3. Francesco Saverio

4 chiacchiere con…

Avere di fronte Francisco Xavier, meglio conosciuto da noi come San Francesco Saverio, significa trovarsi davanti al più missionario degli uomini intrepidi e al più intrepido dei missionari di tutti i tempi. Del resto la sua storia personale rimane forse la parabola luminosa più incisiva degli annunciatori del Vangelo. Iniziamo il nostro colloquio con lui.

Come nasce la tua vocazione missionaria?
Inizio col dire che sono un discendente di una nobile casata della città di Xavier, nella provincia di Navarra, ridotta alla miseria per la confisca di tutti i beni a opera di Ferdinando il Cattolico, re di Spagna, dopo la vittoria conseguita sugli abitanti della zona che volevano una loro autonomia contando sull’aiuto della Francia. Dopo questa catastrofe per sfuggire a un futuro incerto mi rifugiai in Francia, iscrivendomi alla facoltà di teologia della prestigiosa Università della Sorbona di Parigi. Lì incontrai Iñigo de Loiola o come dite voi italiani: Ignazio di Loyola, il quale dopo essere stato ferito in battaglia, passò tre lunghi mesi immobile a letto, durante i quali leggendo diversi testi spirituali e in modo particolare il Vangelo, decise di cambiar vita. Anch’egli però desiderava accrescere la sua cultura, in quanto vivevamo tempi contrassegnati da conflitti religiosi che andavano acuendosi ogni giorno di più. Fui letteralmente conquistato dal modo di fare d’Ignazio; la sua fama di uomo d’arme convertito in discepolo mansueto di Cristo e, allo stesso tempo, il suo desiderio di combattere con le armi della ragione e dell’intelligenza gli eretici del tempo, mi attirarono sempre più nella sua orbita e con me altri giovani che sentivano il bisogno di rinnovare la Chiesa rinnovando se stessi.

Mi sembra un ottimo programma, soprattutto perché oggi molti desiderano cambiare la Chiesa senza mettersi minimamente in discussione, che avvenne dopo?
Mi tremano i polsi al solo pensarci: il 15 agosto del 1534, Ignazio, io e altri cinque giovani andammo nella chiesa di Saint Pierre di Montmartre dove ci impegnammo a vivere in povertà e castità, fondando così la Società di Gesù, in quanto volevamo essere pellegrini in Terra Santa o nel caso ciò non fosse stato possibile metterci a completa disposizione del papa.

Erano nati i Gesuiti se capisco bene.
Certo! Ignazio optò per il termine Società di Gesù in quanto due grandi santi che lo avevano preceduto, san Domenico e san Francesco, avevano dato origine a due ordini religiosi che presero il nome dei loro fondatori, Domenicani e Francescani per l’appunto. Ignazio non voleva che la nostra Compagnia fosse segnata dal suo nome, voleva che tutto riconducesse a Gesù Cristo nostro Salvatore. 

E com’è che sei finito in India, nelle Molucche, in Giappone e per un pelo non hai messo piede in Cina?
Le cose andarono così: nel 1540, Giovanni III re del Portogallo, chiese al papa, che in quel tempo era Paolo III, di inviare dei missionari per evangelizzare i popoli delle nuove colonie che i portoghesi avevano appena conquistato nelle Indie Orientali. Il Papa indicò la Compagnia di Gesù a cui affidare questo compito e sant’Ignazio scelse me come responsabile dell’attività missionaria nei nuovi territori.

Il viaggio deve essere stato lungo e faticoso immagino.
Non me ne parlare! Adesso prendete un aereo e dopo qualche ora sbarcate in qualsiasi capitale del mondo, ma a quel tempo i viaggi erano tutti via mare, con navi sospinte dal vento, io partii da Lisbona nella primavera del 1541 e arrivai a Goa in India nel maggio dell’anno successivo.

Come fu l’impatto con la realtà asiatica?
Per certi versi traumatico: a Goa vidi i portoghesi che pensavano solo a fare affari e ad arricchirsi, poco interessati all’annuncio del Vangelo. Dovetti pertanto richiamare i portoghesi a un atteggiamento più consono al messaggio cristiano e allo stesso tempo iniziai a dedicarmi ai derelitti e ai poveri che vivevano in quella città. Dopo qualche anno mi trasferii alle Molucche, dove i portoghesi avevano impiantato delle colonie e anche lì rimasi due anni.

Che traguardi raggiungesti?
Intanto cominciai a testimoniare con i miei compagni l’amore di Dio verso tutti gli uomini, a qualunque razza, lingua e popolo essi appartenessero. Venni a contatto con persone provenienti da altri paesi e mi resi conto che Goa doveva essere un trampolino di lancio verso nuovi orizzonti.

Con la lingua come te la cavavi?
Male purtroppo! Iberico di nascita parlavo sia lo spagnolo che il portoghese, essendo vissuto in Francia parlavo anche il francese e avendo fatto gli studi in latino lo conoscevo alla perfezione, me la cavavo discretamente anche con l’italiano, ma come puoi ben capire erano tutte lingue neolatine. Per parlare con la gente del posto avevo sempre bisogno di un interprete; in una città di mare non è difficile trovare al porto persone che parlano diverse lingue: lì incontrai anche alcuni giapponesi che affascinati dal messaggio evangelico mi proposero di andare ad annunciare la Buona Notizia nel loro paese, il paese del Sol Levante.
 
Quindi decidesti di partire per il Giappone. E là cosa successe?
L’incontro con la realtà nipponica modificò radicalmente il mio modo di evangelizzare: incontrai un popolo nobile e fiero e capii che Dio ci aveva già preceduti con l’azione dello Spirito. Approdato a Nagasaki, chiesi di incontrare lo Shogun, e per mostrargli in tutta povertà lo spirito del Vangelo, decisi di andare a Kyoto in veste povera e dimessa, ma non venni ricevuto. Imparai la lezione e, indossando quanto di più raffinato mi ero portato dall’Europa, chiesi di incontrare l’influente principe di Yamaguchi. Questa volta venni accolto cordialmente e ottenni il permesso di risiedere e di annunciare il Vangelo in quella città.
Ci furono conversioni?
Sì. La gente era colpita da questo Dio che poteva chiamare Padre, pieno di tenerezza verso l’umanità peccatrice, un Dio che desidera salvare gli uomini più che condannarli; negli anni che passai a Nagasaki diverse persone chiesero di essere battezzate. Feci ogni sforzo per far crescere la piccola comunità cristiana che si era formata e offrire loro un’istruzione catechistica che potesse incidere nella loro vita.

Come mai dal Giappone decidesti di partire per la Cina?
Per i Giapponesi, i Cinesi erano i maestri indiscussi di ogni scibile. Dato che i bonzi si opponevano sempre alla mia predicazione, dicendo che se la religione cristiana fosse stata vera, i cinesi l’avrebbero già conosciuta, decisi di andare in Cina per iniziare l’opera di evangelizzazione.

Però in Cina non ci sei arrivato
No! Dopo anni di intenso apostolato, di lunghi viaggi via mare, di fatiche inenarrabili, consumato anche da malattie contratte in quel periodo, ero molto debilitato, ma non per questo rassegnato a non arrivare in Cina. Riuscii ad avere un passaggio su una nave diretta a Canton, giunto però all’isola di Sancian capii che era arrivata la mia ora. Difatti lì si concluse il mio impegno missionario; negli occhi avevo l’immagine del paese a cui più di ogni altro desideravo accedere. Il mio desiderio di portare in Cina il Vangelo fu però raccolto da altri miei confratelli, tra cui il vostro Matteo Ricci, i quali qualche tempo dopo riuscirono a installarsi alla corte imperiale di Pechino, ponendo così le basi per un’azione di evangelizzazione di cui oggi vediamo spuntare i germogli.

I tempi del Signore non seguono le nostre stagioni, vero?

I suoi frutti però arrivano sempre a maturazione.

Don Mario Bandera – Direttore Missio Novara

Mario Bandera




Colorare di speranza…

Il sostegno a distanza di MCO visto da dentro

Nel numero di giugno abbiamo pubblicato la prima puntata dell’articolo in cui abbiamo descritto che cos’è e come funziona il Sostegno a distanza (SaD), mostrando il suo peso fondamentale nel comporre la cifra annuale che in Italia si destina alla cooperazione e alla solidarietà internazionale.
Abbiamo anche proposto ai lettori una breve panoramica del SaD nel nostro paese dove, accanto a giganti delle adozioni come ActionAid o Avsi, ci sono tante altre associazioni di dimensioni medie e piccole (come quelle che sostengono tanti progetti legati alle missioni della Consolata) e cornordinamenti nazionali come il ForumSad e La Gabbianella che riuniscono molte di queste realtà intorno a una carta dei principi condivisa e a dei criteri di qualità.
Abbiamo, infine, raccontato com’è cambiato il sostegno a distanza nel tempo, anche in seguito agli scandali degli anni Novanta, nell’ottica di garantire maggior trasparenza nei confronti dei donatori e superare alcuni limiti come il talvolta scarso coinvolgimento della comunità nella quale vive il bambino adottato.

Mco gestisce circa 7.000 adozioni a distanza attraverso il suo Ufficio Adozioni dove Antonella Vianzone da 15 anni segue una per una le pratiche e risponde alle richieste dei donatori.
Antonella, com’è nato il programma SaD di Missioni Consolata Onlus?
È nato come una delle attività dell’ufficio cooperazione, aperto nel 1970 da p. Mario Valli, sostituito qualche anno fa da p. Giuseppe Ramponi. Da una fase iniziale, in cui ai missionari che seguivano le adozioni sul campo non erano richieste informazioni particolarmente dettagliate, si è poi passati a una seconda fase, iniziata negli anni Novanta, in cui i donatori hanno cominciato a voler sapere di più dei bambini adottati per seguirli meglio e con maggior frequenza di contatti. Questo cambiamento è coinciso con una riorganizzazione intea, poiché i missionari che non se la sentivano di far fronte a queste nuove richieste hanno preferito rinunciare per evitare figuracce con i donatori. Le primissime adozioni sono state fatte in Kenya e in Etiopia, allargandosi poi agli altri paesi. Oggi abbiamo sostegno a distanza in quasi tutte le presenze Imc in Africa, in Brasile, in Ecuador e in Colombia. Anche la Mongolia dovrebbe entrare a pieno regime nel programma in un prossimo futuro.
Una volta avviato il sostegno a distanza, ci sono tre appuntamenti annuali nei quali il donatore viene contattato: a Natale e Pasqua quando, insieme agli auguri, gli vengono mandate alcune notizie del bambino, e un terzo momento in cui si informa il donatore dei progressi scolastici e della vita quotidiana del bambino in modo più dettagliato. Sono i missionari che si occupano direttamente di scrivere ai donatori in queste occasioni (aggiungendo magari anche la lettera o il disegno fatto dal bambino). In alcuni casi, inviano notizie anche più spesso delle tre volte stabilite. Devo dire che l’impegno paga: più i missionari mandano notizie, più le adozioni che gestiscono tendono ad aumentare. Anche perché spesso i nostri donatori diventano tali grazie al passaparola ed è chiaro che, se un missionario ha fama di essere puntuale e preciso, più persone si fideranno di lui.
In che cosa consiste esattamente il lavoro del tuo ufficio?
Io intervengo innanzitutto nella fase iniziale di molte adozioni, quando i donatori chiamano per avere informazioni preliminari e quando richiediamo ai missionari le garanzie necessarie ad accertarci che rispetteranno le scadenze. Inoltre mi attivo in tutti quei casi in cui, per qualche motivo, il donatore non ha ricevuto le notizie che si aspettava e chiama il mio ufficio segnalandomi il disguido. In ufficio conservo le schede e le foto di ciascun bambino perciò posso rapidamente risalire al missionario responsabile, capire le cause del ritardo e riferire al donatore.
Quante chiamate ricevi in una giornata?
Di solito sono circa dieci, che aumentano specialmente durante le feste di Natale, momento nel quale riceviamo più richieste di adozione rispetto agli altri mesi. C’è un rapporto umano costante con i donatori, che attribuiscono molta importanza al fatto di poter sentire una voce e non solo ricevere lettere e email. A volte alcuni chiamano anche solo per fare una chiacchierata… Forse questo è il nostro principale valore aggiunto: la presenza di un punto di riferimento, qualcuno che si può chiamare o anche vedere di persona, tanti donatori vengono qui in ufficio proprio per poter parlare con una persona reale.
Come hai visto cambiare il sostegno a distanza in questi vent’anni?
Alcune cose non sono cambiate molto, ad esempio la preferenza delle persone per l’adozione individuale e non per un gruppo: vogliono avere la percezione chiara che stanno aiutando un bambino preciso e seguirlo passo passo. Sta cambiando invece l’età dei donatori. Oggi ci sono più giovani che nel passato e questo è rivelatore di una positiva mentalità di solidarietà. Immutati sono la volontà e il desiderio di fare del bene.
Puoi tracciare un «identikit» del donatore?
Non c’è un profilo che valga per tutti. Ci sono persone che arrivano all’adozione dopo un’esperienza personale dolorosa. Allora l’adozione diventa un modo positivo di reagire al dolore vissuto, donandosi a qualcuno nel bisogno. Ci sono delle famiglie che la vivono come momento educativo nei confronti dei propri figli per aiutarli alla sobrietà e condivisione e per insegnare loro il rispetto di altri popoli e culture. Molti sono anche i benefattori anziani che così si sentono ancora utili. Ci sono anche molte scuole che promuovono adozioni per stimolare i bambini all’accoglienza del lontano e alla solidarietà con i poveri del mondo. Ci sono poi donatori che hanno richieste molto particolari e altri che semplicemente dicono di «dare a chi ha più bisogno».
Ci sono richieste difficili da soddisfare?
Sì, ci sono richieste impossibili. A volte – anche se raramente – qualcuno chiede che il bambino abbia certe caratteristiche specifiche come un certo nome o una ben precisa data di nascita. Ovviamente è quasi impossibile esaudire simili desideri. Succede anche che qualcuno mi chiami per avere informazioni su un bambino adottato trent’anni fa in una missione che è già stata consegnata al clero diocesano o al tempo di un padre che magari è già andato in paradiso. Allora devo spiegare che normalmente si seguono i ragazzi fino ai 17-18 anni, alla fine della scuola secondaria o della scuola tecnica, dopo di che diventa quasi impossibile mantenere traccia del bambino ormai cresciuto che può anche essersi trasferito in un’altra parte del paese.
Quali sono le difficoltà principali?
Le difficoltà? Beh, tante, certamente. C’è chi fa una donazione attraverso un conto corrente, senza scrivere il proprio indirizzo e poi chiama prendendomi a «male parole» perché ha fatto la donazione e non ha saputo più niente… Ma noi non avevamo proprio idea di come fare a mandare una ricevuta o una lettera di conferma. C’è chi vorrebbe notizie più regolari dell’adottato, ma il missionario non scrive molto, non manda foto o lettere. Allora è difficile spiegare che bisogna aver pazienza, che probabilmente quel missionario è preso da tanti impegni, che ci sono oggettive difficoltà di comunicazione, che ci sono missionari che scrivono solo a Natale e raramente a Pasqua, ma che comunque si prendono cura dei bambini, li seguono a scuola e fanno tutto il necessario. Spesso mi capita di dover fare l’avvocato difensore dei missionari. Ti assicuro che alcuni dei missionari fanno perdere la pazienza anche a me. So bene che tutto quello che ricevono va per i loro beneficati, ma se scrivessero qualche volta di più, faciliterebbero certamente il mio servizio.
Trovo anche difficile far capire ai donatori la scelta di alcuni missionari di «adottare» una scuola invece che singoli individui. È una scelta che viene fatta da alcuni soprattutto quando tutto il contesto sociale è molto povero e tutti i bambini hanno bisogno di aiuto. Ma dal punto di vista delle pubbliche relazioni è più difficile da spiegare, perché molti benefattori preferiscono adozioni individuali.
Oltre a queste difficoltà ci
saranno anche tante soddisfazioni…
Certo, assolutamente. A volte qualcuno chiama e dice: «Sai, stavo male, ero proprio abbattuto, ma poi è arrivata la lettera del bambino che ho adottato e mi sono sentito meglio». Oppure quando un missionario passa a visitarmi in ufficio e mi racconta di questo e di quello e di come sono aiutati i bambini e dei loro progressi. Entusiasma anche me a continuare il questo servizio.
Ci sono state disdette di adozioni a causa della crisi economica?
Sembra incredibile, ma abbiamo avuto solo due disdette in due anni… praticamente niente. Anzi, stanno perfino arrivando nuove adozioni. Pensa che ci sono persone che pur avendo perso il lavoro continuano a sostenere il bambino, magari sacrificando altre spese.
Che consiglio daresti a qualcuno che vuole fare un’adozione a distanza?
Consiglierei di vivere l’adozione come un’esperienza in cui si impara a aprire gli occhi sul mondo, senza voler nulla in cambio, di vedere il sostegno a distanza non come carità ma come uno scambio in cui si ha l’occasione di conoscere, oltreché di aiutare, un’altra persona e il luogo dove vive. Penso che il tutto possa essere riassunto davvero in questa frase: «Colora di speranza la vita di un bambino»!

