasto scoprii Gandhi e la nonviolenza. Avevo il desiderio di vivere la nonviolenza ma non sapevo come metterla in pratica. Dopo aver iniziato un percorso di lettura sui libri di Lanza del Vasto, andammo nel 1974 per due settimane alla Borie Noble. Cinquecento ettari di terra e sassi: una vera comunità rurale senza elettricità, acqua calda e nessun tipo di tecnologia. Per noi fu la scoperta della bellezza assoluta. Lanza del Vasto diceva: “Qual è la forma della verità? È la bellezza”. Non vanità e ostentazione, bensì sobrietà e bellezza. La chiave per elevarsi e vivere pienamente la spiritualità. Dopo un altro mese di prova comunitaria, nel 1976 lasciai il lavoro di assistente sociale, mio marito diede le dimissioni e, insieme alle nostre due bambine, ci trasferimmo alla Borie Noble».

Come rispose la comunità alle vostre necessità di cambiamento?
«La vita all’Arca corrispondeva a ciò che desideravamo: una vita molto attiva per quanto riguardava l’azione nonviolenta e vissuta con estrema semplicità. Occorreva solo essere lì: “presenti al presente”. Anche la scuola era all’interno della comunità in un’ottica di coerenza tra l’ideologia comunitaria e i programmi didattici. La vita spirituale era molto aperta e non dogmatica, scandita nei tempi di silenzio, nella preghiera e nella meditazione. “Ciascuno approfondisca la propria tradizione religiosa e impari a conoscere le altre, riconoscendone i tesori”, erano le parole di Lanza del Vasto».

Dieci anni alla Borie Noble. E in Italia, cosa stava accadendo?
«I dieci anni alla Borie Noble sono stati gli anni più intensi della mia vita. Eravamo convinti che avremmo cambiato il mondo e questa forza si avvertiva a distanza. Molti giovani arrivavano alla Borie Noble e ne sposavano la filosofia. Nel frattempo, i libri di Lanza del Vasto iniziarono ad essere tradotti e conosciuti anche in Italia. Era il tempo delle conferenze che portò molti italiani a conoscere l’Arca. Iniziammo così ad organizzare campi estivi in Italia, a San Vito dei Normanni, città natale di Lanza del Vasto, con una partecipazione sempre più numerosa di italiani: oltre le 150 persone».

Nel 1981 muore Lanza del Vasto, cosa accadde nell’Arca?
«In Italia il movimento dell’Arca era fervido e così nel 1986 monsignor Luigi Bettazzi mise a nostra disposizione un casale a nord di Ivrea con 7 ettari di terra intorno. Fu un periodo di splendore e di approfondimento di ciò che avevamo appreso nei primi 10 anni. La divulgazione dell’azione nonviolenta, la semplificazione della vita prese forma anche in Italia e richiamò molti seguaci».

Dal 1993 vivi a St. Antornine, perché questa comunità?
«Nel 1993 la comunità in Italia morì e, in seguito a una mia profonda crisi personale ed esistenziale, scelsi di venire a vivere qui. St. Antornine era una grande e giovane comunità che aveva iniziato un lavoro di rivisitazione dei fondamenti dell’Arca: un’indagine su cosa fosse essenziale mantenere all’interno delle comunità e cosa si potesse invece eliminare. In questo senso St. Antornine intraprese un importante lavoro psicologico e spirituale, approfondendo le scienze umane su cui Lanza del Vasto non ci aveva lasciato strumenti adeguati».

Lanza del Vasto parla spesso di unità tra vita e parola. Nel tuo cammino è stato possibile tutto ciò?
«È stato possibile solo quando mi sono accorta che era indispensabile cercare l’unità in me stessa. Un grosso lavoro impregnato di psicologia e spiritualità. È stata la scoperta dell’assioma che si potrebbe formulare così: non puoi cambiare nulla intorno a te se prima non cambi te stesso. Viviamo tempi caotici dove tutto evolve ma se non si parte da noi non può avvenire nessuna trasformazione sociale. La vita quotidiana in comunità mi regala un’unità di vita e mi aiuta a chiedermi: sono in unità con me stessa? Ho capito dove sono violenta con il mio essere e mi sto dando degli strumenti per aiutarmi? È un lavoro interminabile ma fondamentale».

Nel tuo percorso di riconciliazione dove è intervenuta la spiritualità?
«Non sono cattolica ma cristiana e solo facendo questo profondo lavoro su me stessa ho riscoperto il Vangelo. I testi mi parlavano di ciò che mi stava accadendo. Ho appreso solo con il tempo che per essere in equilibrio occorre riconciliarsi con la propria storia, uscire dalla maledizione per entrare nella benedizione. Ho imparato a vivere la vita pensando che è una storia sacra, che ha un senso e che deve convergere verso lo stesso punto. Presenza e conciliazione, speranza e fiducia, accettazione del presente possono aiutarci a lodare ogni giorno la bellezza della vita».

E dentro l’Arca, che importanza ha la fede e come è vissuta?
«Per l’Arca è in tutto. Pulire per terra è spiritualità, lavorare nei campi, scrivere, mangiare… vivere con la coscienza di una vita spirituale.
Il richiamo alla vita spirituale è fermarsi. Noi abbiamo la campana che suona tutto il giorno e sappiamo che in taluni momenti dobbiamo “richiamarci a noi stessi”. Ma questo “prendersi il tempo” si può fare ovunque».

Per noi, estei alla comunità e in preda al caos, come può avvenire questo «tempo benedetto»?
«Riferendosi alla spiritualità, Shantidas diceva: “È l’inizio di una grande avventura”. Qualsiasi cosa si stia facendo, si interrompe un attimo, ci si mette in asse con se stessi e ci si riappropria del proprio essere. Si può cominciare con 15 minuti di meditazione silenziosa o con un testo sacro, lasciandosi parlare diritto al cuore, alla propria vita. Il tempo della preghiera serve a ricordarci il perché del nostro essere nel mondo. Qui e ora. Ha un senso la nostra vita? Da dove veniamo e dove stiamo andando?
Poi, c’è il tempo della gratitudine, della coscienza dell’amore di Dio, scoprendo chi è per noi Dio. Mettersi allo scoperto con tutte le nostre piccolezze e meschinità, certi del suo amore».

L’azione nonviolenta: come si traduce praticamente?
«Con progetti ad hoc contro gli Ogm, supportando l’immigrazione, accogliendo i rifugiati politici e lottando per l’antinucleare e per il disarmo nucleare della Francia. Abbiamo inoltre una équipe che si occupa di sensibilizzare i giovani alla nonviolenza nelle scuole. Siamo, da sempre, disponibili ad accogliere chiunque voglia sperimentare la vita comunitaria. È un’accoglienza gratuita che permette alle persone interessate di vivere il nostro stesso stile di vita».

L’Arca è strutturata in maniera gerarchica?
«Un responsabile di casa viene eletto ogni tre anni dal Capitolo, ovvero l’insieme delle persone che sono impegnate nella casa. Si diventa membri dopo uno stage di un anno a cui segue un postulato di due anni. Nessuno dei membri ha un lavoro esterno, ma ognuno ha un’occupazione all’interno della struttura. Dopo un mese di stage nella comunità, si può partecipare alle riunioni settimanali della casa».

Come sopravvive l’Arca economicamente e come sono gestite le finanze di voi membri?
«Attraverso l’affitto delle sale dedicate a conferenze, seminari e sessioni di formazione e con l’area attrezzata per l’accoglienza dei gruppi. Il ricavato confluisce in un’unica cassa che viene poi ripartita ai membri per le spese personali. In qualità di single percepisco un piccolo contributo mensile, non è certo un lusso ma permette una vita più distesa rispetto a quando non era contemplato».

Semplificare la vita o essere radicali. Cosa ti ha insegnato l’Arca?
«Mi ha insegnato che l’essere troppo radicali può essere deleterio. Le comunità sembravano inizialmente concepite solo per i giovani: senza luce, con i bagni spartani, isolate dal mondo. Le cose cambiano, la gioventù passa e anche le comunità si sono dovute adeguare, perché quello che conta maggiormente è l’attenzione verso la persona. Se a 30 anni non importa avere l’acqua calda e la doccia in casa, a 80 diventa un fattore non più trascurabile. Complice della semplicità deve essere sempre il rispetto e la conoscenza delle esigenze personali».

Possiamo dunque definire «decrescita» misurata lo stile di vita attuale?
«Non amo molto il termine decrescita. Quello che mi nasce dal cuore è invece un elogio della ricchezza: esser ricchi dentro per poter condividere. Oggi, ho piena coscienza che le macchine sono solo strumenti per poter lavorare meglio, il computer ci aiuta nelle relazioni, ci mette in contatto con il mondo. La vita è movimento e se si rimane indietro si rischia di rovinare il cammino intrapreso fino a quel momento. Le crisi comunitarie, come quelle personali, servono proprio a riflettere sui passi fatti e a “purificarci” dalle cose inutili».

Quali differenze tra chi vive nelle case e chi si impegna solo nel movimento?
«Fino al 2005 l’Arca era un ordine, non religioso, composto da persone che si impegnavano con i voti. Venivano soprannominati “compagni” quelli che vivevano insieme la stessa regola di vita nella casa comunitaria e “alleati” coloro che si impegnavano per il movimento dell’Arca al di fuori delle strutture comunitarie. Oggi, non esiste più differenza tra chi vive all’interno e chi all’esterno. Il rinnovamento è dato dal medesimo impegno sia per i compagni sia per gli alleati che sottoscrivono la Carta dell’Arca. Questa trasformazione è stata necessaria perché le case comunitarie iniziavano a chiudere e si sentiva la necessità di far vivere il movimento. Solo le comunità che si sono trasformate e hanno saputo adeguarsi ai tempi sono riuscite a sopravvivere».

