Il cammino della società multiculturale

Le famiglie e le seconde generazioni

Rifiuto e disapprovazione oppure accoglienza e accettazione: l’atteggiamento della famiglia verso il partner straniero del figlio/a è fondamentale per la sorte di una coppia mista. Il prevalere di un atteggiamento rispetto all’altro ha evidenti conseguenze sociali. Decostruire stereotipi e pregiudizi serve infatti per favorire la nascita e lo sviluppo di una vera società multiculturale. Che ha nelle seconde generazioni – i figli degli immigrati nati in Italia – un tassello essenziale.

Una delle molteplici conseguenze dell’incremento nel numero di migranti inteazionali in tutto il mondo (192 milioni nel 2010, secondo l’Organizzazione internazionale delle migrazioni, Oim) è stata l’aumento dei cosiddetti «matrimoni misti» («coppie miste»). Essendo un fattore di rottura e messa in discussione delle regole «tradizionali» dello Stato e delle comunità di origine dei partner (ognuna con le proprie caratteristiche culturali e religiose), queste unioni sono state molto spesso disincentivate tramite specifici strumenti di controllo sia giuridici che sociali. Lo Stato ha usato i suoi mezzi coercitivi, ad esempio, durante l’apartheid in Sudafrica e il nazismo in Germania, inserendo leggi ad hoc che proibivano espressamente i matrimoni interrazziali. Nel caso delle famiglie e delle comunità, invece, gli strumenti usati variano (variavano) dalla negazione dell’eredità ai figli all’adozione di comportamenti ostili nei confronti del partner considerato «estraneo» e perciò non gradito.
Queste attitudini e/o comportamenti da parte delle famiglie possono manifestarsi anche nel caso di partner «omogenei», quando la scelta del figlio/figlia non è particolarmente apprezzata. Però sono ancora più presenti nel caso delle coppie miste, a causa della maggiore evidenza delle differenze. Così, nonostante la crescente inteazionalizzazione del mondo, lo sviluppo di questo come «villaggio globale» e i sempre maggiori spostamenti delle persone, abbiano aumentato la possibilità di tali unioni, queste risultano ancora suscitare perplessità e/o disapprovazione presso non poche società. D’altronde, qui entrano in gioco le regole endogamiche ed esogamiche che precisano e classificano tutti i possibili/non possibili partner matrimoniali per i membri di ogni società. La visibilità della mixité inoltre – nella coppia prima e negli eventuali figli poi – e il fatto che l’«appartenenza razziale» sia un costrutto sociale con numerose, ramificate e pervasive conseguenze sull’organizzazione sociale degli spazi, delle risorse, delle aspettative, etc., costringe la coppia e poi la famiglia mista a stare sulla scena pubblica e a dare conto delle proprie scelte in modo molto più sistematico e diffuso rispetto ad ogni altro tipo di coppia.

L’ATTEGGIAMENTO DELLA FAMIGLIA
Secondo la professoressa Gaia Peruzzi dell’Università di Sassari, che ha sviluppato nel 2008 un’interessante e ampia ricerca sulle coppie miste in Toscana, «in questa sfida, in questa prova di coraggio nei confronti della famiglia e dell’ambiente circostante, si legge anche la speranza delle coppie miste, la promessa da parte di due individui di accogliere le proprie diversità, e di rapportarsi con una cultura altra rispetto a quella di origine». Nella ricerca viene inoltre evidenziato che in Italia il ruolo delle famiglie – e particolarmente dei genitori italiani – nella vita delle coppie miste è molto importante, proprio perché dai giudizi delle stesse dipende spesso il grado in cui la coppia viene considerata come mista e perciò diversa. Mentre – al contrario – dalla loro accoglienza e accettazione dipende in buona parte il processo di adattamento del partner straniero in particolare.
L’importanza dell’atteggiamento e soprattutto del supporto delle famiglie italiane verso le coppie miste che vivono in Italia è particolarmente evidente poiché nel nostro Paese molti servizi di cura e di assistenza sociale ricadono direttamente sulle famiglie stesse. Grazie alla diffusione di una cultura che ormai considera la libera scelta del partner un diritto individuale esplicitamente riconosciuto e praticato – almeno tra le generazioni più giovani -, le famiglie degli italiani intervistati nella ricerca, che hanno deciso di sposare o di convivere con un partner straniero, non si sono opposte (per lo meno apertamente) alla scelta dei figli: «Un’opposizione aperta di genitori e familiari di fronte alla decisione di un parente si configura, al giorno d’oggi, abbastanza remota, inattuale perfino come ipotesi». Allo stesso tempo, però, molti individui intervistati hanno sperimentato diverse attitudini e/o comportamenti di rifiuto e disapprovazione più sottili («di gentilezza, ma con distacco») da parte dei genitori e di altri parenti, in particolare rivolti al partner straniero.
Laddove però i partner stranieri vengono più facilmente accettati, questo è dovuto a due caratteristiche comuni delle famiglie: un atteggiamento di curiosità e di apertura alla diversità (spesso percepita come qualcosa di esotico), oppure una percezione del partner straniero come un possibile aiuto nei lavori di casa, nella cura dei parenti anziani, o come compagnia per il figlio, in molti casi divorziato o vedovo.