Chiara Giovetti


Chiara Giovetti




Restrizioni e ostilità

Studi e fatti sulla libertà religiosa nel mondo – 02

Il 70% della popolazione mondiale vive in paesi con forti limitazioni di credo e di culto.
Dal Laos al Kazakistan, dal Pakistan all’Egitto, dalla Nigeria a Cipro, nel mondo gli episodi di vessazioni nei confronti di individui o gruppi religiosi sono numerosi. La libertà di religione è limitata da restrizioni governative e ostilità sociali crescenti. E neppure l’Europa ne è immune. Regno Unito e Francia, ad esempio, vedono aumentare pregiudizi, atti discriminatori e misure illiberali.

L’11 maggio scorso due sacerdoti cristiani si sono presentati in questura, convocati per un interrogatorio dalle autorità distrettuali di Phin, nella provincia di Savannakhet, nel Sud Est del Laos. Le autorità hanno contestato ai due l’utilizzo di case private come luoghi di culto. Dopo un’ora d’interrogatorio i sacerdoti sono stati rilasciati con l’ordine di staccare le croci dalle pareti estee di quegli edifici e di non divulgare il messaggio cristiano che stava portando alla conversione diversi laotiani di quelle zone.
L’episodio raccontato da Human Rights Watch for Lao Religious Freedom è emblematico della situazione descritta dal rapporto dell’United States Commission on Inteational Religious Freedom (Uscirf): «Il governo laotiano limita la pratica religiosa attraverso atti giuridici e impunità […]. I funzionari provinciali violano la libertà di religione con detenzioni, sorveglianza, molestie, confische di proprietà, spostamenti e rinunce forzate alla fede».

KAZAKISTAN
Negli ultimi mesi diversi lanci dell’agenzia «AsiaNews» hanno raccontato di ripetuti atti istituzionali volti a restringere la libertà di religione in Kazakistan. Solo tra febbraio e fine aprile 2012, in tre diverse regioni del paese, la polizia ha fermato Testimoni di Geova, Battisti e Hare Krishna, minacciandoli di punizioni esemplari per le manifestazioni pubbliche della loro fede. A fine aprile le autorità hanno chiuso l’ultimo luogo di culto della minoranza musulmana ahmadi ad Almaty, capitale commerciale del paese. I cristiani metodisti sono stati al centro di una serie d’ispezioni da parte di funzionari amministrativi. Un decreto emanato a marzo dal governo stabilisce regole ferree per l’introduzione nel paese di libri e materiali religiosi, e assegna alla pubblica sicurezza il potere di controlli, sequestri e arresti.

CIPRO
Era la fine di aprile quando a un vescovo e a un sacerdote della chiesa ortodossa di Cipro è stato negato il permesso di recarsi a celebrare la messa nei territori del Nord amministrati dai turchi-ciprioti. L’ambasciata di Cipro a Roma – secondo «Vatican Insider» – ha dichiarato che «ridurre la libertà religiosa dei cristiani residenti nei territori occupati da parte delle forze armate turche rientra nel disegno strategico di Ankara di completare la “pulizia etnica” iniziata nel 1974». Alcuni gruppi religiosi del Nord hanno riferito il monitoraggio delle loro attività da parte delle autorità cipriote turche, percependolo come atto intimidatorio. Anche nella parte sud dell’isola tuttavia si registrano episodi di restrizione della libertà religiosa. I turchi ciprioti non possono accedere ad alcuni cimiteri e moschee, la comunità buddista ha difficoltà a ottenere i permessi per la costruzione di un luogo di culto proprio, i Bahai devono seppellire i propri morti nei cimiteri per stranieri perché gli altri sono generalmente destinati ai soli gruppi religiosi riconosciuti, la comunità ebraica non riesce a ottenere l’allacciamento all’acqua per il proprio cimitero da parte del comune di Laaca, né un terreno per la costruzione di una sinagoga.

CRISI IGNORATA
Quelle descritte sono solo tre delle molte situazioni in cui la libertà religiosa viene limitata in giro per il mondo.
Organizzare assemblee religiose pacifiche, parlare del proprio credo, o cambiarlo, possedere e distribuire letteratura religiosa, inclusa la Bibbia e altre scritture sacre, educare i propri figli secondo gli insegnamenti e le pratiche della propria fede sono atti spesso vessati, proibiti e puniti.
I governi violano la libertà religiosa con restrizioni di vario genere e con l’omissione di prevenzione o di repressione delle discriminazioni e delle violenze sociali.
Cristiani, Musulmani, Induisti, Buddisti, Ebrei, e i membri di tutti i gruppi religiosi, non solo quando sono una minoranza nel proprio paese, si trovano a subire ingiustizie e limitazioni.
«L’anno scorso, mentre la crisi economica riempiva i giornali, un’altra crisi di portata equivalente passava inosservata – denuncia l’Uscirf nel suo rapporto riguardante il periodo aprile 2011-febbraio 2012 -. Nel paesaggio globale il fondamentale diritto umano alla libertà di religione ha subito crescenti attacchi. In misura allarmante, le libertà di pensiero, coscienza, religione o credo sono state ridotte, spesso tramite minacce alla sicurezza e sopravvivenza di persone innocenti».

CRESCENTI ATTACCHI
Lo scenario descritto dall’Uscirf, le notizie apprese dai mezzi d’informazione e dalle organizzazioni che nel mondo monitorano la situazione della libertà religiosa, confermano il trend di crescita delle restrizioni descritto in modo articolato e approfondito da un altro studio pubblicato nella seconda metà del 2011.
Il rapporto, intitolato Rising Restriction on Religion (Crescenti restrizioni sulla religione) del Pew Research Center’s Forum on Religion & Public Life, prende in considerazione il triennio 2006-2009 mettendo in confronto i dati dei diversi anni per valutare l’evoluzione della libertà religiosa nel tempo, attraverso l’uso di due indicatori: le restrizioni governative, quindi le politiche istituzionali dei diversi paesi, e il livello di ostilità sociale nei confronti delle diverse espressioni religiose.
I risultati dello studio indicano che circa il 70% della popolazione mondiale vive in paesi con forti limitazioni di credo e di culto.
Le restrizioni religiose tra il 2006 e il 2009 sono aumentate in 23 paesi (12%) sui 198 indagati, diminuite in 12 (6%), e sostanzialmente stabili nei restanti 163. Poiché parecchi dei paesi in cui si è registrato un aumento delle restrizioni sono molto popolosi, esse hanno colpito una percentuale di popolazione mondiale più larga rispetto alla percentuale del numero di paesi: oltre 2,2 miliardi di persone, circa una persona su tre al mondo (il 32%). Solo l’1% della popolazione mondiale vive in paesi nei quali le condizioni sono migliorate. Tra i 25 paesi più popolosi del mondo (che complessivamente contano il 75% della popolazione globale) le restrizioni sono cresciute in 8: in Cina, Nigeria, Russia, Thailandia, Regno Unito e Vietnam l’aumento è dovuto primariamente all’accresciuta ostilità sociale, mentre in Francia ed Egitto l’aumento è dovuto principalmente a misure restrittive prese dai rispettivi governi.
Delle 5 regioni geografiche del mondo, quella comprendente Medio Oriente e Nord Africa è la regione con la più alta proporzione di paesi (il 30%) che hanno registrato un incremento delle restrizioni. Tra questi l’Egitto, insieme all’Indonesia, è il paese con punteggi più alti per entrambi gli indicatori (restrizioni governative e ostilità sociale).
L’Europa è invece l’area geografica con la più alta proporzione di paesi che hanno visto aumentare in modo significativo l’ostilità sociale. Cinque dei dieci paesi che ne hanno registrato l’aumento sono europei (Bulgaria, Danimarca, Russia, Svezia, Regno Unito), 4 asiatici (Cina, Mongolia, Thailandia e Vietnam), 1 africano (Nigeria).
Tra il 2008 e il 2009 il numero di paesi i cui governi hanno compiuto uccisioni, violenze fisiche, incarcerazioni, allontanamenti da casa, danneggiamenti o distruzioni di abitazioni o luoghi di culto è salito da 91 a 101. Sono 142, circa tre quarti del totale, i paesi in cui uccisioni, atti di violenza, diffamazione, conversioni forzate, sparizioni, sono stati perpetrati da privati cittadini singoli o organizzati.
Gruppi terroristici legati alla religione sono stati attivi nel 2009 in 74 paesi.
Tra il 2006 e il 2009 si sono registrate vessazioni a livello sociale o governativo ai danni di cristiani in 130 paesi, e di musulmani in 117. In 75 paesi sono stati segnalati atti vessatori nei confronti di Ebrei, nonostante essi rappresentino meno dell’1% della popolazione mondiale. Ai danni di Buddisti in 16 paesi e di Induisti in 27. Questi due gruppi religiosi si trovano però molto più concentrati in determinate aree, molto popolose, del pianeta. In 84 paesi si sono verificati attacchi nei confronti di altri gruppi quali Sikh, Zoroastriani, Bahai, Rastafariani e tribali.
Dallo studio sembra emergere che i paesi in cui esistono restrizioni alte alla libertà religiosa tendano con più facilità ad aumentarle, mentre viceversa alcuni paesi con restrizioni basse tendono a diminuirle.

DA EST A OVEST, DA NORD A SUD, E VICEVERSA
In Egitto, uno degli epicentri della primavera araba, le autorità continuano a perseguitare e carcerare i cittadini accusati di blasfemia e permettono ai media ufficiali di esortare alla violenza contro i membri di minoranze religiose. Nel paese vige un clima d’impunità riguardo agli attacchi contro i Cristiani copti e le loro chiese.
Altri attori governativi negli ultimi mesi – quelli presi in esame dall’ultimo rapporto dell’Uscirf – hanno represso il diritto alla libertà religiosa. La teocrazia iraniana ha perseguitato tramite diversi mezzi, tra cui l’imprigionamento, le minoranze bahai, cristiane, zoroastriane e musulmane sufi. In Cina, l’anno passato è stato il peggiore degli ultimi 10 per i Buddisti tibetani e i Musulmani della regione autonoma Xinjiang Uygur.
L’assenza di prevenzione e l’omissione di punizione della violenza sulle minoranze religiose è uno degli strumenti che gli stati utilizzano per reprimere la libertà religiosa. In Nigeria, paese con un tasso elevato d’impunità, la violenza ha raggiunto il picco di 800 morti, 65.000 sfollati, chiese e moschee distrutte nei soli tre giorni successivi alle elezioni presidenziali. Almeno altre 35 vittime si sono contate in una serie di bombardamenti cornordinati di chiese durante il giorno di Natale. Nel Pakistan, le leggi sulla blasfemia e altre misure discriminatorie, quali le disposizioni anti Ahmadi, hanno creato un’atmosfera tendente alla violenza cronica, peggiorata dall’omissione del governo di portare davanti alla giustizia i responsabili dell’assassinio di Shahbaz Bhatti, ministro federale cristiano per le minoranze e attivista da lungo tempo in favore della libertà religiosa.
Assieme alla circolazione di materiali di propaganda dell’estremismo religioso che partendo dall’Arabia Saudita interessa Medio Oriente, diverse zone di Africa, Asia ed Europa, la cultura dell’impunità ha rinforzato gruppi terroristi come Boko Haram in Nigeria e i Taliban in Afghanistan e Pakistan.
In gran parte del Medio Oriente le comunità cristiane presenti in quei territori da 20 secoli hanno iniziato a diminuire di numero.
I più vessati sono generalmente i membri di minoranze religiose, ma non sono rari i casi di restrizioni subite dai membri dei gruppi maggioritari.
Quando le violazioni non sono esercitate direttamente con la violenza, intervengono intricate reti di leggi, norme e regolamenti discriminatori che impongono carichi insostenibili alle comunità e ai loro aderenti, rendendo assai difficile, e a volte minacciando, la loro esistenza.

Luca Lorusso

Luca Lorusso




La generazione ghepardo

Africa: cos’è la rivoluzione mobile

Le parole d’ordine sono mobile banking e «nuvola». Le armi: il telefonino e il computer portatile. I combattenti: la «generazione ghepardo». L’Africa sta vivendo una «rivoluzione» epocale, nella quale la tecnologia la fa da padrone. E giovani curiosi e dinamici vogliono sostituire gli «ippopotami» della politica.