Puoi regalarci una tua immagine sul futuro dell’Arca?
«Quest’anno ci sarà il Capitolo generale e potremo fare un vero bilancio di questi ultimi anni. Personalmente mi sembra che ci sia un buon fermento, che molti giovani si stiano impegnando nel movimento. Quello che ho potuto notare come responsabile per 10 anni della nonviolenza nell’Arca è che, aldilà dei limiti stessi della comunità che vanta solo 200 persone impegnate in Europa, l’Arca rimane una porta aperta su un mondo “altro” fatto di riconciliazione, conciliazione e unità».

Gabriella Mancini

Gabriella Mancini




Obiettivo: vita comunitaria

Le famiglie e la vita nell’Arca

Durante la nostra visita all’Arche conosciamo in refettorio una giovane famiglia. Manuelle e Emanuel hanno 3 bambini: la primogenita di 7 anni, un piccolo di 5 e una neonata di 7 mesi. Vivono in comunità da 4 mesi e ci raccontano le loro motivazioni e la loro esperienza.

L’appartamento di Manuelle e Emanuel è lo specchio della vivacità familiare. Giochi sparsi, un buon profumo di biancheria e molta energia nell’aria. A loro sono riservate tre stanze: una per i due bambini più grandi, un luminoso tinello in cui ci accolgono e un piccolo studio che funge da camera da letto per loro e per la piccolina.

Chiesa e vita comunitaria
«L’Arca è per noi l’opportunità di fare la vita comunitaria che desideravamo. Io sto partecipando alla Fève e mia moglie segue i bambini e fa vita comunitaria; l’anno prossimo faremo il contrario. Alla fine dei due anni avremo un’idea chiara per valutare se il nostro futuro sarà dentro l’Arca o altrove. Quello che possiamo dire, per questi primi mesi, è che la qualità della vita qui è molto buona». A parlare è Emanuel, da sei anni Pastore della Chiesa Riformata di Francia, che ci racconta anche come è nata l’idea di un’esperienza nell’Arca. «Ho sempre cercato, anche nella mia parrocchia in ambito rurale, di creare uno stile di vita comunitario. Celebravo il culto, ero a disposizione dei parrocchiani, insegnavo il catechismo. Quello che auspico di fare nel futuro è di riuscire a conciliare i due aspetti: la vita comunitaria “durante la settimana” e la celebrazione del Culto la domenica».

Ecumenismo e riforme
Il carattere aperto ed ecumenico dell’Arca ha permesso al pastore protestante Emanuel di entrare in comunità e partecipare alla Fève. Gli chiediamo un ritratto della spiritualità all’interno dell’Arca. «Lanza del Vasto era cattolico ed era la guida assoluta. Anna, Jeannette e Michèle ci raccontano che lui pensava e gli altri lavoravano. Successivamente la comunità ha vissuto la spiritualità in modo differente. Oggi, non esistono più patriarchi e gli aspetti conservatori sono stati eliminati. È stato come un movimento di riforma all’interno dell’Arca stessa. Questo consente una grande autonomia di decisione e la massima apertura in termini di spiritualità e scambio con le altre religioni». 
Gli chiediamo se c’è qualcosa di particolarmente rilevante nella vita all’Arca: «Molti anziani vengono in questa comunità sperando di potersi fermare a vivere ma l’Arca non è organizzata per questo. Per Michèle e Jeannette che hanno sempre vissuto qui è differente, ma per chi non ha fatto un certo percorso è difficile. Lo sperimentare la vita comunitaria mi ha fatto pensare che sarebbe interessante creare una comunità per persone anziane sole, non una casa di riposo ma uno spazio aggregativo, dove ognuno conservi la propria indipendenza, il proprio talento e si renda utile alla comunità».

Vita di famiglia nell’Arca
Lasciare il proprio lavoro (Manuelle è psicomotricista), cambiare scuola ai bambini e fare “famiglia” all’interno di una grossa comunità come questa, comporta molti cambiamenti.
A rispondere è Manuelle: «I bambini sono molto contenti di vivere in questa grande casa famiglia. Si sono create subito delle relazioni con gli altri bambini e non esiste il problema del babysitting (Manuelle sorride). Non è tutto così semplice però, occorre dialogare molto con loro e spiegare che le dinamiche della comunità sono differenti da quelle della famiglia mononucleare. Questa particolare struttura dell’Arca è grande e nel week end si riempie di gente che prenota le sale per conferenze o seminari, ai bambini è necessario mettere delle restrizioni perché la sicurezza non è certo quella delle quattro mura di casa. Manca sicuramente il controllo e l’intimità. La grande casa è protettrice ma a volte anche un po’ opprimente e non mancano i sacrifici in termini di “decrescita”. Per noi che siamo stagisti e non membri della comunità non è disponibile un bagno privato nell’appartamento e questo, con tre bimbi, non è sempre semplice.
Non da meno è la differenza con le altre famiglie sui metodi pedagogici. Noi siamo contrari a far vedere la televisione ai bambini ed altre famiglie invece accettano che televisione e computer siano sempre a disposizione dei piccoli. Su questo, il cammino verso la nonviolenza insegna molto: imparare a relazionarsi attraverso il dialogo e a smussare gli attriti, accettando le differenze, favorisce la convivenza pacifica. In questo senso sono già state fatte molte migliorie rispetto al nostro arrivo e la motivazione, comune a tutti, a vivere in armonia facilita e rende piacevole il quotidiano».
Rimettersi in discussione con la propria famiglia ed entrare in una grande comunità, con le sue regole e i suoi tempi è una bella sfida. Ma, esiste una sorta di gerarchia all’interno dell’Arca e da chi vengono prese le decisioni più importanti? «È necessario fare una puntualizzazione e dividere la vita dell’Arca in due tempi». A parlare è nuovamente Emanuel, mentre la moglie ci versa una tisana e richiama a un po’ di disciplina i piccoli nella stanza accanto. «Una volta si era più dipendenti, perché chi sceglieva la vita in comunità non aveva lo stipendio ed era supportato completamente dalle finanze comunitarie. Oggi, ogni famiglia ha un piccolo introito mensile con cui decide la priorità delle proprie spese. Nessuno controlla o si permette di criticare le scelte fatte. Le decisioni generali sulla comunità vengono prese dai membri stessi, mentre noi stagisti partecipiamo a delle commissioni operative che approfondiscono le varie problematiche e cercano le soluzioni. Ogni settimana c’è una riunione della casa in cui sia i membri che gli stagisti partecipano. Qui si discute tutti insieme e si  prendono decisioni comuni. Il principio cardine di tutto il nostro lavoro è che non ci si può fermare. La nonviolenza e la spiritualità sono un cammino perenne, una ricerca costante di equilibrio e coerenza prima dentro se stessi e poi nelle relazioni interpersonali».

Gabriella Mancini

Gabriella Mancini




A scuola di saggezza

I giovani e la vita nell’Arca

Sempre più incuriositi dai due anni di formazione alla non violenza, la cosiddetta Fève (Formazione e sperimentazione alla vita comunitaria), ci rechiamo nella biblioteca comunitaria dove ci aspettano Marie e Vincent.

Ci troviamo davanti due ragazzi poco più che ventenni, dai tratti fini e dai modi gentili. Sono fidanzati e hanno deciso di affrontare insieme il percorso della Fève. Marie, 24 anni, è nata e cresciuta nell’Arca di St. Antornine, ma ha già sperimentato cosa significhi vivere al di fuori dell’abbraccio della comunità. «Quando cresci nella comunità non ti fai molte domande, non ti rendi conto di vivere in modo “alternativo”. Vedi tante persone. Alcune le conosci da sempre e sono la tua famiglia, altre restano per qualche anno, altre ancora passano e se ne vanno».
Anche lei se n’è andata, ma solo per un po’. Tre anni di psicologia all’università, Barcellona, Grenoble, l’adesione insieme a Vincent al movimento degli Squatters. In mezzo anche un’esperienza all’altra Arca, quella rurale della Borie Noble. Utile, questa, per imparare tanti mestieri manuali, trovare un proprio stile di vita, un saper-fare che garantisca il necessario sostentamento senza vincolarsi a un lavoro di routine, che Marie dimostra, anche in modo molto espressivo, di aborrire. «Vivere insieme non è facile, ho constatato quanti conflitti possano sorgere anche tra individui pieni di buona volontà. Gli spazi comuni sono luoghi di equilibri delicati. Per viverli senza conflitti bisogna darsi delle regole e maturare come individui. La Fève è stata concepita qui a St. Antornine da persone con l’esperienza adatta a comprendere e spiegare le difficoltà e gli ostacoli che si incontrano nelle relazioni di coppia, di famiglia o di comunità. In questo modo ci prepariamo al futuro, seminando il grano della nonviolenza dentro di noi con la speranza di essere un giorno adulti migliori, almeno di averci provato forse più seriamente dei nostri coetanei degli anni ‘70, che in molti casi hanno fallito nel tentativo».

Il mondo cambia, i giovani anche…
«La violenza distrugge i progetti collettivi», a parlare è ora il ventitreenne Vincent. «L’ho sperimentato nelle “occupazioni” e nei tentativi di comunità fatti in modo “artigianale” dai miei amici, ai quali mi sono avvicinato con curiosità e interesse negli anni passati. Qui stiamo imparando strumenti e antidoti a queste pulsioni, lavoriamo sulla qualità dei rapporti interpersonali, imparando le tecniche di comunicazione nonviolenta, anche di matrice americana, e i metodi di gestione dei conflitti e della riconciliazione».
Vincent è un geografo, il suo sogno di ragazzino era lavorare al «Departement National de Geographie». Le esperienze di vita, la maturazione personale e il mutato scenario del mondo del lavoro lo hanno cambiato. Politicamente si sente un anarchico, ma ha capito che vivere un’esistenza individualista, creare una famiglia chiusa su se stessa o difendere un salario fisso non è quello che desidera per sé.