LE SECONDE GENERAZIONI
Un’attenzione particolare va rivolta alle famiglie dei partner stranieri, soprattutto per quelli appartenenti alle seconde generazioni ossia i «figli di immigrati e non gli immigrati», come si definiscono essi stessi nel blog della Rete G2-seconde generazioni1. Questi giovani spesso non hanno compiuto alcuna migrazione, o, anche se nati all’estero, non sono emigrati volontariamente, ma sono stati portati in Italia da genitori o da altri parenti. Hanno compiuto in Italia tutto o parte del loro processo di socializzazione, ma rimangono talvolta esclusi dalla concessione della cittadinanza e – rischiando di essere considerati stranieri sia nel paese di origine dei genitori sia in quello di destinazione – possono riprodurre forme di downward assimilation2, anche in ambito matrimoniale. Questi individui però, proprio per la discontinuità del proprio percorso di crescita rispetto a quello dei genitori e per la diversa posizione sociale nonché per l’esperienza nella società italiana, possono anche rappresentare un fattore di profondo cambiamento degli assetti sociali.
La società stessa è ormai in buona parte transnazionale e globalizzata e appare sempre più insostenibile per i giovani figli di immigrati doversi integrare o assimilare in un modello culturale precostituito, chiuso nei confini di una nazione o di una comunità. Le seconde generazioni ricercano, al contrario, forme di riconoscimento identitario plurali, stratificate e fluide, che consentano di rendere conto in modo più adeguato di un’esperienza quotidiana caratterizzata da complessità e capacità di adattarsi a contesti mutevoli e in costante trasformazione. Esse sperimentano pratiche di multiculturalismo quotidiano, ossia un insieme di strategie che vengono usate in modo contingente e che articolano ironia, mimetismo, ostentazione, enfasi ed erranza, che permettono a ognuno di costruire la propria individualità e differenza, rivendicata ormai su scala sopranazionale, linguistica, religiosa, etc., e in riferimento a gusti, estetiche, simboli e tradizioni che travalicano i confini di uno Stato.

TRA LA CULTURA EREDITATA E QUELLA ACQUISITA
I giovani, soprattutto quelli nati in Italia, infatti, pur riconoscendosi per certi aspetti sostanziali (soprattutto nello stile di vita, nelle abitudini, nella libertà e nelle opportunità a disposizione) come italiani non sono facilmente disposti a negare o occultare altre forme di riconoscimento (soprattutto per ciò che concee i valori, le tradizioni e i legami familiari). Le seconde generazioni incarnano, dunque, spesso non senza fatica e conflitti, le due culture, quella ereditata dai genitori e quella acquisita in Italia. E spesso il confronto/scontro con la propria famiglia e la loro comunità di appartenenza avviene rispetto ad alcune scelte fondamentali come quella del partner.
Il formarsi di coppie miste, infatti, può essere percepito come un indicatore di indebolimento delle comunità di appartenenza e un motivo di vergogna per la famiglia in cui questo avviene, segno del «fallimento» nell’educazione dei figli (ma soprattutto delle figlie).
Un esempio interessante viene descritto da una ragazza musulmana nel blog delle seconde generazioni Yalla Italia3: «Dover affrontare i propri genitori e presentare il “prescelto”, è di per sé imbarazzante, figuriamoci poi se quest’ultimo non ha tutti i requisiti necessari al posto giusto, gli manca un “pezzo”, insomma, un lieve difettuccio che “cozza” con i canoni del bravo ragazzo, preferibilmente arabo e assolutamente musulmano. Un diversamente musulmano? No! Apriti cielo. Sacrilegio, tragedie greche e anche telenovelas venezuelane, tutte insieme. Si inizia con un: “Ma con tutti quelli che ci sono al mondo proprio uno non mussulmano?”, per poi infierire su quel poco di sicurezza rimasta: “Sei proprio scesa in basso”, e ancora infliggerti un: “Perché ci hai fatto questo? Sparleranno tutti di noi”».
Nel racconto della ragazza questo sembra emergere come l’aspetto peggiore, quello che conta di più o, meglio «che conta di più per loro – i genitori e la comunità – che per noi», poiché provoca il giudizio su se stessi e la propria famiglia: «Ed ecco che gli amici, la società, i compagni di preghiera, i tuoi parenti o serpenti, insomma tutti sono lì pronti a giudicare sia te, facendoti sentire “sbagliata”, sia la tua famiglia che non è riuscita a compiere il miracolo di crescerti “come si deve”».
E così le seconde generazioni sono chiamate, per l’ennesima volta nella loro vita, a mediare, negoziare e definire pratiche e spazi di riconoscimento, modelli di comunicazione e forme di identificazione che tengano conto non solo dell’identità nazionale, ma che includano anche le lealtà ai legami familiari, alla religione, e ad una presunta e continuamente rielaborata appartenenza etnica e culturale.