La chiamano «la rivoluzione mobile» e, come tutte le etichette che pretendono di marcare uno spartiacque, anche questa roboante definizione suona retorica. Eppure basta percorrere la 1st street di Eastleigh, quartiere di Nairobi noto anche come Little Mogadishu per l’altissima concentrazione di imprenditori e rifugiati (spesso un aspetto non esclude l’altro) somali, per cominciare a pensare che ci sia qualcosa di vero e profondo in questa rivoluzione.
A farlo sospettare non sono solo gli onnipresenti negozi di telefonia mobile che vendono cellulari da dieci dollari o gli sportelli del sistema MPesa, la piattaforma creata dall’operatore mobile Safaricom per inviare e ricevere denaro da un telefono a un altro.
A dare il senso di questo cambiamento sociale ed economico sono piuttosto le parole di Mohammed, un rifugiato 23enne che, dopo 14 anni nel campo profughi di Ifo, a Dadaab, insegna inglese a Eastleigh. Periodicamente, tramite MPesa, invia denaro al resto della famiglia che vive ancora nel campo oppure, in caso di bisogno, ai suoi fratelli che vivono di pastorizia nell’Est del Kenya e che lo contattano con i loro cellulari caricati a energia solare, inseguendo pascoli e network, spesso salendo su alture o inerpicandosi su tralicci.
Mentre chiacchieriamo davanti a un chai masala, riceve un sms: altri fratelli emigrati in Canada gli fanno sapere di avergli spedito dei soldi via Inteet su Daabshil, uno dei più popolari sistemi bancari islamici della Somalia. Con quei fondi potrà partire per il Sud Sudan, dove conta di avviare un business. «Questo è tutto quello di cui ho bisogno, dice sollevando il suo cellulare. Qui ci sono tutti i miei contatti. E con questo posso ricevere i soldi che mi servono».

«Armi» modee
Il Nokia 1100 che stringe in pugno è una delle armi di questa rivoluzione, la più diffusa, e non a caso «Foreign Policy» l’ha definito l’AK 47 (Kalashnikov) della telefonia mobile: lo possiedono 250 milioni di persone, soprattutto nel Sud del mondo, per i quali non importa che, nel Nord, sia ormai considerato un pezzo di modeariato.
È affidabile, economico, facile da usare. In generale, quattro cellulari su cinque presenti nel mondo oggi si trovano nei paesi poveri. Più o meno sofisticati, generalmente a basso costo: secondo i calcoli del guru della tecnologia Nathan Eagle, chiunque guadagni almeno cinque dollari al giorno può permettersi un cellulare.
Per molte famiglie è un investimento. Lo si usa per indirizzare i propri prodotti verso mercati più redditizi, per ottenere informazioni spesso cruciali per sopravvivere, per inviare rimesse a casa. Ciò aiuta a spiegare il successo della telefonia mobile in Somalia, come racconta la giornalista della Bbc Mary Harper nel suo ultimo libro «Getting Somalia Wrong»: il paese, per quanto privo di un vero governo da vent’anni, ha la rete di telefonia mobile più economica del mondo. Un’autostrada impalpabile che fa da contraltare alle disastrate infrastrutture e che, secondo Hassan, dipendente somalo di una Ong con sede a Nairobi, sta trasformando la Somalia nel primo paese a moneta virtuale al mondo. «Grazie a Zaad – un’altra piattaforma di mobile banking lanciata dalla Salaam Somali Bank –  posso pagare taxi e caffè con il mio cellulare trasferendo i soldi sui numeri di conto esposti dagli esercizi commerciali».
Le transazioni hanno un costo, che però viene annoverato nella lista delle spese per la sicurezza: non si circola con denaro in tasca e, in caso di furto del cellulare, il denaro rimane nella «nuvola» (vedi glossario).
Nel sud della Somalia i miliziani di Al Shabaab hanno vietato i servizi di mobile banking, ufficialmente perché non islamici. Ma Hassan ha un’altra spiegazione: «Nella “nuvola” ci finivano anche i loro stipendi. E quando si sono accorti che il sistema era troppo vulnerabile hanno deciso di vietarlo».

Nuovi linguaggi
Sull’onda della vertiginosa diffusione di cellulari in Africa, un nuovo acronimo si è aggiunto alla lunga galleria di sigle che accompagnano la storia del continente dall’indipendenza ad oggi: ICT4D, ovvero Information and communication technologies for development. La febbre della tecnologia digitale per lo sviluppo ha contagiato istituzioni inteazionali come la Banca Mondiale, multinazionali della cooperazione come Oxfam, agenzie nazionali dello sviluppo, soprattutto nel Nord Europa, e corporation tecnologiche, come Vodafone e Microsoft: espressioni come mobile health (che riguarda progetti sanitari impeiati sull’uso del cellulare) o crowdsourcing (un sistema di raccolta d’informazioni basato su piattaforme digitali) sono diventate le nuove parole chiave per accedere a finanziamenti e a fondi di ricerca. 
Un approccio che sfuma come non mai i confini tra profit e no-profit. Per rendersene conto, basta visitare il cuore della Silycon Valley africana, sempre a Nairobi, ma su Ngong Road, costellata di enclavi di espatriati vecchi e nuovi, anglosassoni e cinesi, centri commerciali e culturali. In un ampio e luminoso open space all’ultimo piano di un edificio di vetro si trova iHub, il business incubator più famoso dell’intera Africa. Qui giovani keniani smanettano su laptop o discutono attorno a un grafico su un monitor di idee da trasformare in apps per cellulare o in piattaforme per il web. Eric Hersman, americano trapiantato in Kenya e animatore di vari blog tra cui White African («Dove le ICT incontrano l’Africa») l’ha fondato appena due anni ma, racconta, il seme è stato piantato nel 2007, e non in Kenya.

Generazione di ghepardi
È stato al Ted African Forum di Arusha, in Tanzania, che, dal palco, l’economista ghanese George Ayittey ha lanciato la sua profezia sul futuro del continente, con una metafora dal tipico respiro africano: c’è la generazione degli ippopotami e quella dei ghepardi. I primi sono legati alla logica postcoloniale e sono i dinosauri della politica, impastorniati nei ruoli di potere tradizionali e nella corruzione. I secondi guardano avanti, corrono veloci, sono curiosi, vogliono cambiare il mondo. La cheetah generation, vaticinò, sta sbocciando.
Al netto dell’enfasi, la profezia si è rivelata in parte corretta. Hersmann, che si trovava tra il pubblico, lo verificò meno di un anno dopo quando, insieme a un’attivista keniana anch’essa in platea, Juliana Rotich, vide il paese che aveva scelto come seconda casa sull’orlo della guerra civile.
La contestata vittoria del presidente in carica Mwai Kibaki sul leader dell’opposizione Raila Odinga aveva fatto precipitare il Kenya nel caos. È stato in quel momento che la cheetah generation si è messa a ruggire, dalla tastiera di un computer. Hersman, Rotich, attivisti di base ad Harvard e soprattutto tanti giovani keniani lanciarono Ushahidi – testimone in ki-swahili – una piattaforma online che permette di mappare la crisi in corso sulla base di sms ed e-mail inviati da chiunque. Un caso esemplare di crowdsourcing, ovvero raccolta diffusa di informazioni, che ha trovato applicazioni anche in altri contesti: dopo i terremoti ad Haiti e in Cile, durante l’operazione Piombo fuso su Gaza, nei conflitti in Libia e in Siria. Attoo a Ushahidi è aumentata l’attenzione sulle potenzialità della tecnologia recepita anche da organizzazioni come Un Ocha (Organizzazione delle Nazioni unite per il cornordinamento dell’aiuto umanitario), che per la prima volta ha chiesto la collaborazione della comunità di volontari di Ushahidi per monitorare l’emergenza umanitaria ad Haiti. Inoltre, a partire da iniziative come Ushahidi la cheetah generation è cresciuta e si è data da fare, soprattutto in Africa orientale, il vero cuore di questa rivoluzione che s’irradia non solo in Africa ma in tutti i Pvs (Paesi in via di sviluppo), sempre più Pds, «Paesi di sviluppatori».

Sviluppo telematico
La competizione Apps4Africa è una vera vetrina di creatività tecnologica africana. Nell’ultima edizione hanno trionfato un progetto che consente la gestione della distribuzione del grano via cellulare, Grainy bunch, ideato da un 28enne di Dar Er Salaam; Mkulima Bora, una app creata da un gruppo di sviluppatori keniani che consente agli utenti l’accesso a informazioni sul tipo di pianta da seminare, incrociando dati meternorologici e geografici; e Agro Universe, innovazione ugandese per monitorare il processo di distribuzione di prodotti rurali.
Uno dei progetti più riusciti premiati in una precedente edizione è iCow, «la migliore amica dell’allevatore», una app scaricabile gratuitamente per tutti gli utenti Safaricom, Orange e Airtel, iCow offre a chi si registra la possibilità di ricevere informazioni personalizzate sul ciclo di gestazione delle proprie mucche, il listino iCow Soko delle quotazioni del bestiame e, a richiesta, informazioni su vaccinazioni, alimentazione e igiene del latte.
A decretae il successo, il suo menu a scelta vocale, il che permette di ovviare al diffuso analfabetismo. iHub aiuta giovani sviluppatori a trovare fondi per produrre le proprie idee ed è un punto di riferimento per chiunque intenda rafforzare la società civile locale con tecnologie digitali: è il caso di MapKibera, progetto di mappatura partecipativa della più grande baraccopoli africana, Kibera appunto, usando la piattaforma libera Open Street Map e appoggiandosi a un team di adolescenti locali muniti di dispositivi Gps.

Non è tutto oro
Nonostante risultati incoraggianti, c’è però chi invita alla cautela su questo nuovo determinismo tecnologico che, alimentato dall’entusiasmo per l’ICT4D, rischia di lasciare in ombra i limiti e le implicazioni di lungo termine della rivoluzione mobile. Kentaro Toyama, professore d’informatica a Berkeley con una lunga esperienza nel campo della tecnologia per lo sviluppo, ad esempio, è probabilmente l’ICT4D-scettico più noto tra gli addetti ai lavori.
Le critiche più ricorrenti riguardano il fatto che un approccio soprattutto «gadgetistico» alla tecnologia fa dimenticare la dimensione politica e sociale dello sviluppo.
La tecnologia, ricorda Toyama, non è la panacea contro la povertà, ma uno strumento che va messo al servizio di competenze e sensibilità. Questo punto è legato a un altro aspetto della questione, che, riprendendo i casi precedenti, può essere riassunto così: Easteleigh e iHub spesso ignorano le rispettive esistenze. Ovvero le iniziative che ruotano attorno alle Ict per lo sviluppo non sono basate su una conoscenza approfondita di come i beneficiari già usano quelle tecnologie.
Un esempio è rappresentato dal monitoraggio mobile eseguito in parallelo ad Ushahidi durante le violenze post-elettorali in Kenya del 2008, quando la gang Luo che sosteneva Odinga, i Taliban di Kibera, usarono i cellulari per cornordinare l’epurazione degli abitanti Kikuyu dello slum.
O ancora il sofisticato uso che Al-Shabaab fa di Twitter, prova che per terrorizzare e intimidire bastano 140 caratteri.
L’ennesimo aspetto critico da sottolineare è infine che le tecnologie mobili non riescono a raggiungere i più poveri ma, piuttosto, rafforzando l’emergente classe media, stanno creando un’ulteriore spaccatura alla base della piramide, destinata ad ampliarsi con il passare del tempo. Al centro di uno studio della Arizona State University e della New America Foundation c’è MPesa, la piattaforma di mobile-banking che rappresenta l’esempio più eclatante delle capacità trasformative della telefonia mobile nei paesi poveri. Negli ultimi quattro anni, questo sistema ha raggiunto 14 milioni di utenti, che lo usano regolarmente per inviare e ricevere denaro. Per l’«Economist», MPesa ha generato un incremento fino al 30 per cento del bilancio familiare e oggi è usato dal 65% della popolazione keniana. Un’indagine successiva ha però rilevato che il 60% della fascia più povera della popolazione continua a non aver accesso al servizio: essendo guidate da una logica di profitto, le compagnie telefoniche non trovano conveniente investire in infrastrutture in alcune aree rurali. Inoltre, le transazioni hanno un costo che resta proibitivo per chi vive sotto la linea di povertà.
La rivoluzione insomma ha le sue ombre ma sta producendo una consapevolezza che finalmente mitiga nella gioventù africana complessi d’inferiorità o voglia di fuga. Consapevolezza che si traduce nell’esplosione di webcomics come «Emergency», ovvero la rivolta Mau Mau raccontata in internet dal disegnatore keniano Chief Nyamweya, o «Who Fears Death», della scrittrice nigeriana di fantascienza Nnedi Okorafor, in cui la civiltà ricomincia in Africa dopo un’apocalisse nucleare. La rivoluzione, come diceva negli anni Sessanta il menestrello nero Gil Scott-Heron, non finirà in televisione ma sarà dal vivo. O, se mai, annunciata da un sms.

Gianluca Iazzolino  

 

Gianluca Iazzolino




CinéLatino festival della speranza

Tolosa: festival del cinema latinoamericano senza pailettes e tappeti rossi

CinéLatino: è il nome dei Rencontres de Toulouse, un Festival dedicato al cinema latinoamericano, giunto alla ventiquattresima edizione, che ha avuto luogo nell’antica città francese tra il 23 marzo e il primo aprile scorsi.

Tolosa è la quarta città francese per numero di abitanti (450.000), posta ai piedi dei Pirenei nell’Alta Garonna e capitale culturale dell’antica Occitania.
Sede fin dall’inizio del 1200 di Università, è attualmente il secondo polo universitario francese, con quasi 100.000 (!) studenti e quattro facoltà.
Il centro storico è ben conservato, parzialmente pedonale, ricco di stradine con palazzi storici e chiese, ma anche di bar, ristoranti, birrerie, bistrots molto frequentati a tutte le ore.
Una città giovane, vivace, piena d’iniziative, con centri culturali, cinema e teatri, biblioteche, librerie (attraversando il centro ho contato 8 librerie e 5 bancomat: nelle nostre città possiamo contare 30 bancomat e 2 librerie…).
Il Festival non è solamente proiezione di lungometraggi, documentari o cortometraggi (le tre sezioni nelle quali è articolato), ma occasione d’incontri con i realizzatori e i registi, per il pubblico professionale, per gli amanti della cultura latinoamericana con retrospettive, concerti, mostre ed esposizioni.
Il comitato organizzatore ha selezionato, tra le circa 400 opere pervenute, 14 film, 7 documentari e 10 cortometraggi ponendoli all’attenzione delle Giurie.
Una prima, ufficiale, affiancata da altra Giuria di esperti locali, da una di studenti e da quella internazionale di Signis (Associazione cattolica mondiale per la comunicazione che riunisce professionisti di radio, televisione, cinema, video, educazione ai media, Inteet e nuove tecnologie, riconosciuta dal Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali).
I lavori presentati, tutti provenienti dal Centro e Sud America, hanno rivelato caratteristiche comuni.
In modo particolare i documentari e i cortometraggi (sui quali era chiamata a esprimere la valutazione la Giuria Signis) sono stati caratterizzati da un ritmo di racconto molto più lento e descrittivo di come siamo abituati nella nostra frenetica Europa. Una buona fotografia è una seconda caratteristica comune, anche se alcuni documentari e cortometraggi sono farciti d’immagini in soggettiva, un po’ traballanti perché girate senza l’uso del cavalletto. Scenari incantevoli, immersi nella natura e ricchi di tradizioni, di animali, di particolari e primi piani sui quali la telecamera indugia e descrive.
Le tematiche affrontate, salvo rare eccezioni, erano quelle dell’integrazione in nuove società, del recupero delle tradizioni familiari e sociali, del dialogo tra generazioni.
Non esiste più, in questa scuola di cinema, la classica figura del narratore: lo spettatore scopre la storia attraverso le immagini – un poco alla volta – arrivando al finale che spesso è lasciato «aperto» ad interpretazioni personali, in genere ottimistiche e rievocatrici di speranze.
Le musiche non sono prevalenti, ma intervallate a silenzi o suoni d’ambiente, e sono curate e composte appositamente.
Nel corso di un incontro con i giovani registi, si è parlato dell’evoluzione del concetto di documentario, a volte «contaminato» da fiction, dallo stile del reportage o dell’inchiesta.