Formazione e sperimentazione
Marie ci parla ancora delle Fève: «È un progetto nuovo, questo è il suo secondo anno. È un corso non ancora riconosciuto dallo stato, che si avvale però di formatori estei, psicologi e professori provenienti dal mondo delle Università. Il numero di partecipanti è variabile, ma non dovrebbe superare le 12 persone all’anno, con età non superiore ai 35 anni. L’ammissione è sottoposta al giudizio dei membri della comunità che verificano comportamenti e motivazioni nell’arco di una settimana di vita comunitaria, obbligatoria e propedeutica per chi desidera intraprendere questo cammino. La formazione avviene a settimane altee, nella prima si fanno le sessioni formative che durano circa tre giorni. Nela successiva si sperimenta ciò che si è appreso, vivendo e lavorando insieme agli stagisti e ai membri stessi dell’Arca. Ogni settimana, al martedì pomeriggio, interviene una psicologa, con cui ci si confronta sui problemi legati alla convivenza e ai rapporti interpersonali. Lo facciamo tutti insieme, senza false ipocrisie o remore di sorta, con i membri dell’Arca».

Decrescita economica e crescita interiore
Chiediamo, pragmaticamente, se il corso della Fève potrà dare sbocchi lavorativi per il suo futuro. La domanda è evidentemente quella sbagliata, non sembra essere apprezzata da Marie che ci risponde con una piccola smorfia sul volto.
«Forse sì, forse no. Alcune associazioni sono interessate a replicare un corso sulla nonviolenza. In generale c’è fermento e voglia di divulgare. Piuttosto all’interno della comunità si imparano molti lavori: giardinaggio, cucina, vasellame, cucito, questi sì utili per il nostro futuro e per le persone che sono vicino a noi».
Stiamo parlando con una ragazza che non avverte certo l’ansia di trovarsi un lavoro, che sente l’urgenza di una crescita personale più che economica. Ma, di fronte alla scelta di Marie come reagiscono gli amici e i conoscenti?
«In generale, quando parlo per la prima volta dell’Arca, cioè dell’eco sistema in cui sono cresciuta, le persone si spaventano, non capiscono o confondono il concetto di comunità, ad esempio, con “sesso libero’”. Li invito a conoscerci e chi viene qui, si trova sempre a suo agio, si diverte e resta piacevolmente sorpreso. La reazione dipende comunque da persona a persona: ci sono i ricettivi e ci sono gli scettici».

La spiritualità nelle giovani leve
Come vivono la spiritualità i giovani come te, cresciuti qui? «La ricerca spirituale vuol dire, per noi, soprattutto fermarsi e fare spazio, riflettere. Il rappel (richiamo), il suono della campanella durante la giornata, serve proprio a questo. È un suono che arriva improvviso e ci dice di fermarci un momento per dedicarci a noi stessi e fare un minuto di meditazione. I giovani amano molto questa cosa. La preghiera resta un gesto soprattutto privato, come nella società estea. Chi è cresciuto qui, in genere, ama molto i rituali, i bambini ed i ragazzi vanno sempre alla preghiera della sera. Ma c’è chi non ci va: mia sorella, ad esempio (ride…). Ma in generale gli aspetti ecumenici sono molto apprezzati».
Decidiamo di salutare Marie e Vincent con una provocazione. La Francia di oggi, come vi considera? Gli ultimi seguaci di una bella utopia o cos’altro?
Marie sorride ma evita il trabocchetto. «È una bella utopia, ma funziona, tant’è che le comunità dell’Arca esistono da più di 50 anni. Ci sono membri che hanno trascorso tutta la vita in queste comunità. In Francia c’è un buon movimento, spesso mirato a obiettivi specifici, che collimano con le battaglie molto concrete che anche le nostre comunità hanno “combattuto” in passato. L’anti Ogm e il localismo di Josè Bové è una di queste. C’è molta gente che conosce il pacifismo, ma sa poco di comunicazione nonviolenta, e di nonviolenza intesa soprattutto come lavoro dell’individuo su se stesso».
Come non darle ragione? L’Arca di Lanza del Vasto, profeta della nonviolenza, ha introdotto già dalle sue origini concetti ultra modei. Ha cercato «l’altro mondo possibile», la «decrescita felice», il sostentamento a chilometro zero, in tempi non sospetti. Ha perseguito con fermezza e caparbietà la promozione dell’essere umano, andando molto oltre i concetti di tolleranza e solidarietà.

Luca Cecchetto

Luca Cecchetto




Tra tradizione e modernità

Incontri

Michèle e Jeannette sono le due donne più «mature» della comunità dell’Arca di Saint Antornine. Attraverso le loro parole, percorriamo un pezzo della loro vita personale e della storia della comunità.

Bussiamo alla porta di Michèle all’imbrunire. La sua abitazione – seppur piccola come tutti gli appartamenti riservati ai single – trasuda eleganza e cultura. Alle pareti, quadri, icone e fotografie testimoniano una vita di ricerca e di «bellezza» nel senso alto del termine. È Michèle, una gentile signora francese di 82 anni, a raccontarci i primi tempi della vita in comunità con Lanza del Vasto.

Un incontro che cambia la vita
«Sono cresciuta all’ombra di due differenti religioni, quella cattolica di mia madre e quella ebraica di mio padre. L’incontro con Shantidas è stata la luce che ha illuminato la mia vita spirituale e quella di molti della mia generazione. Avevo 26 anni e lavoravo all’Università come medioevalista e archeologa; mio marito ne aveva 31 e apparteneva alla famiglia dei proprietari dei Magasins Printemps di Parigi, di cui al tempo ne era anche il direttore. Un giorno Lanza del Vasto tenne una conferenza sulla non-violenza gandhiana presso l’Università dove lavoravo. Vi partecipai insieme a mio marito – con cui condivisi tutto fino alla sua morte – e con un gruppo di colleghi, professori e ricercatori. Le sue parole e la sua figura ci ammaliarono: sobrietà, dignità e intelligenza ci conquistarono, così come la sua bellissima moglie Chanterelle, di origine ebrea. Inizialmente li seguimmo non tanto come maestri ma come un padre e una madre. Era la fotografia di un patriarcato con figli non piccoli ma maturi, tutti con dei pensieri già costruiti e una vita alle spalle».

Le prime comunità
Mentre Michèle parla è come se gli arredi stessi raccontassero di un tempo, le luci soffuse e i libri sparsi trasmettono memorie e saperi. Così, insieme alla sua voce, torniamo indietro nel tempo e possiamo ripercorrere la fondazione delle varie comunità. «Quando decidemmo di aderire al movimento dell’Arca avevamo quattro figli, un quinto sarebbe poi nato nelle comunità. Lasciammo i nostri lavori per dedicarci totalmente al movimento. Non rimpiansi mai la decisione presa. I primi anni ci stabilimmo in una casa di proprietà di Chanterelle a Vaucluse, dove rimanemmo per sei anni; successivamente costruimmo la comunità della Borie Noble in una zona al tempo completamente abbandonata. Non avevamo preconcetti verso la proprietà privata, si faceva uso di donazioni di benefattori e del lavoro degli uomini e delle donne della comunità che di volta in volta si trasformavano in muratori, contadini, sarte, tessitrici, ricamatrici etc. Essere un membro dell’Arca voleva dire innanzitutto essere coerente con ciò che si pensava. Ideologia e azione correvano sullo stesso binario; la ricerca della spiritualità e l’impegno verso la giustizia e la nonviolenza confluivano anche negli sforzi economici e nel lavoro fisico per ristrutturare le case, inizialmente affittate e poi comprate».

Talenti e spiritualità
Abbandonare una vita agiata e la propria professionalità, non è stato il risultato di ripensamenti o di sofferenze? «Alla base del credo dell’Arca c’è sempre stato un grande rispetto per ogni personale talento. L’attenzione a non frustrare ogni attitudine è all’ordine del giorno. Le attività pratiche si alternano con quelle artistiche o intellettuali, in modo tale da non doversi mai identificare solo con un’attività. Siamo anche contadini, ma soprattutto contadini che coltivano la propria saggezza. Pur lasciando il lavoro di ricercatrice, ho continuato ad approfondire le mie conoscenze senza abbandonare i miei saperi ma arricchendoli di nuova luce. Non solo lavoro però, l’impegno deve poter sfociare nel rituale festivo per dare un senso di gioia condivisa a tutto l’operato».
La spiritualità è centrale per le comunità dell’Arca. Domandiamo a Michèle come siano i rapporti con la Chiesa locale e come sia vissuta la religione a St. Antornine.
«Noi non siamo una Chiesa e quindi non ci sono rischi di concorrenza, i rapporti sono ottimi. Anche all’interno della comunità non esistono obblighi nei confronti della religione, partecipare all’ufficio cristiano deve essere una libera scelta. Quotidianamente prepariamo delle preghiere ecumeniche ed interreligiose in cappella. Il lunedì è dedicato agli indù, il martedì ai musulmani, il mercoledì ai cercatori di verità senza appartenenza religiosa specifica, il giovedì ai buddisti, il venerdì ai cristiani, il sabato agli ebrei e la domenica ai cattolici».
E i giovani? Cinquantasei anni all’interno di una comunità sono tanti, come tante sono le trasformazioni avvenute. Sui cambiamenti e sulle nuove leve dell’Arca, Michèle ci offre la sua opinione: «Questa comunità si è evoluta naturalmente. Forse la spiritualità ha ceduto un po’ il posto alla meditazione, ma ciò che rimane inalterato è la ricerca della felicità e dell’equilibrio interiore. La Fève (*) ha favorito un grande scambio di relazioni umane tra giovani e anziani, non solo un ricambio generazionale ma un’evoluzione sinergica. L’esperienza dei più “maturi” deve accogliere e sostenere i più giovani, aiutarli nelle soluzioni ma anche farsi ridare nuovi stimoli. La complicità e il dialogo sono le chiavi per far crescere una comunità».
(*)  La Fève è la «Formazione e Sperimentazione alla vita comunitaria», ispirata alla ricerca di una società nonviolenta basata sulla giustizia e la pace, attraverso una formazione biennale all’Arca Saint Antornine.