DECOSTRUIRE PER COSTRUIRE
Se da un lato le attitudini e i comportamenti dei genitori (italiani e non italiani) verso le coppie miste hanno spesso un forte carattere strumentale e/o stereotipato, dall’altra l’esperienza di moltissime coppie miste mostra che i successi sono possibili e che gran parte dell’accettazione, della condivisione e del sostegno alla scelta del figlio si costruisce attraverso la conoscenza del partner e della sua cultura. Quando abbiamo chiesto a Marta e Manuel, coppia italo-dominicana in attesa di un bambino, di immaginare loro figlio tra 20 anni in una relazione «mista», hanno inizialmente mostrato di avere le stesse perplessità dei loro genitori. Poi si sono guardati, sono scoppiati a ridere e si sono corretti: «Prima di giudicare cercheremo di conoscere la persona di cui nostro figlio si è innamorato. Non vogliamo che sia vittima degli stessi stereotipi o pregiudizi di cui siamo stati vittime noi».
Se davvero così sarà, è allora possibile sostenere che davvero i matrimoni misti sono segnali di integrazione. Essi aiutano a sviluppare idee e comportamenti che potranno «decostruire» stereotipi e pregiudizi che troppo spesso non permettono di costruire relazioni umane e di coppia su cui fondare una società realmente inclusiva e rispettosa delle differenze.

Claudia Zilli Ramirez e Viviana Premazzi

Claudia Zilli Ramirez e Viviana Premazzi




Giulietta parla rumeno

Un’anasili del fenomeno

I matrimoni misti – intesi come unione tra una persona italiana e una straniera – sono ormai oltre il 15% del totale. Il fenomeno è dunque rilevante. Si tratta di un indebolimento del «controllo sociale» o di una conseguenza dell’integrazione e stabilizzazione della componente immigrata della società italiana? In ogni caso, diventare una coppia mista significa confrontarsi con mondi, tradizioni e modelli di comportamento diversi. Oltre che con pregiudizi, stereotipi e pressioni provenienti dalle famiglie d’origine e dalla società. Per tutto questo, rispetto ad un’unione «tra nativi», una coppia mista può risultare più fragile. Quando però essa ha successo, il beneficio ricade sull’intera collettività.

Secondo la professoressa Tognetti Bordogna dell’Università di Milano-Bicocca, pioniera del tema in Italia, «matrimoni o coppie miste» (di solito utilizzati in modo indifferenziato, nonostante le implicazioni legali evidentemente diverse) sono due termini che si riferiscono all’istituzione sociale per la quale due persone, tradizionalmente un uomo e una donna, di paesi diversi, background culturali diversi, religioni diverse o classi socio-economiche diverse, si uniscono in un legame sentimentale (anche se in tanti casi non necessariamente) che viene socialmente riconosciuto e che implica, d’accordo con le condizioni stesse dell’unione, effetti legali.
Queste unioni, sia formali che informali, non sono un fenomeno sociale nuovo. Quando ancora non esisteva il sistema degli Stati-nazione, quando i viaggi erano più difficili da realizzarsi per difficoltà nei sistemi di trasporto e quando la conoscenza e la comunicazione con altre regioni geografiche erano scarse, poteva essere considerato matrimonio misto anche quello tra due persone di diversa provenienza familiare (matrimonio fuori dal circolo dei cugini e altri parenti), di un’altra città (anche se vicina e con un background culturale non molto diverso), di diverse correnti all’interno di una stessa religione o di età particolarmente diverse (quando il matrimonio non era stato anticipatamente approvato dai genitori). Nella storia, casi illustri di unioni miste sono state, per esempio, quelle tra Cleopatra e Giulio Cesare, tra La Malinche e Hean Cortes (dalla cui unione nacque Martin Cortes, uno dei primi meticci nel Nuovo Mondo), e tra Luigi XVI di Francia e Maria Antonietta d’Asburgo-Lorena. Studi archeologici e storici hanno evidenziato anche l’incidenza di unioni miste a livello popolare (dunque non solo tra i membri delle classi più alte delle società). Alcuni esempi sono quelli citati da Franco Marzatico1, tra membri di comunità etrusche e celtiche negli Appennini bolognesi, oppure quelli citati da Massimo Guidetti2 tra barbari e romani. In ambito letterario è anche possibile nominare per esempio due delle più famose opere di William Shakespeare, Otello e Romeo e Giulietta, nelle quali le coppie protagoniste sono caratterizzate da differenze razziali e familiari nelle società rispettivamente veneziana e veronese del Cinquecento.