La Giuria Signis, composta da Maria Teresa Teramo – insegnante all’Università di Buenos Aires -, Martine Liabeuf – ex insegnante di Lione -, e fra Mario Durando – presidente della giuria e responsabile della Nova-T produzioni multimediali di Torino -, si è confrontata a lungo, valutando sia la qualità tecnica che il valore del contenuto e del messaggio ed ha premiato il documentario «Canicula» del messicano José Alvarez.
La scelta è stata motivata per la qualità della fotografia, delle musiche e dei silenzi, per la poesia del racconto che invita a riflettere sul rispetto e l’amore alla natura, per il racconto degli antichi miti e dei riti religiosi, immersi in un simbolismo universale.
In Canicula il regista conduce lo spettatore in un villaggio degli indiani Totonac a Veracruz, in Messico. Nella foresta di montagna, dove gli abitanti creano ceramiche superbe, decorate con delicati disegni provenienti dall’antichità, la vita scorre tra la natura e gli animali.
I ragazzi, in un antico rito iniziatico denso di simboli, spiritualità ed eleganza, imparano a volare e a diventare «Voladores de Papantla» tramandando cultura e tradizioni antichissime.
Per la sezione dei cortometraggi, la scelta si è orientata su Kyaka La Na (La lana rossa) della colombiana Adriana Cepeda, che attualmente vive negli Stati Uniti.
è la storia di una ragazza orfana, ospite con la sorellina della nonna, a New York. La differenza di età e cultura, l’illusione di una modeità capace di far dimenticare sentimenti e tradizioni si scontrano con il desiderio della nonna d’insegnare i lavori tradizionali e tornare nella propria cultura. Finché la ragazza si accorge di quanto sta perdendo e… finale aperto all’interpretazione dello spettatore. L’ultima scena, infatti, nella sua serenità fa comprendere una riconciliazione interiore che potrebbe portare a qualsiasi scelta di vita.
Il corto, di buona qualità tecnica e artistica, è stato segnalato dalla Giuria Signis per la narrazione sui temi dell’immigrazione, dell’integrazione, della riappropriazione della propria identità delle origini, per il valore della famiglia e del rispetto e accompagnamento nelle scelte personali.
Un plauso al centinaio di volontari (tutti giovani, studenti o ex studenti) che si sono prodigati nell’accogliere, accompagnare, organizzare un festival definito non di pailettes o tappeti rossi, ma di cultura e accoglienza.

Mario Durando

Mario Durando




L’eredità del maestro Kong

Religioni in Cina / 2: il Confucianesimo

Filosofia e religione a un tempo, il confucianesimo è la vera cultura cinese. Nella sua lunga storia – Kong Zi (Confucio, nella traduzione del gesuita Matteo Ricci) nacque nel 551 a.C. – ha conosciuto periodi di auge e altri di disprezzo. Oggi vive l’ennesima rinascita. Forse (anche) perché il potere centrale ha bisogno di nuove legittimazioni.

Un anno e mezzo fa, alla vigilia del viaggio del presidente cinese Hu Jintao negli Stati Uniti, una statua in bronzo di Confucio, alta dieci metri, fece la sua comparsa davanti al Museo Nazionale a Pechino, proprio su quella piazza Tian’anmen dominata dal ritratto di Mao Zedong. Fino ad allora soltanto il Grande Timoniere aveva avuto l’onore di campeggiare permanentemente sulla piazza simbolo della Cina, affiancato due volte l’anno dal ritratto del padre della patria e primo presidente della repubblica cinese dopo la caduta dell’impero, Sun Yat-sen. Con la stessa rapidità con cui fu installata, la statua fu rimossa dopo poco tempo e posizionata all’interno del museo lasciando adito alle speculazioni sul perché di tale gesto. Da tempo il ritorno della figura del maestro è un argomento di dibatto tra gli esperti di questioni cinesi.
Il confucianesimo, come lo ha definito il pensatore contemporaneo Tu Wei-ming, è allo stesso tempo una visione del mondo, un’etica sociale, un’ideologia politica, una tradizione letteraria e un modo di vivere. «Il confucianesimo è una religione-filosofia che contiene i valori spirituali ed etici del popolo cinese. Difficile che sparisca», ci spiega Umberto Bresciani, docente all’Università Cattolica Fujen di Taipei ed esperto del dialogo religioso e culturale con il mondo cinese, contattato per email da Missioni Consolata.

UN PERCORSO STORICO ACCIDENTATO
La fortuna avuta per oltre 2.500 anni scemò agli inizi del XX secolo, quando Confucio fu additato come principale motivo dell’arretratezza della Cina che si confrontava con le potenze occidentali. Il lento disgregarsi del fondamento ideologico che aveva retto l’impero sin dall’epoca Han (206 a.C-220 d.C) ebbe alcune tappe fondamentali.
Nel 1905 fu decretata l’abolizione del sistema degli esami, una via d’accesso all’amministrazione pubblica basata sulla conoscenza dei classici. Un sistema tanto lodato in Occidente in epoca dei Lumi, perché considerato un metodo di selezione di una classe dirigente illuminata. Il crollo dell’ultima dinastia imperiale nel 1911 mise fine ai riti di Stato e nel 1919, con l’esplodere del movimento del 4 maggio, le nuove generazioni influenzate dalle idee che arrivavano dall’estero (liberalismo, socialismo, comunismo, positivismo) decretarono il rigetto dell’antica ideologia per abbracciare una cultura nuova, sebbene poi – dagli anni Trenta – le correnti più moderate e i nazionalisti cercarono di reinterpretare la tradizione confuciana in chiave modea.
L’apice del disprezzo fu però raggiunto con la Cina comunista, durante gli anni della Rivoluzione Culturale, a cavallo tra il 1966 e 1976, quando il pensatore originario di Qufu, nell’odiea provincia dello Shandong, fu bollato come feudale e reazionario. Questo perché Mao Zedong, nonostante fosse intriso – sin dalla giovinezza – della cultura confuciana, era deciso a imporre sul Paese il proprio pensiero. Con la morte di Mao e la fine dei dieci anni di lotta di potere e furore ideologico che sconvolsero la Cina, le radici iniziarono a riaffiorare. «La morsa si allentò, e i confuciani convinti ripresero a parlare, per quanto lo permetteva l’autorità – continua il professor Bresciani -. Con il passare degli anni, questa libertà è venuta aumentando, anche perché i governanti cercano di strumentalizzare per quanto possibile le dottrine e gli ideali confuciani, avendo bisogno di legittimare la loro presenza al potere. È prevedibile che, salvo rovesci ideologici dell’oligarchia al potere, la presenza del confucianesimo diventerà sempre più rilevante e palese. Non poche scuole hanno reintrodotto lo studio dei classici come corso obbligatorio. Si fa già sentire anche chi vorrebbe che il confucianesimo fosse proclamato religione di stato, non per opprimere le altre religioni, ma per avere un punto di riferimento, com’è il cristianesimo luterano nei paesi nordici o l’anglicanesimo in Gran Bretagna».
Come ha spiegato la professoressa Alessandra Lavagnino, direttrice dell’Istituto Confucio dell’Università di Milano, la riscossa del pensiero confuciano si inserisce in quelli che sono gli studi sulla nazione, i cosiddetti guoxue, ossia il recupero di una tradizione autoctona cinese. «È la riscoperta delle radici di una cultura propriamente cinese, non di importazione come d’altronde è stato lo stesso marxismo».
Secondo un sondaggio dell’anno scorso, condotto tra duemila studenti universitari e pubblicato sul «Nanfang Ribao», Confucio è annoverato al secondo posto tra i dieci simboli culturali della Cina contemporanea, subito sotto la scrittura e prima della calligrafia, della Grande Muraglia e degli stessi Mao Zedong e Deng Xiaoping, i leader carismatici della rivoluzione e della crescita cinese. «A livello popolare sta avvenendo una massiccia riscoperta dei suzhi, vale a dire delle caratteristiche proprie e dei tratti peculiari di quella che potremo definire la “cinesità”. Assistiamo a un ritorno al rispetto per le gerarchie e le norme, al rispetto per gli insegnanti, all’idea che sia possibile elevarsi con il sapere».
A livello governativo il Partito comunista cinese, almeno da una decina di anni, sotto la dirigenza Hu Jintao, ha riscoperto e fatto largo uso di termini riconducibili alla tradizione confuciana, come «società armoniosa» o xiaokang, benessere. Nonostante il largo spazio dedicato nei discorsi ufficiali, la società armoniosa non ha tuttavia ancora trovato spazio tra i principi ispiratori dell’azione del Partito accanto alla teoria di Deng Xiaoping, a quella della «costruzione del socialismo con caratteristiche cinesi» e al pensiero de «le tre rappresentatività» di Jiang Zemin, con cui il vertice ha cornoptato a sé quelli che ritiene gli strati più dinamici della società. Segno che all’interno della dirigenza esistono ancora resistenze.
I tempi stanno comunque cambiando.

DALLA DEMONIZZAZIONE AL GRANDE SCHERMO
Come scriveva nel 2010 il professor Daniel Bell, docente di filosofia all’Università Tsingua, uno degli atenei più rinomati della Cina, in passato Confucio era usato per attaccare i nemici politici. Il caso più eclatante fu la campagna di critica contro Confucio e contro Lin Biao (pin Lin pin Kong fu lo slogan) alla fine del 1974 con cui allo stesso tempo si colpivano, accostandoli, il maestro e l’ex delfino di Mao, caduto in disgrazia e morto in circostanze misteriose in un incidente aereo nel 1971.
Trentaquattro anni dopo, al contrario, la cerimonia di apertura dei Giochi olimpici di Pechino esaltò i temi contenuti nei Dialoghi, la raccolta del pensiero del maestro compilata dai suoi discepoli e dai loro allievi. Mentre a mancare dalla mastodontica festa a cinque cerchi furono proprio gli anni della Cina comunista. E che dire del lavoro di divulgazione dei Dialoghi fatto dagli schermi della televisione di Stato CcTv dalla signora Yu Dan, docente di tecniche dei media a Pechino, che ha riportato all’attenzione popolare il confucianesimo con successo di pubblico e di ascolti, sebbene con qualche mal di pancia tra gli studiosi. «Ricorda molto i libri di autoperfezionamento scritti per convincere le persone a credere in sé stesse. Personalmente sono più attratto dal lavoro di critica sociale che in Cina cerca di trarre ispirazione dalla tradizione confuciana per pensare riforme politiche», scrive Bell sottolineando come chi si interessi di questo punto non si ferma al solo personaggio Confucio.
Nel 2010, infine, il Pcc sostenne invece il blockbuster «Kong Zi», film interpretato dalla star Chow Yun-fat e diretto da Hu Mei, che rivede in chiave nazionalista la vita del pensatore.  Ancora, al maestro è stato dedicato il premio istituito in concorrenza con il Nobel per la Pace, dopo il riconoscimento assegnato da Oslo all’intellettuale dissidente Liu Xiaobo nel 2010.
«Al giorno d’oggi il confucianesimo ha una funzione di legittimazione politica, può servire a dare nuove basi morali per governare la Cina», scrive Bell sul quotidiano canadese Globe and Mail, «Il comunismo ha perso la propria capacità di ispirare i cinesi e la consapevolezza del bisogno di un qualche sostituto è ricaduta in parte sulla tradizione. Il confucianesimo è l’alternativa più scontata». Non a caso l’articolo, già nel titolo, si interroga sulla possibilità di un Partito confuciano cinese, la cui sigla sarebbe – come nel caso comunista – Pcc.

IDEALI E VISIONE DEL MONDO
Negli anni il ritorno del maestro è diventato anche uno strumento del softpower cinese. «A loro tempo i missionari calcarono l’accento sulle tematiche dell’amore universale e sulla forte etica morale di Confucio. La burocrazia celeste ispirò gli illuministi. Oggi gli Istituti Confucio sono la rete per far conoscere la cultura e la lingua cinese nel mondo. Sono l’equivalente dei Goethe Institut e degli istituti Cervantes. Pechino ha scelto come rappresentante Confucio», sottolinea la professoressa Lavagnino.
La riscoperta del confucianesimo non è tuttavia un fenomeno esclusivamente calato dall’alto, secondo Bell. Molto si muove anche fuori dal controllo governativo, nelle accademie e nella società.
«Un secolo fa era necessario aggioare il confucianesimo e portarlo all’altezza del dialogo con la cultura dell’occidente. Questo lavoro è stato realizzato da tre generazioni di filosofi. Hanno buttato via quelle che erano evidenti incrostazioni accumulate lungo i secoli, come un’etica familiare fossilizzata in senso patealistico, una politica autoritaria, la posizione inferiore della donna, e così via. Hanno conservato gli ideali e la visione del mondo originaria di Confucio e Mencio, espressi in un linguaggio e una logica presi dall’Occidente, in modo da divenire comprensibili anche per gli occidentali – spiega Bresciani -. Quanto al rapporto con il marxismo, in genere i nuovi confuciani per principio sono contrari a esso, anche se poi nella pratica sono più tolleranti: dato che la Cina sta uscendo da un secolo di guerre e di caos sociale, non è il caso di procurare altro caos cercando di sovvertire lo status quo; è meglio auspicare e favorire un progressivo distanziarsi dagli ideali e metodi comunisti, e cioè un’evoluzione piuttosto che una rivoluzione. Un po’ quello che sta avvenendo»1.