Jeannette e la nonviolenza
Dopo esserci calati in un tempo e in una dimensione diversa dall’ordinario, per Michèle è giunta l’ora di preparare la preghiera della sera. Ci congediamo da lei che con fare discreto ci invita a raggiungerla successivamente per il momento spirituale.
Approfittando di un po’ di tempo libero, andiamo a conoscere Jeannette. Con lei abbiamo scambiato qualche parola in cucina la mattina, mentre era intenta a pelare patate per tutta la comunità. Jeannette, 86 anni, ha la dolcezza data dalla semplicità e dall’esperienza. Il suo piccolo nido domestico vanta una sorta di anticamera dove un telaio fa da protagonista all’intera scena. Jeannette ama tessere e lo fa ancora per vocazione e passione.
Ci accoglie in una ridente cucina. In tutta la comunità non c’è nulla di ostentato e anche in questo piccolo angolo di Jeannette la sobrietà si traduce in calore. «Tutto è nato grazie a mio marito che aveva letto “Pellegrinaggio alle sorgenti” e aveva iniziato a farmi conoscere Lanza del Vasto dai suoi scritti». Così ci racconta Jeannette che continua: «Lanza del Vasto venne a tenere una conferenza nel piccolo paese di montagna dove abitavamo. Fu un colpo di fulmine. Aderimmo subito al movimento ma, avendo i bambini piccoli, non c’era posto per tutta la famiglia in comunità e dovemmo attendere qualche tempo prima di prendee parte. Fondammo nel frattempo un gruppo ecumenico in Bretagna. La prima comunità in cui abitammo fu la Borie Noble, poi ci trasferimmo a Bellecombe e infine – dal 1983 – qui a St. Antornine. Questa struttura era inutilizzata da molti anni e mio marito contribuì a renderla agibile».
Se per il marito di Jeannette – deceduto da 11 anni – la decisione di diventare membro dell’Arca passò attraverso le letture e l’interiorizzazione del credo di Lanza del Vasto, chiediamo a Jeannette quali furono le sue motivazioni. «Durante la seconda guerra mondiale, sviluppai un forte sentimento di odio verso i tedeschi. Volevo ucciderli per placare il mio dolore. Sentivo crescere dentro me una violenza inaudita. Lanza del Vasto mi insegnò a riflettere e a sottomettermi alla nonviolenza. È stato importantissimo passare molto tempo con lui, prendere coscienza del mio problema e cercare di risolverlo».
Come era Lanza del Vasto? «Era bello e nobile d’animo ma allo stesso tempo semplice e capace di mettersi al servizio degli altri. Umile seppure molto intelligente e colto. Potevo rivolgermi a lui come a un padre aperto e disponibile. Accogliente. Egli si sentiva sempre alla ricerca e discepolo del vero maestro,  Gandhi. È stata una vera fortuna conoscerlo, è riuscito a sostenermi e a trovare la risoluzione dei tanti conflitti con i miei genitori».
Negli anni ‘40 parlare di comunità doveva essere pionieristico, come fu il rapporto di Jeannette con la famiglia di origine? «I miei familiari erano commercianti di scarpe, non intellettuali. Quando appresero la notizia della mia motivazione ad entrare in comunità pensarono che fossi impazzita. Continuare a mantenere i rapporti è stato un processo lungo e complesso ma la nonviolenza mi ha insegnato proprio questo: accettare l’altro, confrontarsi con il diverso e giungere al dialogo pacifico».
E la spiritualità, quanto tempo prende della sua giornata e come si attua? «La ricerca spirituale è fondamentale per vivere insieme. È la spinta che ci fa comprendere, perdonare, essere forti, ci sostiene e ci aiuta a decidere. Per fare meditazione occorre però prendersi del tempo, svegliarsi presto, darsi delle regole, liberare un po’ di spazio per se stessi e per la riflessione comune».
Il racconto di Jeannette è confortante, la sua apertura verso il nuovo, la profondità dei suoi gesti e delle sue parole ci incantano. Una domanda ci sorge dal cuore: come è vivere la terza età all’interno di una comunità? «Siamo rimaste in poche “anziane” a St. Antornine e non ho molte persone della mia epoca con cui parlare. Ma non mi sento sola qui dentro. Se fossi fuori patirei molto di più la solitudine. La vicinanza con i giovani riempie le mie giornate: sono molto diversi da come eravamo noi ma assolutamente interessanti. Mi piace parlare con loro, fanno domande intelligenti e si crea sempre una relazione autentica. L’insegnamento di Lanza del Vasto è del tutto attuale, i valori che ci ha voluto tramandare sono importanti per tutte le età e per tutte le epoche.
L’essenziale è dentro di noi: accettare noi stessi e volerci bene in prima istanza per poter imparare a voler bene agli altri e a essere nonviolenti».

Gabriella Mancini

Gabriella Mancini




Spiritualità e armonia

La comunità di Saint Antornine

La comunità dell’Arca di Saint Antornine, in Val d’Isère, è stata aperta nel 1997. È un concentrato di saggezza e spiritualità. Tra le comunità dell’Arca è quella più all’avanguardia in termini di aggioamento del pensiero del movimento e della sua applicazione. Vi entriamo insieme.

A causa di quel mio terzo occhio che cerca di mettere a fuoco ciò che gli altri due ignorano, mi interessano da sempre le realtà parallele. Uno sguardo plurale, si potrebbe definire oggi, che allarga visivamente ed emotivamente la conoscenza verso stili di vita e mondi «altri» da noi. Ecco cosa mi ha mosso verso la comunità dell’Arca: la sete di incontrare chi ha scelto, con coraggio, di cambiare rotta. Una scelta che solo attraverso la testimonianza e il racconto può giungere a contagiare qualche animo sopito.
Alla Communauté de l’Arche – nonviolence et spiritualitè – Saint Antornine l’Abbaye arriviamo la sera, al buio dopo un lungo viaggio in macchina. Ogni luogo ha un suo perché e non è un caso se l’Arca trova in questo antico villaggio medioevale la sua collocazione. Saint Antornine l’Abbaye è una finestra nel tempo, un invito alla pace e alla contemplazione. «Sarà la bellezza a salvare il mondo», disse Dostoevskij e attorno a questa considerazione ruota quasi tutta la filosofia di Giuseppe Lanza del Vasto, che a partire dal suo più noto scritto «Pellegrinaggio alle sorgenti» fino ai dialoghi, trasmette al pubblico e ai suoi successori diretti un’intensa ricerca interiore della Bellezza, tradotta in pace, armonia e spiritualità, e fatta confluire nell’immagine della festa.
Un arco segna l’ingresso nel villaggio al cui  interno, una manciata di case e botteghe in formato presepe ruota attorno alla storica abbazia. A ridosso dell’abbazia sorge l’antico complesso dell’Arca. Nella calma ovattata del paese, nel freddo pungente dell’inverno e nelle ultime luci della sera, nulla stona in questo angolo di mondo. La bellezza del paesaggio scompare di fronte al rivelarsi di un altro modo di vivere e di un’altra umanità che della scelta radicale della pace ha fatto la sua ragione di vita.
Lo storico palazzo in cui risiede la comunità dell’Arca è segnalato da una semplice freccia di legno. Bussiamo al portone in ferro battuto ed entriamo in un lungo corridoio abbellito al soffitto da oamenti botanici. Ad attenderci c’è Anna Massina. Forte e decisa, vitale e grintosa nel suo abbigliamento casual con un tocco esotico, Anna ci accoglie con un sorriso e un po’ di sorpresa per il nostro ritardo. Trentacinque anni di vita nell’Arca, Anna sarà il nostro cicerone italiano alla scoperta di questa comunità.
Nei fine settimana l’Arca si riempie di gente che usufruisce degli spazi per fare seminari o corsi di approfondimento. Ci aspettano dunque tre giorni movimentati. Come ospiti non possiamo dormire nell’area riservata alla comunità ma solo nella zona di accoglienza per i viandanti. Ogni camera ha una titolazione precisa. La nostra è «frumento». Anna è organizzativa e ha stabilito che faremo le interviste il giorno successivo, mentre la serata – dopo la cena comunitaria in mensa – saremo liberi di curiosare…in punta di piedi.

La giornata a Saint Antornine
Arriviamo nel refettorio gremito di gente, qualche sorriso e un po’ di impasse da parte nostra caratterizzano i primi istanti. Appese alle luci del soffitto animano la stanza alcune colombe bianche di carta, simbolo stilizzato di un credo forte in ogni angolo della comunità. La sala è semplice ma ispira calore: tavolate e panche di legno sono gli unici arredi. All’ingresso ci si può fornire di stoviglie (non esistono i tovaglioli di carta) e al centro della sala c’è lo spazio apposito per il buffet.
Prima di accedere alla scelta delle vivande – esclusivamente vegetariane – , una delle persone che vivono in comunità presenta il cibo e invita ad un momento di preghiera. Poi, si anima la scena. Chi si serve, chi chiacchiera in piedi, chi si adopera per aiutare i commensali. È un andirivieni piacevole da cui non ci sentiamo estranei o semplici spettatori. Nella semplicità non è difficile vincere la riservatezza di un linguaggio differente e scambiare qualche impressione con chi si siede accanto a noi. A fine mensa, sia i comunitari sia gli ospiti, si alzano, sparecchiano il loro tavolo e si dirigono verso un organizzatissimo spazio pre-cucina, adibito al lavaggio e all’asciugatura delle stoviglie. Rispetto e responsabilità sono le prime parole che ci vengono da formulare osservando il piacere con cui ognuno «fa la sua parte».
La mattina seguente la comunità è un brulicare di attività, ogni sala adibita alle attività è impegnata. C’è la sala della musica in cui si ode qualche canto armonico, la sala dedicata a Lanza del Vasto, la sala Jean Goss, la sala Bianca, la sala Comune e la sala del Giardino.