L’elemento comune di queste unioni è che esse rappresentano una rottura evidente dei confini imposti dalle convivenze «tradizionali» e dei limiti – impliciti o espliciti – esistenti tra le classi sociali. L’elemento in continua trasformazione è invece costituito dalle categorie sociali che vengono prese in considerazione quando un rapporto di coppia viene definito come «misto». Oggi, ad esempio, il senso comune, i mass media e la società considerano matrimoni misti, quelli in cui un coniuge ha la cittadinanza italiana e l’altro è straniero (oppure con cittadinanza italiana, ma nato e/o cresciuto in un altro paese e quindi con un background culturale diverso). Queste unioni, passando dal 5,1% nel 1998 al 15% nel 2008, appaiono di estremo interesse poiché si pongono come elemento di «interazione» tra le diverse componenti della popolazione e come testimonianza del melting pot culturale che sta progressivamente contraddistinguendo anche l’Italia, paese di «nuova» immigrazione.
Il formarsi di coppie «miste», inoltre, è considerato generalmente un indicatore sia di indebolimento del controllo sociale delle comunità di appartenenza sui propri membri sia di integrazione nella società «di destinazione». La nuzialità dei cittadini stranieri, infatti, rappresenta uno degli indicatori più significativi del processo di stabilizzazione delle comunità immigrate nel nostro Paese. In questo modo, il matrimonio misto si presenta sia come un interessante laboratorio per l’approfondimento delle dinamiche che caratterizzano la relazione coniugale tout court sia come un luogo di sperimentazione e negoziazione di pratiche e significati culturali, sociali, religiosi, alimentari, etc. La mixitè3, infatti, comporta allo stesso tempo rottura e incontro rispetto a quelle che sono le differenze messe in gioco tra i partner; queste rotture e incontri (riferiti da diversi studiosi del tema come i processi ambigui che continuano a riprodursi non solo all’interno della vita ordinaria della coppia, ma lungo il percorso di vita dei loro discendenti) comportano a loro volta cambiamenti che possono toccare anche le famiglie dei partner e i gruppi sociali a cui questi appartengono. Da queste unioni derivano così importanti implicazioni sociali, psicologiche, giuridiche, religiose e anche economiche a livello collettivo.

Da una prospettiva sociologica è interessante considerare la distanza che può esistere tra i paesi d’origine dei due coniugi (distanza culturale, economica, politica, demografica, etc.), che si traduce, all’interno dei nuclei familiari, in un’unione tra individui che sono stati socializzati a differenti modelli di comportamento (su divisione dei ruoli tra i sessi, educazione dei figli, rapporti con le famiglie d’origine), e spinge a riconoscere che ci sono, in alcuni casi, differenze «più diverse» di altre.