Andrea Pira

Andrea Pira




Il Cristo dal volto nero

Approccio pastorale agli afrodiscendenti

La Chiesa riconosce che ha il dovere di avvicinarsi agli americani di origine africana a partire dalla loro realtà culturale, considerando seriamente le ricchezze spirituali e umane di questa cultura che segnano il loro modo di celebrare il culto, il loro senso di gioia e di solidarietà, la loro lingua, le loro tradizioni (Ecclesia in America 16).

Quando diciamo «pastorale afrodiscendenti» non intendiamo discriminare né santificare tale pastorale, come se essa fosse l’unico approccio possibile alla cura religiosa della popolazione nera. Si vuole semplicemente affermare che è possibile costituire, alla luce della parola di Dio, comunità ecclesiali dal volto propriamente afro, secondo la loro organizzazione sociale, le loro caratteristiche culturali, il loro senso di identità e di libertà.
Si tratta, infatti, di accompagnare gli afrodiscendenti senza adottare metodi e schemi dal di fuori, ma partendo da loro e interagendo con loro.
Ma per fare questo, prima di tutto, è necessario conoscere il loro itinerario storico, la loro mentalità, cultura, tradizioni, religiosità e rispettive forme di espressione.

Abbandonati al «libero» destino
Il 21 maggio 1851, il presidente José Hilario López firmò la legge che aboliva la schiavitù in Colombia: la popolazione nera del paese fu sffrancata, ma continuò a essere un gruppo sociale povero, segregato, con istruzione precaria e poche possibilità di progresso. Alla radice di tutto questo c’è proprio l’abolizione stessa della schiavitù, poiché in essa si indennizzò gli schiavizzatori e non gli schiavizzati.
Già 40 anni prima, quando nel Nuovo Regno di Granada incominciò la gestazione dell’emancipazione nazionale dalla Corona spagnola, i venti del patriottismo non sfiorarono minimamente le popolazioni nere. A quei tempi, la società coloniale era costituita da quattro classi ben definite: al vertice della scala sociale c’erano i nobili, pochi spagnoli di alto rango; seguiva la casta dei proprietari terrieri, poco numerosa, ma potente e ricchissima; più in basso c’era la classe media, grigia e numerosa, composta da impiegati amministrativi, funzionari secondari, scribacchini pretenziosi, piccoli commercianti, sarti, osti, fabbri, muratori, bottegai, poliziotti, maestri, medicastri, salassatori, macellai, sacrestani, calzolai, basso clero…; nell’infimo gradino c’erano la classe bassa, il popolino.
Nel 1810, quando risuonarono i primi squilli di tromba della rivoluzione, l’unica classe che non vi partecipò fu quella più bassa, la super-sfruttata: indios, neri, meticci, mulatti e altri discendenti da mescolanze razziali possibili solo ai tropici.
A questa gente la rivoluzione non interessava. Loro compito era il lavoro da soma nelle gallerie delle miniere, nelle mefitiche piantagioni, la schiavitù domestica, zappa e finimenti di muli. Era il popolo schiacciato dall’oppressione. Continuava nell’anonimato, poiché era vuoto di ideali, servile per inerzia e in sempitea ignoranza. Alcuni facevano eccezione: adoravano i loro padroni e morivano per essi.
A che serviva la libertà? Cosa portava allo schiavo manomesso? Unico vantaggio era la non dipendenza; ma al di là di questo, il loro destino era morire di fame come cani rabbiosi, poiché le terre le aveva il padrone e l’embrionale costituzione mancava totalmente di leggi sociali pratiche, che rispondessero alle sue necessità più immediate di casa e lavoro. Al bivio tra essere poco o essere niente, i neri preferivano il primo.

Meglio la Schiavitù che la guerra
Il cambio di padrone sapeva d’imbroglio. Senza intendersi di politica, leggi, democrazia, diritti umani, i neri non capivano la rivoluzione. Tuttavia, spinti dai loro padroni, obbedendo ai loro ordini, alcuni andarono in guerra. Li si vedeva arruolati in entrambi gli schieramenti e in varie occasioni alternarono i loro servizi ora con l’uno e ora con l’altro: i racconti delle loro storie guerresche erano una collezione di diserzioni.
Ma per arruolare la maggior parte di essi fu necessario inseguirli come bestie dannose, soprattutto gli indios; una volta reclutati, venivano incolonnati e legati insieme per le mani; sciolti al momento di combattere: quelli che non cadevano morti sparivano come per incanto.
Altri ancora si unirono ai battaglioni benedetti dai parroci dei loro distretti, perché difendessero Dio e la Chiesa. Ma se il curato diceva che Cristo stava con Ferdinando, allora… «viva la Spagna»; se stava con Bolivar, «evviva la repubblica». No, gli schiavi neri non avevano interessi né ideali da difendere. Tanto più che non c’era spagnolo né patriota di rango che non li disprezzasse, non li evitasse per tante ragioni e pregiudizi prima e dopo la guerra, e perfino nel pieno furore della battaglia. E poi, in caso di vittoria, sarebbe cambiato solo il colore della loro rassegnazione senza speranza. No, essi non si sollevarono spontaneamente nel 1810: mancava loro la libertà per decidere e anche la motivazione.
E quando in Colombia fu decretata l’abolizione della schiavitù, l’emancipazione non portò migliori condizioni di vita o avanzamento della posizione sociale delle popolazioni nere; anzi inizialmente le peggiorò. Tale abolizione, semplicemente, liberò il padrone da un peso che per lui ormai non era più redditizio; mentre l’antico schiavo fu chiaramente e semplicemente abbandonato alla sua «libera» sorte.
Dopo secoli di lavoro bestiale, considerato alla stregua di una «macchina» di produzione, il nero fu messo in un angolo proprio come un aese vecchio e disprezzabile. In teoria la manomissione lo dichiarava «libero cittadino», alla pari degli altri colombiani, ma al tempo stesso lo condannava a una «invisibilità giuridica» che in Colombia si è prolungata fino alla nuova costituzione del 1991 e alla Legge 70 del 1993: 152 anni di presenza invisibile, senza riconoscere il contributo e la partecipazione dell’afrocolombiano alla formazione sociale, economica e culturale del paese.
In tutto questo tempo nessuno ha aiutato gli afrocolombiani ad acquisire capacità e mezzi per difendersi nella vita socio-politica ed economica. La schiavitù, quindi, continuò molti anni sotto altre forme. Ancora oggi, la persona afro continua a lottare contro l’emarginazione, il razzismo, la mancanza di guida, la povertà, la violenza…

Nuovo adattamento
– Siamo liberi, e allora che facciamo?
– Arrangiatevi!
– E dove andiamo?
– Da quella parte, ci sono terre che non appartengono a nessuno: occupatele.
– Come facciamo a mangiare?
– Lavorate!
Non è pura fantasia immaginare un dialogo del genere tra l’antico padrone e il nuovo suddito dichiarato per legge «libero cittadino».
Sia come sia, abbandonato al suo destino, in un ambiente dove la natura si manifesta in tutto il suo splendore, ancora una volta il nero seppe adattarsi, affinché senza conflitto potesse coesistere sia lui che la natura tutta; uomo e natura, ognuno fragile in qualche misura.
Da lì iniziò un’esperienza che insegnò al nero a sopravvivere, estraendo dall’ambiente naturale ciò che gli era indispensabile per l’esistenza; nasceva una cultura nella quale non esistevano i concetti di sfruttamento né di superfluo, e nemmeno di accumulazione (con la relativa idea di risparmio), poiché l’ambiente in cui si trovava era talmente generoso che non era necessario accumulare per vivere.
L’economia del pancoger (letteralmente: cogliere il pane, cioè prendere lo strettamente necessario per l’esistenza) produsse una cultura di austerità, nella quale lo sforzo per la crescita poteva apparire superfluo; atteggiamento che dal punto di vista della mentalità capitalista occidentale fu considerato un freno all’evoluzione di queste società, segno d’incapacità o semplicemente di pigrizia.
Gli schemi educativi tradizionali trovarono in tale ambiente il proprio modello fondamentale. Fin da bambino l’individuo imparava a valorizzare l’ambiente naturale, poiché gli veniva inculcato il rispetto per gli elementi; rispetto che si traduceva in accortezza nel loro sfruttamento, virtù indispensabile per continuare a vivere in un luogo in cui l’uomo afrocolombiano si sentiva piccolo e limitato, benché pieno di possibilità favorevoli alla vita. Inoltre, in questo ambiente, egli dilatava il mondo della natura e vi associava il mondo delle forze soprannaturali, di esseri misteriosi e poteri superiori, la cui energia egli si abituava a captare, valorizzare e rispettare.
Con il processo d’indipendenza, si stabilirono alcuni gruppi culturali diametralmente opposti: quello dell’élite (bianco-creolo, evoluto, sofisticato, salottiero, europeizzante) e quello popolare (oppresso, sottostimato, soffocato, sfigurato e perfino perseguitato).
Il nero, in Colombia come in altre parti d’America, si trovò tra due correnti: una lo piegava verso il suo perduto passato nel desiderio di poterlo rivivere; l’altra lo obbligava ad adattarsi al nuovo ambiente in cui doveva vivere. In tale adattamento dovette scegliere l’acculturazione, cioè, assimilare elementi della cultura dominante e al tempo stesso trovare risposte alla sua mentalità e adattarle alle nuove situazioni. Creò, così, nuovi modelli di comportamento, conciliando l’elemento africano con quello della cultura dei suoi padroni o ex padroni.

Mentalità da conoscere
L’azione evangelizzatrice attuale e la pastorale cattolica con i gruppi afrocolombiani non incontrano, in generale, un «vuoto» di tipo culturale e religioso. Per di più, non esiste tra gli afrocolombiani una cultura o una religiosità totalmente estranea al messaggio evangelico.
Da secoli gli afrocolombiani hanno ricevuto l’annuncio del vangelo e, fondamentalmente, vi hanno aderito. Senza dubbio, lo hanno accolto alla loro maniera, in parte adattandosi con sincerità alla nuova religione e, in parte, adattando la nuova religione alla loro cultura.
In linea di massima gli afroamericani della costa e del Chocó si autodefiniscono «cattolici» e persino «buoni cattolici». In tale dichiarazione gioca una certa dose di ingenuità o ignoranza, ma non vi è presunzione.
Sarebbe perciò totalmente sbagliata un’azione pastorale che non tenesse conto della mentalità, della cultura e della tradizione religiosa delle persone a cui è diretta. Quindi, un lavoro pastorale proficuo tra gli afrocolombiani suppone ed esige la conoscenza piena della loro cultura e della loro religiosità. Inoltre, «inculcare la fede», come raccomanda la sfida lanciata dal Documento di Santo Domingo (1992), esige che le forme in cui essa viene espressa corrispondano alle forme di espressione della rispettiva cultura, evitando così che l’africano, per essere cristiano, debba diventare culturalmente bianco.
Per il nero la tradizione è una legge molto più forte e rispettabile di tutti i documenti ecclesiali di riforma, apparsi dal Concilio Vaticano II ai nostri giorni. Non li critica, né li disprezza; semplicemente li ignora. Non contraddice ciò che i sacerdoti e le religiose cercano di comunicare loro: semplicemente scarta ciò che risulta estraneo alla sua tradizione.
Celebrando il Natale e la Settimana Santa, con ogni probabilità i neri intendono celebrare l’uomo: la sua nascita, la sua vita, la sua morte. Cristo è l’immagine dell’uomo, e sono affascinati più dalla sua umanità che dalla sua divinità, più dalla sua morte che dalla sua risurrezione.

Due tipi di Sincretismo
Anche nell’ambito religioso il processo fu molto simile a quello socio-culturale: tra le istruzioni impartite dal clero, mediante istituzioni come il catechismo domenicale, e il controllo repressivo delle autorità civili e, posteriormente, del cosiddetto Santo Ufficio dell’Inquisizione, l’africano si vide sottoposto a una terribile pressione da parte dell’ambiente circostante, che influì sul suo credo religioso: di qui il nascere di un pronunciato sincretismo, ancora presente nella coscienza afroamericana. Tale sincretismo prosperò tanto in ambiente protestante che in quello cattolico, anche se in modo assai diverso.
Nell’ambiente protestante il nero non veniva accettato come membro della Chiesa se non dopo un’istruzione accurata e completa. In questo ambiente un’evangelizzazione approfondita portò alla scomparsa dell’elemento culturale africano. Lo schiavo reinterpretò il messaggio biblico filtrandolo attraverso la sua mentalità e le sue esigenze, creando un suo proprio cristianesimo.
In ambito cattolico, che si potrebbe definire più sociale che mistico, il nero invece capì molto presto che l’unica possibilità per ascendere nella scala sociale era quella di «formarsi un’anima di bianco». In questo ambiente, con un’evangelizzazione più superficiale, si mantennero più facilmente le caratteristiche culturali originarie, che produssero quel sincretismo di stampo africano presente nella religiosità popolare cattolica afrocolombiana.
Tra le sue varie forme, vale la pena menzionare la corrispondenza tra divinità africane e santi cattolici. In pratica, il nero riconosce che i santi cui rende culto sono la versione bianca delle sue divinità nere e lo giustifica teologicamente, affermando che fondamentalmente esiste una sola religione universale: quella che crede nell’esistenza di un Dio unico, creatore. E siccome questo Dio è troppo lontano dagli uomini, sono necessari degli intermediari, che per i protestanti sono gli angeli, per i cattolici sono i santi.
Degno di nota è pure il culto dei morti che diventa spazio di solidarietà e, nel suo nucleo essenziale è «la celebrazione della vita» che continua dopo la morte. Negli ambienti afroamericani questo culto ha lo scopo di accattivarsi la loro simpatia e di difendersi dal loro grande potere. È importante propiziarseli e riparare possibili offese. In tale celebrazione, la venerazione è sempre strettamente legata al timore, che è vero movente del culto degli antenati.

Il santo patrono
Emblematico è, soprattutto, il caso delle feste, e particolarmente in quelle patronali, che si trasformano in momenti privilegiati di ritrovo e comunicazione della popolazione nera: uno spazio autonomo, per comunicare con i propri antenati e con le divinità africane, scenario privilegiato per rafforzare la propria coesione.
La festa rappresenta la grande opportunità per celebrare la vita in gruppo. In essa ciò che più conta è il «saper socializzare». In questa occasione tutti si ritrovano e la gente si sente «comunità». Il nero non ama la solitudine, ama il gruppo, cerca la massa. Non ama il silenzio, ama il chiasso, l’allegria traboccante. Perché la festa sia tale ci deve essere molta gente… e molto chiasso.
Nella festa del santo patrono gli afroamericani trovano l’occasione per restituire al santo i favori che questi ha elargito durante l’anno. Un buon raccolto, una pesca abbondante, un certo benessere generale nel paese creano nella coscienza della gente la convinzione che il santo patrono abbia pensato a loro ed essi non esitano a manifestargli la loro riconoscenza nel giorno della festa patronale. Maggiore il benessere, maggiore sarà la festa. La gente dialoga con il santo patrono nel giorno della festa, soprattutto nella processione che costituisce l’atto religioso più idoneo ad esprimere i propri sentimenti. «Sentono» che il santo si è preso cura di loro e nella processione «glielo dicono», attraverso una ritualità che non può essere considerata pura esteriorità. Ma se durante l’anno il potere del santo patrono ha brillato per la sua assenza, la festa può giungere all’estremo opposto: porre il santo con la faccia contro il muro.