In punta di piedi
L’appuntamento con Anna è per il primo pomeriggio; decidiamo quindi di iniziare la visita esplorando con tutti i sensi la comunità, all’esterno e all’interno. Il tempo per intuire, attraverso i luoghi, un cammino. Prima delle persone «annusiamo» lo spazio alla ricerca di domande «primordiali». Non a caso, a volte sono proprio gli ambienti e le strutture a raccontarci qualcosa, a farci vedere una realtà multi dimensionale che solo a parole non potremmo afferrare. Partiamo dalla natura e scegliamo di passeggiare in silenzio nell’area circostante la comunità: ettari di orto e giardino che invitano alla meditazione. Tutto è studiato con estrema attenzione alla «decrescita». Un piccolo bagno ecologico è posto su un lato del terreno; le verdure non bastano a soddisfare le necessità dell’intera comunità ma sicuramente aiutano. In fondo al giardino qualche gioco per i più piccoli ricorda la presenza dei bambini. Il sole è tenue ma basta per illuminare gli ultimi rossi d’autunno e per regalarci un insolito belvedere collinare.
In questa prima visita solitaria e itinerante, ci tornano alla mente, tra le tante, alcune delle frasi di Lanza del Vasto o Shantidas (servitore di pace), secondo la volontà di Gandhi, che ci accompagnano nel nostro esplorare.
Sono frasi, senza età, che scuotono le viscere umane: «Mettiti in marcia con tutta la tua vita»; «la nonviolenza è una verità che solo chi vi si esercita può conoscere»; «risvegliarsi, spezzare l’incoscienza ordinaria, naturale, nativa, spezzare il guscio del sonno e dell’abitudine»; «richiamarsi a se stessi, entrare in noi stessi».
Negli spazi interni dell’Arca ci si potrebbe perdere tanto sono vasti: quattro piani suddivisi nelle aree per i comunitari e per gli ospiti. L’utilizzo del legno e dei colori caldi per gli arredi personalizzano gli ambienti: sobrietà e cura degli spazi rendono accogliente ogni angolo. Una piccola cappella al cuore della struttura convoglia chiunque si senta assetato di spiritualità. Una biblioteca, una sala della musica, una sala gioco per i bimbi, una bottega per fare il pane e un magazzino di riparazione, arricchiscono la struttura e fanno da corollario agli spazi prettamente dedicati ai seminari. Dentro e fuori sembrerebbe un binomio indissolubile: ogni vetrata dei corridoi interni rivolge lo sguardo verso la vegetazione estea e l’abbazia. Un’armonica bellezza che non può che conciliare il pensiero. Ogni area della struttura è indicata con frecce di legno e nemmeno gli ascensori (costruiti per facilitare l’accesso anche alle persone più anziane e ai disabili) deturpano l’ambiente essendo nascosti dietro nicchie apposite.

Le persone
Nella comunità dell’Arca vivono persone di tutte le età: dalle più anziane come Michèle e Jeannette, alle famiglie giovani con bambini che da poco hanno deciso di mettersi in gioco e sperimentare la vita comunitaria, alle seconde generazioni che stanno ancora vagliando se il loro futuro sarà dentro l’Arca o se prenderanno una strada propria, ai single e a chi sceglie di fare un anno di stage alla ricerca di un percorso di coerenza. In ognuno di loro si intravede la consapevolezza che la ricerca della nonviolenza è un cammino lungo, che porta prima dentro se stessi e poi si estende agli altri in una sorta di contagio positivo. Ciò che risulta evidente a noi «viandanti» è il forte impegno nell’esercizio della nonviolenza a partire dalle dinamiche relazionali della comunità: condivisione di compiti e responsabilità, prese di decisioni, riconciliazioni.
Un filo di continuità che lega il passato con il presente e le vecchie generazioni con le nuove, caratterizza l’Arca. In un tempo e una società dove gli anziani guardano spesso con nostalgia al passato e nutrono non pochi sospetti sulla gioventù, è quasi rivoluzionario sentirsi dire: «I giovani di oggi sono più coscienti, più entusiasti e con un’immensa ricchezza spirituale e meditativa». Una affermazione di Michèle Le Corre (81 anni) sostenuta anche da tutte le persone più mature della comunità.

Il tempo dentro l’Arca
Dopo la colazione in refettorio, c’è un momento di meditazione aperto a tutti dopo il quale ognuno si occupa dei propri lavori dentro la comunità. Tutti, quanto meno chi se la sente di partecipare, si ritrovano in cappella per la preghiera serale, prima della cena comunitaria. Ogni giorno c’è una riflessione e una preghiera per ogni religione. Anche a noi è riservato un saluto e un canto di accoglienza. Le azioni in cui si impegnano i membri dell’Arca sono nell’ambito della giustizia e della solidarietà, nella formazione alla nonviolenza e all’accoglienza. La vita comunitaria è scandita nei tempi del lavoro, del silenzio, della meditazione, del richiamo a se stessi, della responsabilità e della relazione con l’altro.
Tutto ciò avviene nella massima semplicità, nell’impegno a decrescere i consumi, nel dialogo, nella ricerca della bellezza, nel ballo e nella festa comunitaria. Ognuno, a seconda delle proprie forze e della personale sensibilità, decide a quali azioni nonviolente partecipare.

Incontri ravvicinati…
Di Anna, Michèle, Jeannette, Maria, Vincent, Emmanuel e Manuelle, raccogliamo la testimonianza. Sentire dalle loro voci e vedere sui loro visi la passione per un movimento di perenne cammino ci aiuta a percepire la forza della «battaglia» nonviolenta, a capie il senso e a cogliere l’importanza e la necessità del tentativo di costruire una società differente.
Le loro parole e l’autenticità delle loro azioni, sul filo di quello che Lanza del Vasto riteneva il sale della nonviolenza, ossia «la verità», sono il contrario della menzogna e dell’errore.

Gabriella Mancini

Gabriella Mancini




Lanza del Vasto, combattente nonviolento

Premessa

«La resistenza nonviolenta si mostra più attiva della resistenza violenta. Chiede più audacia, più spirito di sacrificio, più disciplina, più speranza. Agisce sul piano delle realtà tangibili e sul piano della coscienza. Opera una trasformazione profonda in coloro che la praticano e talvolta una conversione sorprendente in quelli contro cui si esercita» (Lanza del Vasto, Pellegrinaggio alle Sorgenti).

In un mondo centrato sulla violenza, si può essere nonviolenti? Da questo filo di pensiero e interrogativo è nato il nostro dossier sulla comunità nonviolenta dell’Arche in Francia. Un reportage che si rende necessario nel contesto attuale dove la risoluzione dei conflitti passa attraverso l’essere violenti e l’uso della forza.
Dalla violenza con la «v» maiuscola, quella che fa notizia e il più delle volte pone in un cono di luce guerre espressamente mediatiche, a tutte quelle forme di prevaricazione di uguale importanza ma meno conosciute. La lista non si conta: dalle violenze sui popoli dimenticati, alle persecuzioni razziali, alle sordide ingiustizie sui bambini e sulle donne, alle violenze psicologiche, che spengono la voglia di vivere e via dicendo. La violenza è inquinante, si sparge a macchia d’olio nelle relazioni, tra le mura delle case dove viviamo, per strada, negli ambienti lavorativi e – soprattutto – si nutre delle nostre paure abitando la parte più oscura del nostro essere, pronta a uscire allo scoperto al momento opportuno.

Tra le tante pellicole cinematografiche impregnate di violenza ne esiste una rappresentativa di tutta la miseria dell’essere umano. Si tratta di Dogville di Lars Von Trier, un film tanto scao quanto efficace. Tutti gli attori si muovono sul set – racchiuso in un palcoscenico teatrale – esprimendo al massimo la loro mediocrità e la loro rabbia. In questo microcosmo cinematografico non c’è alcuna forma di redenzione. I personaggi si accaniscono sul «diverso» da loro (la giovane arrivata nella comunità di Dogville per sfuggire alla sua famiglia di gangster) e giungono ad umiliarlo in tutte le maniere possibili. Il dolore è tale che solo la vendetta consolerà non solo la protagonista ma anche lo spettatore. Ecco il punto: la risoluzione finale è solo la violenza, che in quanto soluzione allo stesso male viene automaticamente giustificata.
Purtroppo le dinamiche di questo film assomigliano molto alla realtà. E, allora, come trovare un’alternativa valida nei rapporti interpersonali, nella politica e nei meccanismi sociali? Forse, iniziando a camminare verso noi stessi e alla ricerca di un modo diverso di vivere.
In questa direzione va Giuseppe Giovanni Luigi Enrico Lanza di Trabia-Branciforte, meglio conosciuto come Lanza del Vasto, nato nel 1901 a San Vito dei Normanni in Puglia. Personaggio atemporale e multifocale, Lanza del Vasto compie, nel 1937, il suo primo pellegrinaggio nel subcontinente indiano alla ricerca di un’esistenza più vera, pura e spiritualmente «alta». Qui, la meta che lo porterà definitivamente a dedicarsi alla pace per il resto della vita è proprio l’ashram del Mahatma Gandhi, dove vive per tre mesi e riceve dallo stesso Gandhi l’appellativo «Shantidas», servitore della pace.

Nel libro Pellegrinaggio alle sorgenti (edito nel 1943) risiede il fulcro e il cuore del suo viaggio e dell’incontro con Gandhi. Nulla è meglio delle sue stesse parole per descrivere il Mahatma: «Un piccolo vegliardo seminudo sta seduto per terra davanti alla soglia, sotto il tetto di paglia spiovente: è lui. Mi fa segno – sì, proprio a me -, mi fa sedere accanto a sé, mi sorride. Parla – e non parla che di me – chiedendomi chi sia io, che cosa faccia, che cosa voglia. Ed io subito mi avvedo che non sono niente, che non ho mai fatto niente, che non ho desideri se non quello di restarmene così, all’ombra di lui. Eccolo davanti ai miei occhi, colui che solo nel deserto di questo secolo ha mostrato un’oasi di verde, offerto una sorgente agli assetati di giustizia».