Gli studi già effettuati su queste nuove forme familiari hanno evidenziato la possibilità di una suddivisione in tre livelli dei problemi specifici che le coppie miste debbono affrontare: il livello interindividuale, il livello intercomunitario e quello interstatale.
Certamente, per ogni individuo, il diventare coppia richiede di «fare i conti» col proprio passato, ed è pur vero che ogni nuova coppia -indipendentemente dal proprio background -, si trova a compiere un lavoro di «rinegoziazione» di situazioni in precedenza regolate per ognuno dei due partner da principi e tradizioni legate alla propria famiglia e alla propria origine. Nella coppia mista si confrontano due individui che, nella loro socializzazione, hanno interiorizzato due mondi diversi, probabilmente due concezioni diverse del matrimonio, ognuno con una propria definizione della realtà. È evidente però che lo sforzo richiesto ai partner sarà direttamente proporzionale alla distanza dei loro mondi rispettivi. In questi ambienti familiari sarà quindi particolarmente rilevante la capacità di gestione della doppia appartenenza e il grado di conoscenza, per entrambi i coniugi, della cultura e del mondo dell’altro. È però importante tenere presente che i comportamenti nella coppia mista non sono ascrivibili né a modelli culturali del paese d’origine né a modelli presenti in Italia, ma sono molto spesso oggetto di un processo di reinterpretazione.
Diversi studiosi parlano della coppia mista come di un «corpo a corpo interculturale», proprio perché un matrimonio di questo tipo richiede la rinegoziazione di una quantità impressionante di situazioni, prima regolate diversamente. L’esperienza di alcuni consultori interetnici ha evidenziato come la vera comprensione tra i coniugi sia frutto di una capacità comunicativa che conduca entrambi alla conoscenza della lingua e della cultura dell’altro. Conoscere il mondo del partner è infatti fondamentale perché aiuta a non perdere la propria identità, a sviluppare una maggiore competenza nel prendere insieme le decisioni e nel risolvere i conflitti, a sviluppare relazioni soddisfacenti con la famiglia d’origine del proprio coniuge. L’esigenza di arrivare a una nuova «definizione della realtà», ad una mediazione fra modelli culturali, è quindi da ritenersi fondamentale per la riuscita e la stabilità del rapporto coniugale. Per questo le coppie miste vengono definite «laboratori interculturali» in quanto il confronto con «l’altro» non è teorico, ma reale e quotidiano.
Il secondo livello di interazione è quello delle relazioni tra le comunità. Tanto più i due sposi appartengono a comunità tra loro lontane, per tradizione, lingua, cultura, religione, tanto più sarà difficile per tali gruppi accettare o per lo meno condividere la decisione di un proprio membro di sposarsi al di fuori del gruppo. La scelta di un partner straniero, infatti, viene spesso letta come provocazione nei confronti dell’educazione ricevuta e del proprio gruppo di appartenenza, come gesto di negazione del legame familiare e sociale in quanto ci si pone fuori dai confini del «territorio simbolico» della comunità d’origine. Di frequente il matrimonio misto è quindi elemento di isolamento dal contesto e dal sistema relazionale d’origine dei membri della coppia: le coppie cambiano amici, allentano i legami con le rispettive famiglie. È a partire dalle famiglie di appartenenza degli sposi e dagli amici che si manifestano infatti pregiudizi, stereotipi, pressioni.
Al terzo livello di «problematicità» troviamo i rapporti tra i due Stati di cui i partner sono cittadini, e in particolare i legami esistenti o mancanti tra i rispettivi sistemi giuridici. Questo livello è importante quale tutela non solo dell’istituzione famiglia, ma dei singoli componenti della stessa. A volte la chiarezza giuridica manca sin dal momento della ufficializzazione dell’unione. La mancanza di accordi a livello giuridico si rileva particolarmente importante in caso di custodia dei figli, eredità, divorzio.

Anche a causa dei problemi evidenziati, le coppie miste possono risultare più fragili rispetto a quelle «tra nativi» e dunque più a rischio di rottura e fallimento. Tuttavia, esse si configurano anche come importantissimi luoghi di incontro, dialogo e sviluppo di pratiche interculturali che possono coinvolgere non soltanto la rete familiare dei coniugi, ma l’intera comunità.

Claudia Zilli Ramirez e Viviana Premazzi

Claudia Zilli Ramirez e Viviana Premazzi




Cana (31): La gioia è la vera purificazione cristiana

Gv 2,6 (c): «Vi erano poi là, sei giare di pietra, per la purificazione dei Giudei,
collocate/giacenti [per terra],
contenenti ciascuna due o tre metrète (= barili da 80 a 120 litri ciascuno)»

Abbiamo già detto che Gv 2,6 è il cuore della narrazione (cf MC 9 -2009); riproponiamo per comodità lo schema dell’intero racconto di Cana per ricordare la sua struttura circolare: partendo dall’inizio e dalla fine tutto converge verso un centro, qui verso le giare di pietra, finalizzate alla purificazione, come l’arrivo al monte Sinai è finalizzato al dono della Toràh scritta su tavole di pietre, momento supremo di rivelazione che deve essere preparato degnamente attraverso la purificazione del popolo.