Senza memoria non c’è futuro
Da alcuni decenni gli afrocolombiani stanno dando notevoli segni di risveglio e presa di coscienza, di coraggiosa ricerca della propria identità culturale, religiosa e sociale, di timida lotta per recuperare la memoria storica, i valori etnici e le organizzazioni; tale movimento ha già ottenuto alcuni successi negli ambiti dell’educazione, della politica, della chiesa istituzionale e nelle comunità contadine.
Oggi, proprio in quanto popolo nero, essi hanno cominciato a organizzare il loro «esodo» verso la liberazione integrale e sentono la necessità e reclamano il diritto di continuare a ripercorrere le proprie esperienze spirituali ed espressioni liturgiche, radicate nella tradizione religiosa e culturale delle proprie comunità, cercando spazi di libertà per potersi esprimere come cristiani afroamericani.
Vengono così a galla le loro potenzialità, a volte messe a tacere ma mai eliminate, che lungo i secoli hanno permesso loro di sopravvivere e che oggi li stanno accompagnando lungo la via del Calvario verso la sicura risurrezione.
È proprio la sua anima religiosa che permette al popolo nero di avere una cosmovisione che lo rende capace di dare significato alla realtà, di interpretare le esperienze personali e di gruppo in una prospettiva unitaria, di organizzare ciò che è frammentario e dargli dimensione globale.
Il processo storico degli africani in Colombia, con tutte le sue contraddizioni, con la sua carica di morte e sofferenza, con le sue lotte e resistenze, ha configurato una cosmovisione in cui la manifestazione spirituale è l’asse portante per comprendere la realtà.
Gli afrocolombiani hanno sviluppato una visione globale sull’essere umano, il mondo, Dio, gli spiriti e le energie che tutto pervade.
Questa visione integrale della realtà e i valori che la sostengono, sono stati affrontati, nel passato, con una pastorale riduzionista, che promuoveva solo alcuni aspetti dell’essere umano e della sua realtà: quella spirituale, trascurando quella materiale o viceversa; tale azione ha provocato una schizofrenia culturale con gravi conseguenze sociali e religiose. 

Evangelizzare le espressioni della religiosità
Le popolazioni afrocolombiane hanno mantenuto fermamente la fede, l’hanno sviluppata nella quotidianità della loro vita contadina, l’hanno manifestata con spirito allegro e spontaneo, mediante una ricca serie di simboli e forme provenienti dalla loro cultura e mentalità, più che dalla tradizione universale cattolica. È naturale quindi che una pastorale autenticamente afro debba tendere a evangelizzare le manifestazioni culturali, le quali, a volte per mancanza di adeguato orientamento, hanno perso progressivamente il loro originario contenuto religioso e si sono ridotte a puro folclore.
Rientrano in questa categoria soprattutto le manifestazioni collettive della religiosità popolare, come le processioni e i balli religiosi, le «veglie» ai santi e ai defunti e le drammatizzazioni della nascita, passione e morte di Gesù a Natale e nel Venerdì Santo, che interessano e mobilitano tutto il paese.
Ma vi sono anche numerose manifestazioni individuali e domestiche che possono essere valorizzate nella pastorale. Tra le espressioni individuali si possono ricordare: farsi il segno della croce toccando la terra con una mano prima di uscire di casa; l’uso abbondante dell’acqua benedetta come terapia e elemento base per medicine casalinghe contro dolori e malattie varie; recita di speciali formule di preghiera in circostanze determinate; croci piantate sotto casa, specie se è edificata su palafitte e terreni paludosi, o davanti alla porta di ingresso, per scansare calamità reali o supposte, casi di malocchio ecc.
Le espressioni domestiche consistono in altarini, posti in nicchie o appoggiati alle pareti, ricoperti di immagini di santi e madonne, crocifissi e statuette, davanti cui si accendono lumini e si recitano diverse preghiere.
In tutte le espressioni religiose svolge un ruolo importante il canto accompagnato dai tamburi. I canti, come pure le ninne nanne e le poesie, costituiscono un ricco patrimonio culturale degli afroamericani e sono la quintessenza della loro religiosità.
Tutto ciò che è sacro è avvolto nel contempo da un alone di mistero. Ciò introduce l’afroamericano nel mondo del soprannaturale.
«partecipare» o «non partecipare»
Bisogna ammettere che il messaggio evangelico non è ancora riuscito a impregnare adeguatamente il gruppo culturale di origine africana, che possiede ricchissimi valori e conserva «i semi del Verbo» in attesa della Parola di vita. Come per tutta la Chiesa, la religiosità popolare afroamericana ha bisogno di essere rievangelizzata, colmando le lacune lasciate dall’evangelizzazione precedente.
Una di tale lacune è certamente il significato della domenica. Per l’afroamericano essa non rappresenta necessariamente il giorno dell’incontro religioso comunitario. La domenica è semplicemente il giorno del riposo e dello sport. Probabilmente questo dipende dal fatto che i primi missionari non approfondirono a sufficienza il significato religioso della domenica. L’evangelizzazione sottolineò più il mistero della Croce che della Risurrezione. E, forse, l’impossibilità di celebrare la messa per tutti per mancanza di sacerdoti, li indusse a non insistere inutilmente sul precetto domenicale.
Anche oggi, la messa non è considerata di fondamentale importanza presso gli afrocolombiani, forse perché è stata interpretata per troppo tempo come un atto di supplica, una preghiera efficace per comunicare con il mondo dei morti. Non è un caso che l’altare della veglia funebre nella casa del defunto sia una copia dell’altare della chiesa.
La difficoltà di capire i vari aspetti della messa ha provocato una reazione negativa nella gente. Ciò che per essa costituisce una seria difficoltà non è il mistero dell’eucaristia in quanto tale, bensì il fatto che questo, come altri misteri, venga celebrato in modo troppo freddo e formale, totalmente contrario alla sensibilità popolare.
Comprendere o non comprendere non costituisce per gli afroamericani un problema essenziale. Il problema è «partecipare» o «non partecipare». Nessun tipo di culto interessa agli afroamericani se si devono limitare ad ascoltare e a guardare passivamente, se non vi possono partecipare attivamente ed esprimersi liberamente.
Partecipare ed esprimere: è questa una questione fondamentale nell’espressione della loro religiosità. Per questo tra gli afrocolombiani assume tanta importanza la processione, che è un’autentica espressione di fede e di ringraziamento a Dio, il quale, mediante i suoi santi, elargisce vita e salute, clima favorevole e abbondante raccolto.

Vincenzo Pellegrino

Vincenzo Pellegrino




Primi attori dell’indipendenza

Mondo Afro in Colombia

La Colombia è al terzo posto per numero in assoluto di popolazione nera in America, dopo Usa e Brasile: su circa 46 milioni di abitanti, i discendenti dagli antichi schiavi africani oscillano tra 13 e 18 milioni. A 200 anni dall’indipendenza del paese e a 160 dall’abolizione della schiavitù, gli afrocolombiani sono ancora emarginati e discriminati, in fondo a tutte le classifiche di sviluppo del paese. Eppure essi hanno contribuito fortemente alla nascita e alla crescita della società colombiana in tutti i suoi ambiti. 

Rivolte di schiavi e costituzione di «territori ribelli» furono un fenomeno che caratterizzò tutto il continente americano; ma in Colombia esso ebbe una specificità tutta particolare: gli schiavi rivoltosi presero il nome di Cimarrones e i loro insediamenti, circondati da piccole fortezze per difendersi dai soldati spagnoli, furono chiamati Palenques. Tale forma di resistenza nera cominciò fin dagli inizi della schiavitù e si protrasse fino alla fine della colonia: i neri furono i primi a lottare per l’indipendenza del paese dal regime coloniale; ancora oggi il nero cimarrón è il simbolo della libertà; di lui si devono sentire orgogliosi tanto i neri come i bianchi colombiani.

Una storia ignorata
A partire dal 2001, il 21 maggio di ogni anno si celebra la «Giornata nazionale della afrocolombianità», istituita dalla legge 725 per commemorare il 150° anniversario della fine della schiavitù in Colombia, abolita il 21 maggio 1851. Con tale iniziativa si vorrebbe mostrare che la Colombia è un paese democratico, tollerante, rispettoso della differenza, non discriminatorio, che valorizza positivamente il contributo degli afrocolombiani all’identità nazionale. Ma la realtà è molto diversa. Benché la Costituzione colombiana sancisca e garantisca l’uguaglianza di tutti i suoi cittadini, nella pratica, però, persistono forme strutturali acute di invisibilità giuridica e discriminazione della popolazione afro.
Il censimento del 1993 concluse, contro ogni evidenza e per errori tecnici, che gli afrodiscendenti costituivano appena l’1,5% della popolazione colombiana. Nel censimento del 2005, realizzato con migliori forme di partecipazione e di rilevazione dei dati, la percentuale degli afrodiscendenti salì all’11%; ma secondo molti esperti, questa cifra sarebbe ancora molto inferiore alla realtà.
Il censimento del 2005 ha registrato 4.311.757 persone auto-identificatesi come afrocolombiane: ciò rappresenta un miglioramento nella stima della popolazione afrodiscendente; ma ci sono altri parametri da tenere in conto, destinati a stabilire con più chiarezza e precisione le dimensioni della presenza degli afrodiscendenti in Colombia e, conseguentemente, le implicazioni socioculturali che ne derivano. Alcuni affermano che gli afrocolombiani sono 13 milioni; secondo Juan de Dios Mosquera, direttore nazionale del Movimiento Cimarrón, essi sarebbero 18 milioni; solo nella capitale, secondo le stime del Centro studi sociali dell’Università nazionale di Bogotà, ce ne sarebbero circa 950 mila.
Segnati da una storia di invisibilità giuridica, gli afrodiscendenti colombiani sono il gruppo più svantaggiato, i più poveri tra i poveri. La loro esistenza è caratterizzata da emarginazione, esclusione, discriminazione, disuguaglianza sociale, con relativi svantaggi economici e sociali, oltre alle difficoltà per accedere ai servizi basilari di sanità e istruzione, alla partecipazione nella vita pubblica e a impieghi redditizi.
«Noi colombiani – scrive l’antropologa Patricia Quintero Barrera – dobbiamo fin dall’infanzia e dalla giovinezza costruire un’etica di rispetto verso le differenze e la diversità etnica e culturale». Un personaggio politico contemporaneo ha proposto che nei questionari di esami dell’Icfes (Istituto colombiano per la valutazione dell’educazione scolastica) il 5-10% delle domande sia sulla storia afro del paese, obbligando così allo studio più serio di tale tema in scuole e collegi. Tale proposta mette il dito nella piaga del problema: in Colombia si ignora totalmente la storia degli afrocolombiani, che vengono così esclusi dalle vicende storiche del paese. L’ignoranza della loro storia e della loro realtà culturale porta all’esclusione sociale e da qui all’emarginazione e discriminazione il passo è molto breve e consequenziale.

africa: culla degli afrocolombiani
Prima che Cristoforo Colombo scoprisse l’America le caravelle del Portogallo avevano più volte circumnavigato l’Africa ed esplorato le sue coste. Se lo scontro tra Europa e America fu deleterio per le popolazioni aborigene americane, molto più disastroso esso fu per le popolazioni africane. Guerre, disparità tecnologica, disprezzo per le culture primitive, fecero sì che l’Europa considerasse gli uomini di pelle scura come barbari nemici, esseri inferiori, poco più degli animali. Qualsiasi pretesto era buono per negare loro i più elementari diritti umani e permettere al più forte di approfittare di essi senza alcuna pietà. Tutto ciò fu alla base della nascita e dell’incremento, per oltre tre secoli, della deportazione di schiavi africani verso le Americhe.
La conquista ispanica del Nuovo Mondo veniva gestita dalla «Casa de contratación» che regolava il commercio tra Spagna e i suoi possedimenti d’oltremare. Fu fondata nel 1503, con sede a Siviglia, che era centro economico e amministrativo e insieme Corte di Giustizia. Qui arrivavano lamentele e accuse  contro i soprusi compiuti dai vari conquistatori. Giungevano infatti notizie di ribellioni e guerre con i nativi, perché obbligati a lavori disumani nelle miniere e nella produzione di generi alimentari per i loro dominatori, a servire come bestie da soma, per impervie e aspre mulattiere che si venivano mano a mano aprendo verso l’interno della colonia.
Era quello un mondo di tiranni e tiranneggiati, carente del minimo rispetto per la dignità umana e le culture locali. La Corte di Giustizia della Corona mandava ordinamenti in difesa degli oppressi, ma quando arrivavano in America essi venivano facilmente ignorati. Gli indigeni andavano estinguendosi; i loro insediamenti si spopolavano, le loro tradizioni morivano, uomini e donne si spingevano all’interno di foreste inaccessibili, proprio nel momento in cui era più necessaria la loro forza-lavoro per l’organizzazione della vita coloniale. Per eseguire quei lavori, che avevano annientato gli indiani d’America, si diede l’avvio alla tratta dei neri africani.