Al ritorno in Europa, Lanza del Vasto decide di diffondere il messaggio gandhiano: servire la nonviolenza e viverla fino in fondo. La sua ispirazione cristiana aperta all’influsso della spiritualità orientale è l’humus da cui parte per fondare in Francia nel 1948 – insieme alla sua sposa Chanterelle e a un piccolo gruppo di seguaci – la prima Comunità dell’Arca. Una casa aperta a tutte le religioni, una scuola di vita interiore e di preparazione all’azione nonviolenta, di stampo rurale, ispirata ai principi della sobrietà, della condivisione, dell’unione tra lavoro e spiritualità. Scrittore, poeta, musicista e sculture, Lanza del Vasto è per molti un «combattente» nonviolento: praticare la nonviolenza partendo dalla ristrutturazione dei rapporti umani senza rinunciare a far valere le proprie ragioni è stata la sua missione. In quest’ottica si è opposto con il dialogo e il digiuno alla fabbricazione della bomba atomica e alle torture perpetrate dall’esercito francese in Algeria, ha sostenuto i contadini del Larzac perché conservassero le proprie terre e ha digiunato durante il Concilio Vaticano II per chiedere un impegno esplicito della Chiesa in favore della pace. Coerenza tra pensiero e azione, cammino di conoscenza e di presenza a se stessi e al reale, semplicità e profondità. Questi alcuni degli insegnamenti che il nomade e il costruttore ci hanno lasciato in eredità. Dell’uomo che un giorno scrisse in musica: «Ho la mia casa nel vento senza memoria», siamo andati a conoscee gli eredi per capire se, nel 2012, la parola e l’azione di Lanza del Vasto sono ancora vive.

Gabriella Mancini

Gabriella Mancini




Cana (30): Storia d’Israele in sei giare di pietra

«I giusti sono le colonne del mondo posate su basi d’oro puro:
sono infatti i precetti della Legge che studiano»  (Targum Ct 5,15)

Gv 2,6 (a): «Vi erano poi là, sei giare di pietra, per la purificazione dei Giudei,
collocate/giacenti [per terra], contenenti ciascuna due o tre metrète (= barili da 80 a 120 litri ciascuno)»

Le giare distese per terra sono in numero di «sei» e ciascuna può contenere «due/tre» metrète. Se si moltiplica 2×3 si ha ancora il risultato di sei. Che significato hanno questi numeri, ammassati tutti nello stesso versetto? Perché le giare sono «sei» e non cinque o quattro o tre? Perché non si parla genericamente di «alcune giare», ma si specifica esattamente che sono «sei»? Perché, invece, la loro capienza non è precisa, ma oscilla tra «due o tre» misure che se moltiplicate tra loro fanno sempre «sei»?
Proviamo a scoprirlo interrogando il vangelo di Giovanni che, come ormai sappiamo, gioca con il doppio senso delle singole parole, obbligandoci a non fermarci mai alla superficie, cioè al senso ovvio delle parole. Quando poi si tratta di numeri bisogna essere ancora più circospetti, perché in ebraico, cioè nella mentalità semita, i numeri corrispondono alle lettere dell’alfabeto e quindi possono assumere significati particolari, applicando una delle leggi dell’esegesi giudaica che è la «ghematrìa» o «scienza dei numeri» (su questo argomento cf P. Farinella, Bibbia, Parole, segreti, misteri 49-60).

Il numero «sei» nel vangelo di Giovanni
Il numero «sei», che è molto importante nell’economia del racconto delle nozze di Cana, in tutto il vangelo di Giovanni ricorre 7x (x sta per «volte»):
1.    È ripreso all’inizio del racconto di Cana dove si dice: «Nel terzo giorno vi fu uno sposalizio a Cana di Galilea» (Gv 1,1) che, come spiegato a lungo, corrisponde al «sesto giorno» della prima settimana di Gesù descritta da Giovanni nel cap. 1°, perché segue il triplice «il giorno dopo… il giorno dopo… il giorno dopo», cadenzato come un ritornello (Gv 1,29.35.43).
2.    È ripetuto in Gv 2,6 per indicare il numero delle giare: «Vi erano là sei giare di pietra».
3.    È ripreso nell’incontro con la Samaritana al pozzo di Giacobbe dove Gesù arriva «circa l’ora sesta» (Gv 4,6). Purtroppo ll’ultima traduzione della Bibbia-Cei (2008) traduce con un banale «era circa mezzogiorno», spezzando in un sol colpo tutta la pregnanza di quell’«ora sesta», evocativa della storia del mondo e della storia di Israele. Peccato, perché così si priva il popolo di Dio di una parte importante della rivelazione.
4.    Nello stesso incontro, Gesù dice alla Samaritana che ha «cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito» (Gv 4,18), per cui siamo di fronte a una donna che ha avuto «sei mariti».
5.    La settimana prima della passione inizia con il riferimento ai «sei giorni prima della Pasqua».
6.    La proclamazione della regalità di Gesù da parte di Pilato davanti al popolo d’Israele avviene «circa l’ora sesta» (cioè mezzogiorno) (Gv 19,14).
7.    Gesù muore nel giorno della «Parascève», cioè il giorno precedente la Pasqua ebraica, quindi il venerdì, cioè il «sesto giorno» (Gv 19,31.42).
In questo contesto, che riguarda tutto il vangelo, il numero «sei», come spesso abbiamo sottolineato, ha un chiaro, formale riferimento ai «sei giorni» che precedono il fatto di Cana (prima settimana di predicazione pubblica di Gesù) descritti in Gv 1, ai «sei giorni» prima della Pasqua dell’ultima settimana di Gesù, descritti in Gv 12ss., ai «sei giorni» del Sinai, nei quali Israele «è creato» come popolo e ai «sei giorni» della creazione come narrata in Genesi 1.

Il numero «sei»
ritma le tappe della storia religiosa
Se ciò è vero, allora Cana è parte di un processo che abbraccia tutta la storia di Israele e tutta la storia di Dio. A Cana non si consuma un banale matrimonio, ma si rinnova la creazione dell’universo, simboleggiato nel vino; a Cana si rinnova l’alleanza del Sinai, rappresentata dalla madre; a Cana si anticipa la Pasqua come compimento non solo della vita terrena di Gesù, compresa tra due «sei giorni» (settimana iniziale e settimana finale), ma anche come compimento della speranza di Israele, purificato non più dall’acqua antica, ma dal sangue del Figlio che dona la sua vita per il mondo nuovo, abitato da Giudei e da Greci, da Ebrei e da Romani (cf Gv 19,23-25).
Nella puntata 17a «Simbologia del terzo giorno» in MC dicembre 2010, abbiamo accennato alla questione del numero «sei» e ad essa rimandiamo. Qui ci accingiamo ad approfondire più dettagliatamente, senza ripetere quanto detto. Sia il giudaismo antico che tutta la tradizione giudaica (dal Targum Ct al Talmud) come pure la tradizione cristiana antica, hanno interpretato «le sei giare» come simbolo delle «sei età/epoche» in cui sarebbe diviso il mondo, dall’inizio della creazione alla venuta di Gesù Cristo, il cui schema, con modulazioni diverse, si avvicina al seguente:
1a età:  da Adamo a Noè;
2a età:  da Noè ad Abramo;
3a età:  da Abramo a Davide;
4a età:  da Davide all’esilio di Babilonia;
5a età:  dall’esilio di Babilonia a Giovanni il Battista;
6a età:  da Giovanni Battista a Gesù con la sua nascita,       morte e risurrezione.
(Poiché è impossibile dare conto di tutti i testi e autori, per chi volesse approfondire in modo esaustivo queste tematiche, appena sussurrate, consigliamo di A. Serra, Nato da Donna Gal 4,4, 141-191; Le nozze di Cana Gv 2,1-12, 128-133).
A chi potrebbe scuotere la testa davanti a queste applicazioni, che, ce ne rendiamo conto, sembrano molto lontane dal testo che siamo soliti leggere in una qualsiasi traduzione, quello che possiamo dire è semplice: il contesto culturale, letterario e religioso, in cui si muove l’autore è questo ed è dentro di esso che bisogna cercare i riferimenti che a noi sfuggono perché, come abbiamo già sottolineato molte volte, abbiamo perso ogni riferimento al mondo giudaico, limitandoci a leggere il vangelo in latino.
Ancora oggi, infatti, il testo ufficiale della Bibbia nella Chiesa cattolica non è il testo ebraico/greco, ma il testo latino della «Neo vulgata»: ci pare che tutto sia detto. D’altra parte, i Padri della Chiesa leggevano l’Antico Testamento in chiave cristologica e andavano alla ricerca di riferimenti «tipologici» da mettere a confronto tra loro, evidenziando come Gesù fosse il «compimento» di tutta la storia patriarcale.
Tutto l’Antico Testamento veniva letto come «profezia», nel senso di anticipazione velata, di Cristo (vedi il vangelo di Mt, in cui questo rapporto «profetico» è costante e ricercato: Mt 1,22; 2,5.15.17; 3,3; 4,1, ecc.; cf Gv 12,38).

Il numero perfetto
che esprime l’imperfezione creata
Nel racconto di Cana, il riferimento così preciso alle «sei giare» pronte per la purificazione e che su ordine di Gesù saranno riempite d’acqua, hanno una prima e diretta connessione simbolica ai «sei giorni» della creazione, che avviene appunto in «sei giorni» (Gen 2,2 secondo la versione greca della LXX), quando tutto emerge dalle acque «covate» dalla «ruàch» di Dio (Gen 1,2). A questa conclusione ci porta anche l’annotazione, strana in un racconto se non avesse un obiettivo preciso, che ogni giara conteneva «due o tre» metrète.
In riferimento alla creazione, lo scrittore ebreo di cultura greca, Filone di Alessandria (20 a.C. – 50 d.C.) spiega che il numero «sei» è il primo numero «perfetto». Esso, infatti, dopo il numero 1 che è il punto di partenza della numerazione, è il primo numero perfetto perché è uguale alla somma delle parti che lo compongono che sono: la metà (6:2 = 3), il terzo (6:3 = 2) e il sesto (6:6 = 1).
Il «sei» dunque è la somma di 1+2+3 = 6, ma è anche il prodotto della moltiplicazione di 2×3 = 6, cioè del numero pari (il 2) e del numero dispari (il 3), per cui nel «sei» si comprendono e si fondono insieme il dispari e il pari che, secondo lo stesso Filone e la scuola dei Pitagorici, esprimono il maschio (il numero dispari) e la femmina (il numero pari).
Lo stesso riferimento alle giare che contengono «2 oppure 3» metrète ci riportano allo stesso risultato: 2×3 = 6. Tutto ruota attorno a questo numero che sintetizza molti pensieri e riflessioni nel mondo giudaico e cristiano. In questo senso la creazione doveva avvenire in «sei giorni» perché questo numero è il primo numero perfetto, in quanto esprime il senso profondo di tutta la creazione che nasce dal congiungimento di maschio e femmina (Gen 1,27; cf Filone, De opificio Mundi, 13; Legum allegoriae I,3).

Il numero «sei» è il simbolo dei giusti
Il Targum Ct 5,15 aggiunge un elemento importante. Descrivendo il corpo dell’innamorato, l’autore del Cantico dei cantici dice: «Le sue gambe, colonne di marmo (ebraico: shèsh), posate su basi d’oro puro». Poiché in ebraico il numero sei è «shèsh», il Targum così traduce: «E i giusti sono le colonne del mondo posate su basi d’oro puro: sono infatti i precetti della Legge che studiano» (cf anche i Midràshim Nm Rabbàh 10,1 a 6,2 e Ct Rabbàh 5,15.1). In ebraico dunque la stessa parola «shèsh» significa tanto «sei» (numero) quanto «marmo», che il Targum identifica con il «mondo», sorretto dalle colonne del Cantico dei cantici che sono i giusti: essi, infatti, stanno solidi sui precetti della Toràh, che è pertanto il fondamento del mondo intero.
Una tradizione giudaica attestata nel Talmud (Sanhedrin 97a-b; Souk 45b) afferma che ogni generazione è tenuta in piedi da «36» giusti, i cui meriti, a loro insaputa, garantiscono la Shekinàh sulla terra; anzi la presenza di un solo giusto garantisce la sopravvivenza del mondo (TB,Yoma 38b).
Mettendo insieme queste reminiscenze, vediamo allora che le «sei giare» di Cana richiamano la Toràh del Sinai come fondamento del mondo e la giustizia dei giusti che sorgono come conseguenza dell’osservanza dei comandamenti del Signore e che ne garantiscono la sopravvivenza. Poiché uno dei giusti che sorreggono le sorti del mondo è il Messia, la presenza di Gesù a Cana è la garanzia che la nuova alleanza poggia sulla solida colonna della sua persona e del suo messaggio. I giusti sono le colonne di «marmo» (Targum CT) come le giare sono «di pietra», sempre pronte a purificare la sposa/Israele prima di presentarsi al cospetto del suo Sposo/Signore.
Il numero «sei», collegandosi ai «sei giorni» del Sinai, sempre secondo Filone (Questiones in Exodum II,46), è anche il simbolo dell’elezione di Israele, popolo dell’alleanza, quell’alleanza che ora Gesù manifesta a Cana.
L’elezione d’Israele è considerata come una seconda creazione, perché lo statuto della prima fu distrutto da Adam, mentre al Sinai Israele riceve un nuovo ordine e una nuova identità, espressi nella Toràh, cioè sulla volontà proclamata e scritta di Dio. Non è un caso che la risposta d’Israele sia: «Faremo e ubbidiremo quanto il Signore ha detto» (Es 24,7), perché al Sinai ha origine «il principio» d’Israele, come nella Genesi è «il principio» delle acque e della terra (Gen 1,1).
Sul monte Sinai apparve «la gloria del Signore» (Es 24,16-17); allo stesso modo il vangelo di Giovanni comincia contemplando il «principio» del Lògos che a Cana compie «il principio dei segni» con cui «manifestò la sua gloria» (Gv 2,11).

A Cana è data la nuova Toràh che è il Vangelo   
Il rapporto tra la creazione, il Sinai e le sei giare è dato anche dal fatto che Adam è stato creato nel sesto giorno, ma sullo sfondo del giardino di Eden di cui poteva mangiare i frutti «di tutti gli alberi» (Gen 2,16); il monte Sinai è equiparato a un albero di melo che produce mele che sono le singole parole della Toràh, come insegna il Targum di Ct 2,3. Dove il testo ebraico dice: «Come un melo tra gli alberi del bosco, così l’amato mio tra i giovani. Alla sua ombra desiderata mi siedo, è dolce il suo frutto al mio palato», il Targum traduce: «Come il melo, bello e pregiato fra quegli alberi che producono frutti, è da tutti elogiato e prediletto, così il Sovrano dell’universo fu lodato dalle Creature celesti quando si rivelò sul monte Sinai, quando dette la Toràh al suo popolo. Allora ardentemente desiderai di rimanere sotto l’ombra della sua Shekinàh, perché i precetti della sua Toràh erano come profumo al mio palato».
Il Liber Antiquitatum Biblicarum 11,15 (SC 229,124, 230,113), attribuito allo (Pseudo) Filone, paragona l’albero della vita piantato al centro dell’Eden alla Toràh che Dio dona a Israele sul monte Sinai per mezzo di Mosè.
In conclusione, potremmo dire che le «sei giare» (come la madre in Gv 2,1) sono il simbolo del tempo prima di Cristo e ciascuna delle sei giare rappresenta una delle sei epoche che lo compongono fino ad arrivare al Sinai, dove inizia il tempo nuovo con il dono della Toràh.
Poiché ogni giara contiene «2 / 3» metrète, la cui moltiplicazione dà sempre «sei», significa che ogni epoca tendeva naturalmente a Cristo, come la stessa Toràh è protesa verso la sua pienezza che è il Messia Gesù di Nàzaret.
Tutte le «sei giare», infatti, sono di pietra (lo stesso materiale delle tavole) e sono giacenti per terra, in attesa del tempo nuovo, della nuova Alleanza (pronte per la purificazione).
In Giovanni 1,17 l’autore ci aveva preavvertito: «La Legge/Toràh fu data per mezzo di Mosè; ma la grazia della verità venne per mezzo di Gesù Cristo».
È in questa prospettiva che Paolo, applicando l’esegesi giudaica, nel commento a Gen 12,7, può dire: «Ora è appunto ad Abramo e alla sua discendenza che furono fatte le promesse. Non dice la Scrittura: “E ai discendenti”, come se si trattasse di molti, ma: E alla tua discendenza, come a uno solo, cioè Cristo». È il discendente di Abramo, anticipato nella Toràh del Sinai, che ora si rivela a Cana per annunciare la nuova Toràh, cioè il suo Vangelo, sulla cui stabilità è fondata la nuova alleanza, qui rappresentata dalle nozze di due anonimi sposi.
(30 – continua)

Paolo Farinella

Paolo Farinella




Tornano le aquile al nido

Reportage da Scutari sull’emigrazione di ritorno

A 20 anni dalla fuga in massa dall’Albania verso l’Italia, migliaia di migranti hanno preso la via del ritorno e, con il sostegno di organizzazioni come Caritas e Acli, hanno avviato attività in proprio, creato posti di lavoro per i propri connazionali, contribuendo così allo sviluppo del paese, ancora frenato, però, da tradizioni culturali ancestrali, come discriminazioni di genere e vendette di sangue.

Il panorama all’imbrunire è mozzafiato. Vedendolo dalle mura del castello, l’enorme lago di Scutari si riempie del rossofuoco del tramonto e lascia senza parole. Tutt’attorno, per tre dei punti cardinali, le montagne d’Albania e del Montenegro, e a sud la terza città albanese, Scutari appunto, con i suoi 150 mila abitanti in continua crescita. Buona parte di essi conosce l’italiano, e alcuni lo parlano molto bene: un fenomeno che lascia senza parole, ma le cui ragioni sono sotto la luce del sole, perché quasi ogni famiglia ha un parente che ha vissuto per qualche tempo in Italia, o ancora ci vive.

Ritoo dal grande esodo
Era il 1991 quando l’impressionante esodo degli albanesi verso il nostro paese riempì tutte le televisioni nazionali. Chi non ricorda l’impatto emotivo delle immagini dei 20 mila disperati sbarcati a Bari con la nave Vlora l’8 agosto di quell’anno? Oggi gran parte di essi è inserita in Italia, con un lavoro e una famiglia. Ma non tutti. Infatti c’è chi, fatti i conti in tasca, compie il passo che aspettava da una vita: il ritorno in patria a testa alta, da persona che è riuscita nel proprio sogno migratorio e ora può tornare a investire nel suo paese, tanto a livello umano quanto economico, aprendo un’attività e magari dando anche lavoro in loco a connazionali.
Non stiamo parlando di racconti di fantasia; piuttosto, è la realtà che sta prendendo il sopravvento tra le vie della stessa Scutari, ancor più che a Tirana. Proprio da questa spartana città del profondo nord albanese (oggi parzialmente rimessa a posto, per lo meno nell’ottimo centro storico, con un pavé da far invidia a molte città d’arte nostrane) due decenni fa era partita la maggior parte delle persone in cerca di miglior fortuna.
«Sono sempre di più i migranti albanesi di ritorno, ovvero coloro che tornano in patria con l’obiettivo di cercare lavoro o aprire qualcosa di proprio» spiega Mauro Platè, 33 anni, responsabile dei progetti in Albania per l’organizzazione non governativa Ipsia (Istituto pace sviluppo innovazione Acli), che dal gennaio 2010 ha avviato con Caritas italiana, grazie al finanziamento di 1,2 milioni di euro del Mae (Ministero affari esteri italiano), il progetto «Risorse migranti»: si tratta di un’iniziativa di cooperazione internazionale che, tramite un primo sportello d’orientamento aperto a Scutari, accompagna chi torna in Albania dall’Italia e da altre zone d’Europa, offrendo sostegno per capitalizzare le capacità acquisite all’estero.
Un’azione concreta che, in punta di piedi ma con risultati sempre più evidenti, sta facendo emergere numeri importanti: «Sono almeno 450 le persone che si sono rivolte a noi in due anni, molti dei quali per chiedere consigli e orientamento» aggiunge Platè.
Secondo le stime governative, a fine 2010 erano circa 2 mila le persone che erano uscite dall’Italia, dove vivevano in condizione di regolarità, per far ritorno in patria. Ovvero quasi il 10% del numero di coloro che nello stesso tempo hanno rinnovato il permesso di soggiorno, 22 mila in tutto.