Distribuzione geografica
Gli schiavi neri, appartenenti a varie etnie delle regioni dell’Africa equatoriale, nell’area del Golfo di Guinea, furono portati nel Nuovo Mondo nel secolo XVI, al principio dell’epoca coloniale, per lo sfruttamento di materie prime come minerali, cotone, zucchero, riso, tabacco, di cui aveva bisogno l’incipiente capitalismo mondiale. Il traffico schiavista s’impose prima nelle Antille, per poi passare nel resto del continente, per rimpiazzare la manodopera indigena, sostituzione dovuta alla rapida diminuzione delle popolazioni aborigene e alle disposizioni emanate dal re di Spagna per la loro protezione.
Oltre all’utilità nelle colonie, gli schiavi costituivano un’importante fonte di entrata per la Corona spagnola: già nel 1513 furono stabilite le prime misure riguardanti la tratta di neri su vasta scala; quegli anni sono conosciuti come periodo delle «Licenze»: per ogni schiavo introdotto nelle Indie bisognava avere la legittima licenza, che si otteneva pagando un’imposta di due ducati; denaro che andava a impinguare le casse del re di Spagna.
In Colombia, la maggior parte degli africani furono introdotti «legalmente», attraverso il porto di Cartagena de Indias, quando il mercato degli schiavi era dominato da olandesi e portoghesi; altri furono portati di «contrabbando» a Buenaventura, Charambirà e Gorgona sul litorale del Pacifico, o sbarcati sulle coste di Riohacha, Santa Marta, Tolú e Darien sul versante Atlantico.
Fino al 1550 l’insediamento della popolazione africana sull’attuale territorio colombiano fu scarso e limitato a piccoli gruppi sul litorale caraibico. Ma alla fine del XVI secolo, la manodopera impiegata per lo sfruttamento delle miniere era in maggioranza di origine africana. Gli schiavi neri furono impiegati pure in altri lavori, come agricoltura, allevamento del bestiame, attività artigianali, nel servizio domestico. Inoltre, essi erano oggetto di operazioni di investimento: compra-vendita, noleggio di manodopera, crediti, permute, scambi, ipoteche e perfino pagamento di servizi. Nel 1789 il commercio della manodopera schiava fu liberalizzato e si avviò verso una graduale estinzione, per l’opposizione sia degli inglesi che dei movimenti indipendentisti americani contro la tratta schiavista.
Gli afrocolombiani furono dislocati in zone calde, selvatiche e lungo le coste, in ambienti simili alle loro terre di origine, principalmente Nigeria, Gabon e Congo. La loro maggior concentrazione si ebbe nelle regioni costiere bagnate dal Pacifico (dipartimenti del Chocó, Valle del Cauca, Nariño) e in quelle del litorale caraibico (Guajira, Magdalena, Atlantico, Bolivar, Cesar, Cordoba, Sucre e Antiochia). Alcuni si stabilirono pure nelle regioni calde dell’interno, come le valli dei fiumi Magdalena, Cauca, San Jorge, Sinú, Cesar, Atrato, San Juan, Baudó, Patía e Mira. Oggi, in quasi tutte le regioni del territorio colombiano ci sono nuclei significativi di popolazioni nere, come enclavi di antichi palenques, fattorie, miniere o piantagioni di banane.
Il Dipartimento nazionale di pianificazione indica come aree socioculturali di comunità negre, le seguenti zone: Costa Atlantica, Litorale Pacifico, Chocó, Atrato centrale, zona mineraria di Antiochia, Magdalena centrale, Valle del Cauca, Valle del Patía, Urabà, isole di San Andrés e Providencia e la zona del caffè. Attualmente si stima che gli afrocolombiani costituiscano il 29% (13 milioni) della popolazione totale nazionale; e questo pone la Colombia tra gli stati americani con maggior numero di afrodiscendenti, subito dopo Stati Uniti e Brasile. I dipartimenti con maggior popolazione afro sono Valle (1,9 milioni), Antiochia (1,4 milioni) e Bolivar (1,3 milioni).

Gruppi etnici e culturali
All’interno della popolazione afrocolombiana si possono distinguere quattro gruppi importanti: gli abitanti del litorale del Pacifico, i raizales dell’arcipelago di San Andrés, Providencia e Santa Catalina, la comunità di San Basilio di Palenque, le popolazioni delle periferie delle grandi città.
I primi risiedono tradizionalmente nella regione della costa occidentale, in un territorio caratterizzato da boschi umidi equatoriali, bacini idrografici, lagune e mangrovie; hanno pratiche culturali proprie delle popolazioni discendenti da africani, tra le quali risaltano la musica, le celebrazioni religiose e l’alimentazione. Sono fondamentalmente agricoltori. In questa regione si incontrano i 132 «Territori collettivi di comunità negre» legalmente riconosciuti, i quali hanno un’estensione di 4.717.269 ettari, pari al 4,13% del territorio nazionale.
Il secondo gruppo, i raizales, come vengono chiamati gli abitanti dell’arcipelago di San Andrés e Providencia, hanno radici culturali afro-inglesi, con profonde influenze delle popolazioni delle Antille; essi conservano una forte identità caraibica, con caratteristiche socioculturali e linguistiche chiaramente differenti dal resto della popolazione afrocolombiana. La loro lingua è conosciuta come «creolo sanandresano» o «bende»; la religione originaria è la protestante, ma molti sono passati alla Chiesa cattolica.
Il terzo gruppo, la comunità di San Basilio di Palenque (municipio di Mahates, dipartimento di Bolivar) raggiunse la propria libertà nel 1603, diventando così il primo villaggio libero d’America e riuscendo a resistere, in parte, grazie al relativo isolamento nel quale è vissuto fino a poco tempo fa; vi si parla il palenquero, altra lingua creola afrocolombiana.
Metà della popolazione afrocolombiana è concentrata nei dipartimenti di Antioquia, Valle del Cauca e Bolivar. Ma attualmente essa sta vivendo un crescente processo di emigrazione verso i centri urbani, a causa dello sfollamento forzato provocato dai conflitti armati tra gruppi illegali, nelle regioni di Urabà e del Medio Atrato, per l’espansione delle coltivazioni illegali nelle regioni dei fiumi Patía e Naya. È per questo che nelle città di Cartagena, Cali, Barranquilla, Medellin e Bogotà… risiede attualmente il 29,2% della popolazione afro.

L’afrocolombianità
Nella grande massa di popolazione negra, gli antropologi hanno distinto vari gruppi di provenienza: primo tra tutti quello di origine sudanese, cioè, provenienti dall’immensa area africana che dalle regioni occidentali, passando per le valli del Senegal e del Niger si estende fino al Sudan anglo-egiziano; altro gruppo è costituito dai bantu, provenienti dal bacino del Congo e dalle terre del sud e sudest dell’Africa; poco consistente è il numero dei boscimani e ottentotti del sudovest africano e dei pigmei abitanti del cordone equatoriale africano.
Tale classificazione, tuttavia, ha perduto la sua importanza, poiché già all’interno dell’Africa numerosi fattori, come migrazioni tribali, reciproca schiavitù tra etnie, intercambio di donne avevano mescolato usi e costumi. Tuttavia, nel complesso dell’eredità dell’Africa nera, c’erano certe caratteristiche comuni che persistettero nel profondo delle coscienze torturate degli schiavi; valori che hanno contribuito a formare la nuova società americana.
Strappati violentemente dalle loro famiglie, separati dal loro ambiente naturale, dalle loro occupazioni abituali e dall’organizzazione sociale che avevano imparato a rispettare fin dall’infanzia, i neri dovettero adattarsi alla nuova situazione, riducendo i propri sentimenti al minimo comune denominatore, salvando però ciò che nasceva dal profondo dell’anima come certe tradizioni più radicate e insostituibili. Essi portarono con sé una cultura narrativa orale in cui erano racchiusi e trasmessi i valori della famiglia, del clan, dell’etnia, come la pateità, mateità e fertilità e la sacralità dell’ospitalità; il matrimonio era inteso come un evento comunitario e alleanza tra clan, non solo una faccenda tra due persone; la terra e i mezzi di produzione non avevano valore commerciale, ma erano a servizio della famiglia, per cui tutti partecipavano dei beni.
Inoltre, gli schiavi portarono con sé, come parte integrante del proprio essere, un profondo sentimento religioso, che ancora oggi si esprime nel rispetto per il soprannaturale, per i defunti, nella venerazione per i propri antenati e nella ferma credenza che la vita viene da Dio. Portarono con sé anche la funzione attiva del simbolismo: il ritmo, la danza, i riti celebrativi in tutte le circostanze della vita, come la nascita e la morte. Ontologicamente considerato come «non persona», oggetto vendibile e commerciale, valorizzato solo come forza-lavoro, lo schiavo afro aveva una concezione filosofica di vita profondamente radicata: quella di essere unità di vita, partecipazione, forza vitale, concetto espresso nel motto «io sono perché noi siamo».
Sono tutti elementi riassunti in una parola: afrocolombianità, che viene così definita dall’antropologa Patricia Quintero Barrera: «L’afrocolombianità o identità etnica degli afrocolombiani è l’insieme dei contributi e apporti, sia materiali che immateriali, sviluppati dai popoli africani e dalla popolazione afrocolombiana nel corso del processo di costruzione e crescita della nostra nazione e delle diverse sfere della società colombiana. Sono la somma delle diverse realtà, valori e sentimenti integrati nella quotidianità individuale e collettiva di tutti/e noi. L’afrocolombianità è patrimonio di ogni colombiano/a senza distinzione nel colore della pelle e nel luogo di nascita». Cimarronismo e palenques, per esempio, sono i primi movimenti di libertà, che in seguito ispirarono la nascita e il cammino verso l’indipendenza di tutto il paese.
Con i loro valori tradizionali, l’amore per la libertà e la capacità di adattarsi e fare sintesi delle opportunità offerte dalle nuove situazioni, gli afrodiscendenti della Colombia hanno contribuito a costruire la comunità nazionale. Ma sorge una domanda: «In quali di questi valori, importati dall’Africa, gli afrocolombiani attuali si riconoscono ancora?».

Gaetano Mazzoleni

Gaetano Mazzoleni




Una storia «sacra»

Premessa

Il libro dell’Esodo inizia così: «Questi sono i nomi dei figli d’Israele entrati in Egitto, insieme a Giacobbe, ognuno con la sua famiglia: Ruben, Simeone, Levi e Giuda, Issacar, Zabulon e Beniamino, Dan e Neftali, Gad e Aser». Il libro sacro narra una storia che si ripete, in un diverso contesto, in quella del popolo afroamericano: una storia di fede, inserita in una manifestazione permanente di Dio in mezzo a un popolo che, attraverso altee e dolorose vicende, è riuscito non solo a sopravvivere, bensì a raggiungere anche la tanto sospirata dignità di figli di Dio.
L’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha dedicato loro l’intero 2011, dichiarato «Anno internazionale degli afrodiscendenti», con l’obiettivo di «rafforzare le azioni nazionali e la cooperazione regionale e internazionale a beneficio delle persone di discendenza africana, in relazione al loro pieno godimento dei propri diritti economici, culturali, sociali, civili e politici, la loro partecipazione e integrazione in tutti gli ambiti della vita sociale e perché sia promossa una maggiore conoscenza e rispetto per la loro diversità ed eredità culturale».
Durante l’anno si sono svolti seminari, congressi, conferenze, inchieste, festival, dichiarazioni, manifestazioni religiose e culturali… Tutto ciò ha certamente giovato a queste popolazioni, ma è ancora ben lontano da offrire loro opportunità concrete per emergere da quella invisibilità giuridica che per secoli li ha tenuti emarginati.
Nella diocesi di Cali, tutti gli agenti di pastorale sono stati invitati non solo a partecipare alle varie iniziative promosse durante l’anno, ma soprattutto a sviluppare una riflessione evangelizzatrice che permetta sia agli afrodiscendenti che al resto della popolazione diocesana di leggere la storia afro in Colombia con una visione di fede. Bisogna rendersi conto che anche gli afrodiscendenti hanno un cammino di fede da offrire al resto dell’umanità. Solo da una prospettiva di fede possiamo raccontare con orgoglio «l’esodo afro», scoprendo la mano di Dio nella sofferenza, nelle ingiustizie e altre avversità che avrebbero potuto segnare la fine di tutta una popolazione, la quale invece continua a crescere forte negli stessi contesti dove arrivò in condizione di schiavitù.
Come in Egitto giunsero le famiglie di Giacobbe, in America Latina arrivarono le etnie africane: carabalì, lucumì, mandinga, ocorò, possùs, mina, arboleda, quiñones, mosquera ecc.
Mentre gli israeliti scesero in Egitto spinti da carestie e accolti dal fratello Giuseppe, gli africani furono rapiti, strappati dalle proprie case, portati con la forza in Colombia per mai più ritornare alle loro terre; a poco a poco si moltiplicarono, come gli israeliti in Egitto. Gli spagnoli li costrinsero a costruire Cartagena, Barranquilla, Santa Marta, Canal del Dique… come i caposquadra egiziani sottomisero gli israeliti ai lavori forzati per costruire le città di Pitom e Ramses. Ma più venivano maltrattati più aumentavano, gli africani come gli israeliti (Es 1,11-12).
Stando alle statistiche ufficiali più recenti, su una popolazione di 590 milioni di abitanti, in America Latina e Caraibi gli afrodiscendenti sono oltre 150 milioni, con le seguenti percentuali di popolazione nazionale: Bahamas 69%, Belice 40,5%, Bolivia 1,6%, Brasile 28,3%, Colombia 16,3%, Costa Rica 1,5%, Cuba 54,7%, Ecuador 8,7%, Guiana 43,7%, Haiti 74,7%, Honduras 4%, Jamaica 88,5%, Messico 0,5%, Nicaragua 10,2%, Panama 59,9%, Paraguai 2,7%, Perù 8%, Repubblica Dominicana 68,3%, Suriname 33,4%, Trinidad y Tobago 39%, Uruguay 4,9%, Venezuela 8%.

Oggi, dopo cinque secoli, molti uomini e donne stanno ancora rimarginando le ferite riportate nello sradicamento dalle loro terre, riduzione in schiavitù, violenze subite, assassini dei loro cari… Per capire e vivere pienamente le proposte dell’Anno internazionale degli afrodiscendenti è fondamentale riprendere il tema della tratta degli schiavi.
La memoria storica è il primo tema da trattare, prima di affrontare quello dei diritti. L’Esodo viene prima del Genesi (anche se questo è il primo libro nel canone della Bibbia), per la semplice ragione che Israele non sarebbe mai stato interessato al messaggio del primo libro della Bibbia se Dio non l’avesse riscattato dalla schiavitù d’Egitto e non l’avesse legato a sé con un patto di alleanza. La stessa cosa vale per gli afrodiscendenti: non servirebbe a nulla ritenerci figli di Dio se non riusciamo a percepire la mano di Dio negli avvenimenti storici accaduti, per quanto tragici e dolorosi possano essere stati.

Venanzio Munyiri Mwangi

Venanzio Munyiri Mwangi




Cana (33): «Gustate e vedete come è buono il Signore»

Il racconto delle nozze di Cana (33)

Gv 2,8-10: 8E dice loro: «Adesso cominciate ad attingere e continuate a portae all’architriclìno.
9Come poi l’architriclìno gustò l’acqua divenuta vino – e non sapeva da dove è, ma sapevano i diaconi/servitori, loro che avevano attinto l’acqua -, l’architriclìno chiama lo sposo 10e gli dice: «Chiunque prima mette il vino “eccellente” (lett. «vino bello») e, quando sono ubriachi, il peggiore; tu hai custodito il vino “eccellente” fino ad ora».