Nuove idee e Iniziative
Molti tornano nel paese delle Aquile (dal nome albanese, Shqiperia, così come il rapace è anche il simbolo nero impresso sulla bandiera rossa nazionale) anche in possesso di un titolo di studi conseguito in Italia. Blerim, per esempio, laureato in informatica, ha aperto a Scutari un’attività dedicata alla creazione di siti web. Hector, invece, ha ristrutturato un immobile in demolizione per trasformarlo in un locale culturale dove fare musica tipica tradizionale. O ancora, c’è chi ha costruito un centro fitness, ridato vita a una trattoria tradizionale, aperto un call center. «Ognuno di loro ha poi la possibilità di dare lavoro ad altre decine di persone – aggiunge il responsabile progetti di Ipsia -. Uno dei nostri compiti principali è facilitare l’incontro e lo scambio tra questi nuovi piccoli imprenditori, la messa in rete dei saperi genera opportunità laddove prima c’era poca spinta alla collaborazione». Un esempio? «Alcuni che in Italia hanno lavorato per anni come muratori e piastrellisti, al ritorno in Albania si sono uniti per avviare un’impresa edile» risponde Platè.
L’impegno dei cooperanti di Ipsia, (a fine 2011 erano in sette, due italiani e cinque albanesi a occuparsi dei progetti della ong) cerca di valorizzare il capitale sociale generato dai migranti di ritorno per dare nuova linfa allo sviluppo del paese, che ha indici positivi nonostante la crisi globale. Quella stessa crisi, paradossalmente, che oggi punge più  all’estero che in Albania, ha dato una spinta considerevole al boom di rientri degli ultimi anni. «In Italia diminuiscono i lavori stagionali e molte persone non vedendo più la certezza del lavoro preferiscono tornare in patria con i fondi e l’esperienza che hanno raccolto negli anni da emigranti» specifica Platè.
La debàcle dell’economia mondiale sta comunque incidendo nel paese delle aquile, ma «è una crisi di riflesso, non delle attività produttive, che sono poche, dipendendo l’Albania dalla produzione greca, italiana e tedesca in particolare. Piuttosto la difficoltà si vede nella diminuzione delle rimesse e nell’aumento del costo della vita».
In questo senso, l’imprenditorialità può essere la giusta medicina, ovvero nuove idee, nuovi progetti possono rilanciare una economia come quella albanese, rimasta immobile per decenni, almeno fino al termine del regime comunista terminato alla fine degli anni ’80. Per fomentare la nascita di microattività innovative e riadattare le competenze al mercato, «Risorse migranti» dedica ampio spazio alla formazione diretta: «In due anni abbiamo attivato corsi inerenti a 17 tipologie diverse di lavoro, tutti orientati alla riqualificazione professionale» sottolinea il responsabile progetti di Ipsia.
Ancora, le esperienze più virtuose vengono premiate attraverso una serie di bandi che finanziano lo startup aziendale: l’ultimo dei quali, indetto a fine 2011, prevede aiuti per 25 mila euro totali, destinati all’acquisto di attrezzature per attività registrate regolarmente. Un occhio di riguardo viene dato a chi si avvale di energie rinnovabili. «Sta nascendo una nuova mentalità in tale direzione – rileva Platè -; si vedono sempre più pannelli solari. Detto questo, c’è ancora molto lavoro da fare per far passare i concetti di sostenibilità, ma le istituzioni si stanno comportando piuttosto bene ultimamente». Non come fino al recente passato, quando tra corruzione e malaffare lo stato foiva un esempio tutt’altro che positivo per la popolazione.

Cambiamenti in corso
«Oggi la politica albanese ha capito che la migrazione di rientro è un fattore di sviluppo» continua Mauro. A Lezhe, storica cittadina del centro-nord, per esempio si tiene da qualche anno nel giorno di ferragosto la «festa del migrante», e nell’edizione 2011 il progetto «Risorse migranti» è stato l’invitato d’eccezione. Nel frattempo, anche a livello di politica nazionale le cose si muovono in termini di apertura all’esterno: da dicembre 2011 il governo di Tirana ha liberalizzato i visti e sta compiendo tutti i passi che l’Unione europea chiede per avere relazioni commerciali proficue.
«È in atto un processo di cambiamento, lento ma evidente, attraverso il quale le istituzioni locali saranno in grado a medio termine di “accompagnare” in modo significativo coloro che tornano dall’estero – spiega la sociologa Cristiana Paladini, 33 anni, collaboratrice in loco di Ipsia e ricercatrice nell’ambito delle migrazioni per l’università Lumsa di Roma e la University of London -. Nel 2009 il Goveo albanese ha stanziato finanziamenti per il ritorno degli emigranti, ma il bando è andato a vuoto per mancanza di informazione tra gli espatriati e perché promuoveva il rientro ma senza prevedere appoggi per chi tornava, come corsi di formazione o altro».
Ma le cose, tre anni dopo, si stanno modificando, continua Paladini: «È iniziato l’arrivo di un secondo blocco di migranti di ritorno, soprattutto laureati, che hanno documenti in regola in Italia o negli altri stati della Ue. Saranno loro a rappresentare il principale propulsore del cambiamento, perché sbarcano in patria con molta più professionalità da spendere».

Ostacoli da rimuovere: disparità di genere…
Nella rivoluzione che attraverserà l’Albania dei prossimi anni, garantita dai migranti di ritorno, «veri e propri pionieri che arrivano dall’Europa con la voglia di cambiare le cose che non vanno in patria e molto più coscienti dei propri diritti, come cittadini e come lavoratori» specifica la sociologa, sono però almeno due i duri ostacoli che dovranno essere superati: da una parte il forte divario donna-uomo, l’incidenza di un antico quanto violento codice d’onore interfamiliare, dall’altra il Kanun, codice di consuetudini che regola la vita sociale soprattutto nelle zone montane dell’Albania.
Nel primo caso, le logiche maschiliste storicamente presenti in Albania faticano a venir meno: la donna è quella che rimane isolata quando il marito va all’estero (basti pensare che il 90% delle persone intercettate da «Risorse migranti» è maschio) e che non viene assolutamente associata alla figura di imprenditrice. Ipsia, come altre ong, dedica parte dei propri progetti a interventi di appoggio all’impiego femminile, ad esempio nel settore tessile, mettendo in atto «una sfida in più che può fare molto per il loro futuro», aggiunge Paladini.

… e vendette di sangue
Nello stesso tempo, l’impegno per l’equità dei generi e la conciliazione familiare è la missione anche di molti uomini di fede, tra cui don Antonio Giovannini, parroco italiano che da 13 anni ha scelto il nord dell’Albania come luogo di vita e apostolato. Per anni coadiutore della cattedrale di Scutari, oggi la quotidianità di don Giovannini è dedita totalmente al servizio degli ultimi in particolare, nella parrocchia di Koman, meno di mille anime sperdute nelle montagne a est di Scutari, che costeggiano un lago generato dalla diga di Koman, appunto (la più grossa dell’Albania, che dà l’elettricità anche alla capitale Tirana) e, lungo almeno un centinaio di chilometri, arriva a Kukes, alla frontiera con il Kosovo.
«Sui monti ci vivono, senza corrente né gas, le famiglie che non hanno voluto migrare in città» spiega don Giovannini, che oramai vive con loro e macina decine di chilometri al giorno su quei sentirneri, periodi di neve compresi. «Vivono del proprio, e scendono nei villaggi più grandi 3-4 volte all’anno per vendere bestiame o il poco che riescono a coltivare. Ma molte famiglie non scendono mai, perché in vendetta con altre». È la gjakmarrja, la vendetta di sangue.
«Le vendette familiari appartengono a un codice di leggi medievale, il Kanun, considerato fuorilegge dalla metà del secolo scorso, ma ancora oggi in uso – continua il prete italiano -, se una persona fa uno sgarro a un componente di un altro clan, i familiari hanno l’obbligo morale di vendicarsi, innescando la spirale della violenza».
Si può arrivare all’omicidio, fino a mille omicidi in un solo anno in tutta l’Albania, stima il Programma alimentare mondiale dell’Onu (Pam). E almeno 3 mila famiglie, anche a Scutari, vivono oggi «inchiodate», ovvero chiuse in casa, dove i vendicatori non possono entrare. «Ci si può rivalere fino alla terza generazione, per questo anche molti bambini sono a rischio e non vanno a scuola» prosegue don Giovannini. Sono 6 mila i bambini in queste condizioni.
Nel tempo, don Giovannini è diventato una figura di riferimento, un mediatore che, però, può correre dei rischi: «In alcuni casi mi è capitato di ricevere minacce, ho dovuto smettere di intromettermi» racconta. Nel 2003, con alcune religiose della zona di Scutari, don Giovannini ha fondato la Shizr, acronimo albanese di Associazione per l’integrazione delle zone rurali; nata «per fare pressione a livello istituzionale, verso il governo albanese che solo ultimamente si sta dando da fare».
È del gennaio 2004 l’istituzione della prima vera corte penale albanese contro 12 tipologie di crimini gravi: tra questi ci sono le vendette di sangue. Nel frattempo, altre associazioni si sono aggiunte all’opera di riconciliare le famiglie in vendetta, come l’albanese League of peace missionaries o gli Ambasciatori di pace del Sermig di Torino. Non solo lavoro: la rinascita dell’Albania passa anche dal rispetto dei diritti umani.

Daniele Biella

Daniele Biella