Nella puntata precedente abbiamo volutamente omesso l’ultima parola di Gv 2,8 dove per la prima volta interviene un nuovo personaggio, fin qui assente: l’architriclino (gr.: architrìklinos) che la Bibbia Cei (2008) traduce con la circonlocuzione «colui che dirige il banchetto». Questo personaggio ritorna altre due volte nel testo greco di Gv 2,9, mentre la Bibbia-Cei (2008) ne elimina una, lasciandola sottintesa, modificando così la portata voluta dall’autore. Dice la Bibbia-Cei: «Come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, colui che dirigeva il banchetto – il quale non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano i servitori che avevano preso l’acqua – chiamò lo sposo e gli disse».
Dice il testo greco: «Come poi l’architriclino gustò l’acqua… l’architriclino chiamò lo sposo e gli disse», ripetendo per la terza volta il riferimento esplicito al personaggio che è l’architriclino.
Più volte abbiamo detto che la traduzione Cei privilegia non l’esegesi, ma l’immediata comprensione perché la Bibbia viene «ascoltata» prevalentemente nella liturgia. Per questo motivo, sceglie una traduzione immediata, «orecchiabile» in italiano, ma in molti casi a danno della particolarità del testo e quindi, secondo noi, della sua stessa comprensione che non è quello che appare, come in questi versetti di Giovanni.
Usi per il matrimonio ebraico
La figura del personaggio «architriclino» è citata tre volte di seguito in due versetti (cf Gv 2,8-9). Sappiamo che quando Gv ripete due volte una parola o un nome vuole richiamarci ad andare oltre il testo scritto, a un senso più profondo, nascosto e impegnativo. Cerchiamo di immergerci nel profondo del pensiero dell’autore per scoprire chi è l’architriclino e quale significato abbia.
Le nozze ebraiche si svolgevano di norma in casa del padre dello sposo e duravano alcuni giorni, anche una settimana. Il matrimonio avveniva il terzo giorno, cioè il martedì, perché nel terzo giorno Dio crea due cose: le acque del mare e la terra e per due volte «vide che era cosa buona» (Gen 1,10.12): il martedì quindi è il giorno della doppia benedizione, della duplice fecondità del mare, che produce i pesci, e della terra, che produce alberi e frutti.
Un secondo motivo per cui il matrimonio si celebra il martedì (terzo giorno) consiste nel fatto che il quarto giorno, cioè il mercoledì, si riuniva il tribunale a cui si poteva presentare eventuale accusa di non-verginità della donna e dichiarare subito invalido il patto nuziale. Durante la prima notte di nozze, gli amici dello sposo vegliavano fino all’alba, quando le lenzuola sporche di sangue erano esposte con orgoglio al pubblico come prova della verginità della donna, la quale le conservava per tutta la vita.
La festa del matrimonio era complessa; svolgendosi in casa del padre dello sposo, occorreva un’organizzazione sostenuta per fare fronte all’approvvigionamento delle vettovaglie per molti ospiti e per diversi giorni. Il compito del responsabile delle nozze, che l’evangelista qui chiama «architriclino», era delicato perché doveva calibrare le necessità e fare in modo che tutti potessero mangiare, bere e divertirsi senza problema.
Gli sposi erano separati dagli invitati e stavano sotto un baldacchino: la sposa oata come una regina e lo sposo come un re, assisi sul trono regale del matrimonio, simbolo delle nozze tra Dio e Israele. Uomini e donne erano separati e stavano in spazi distinti con servizi indipendenti, per cui non si capisce come la madre e suo figlio abbiano potuto dialogare tra loro, dovendo stare in ambienti diversi e distinti, a meno che non si accetti l’ipotesi che ci troviamo di fronte a un aneddoto, cioè a un midràsh, con finalità teologiche, e quindi non di fronte ad un fatto storico.
Un personaggio nuovo e il suo simbolo
Il richiamo alla figura dell’architriclino, nominato tre volte in appena due versetti, nel contesto del racconto, indica una figura usuale nel matrimonio ebraico di famiglie abbienti che si potevano permettere un’organizzazione e una festa nuziale di grande partecipazione. In questo senso la sua presenza ci dice soltanto che le nozze erano di una famiglia benestante; la figura del responsabile delle nozze quindi, se ci trovassimo davanti alla cronaca di un fatto, avrebbe un valore narrativo senza un particolare significato: c’è un matrimonio di una famiglia benestante con molti invitati e necessita un organizzatore della festa che si protrae per giorni.
Nell’intenzione dell’autore del vangelo, però, il fatto storico cede il passo al valore simbolico, che esige da noi una particolare attenzione. Crediamo sia importante, infatti, sottolineare ancora una volta che in tutto il racconto, la sposa non è nemmeno menzionata, mentre lo sposo è citato una sola volta (cf Gv 2,9) e solo per essere rimproverato, mentre l’architriclino è nominato tre volte di seguito (cf Gv 8-9). Non può assolutamente essere una casualità. Dietro vi è una intenzione specifica, che il lettore deve scoprire su indicazione dello stesso Gv che lascia l’indizio delle tre citazioni. 
Sul valore simbolico dell’architriclino diverse sono le posizioni degli esegeti. Alcuni (Mateos-Barreto, Il Vangelo di Giovanni, 143; F. Manns, L’Evangile, 103) partono dall’analisi filologica e accostano «architriclino» al sostantivo «àrchōn-capo/responsabile», che nel IV vangelo ricorre 4 volte (cf Gv 3,1; 12,31; 14,30; 16,11) e una volta in Ap 1,5, con cui si fa riferimento alle autorità giudaiche. Il riferimento dunque sarebbe a «capi dei giudei-àrchōntes» (cf Gv 3,1; 7,26.48) o anche al «sommo/i sacerdote/i-archierèus» (cf Gv 11,47.51; 18,10.13.15.16.19.22.24.26.35; 12,10; 19,15.21) a cui si collegano di solito anche i «farisei» che fanno parte dei «capi» (cf Gv 7,32.45; 11,47.57; 18,3).
In questo contesto e nell’economia del racconto, l’architriclìno rappresenterebbe i responsabili del popolo che si sono dimostrati inadatti a cogliere la novità dell’alleanza e la svolta intervenuta con l’ingresso di Gesù nelle nuove nozze rinnovate a Cana. I capi assaggiano il vino eccellente, ma non sanno di dove proviene e, fatto ancora più grave, non sanno leggere il suo significato. Essi si fermano alla banalità dell’evento come appare ai loro occhi ciechi.
Bibbia e giornale, Parola e vita
Il vino estratto dalle giare di pietra, vino «eccellente» (in greco è kalòs: «vino bello»), non è dato direttamente al popolo, ma per primo viene offerto ai capi, a coloro che hanno il compito di constare gli eventi e sancire l’intervento di Dio (cf Lc 17,14) per il semplice fatto che avevano gli strumenti adeguati per «vedere» Dio operare nella storia: essi, infatti, «ascoltano» la Parola e «verificano» i fatti, gli eventi; hanno quindi i due strumenti principi per il discernimento profetico: gli eventi della storia e i criteri della Parola o, come direbbe Karl Barth, il giornale e la Bibbia. Eppure, pur essendo così privilegiati, sono inadeguati e anche inadempienti, perché si fermano alla superficie delle cose: ai fenomeni appariscenti e non sono capaci di scendere nel pozzo profondo della realtà per incontrare le correnti della vita e le dinamiche dello Spirito. Sono talmente tronfi di se stessi e della loro funzione, anzi ubriachi del loro ruolo, che identificano il loro stesso pensiero, limitato e limitante, con la volontà di Dio.
Gli architriclini sono chiamati non a contrabbandare il loro volere con quello di Dio, ma a riconoscere il vino eccellente, portato dai diaconi e attinto alle giare della vita e delle circostanze. Dio è il miracolo permanente che sta nelle pieghe dell’ordinario più usuale e bisogna avere ascolto fine e sguardo attento per coglierlo oltre il consueto e il banale: non si valuta infatti una opinione, ma si contempla l’evento straordinario della salvezza che si fa storia. Compito dell’autorità non è comandare, ma «ascoltare» la Presenza di Dio dovunque essa si nasconda e dovunque voglia riposare.
L’architriclino del racconto, invece, si limita a osservare che vi è stata una variazione di programma, lo scambio nell’ordine della presentazione dei vini: ha assaggiato il vino eccellente, ma non ha gustato né ha assaporato la novità di quel vino, né si è chiesto come mai fosse capitato proprio lì. Per lui quel vino che pure chiama «eccellente», doveva essere servito «prima», riservando a «dopo» quello scadente. Non si è reso conto che la successione tra «prima e dopo» è saltata, perché quando Dio interviene, non è più il tempo, il «chrònos», a regolare gli eventi, ma solo e unicamente il «kairòs», cioè l’occasione propizia che porta novità e cambiamento.
Se l’architriclino rappresenta i «capi/sommi sacerdoti», egli come questi, non solo non sa riconoscere il senso del vino nuovo, ma vuole impedire che il «secondo vino», cioè Gesù, entri nell’otre del «primo vino» che è quello dell’alleanza del Sinai, perché «non [è] venuto ad abolire la Legge o i Profeti…, ma a dare pieno compimento» (Mt 5,17). Per la religione ufficiale il passato è inamovibile, è sicurezza, è l’utero del caldo riposo dove ci si può crogiolare in attesa del nuovo che non arriverà mai, perché cuore, occhi e gusto sono tutti fermi e imbalsamati in un tempo addietro, senza vita e senza prospettiva: una fotocopia sbiadita di qualcosa che non saprà mai suscitare gli spasmi dell’amore che vive di attesa e di sospiri, di paura e di speranza. Bloccati nel passato, vivono del passato, fuori del presente, morti al futuro.
Oltre il passato, l’oggi
L’architriclino «e i capi del popolo sanno che Dio ha parlato a Mosè, e questo basta loro per restare suoi discepoli» (cf Eraldo Tognocchi, Le nozze di Cana, 168). Per essi è fuori di ogni logica che vi possa essere qualcuno più grande di Mosè, sebbene lo stesso profeta lo abbia previsto: «Il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me. A lui darete ascolto» (Dt 18,15). Anche la Parola di Dio viene vanificata dai cultori del passato che così mettono una ipoteca sulla stessa volontà salvifica di Dio, riducendola a mero strumento di esercizio di potere: «Siete veramente abili nel rifiutare il comandamento di Dio per osservare la vostra tradizione» (Mc 7,9). Gesù stesso dunque distingue tra una tradizione «vostra» e il «comandamento», perché aveva già previsto che gli uomini di chiesa avrebbero sacrificato volentieri il secondo sull’altare della presunzione della prima perché dimentica sempre che ogni tempo è tempo di Dio.
Un’altra posizione, sempre sulla linea della simbologia, è espressa dallo studioso Xavier Léon-Dufour (Lettura dell’evangelo secondo Giovanni, I,308), secondo il quale, l’architriclino è una figura positiva, il cui compito è constatare che finalmente è arrivato il «vino eccellente» e le parole allo sposo, lungi dall’essere parole di rimprovero sono solo una battuta scherzosa, quasi una celia, come dire: Ah, bricconcello, hai voluto cogliere tutti di sorpresa, dando all’inizio vino scadente e portando in tavola solo alla fine vino eccellente! Ci sei riuscito, bravo! (cf Ibidem, 300). Su questo stesso versante si colloca anche Aristide Serra (Le nozze di Cana, 384-389), che riconosce il valore simbolico del personaggio, ma lo colloca sulla linea dello «stupore/sorpresa» e non già su quella dell’incapacità, che è conseguenza dell’ignoranza di quanto è accaduto: l’architriclino, «il maestro (o incaricato) di mensa, constata, si direbbe con lieta sorpresa, che il vino offerto alla fine, da lui “gustato”, è di qualità superiore, e non sembra biasimare lo sposo per questo. Semplicemente, egli “non sa da dove venga” quella sorpresa. La sua meraviglia rimane senza risposta» (Ibidem, 384). Serra poi nella nota 667 (p. 384) mette in relazione Gv 2,9-10 con Eb 6,4-5 che usano gli stessi vocaboli nello stesso senso e con lo stesso scopo:

Sia in Gv che in Eb si trovano tre pensieri espressi: il verbo gèuō-io gusto; l’aggettivo kalòs-bello/buono/ eccellente e la parola di Dio, rhêma theoû, esplicita in Eb e simboleggiata nel vino in Gv. A. Serra conclude la nota con il riferimento a 1Pt 2,3 che ricorre alla metafora del latte per indicare la stessa Parola di Dio. In conclusione lo stupore dell’architriclino non è altro che l’anticipo di tutti gli altri «stupori» che s’incontrano nel vangelo di fronte ai «segni» operati da Gesù, suscitando così la domanda sulla sua persona e sulla sua identità: «Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre? Come dunque può dire: “Sono disceso dal cielo”?» (Gv 6,42; cf Mt 13,54-57; Mc 4,41; 6,1-6; Lc 5,21).
Quale Dio per quale Umanità?
Le due interpretazioni simboliche non si escludono né sono alternative, semmai si integrano, perché da un lato è vero che gli «architriclini-sommi sacerdoti e capi» non sono stati all’altezza della novità che la storia portava e dall’altra è pure vero che «anche tra i capi, molti credettero in lui, ma, a causa dei farisei, non lo dichiaravano, per non essere espulsi dalla sinagoga» (Gv 12,42). Da un lato, quindi, c’è l’incapacità di cogliere la novità da parte di un’autorità, lenta per sua natura e anche paurosa di aprirsi al nuovo, che è sempre una incognita di destabilizzazione del potere acquisito, e dall’altra c’è lo stupore/meraviglia che nasce dal «gusto» di un vino mai assaggiato prima. C’è la coscienza, ma non è avvertita perché si ferma al dato e non va oltre.
Gesù non è rappresentabile con l’immagine pietistica del «sacro cuore», bonaccione e melenso con gli occhi stralunati come se fosse reduce da un party a base di cocaina o con i capelli biondi intrisi di brillantina al gel per farlo apparire più come un hippy ante litteram che come un ebreo-palestinese, assolato e olivastro. Tutto ciò serve ad alienare e a estrapolare il senso di Dio dalla realtà e trasferirsi in un limbo nebuloso di spiritualismo separato dalla vita e dalla storia, disincarnando la sua incarnazione, trasformata in un accidente di cui si sarebbe fatto volentieri a meno.
Al contrario, Gesù porta lo scisma e, dove arriva, impone una scelta e, infatti, dovunque va esercita un magistero che esige una risposta: «Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; sono venuto a portare non pace, ma spada» (Mt 10,45); sulla stessa linea il vangelo apocrifo di Tommaso: «Gesù disse, “Ho appiccato fuoco al mondo, e guardate, lo curo finché attecchisce… Forse la gente pensa che io sia venuto a portare la pace nel mondo. Non sanno che sono venuto a portare il conflitto nel mondo: fuoco, ferro, guerra”» (Vangelo Tommaso nn. 10 e 16).
Di conseguenza, nel popolo molti lo accolgono con entusiasmo, altri lo rifiutano con consapevolezza (cf Gv 7,43; 10,19); lo stesso avviene tra i farisei (cf Gv 9,16) e tra i soldati del tempio che arrivano a disobbedire agli ordini ricevuti perché «mai un uomo ha parlato così!» (Gv 7,46). Da qui attraverso il misterioso personaggio dell’architriclino giunge fino a noi la domanda a cui non possiamo sfuggire: chi è Gesù per me? Oggi, adesso e qui?
(33 – continua)

Paolo Farinella

Paolo Farinella