  2,1Cana di Galilea, nozze, madre, 2Gesù, i suoi discepoli.
  3Manca il vino; intervento della madre.
  (4)5I servitori/diaconi invitati a ubbidire.
  6Vi erano poi là, sei giare di pietra, per la purificazione dei Giudei, collocate
  [per terra], contenenti ciascuna due o tre metrète (= barili da 80 a 120 litri).
  (7)8I diaconi attingono (= ubbidiscono) e «conoscono».
  10Il vino buono [bello] conservato; intervento dell’architriclino.
  11Cana di Galilea, la gloria manifestata e la fede dei discepoli.
Se Gv 2,6 è il centro del racconto, dobbiamo prendere atto che il matrimonio è solo un’occasione esteriore e non l’obiettivo dell’evangelista; che la madre ha una doppia funzione: di rappresentanza del passato e di passaggio al nuovo; che i discepoli svolgono il ruolo che fu del popolo d’Israele ai piedi del Sinai e che le giare/tavole di pietra, svolta la loro funzione di purificazione, devono cedere il passo alla Toràh dello Spirito che proviene dall’umanità del Signore.
Le giare di pietra nella tradizione rituale    
Siamo di fronte a una rilettura di tutta la storia della salvezza, riproposta in chiave nuova, di fronte a una situazione completamente nuova. La novità per eccellenza è data dalla presenza del Figlio, chiave di volta sia dei segni sia del contenuto. «Il Messia entra nelle antiche nozze, nel popolo che vive sotto l’antica alleanza, ma come invitato. Non appartiene ad essa, è soltanto ospite, e così pure i suoi discepoli, che fanno gruppo con lui. La madre vive all’interno dell’alleanza antica; Gesù e i suoi no. La presenza di Gesù sta per mettere in moto la scena» (J. Mateos-J. Barreto, Il Vangelo di Giovanni, 138). Ecco la novità che non riguarda più la purificazione esteriore, ma l’ordine e il confine della coscienza e responsabilità morale.
Le giare sono di pietra e non di coccio; sono quindi molto preziose perché esigono una lavorazione laboriosa e lunga che le rende anche care da un punto di vista economico. Le giare sono «di pietra» e il termine greco «lìthinai» è unico in Gv (tecnicamente si dice è un hàpax legòmenon, detto una sola volta). Esse rispondono alle esigenze per la purità prescritte nel libro del Levitico, capitolo 11, dove però non si parla di materiale «di pietra», ma di «utensili di legno o di «vaso di terra» (cf Lv 11,32-33). È la tradizione giudaica che dichiara espressamente: «I vasi di pietra (kelè ‘abanìm) non ricevono impurità» (Ghemaràh del Talmud di Babilonia, Shabbàt 96a; cf anche Mishnàh, Teharòt – Cose pure, Iadaìm – Mani, I,2; Kelìm – Oggetti, X,1). Su questo punto tra i rabbini sorprendentemente non sorgono discussioni per cui si deve ritenere che fosse una tradizione abituale e pacificamente accettata da tutti fino alla distruzione del tempio nel 70 d.C.
Gli scavi archeologici dell’ultimo secolo e mezzo (1870-1970), hanno portato alla luce molti e grossi recipienti di pietra, la cui tecnica di lavorazione deve essere andata perduta per mancanza di trasmissione, dovuta alla diaspora dopo la distruzione del tempio e all’impossibilità di usare recipienti così ingombranti per la loro pesantezza (cf J. Gonzalez Echegaray, Arqueología y evangelios, Navarra 1994, 199-201).
Oggi possiamo recuperae l’uso, nonostante siano trascorsi oltre due mila anni di silenzio. Se si vuole, possiamo dire che l’archeologia dà una testimonianza indiretta della veridicità del Vangelo, quanto meno che il racconto di Cana è verosimile con gli usi e le leggi di purità in uso presso gli ebrei al tempo di Gesù.
Dalla penitenza alla gioia
L’acqua che contenevano era quella «per la purificazione dei Giudei» (katà ton katharismòn tôn Iydàiōn). In greco si usa la preposizione propria katà che esprime una relazione tra due soggetti/oggetti. Dal punto di vista delle giare si sottolinea il fine: giare per/destinate alla purificazione; se invece si vuole mettere in rilievo il secondo termine, che è «purificazione», allora si sottolinea la necessità, l’obbligo della loro presenza: giare di pietra necessarie per la purificazione. Sia l’uno che l’altro versante esprimono la funzione delle giare, sottolineata ancora di più dal fatto che erano «collocate/giacenti [per terra]». Le giare sono sei e non sette, cioè sono in numero imperfetto (= 7-1), perché indicano che l’obiettivo per cui esistono, cioè la purificazione, è per sua natura imperfetta (cf J. Mateos-J. Barreto, Il Vangelo di Giovanni, 141).
San Paolo esprime questo stesso pensiero dicendo che la Toràh non ha in se stessa la forza di realizzare la comunione con Dio perché il suo compito era pedagogico, di accompagnamento a Cristo: «Ma prima che venisse la fede, noi eravamo custoditi e rinchiusi sotto la Legge, in attesa della fede che doveva essere rivelata. Così la Legge è stata per noi un pedagogo, fino a Cristo, perché fossimo giustificati per la fede. Sopraggiunta la fede, non siamo più sotto un pedagogo» (Gal 3,23-25; cf 1Cor 4,15; Rm 4,14-15; 7,7-25).
Gesù non dà eccessiva importanza alle norme di purità; anzi, le contesta spesso e volentieri in tutta la sua vita (cf Mt 23,25-28; Mc 7,1-15; Lc 11.39), perché esse sono «di pietra»: impongono pesi che schiacciano, mentre la proposta di Gesù è un «giogo dolce e il mio peso leggero» (Mt 11,30).
Quando la legge, qualsiasi legge, specialmente quella morale è astratta e non tiene conto delle condizioni oggettive delle persone, è un impedimento enorme che ostacola la vita piuttosto che sostenerla. Il bisogno costante di purificazione, l’ansia, anzi l’ossessione della colpa, che oggi potremmo chiamare il senso di colpevolezza, non porta da nessuna parte, toglie solo la gioia della vita che non viene vissuta più come dono, ma come condanna. Sono le giare di pietra che stanno lì piene di acqua, pronte per la purificazione, ma inefficaci, inutili, immobili: «giacenti». Come la confessione per molti cattolici: ci si confessa sempre per ricominciare d’accapo. Questa loro inutilità è trasformata dalla presenza del Signore che le riempie di vino giornioso, perché con l’avvento del Signore Gesù è la gioia la sorgente della purificazione e dell’incontro (cf M. Morgen, Le festin des noces de Cana, 142).
Ascesi o esultanza di vita?    
Secoli di ascesi ci hanno allontanato dal cuore del Vangelo e ci hanno scaraventato nell’abisso della desolazione: la persona votata a Dio doveva entrare nell’inferno della mortificazione, della rinuncia, del sacrificio; tutto era tetro e contro Dio, tutto era peccato, e quindi bisognava confessarsi sempre, spesso: si passava la vita tra esami di coscienza e fustigazioni, tra penitenze e mortificazioni che umiliavano l’uomo «fatto poco meno di un dio, di gloria e di onore… coronato» (Sal 8,6). Essere cristiani significava quasi essere ossessionati, rinunciatari, mortificati.
Gesù sostituisce l’acqua della purificazione con il vino dell’esultanza, perché il «Vangelo» è, anche etimologicamente, «una notizia che porta gioia» e allegrezza. Il «Vangelo» è la Persona stessa di Gesù che viene a sedersi alla mensa della nostra vita per celebrare con noi le nozze dell’alleanza.
In questo contesto si capisce ciò che intende l’autore della prima lettera di Giovanni: «In questo conosceremo che siamo dalla verità e davanti a lui rassicureremo il nostro cuore, qualunque cosa esso ci rimproveri. Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa» (1Gv 3,19-20), perché «Dio è Agàpē» (1Gv 4,8.16) e giudica meglio del nostro cuore, cioè della nostra coscienza (cf Rm 2,15; Ef 1,18).
La staticità immobile delle giare distese per terra emerge nitida e forte, quasi ad imprimere bene nella mente del lettore che la Toràh «di pietra» è diventata così pesante e inamovibile da schiacciare sotto il proprio peso chiunque se ne fosse fatto carico.
Il profeta Ezechiele lo aveva previsto e descritto:

«25Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati; io vi purificherò da tutte le vostre impurità e da tutti i vostri idoli, 26vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. 27Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo le mie leggi e vi farò osservare e mettere in pratica le mie norme» (Ez 36,25-27).
Per il profeta la pietra è simbolo di un cuore senza amore, ossessionato dall’osservanza religiosa, ma incapace di amare e di respirare la libertà dei figli di Dio. È necessario un trapianto cardiaco per estirpare l’immobilità pietrificata della Toràh che si riduce a un’osservanza esteriore e sostituirla con un afflato di sentimenti (spirito) che incontra la Toràh come motivo di affetto e relazione che esigono due cuori innamorati in movimento reciproco dell’uno verso l’altro.
I rabbini del dopo esilio avevano codificato la Toràh in una serie di 613 precetti da osservare per essere un buon giudeo. È l’estensione a dismisura non tanto della legge morale, ma della ossessione per la casistica che non lascia nulla al caso o alla determinazione della libertà personale, ma tutto è previsto, stabilito e codificato.
Dalla religione dell’obbligo
alla fede dell’amore
Al tempo di Gesù l’osservanza di tutti i precetti della Torah (Sir 51,26; Ger 2,20; 5,5; Gal 5,1) erano considerati un giogo pesante da portare. Il Talmud babilonese (trattato Makkoth 23b, tradizione di Rav. Simlai, amoraita del III sec. d.C.) insegna che la Toràh contiene 613 mitzvòt – precetti (ebr.: Tariàg mitzvòt) dei quali 248 sono mitzvòt asèh (comandamenti positivi, prescrizioni) e sono in numero uguale ai pezzi che compongono il corpo umano (ossa, nervi, ecc.); 365 sono mitzvòt taasèh (comandamenti negativi, divieti) e corrispondono ai giorni dell’anno solare. Il senso è semplice: la Toràh deve essere osservata con tutta la persona (248 ossa, nervi, ecc.) con un impegno che deve durare tutto l’anno (365 giorni; Cf Rav. Simlai, amoraita del III sec. d.C. in Makkot 23b.).
Le donne erano dispensate dall’osservare i precetti negativi per lasciare loro una certa flessibilità nel loro impegno familiare, mentre erano obbligate a quelli positivi. Tuttavia esse potevano, se volevano, osservare anche i precetti negativi.
Il numero 613 si ricava dalla ghematrìa: la parola Toràh in ebraico (T_W_R_H) ha un valore numerico di 611 (400+6+200+5), a cui devono aggiungersi i due pronomi personali con i quali Dio si presenta nel consegnare l’intera Toràh a Mosè sul Sinai (Es 20,2-3; Dt 5,6-7). La somma di 611+2 dà il risultato di 613.
I farisei pensavano che il popolo non potesse salvarsi perché incapace di osservare tutti i precetti prescritti. Quando un non ebreo chiedeva di convertirsi all’ebraismo gli si spiegava come fosse duro portare il giogo della Toràh per scoraggiarlo (Talmud, Berakot 30b).
Il giogo però indicava anche la fatica quotidiana dello studio della Toràh che equivale all’osservanza di tutti i comandamenti presi nella loro totalità (Cf Mishnàh, Pèah/Angolo, 1,1; Talmud, Shabàt 127a).
Giovanni nel prologo parla di «Lògos» al singolare, che è una magnifica contrapposizione all’inflazione delle «parole» che dominava il suo tempo. La «pienezza del tempo» si caratterizza per il fatto che la Parola per eccellenza, la Toràh, la creazione e i comandamenti non sono altro che anticipi, prolessi dell’unica Parola che è il Figlio di Dio, il quale non ha più bisogno di molte parole per manifestare il volto di Dio; ma ora è lui stesso, il Figlio prediletto, che diventa Parola. Per questo sul monte Tabor, la voce celeste ordinerà di ascoltarlo (cf Mt 17,5; Mc 9,7; Lc 9,35).
In questo contesto si situa la necessità di una purificazione costante, a motivo della quale le case dovevano essere attrezzate con recipienti di acqua, come attesta anche l’evangelista Marco:

«1Si riunirono attorno a lui i farisei e alcuni degli scribi, venuti da Gerusalemme. 2Avendo visto che alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani impure, cioè non lavate, – 3i farisei infatti e tutti i Giudei non mangiano se non si sono lavati accuratamente le mani, attenendosi alla tradizione degli antichi 4e, tornando dal mercato, non mangiano senza aver fatto le abluzioni, e osservano molte altre cose per tradizione, come lavature di bicchieri, stoviglie, oggetti di rame -, 5quei farisei e scribi lo interrogarono: “Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?”» (Mc 7,1-5).
Anche l’autore della celeberrima Lettera dello pseudo-Aristea (sec. II a.C.) che narra la leggenda della traduzione in greco della Bibbia ebraica, osserva che i settanta sapienti mandati da Gerusalemme in Egitto, quotidianamente «secondo poi la consuetudine dei Giudei… dopo essersi lavate le mani nel mare» (Lettre d’Aristée …232), compivano la purificazione prescritta. Lo stesso facevano gli Esseni di Qumran: prima di pranzo «immergono/bagnano il corpo in acqua fredda e dopo questa purificazione» prendono posto alla comune «mensa considerata come un luogo santo» (Flavio Giuseppe, GG II,8,5).
Le giare di pietra
profezia dell’umanità di Dio
La purificazione è essenziale nell’ebraismo perché ogni azione e luogo può contaminare e rendere inabili al culto liturgico, a celebrare lo Shabbàt e la preghiera. In Marco, che abbiamo appena citato, i farisei rimproverano Gesù perché «alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani impure, cioè non lavate» (Mc 7,2). Gli stessi Giudei, prima della festa di Pasqua salgono a Gerusalemme per purificarsi e potere essere adatti alla celebrazione: «Era vicina la Pasqua dei Giudei e molti dalla regione salirono a Gerusalemme prima della Pasqua per purificarsi» (Gv 11,55) e quando chiedono la condanna di Gesù da parte di Pilato «non vollero entrare nel pretorio, per non contaminarsi e poter mangiare la Pasqua» (Gv 18,28).
Gesù porta un’altra logica perché non è più la purità legale o rituale che conta, ma la purezza del cuore, cioè la trasparenza della coscienza che si nutre della Parola di Dio, cioè del Lògos, cioè di Dio stesso: «Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato» (Gv 15,3).
La purificazione avviene attraverso l’acqua, tema centrale in tutto il quarto vangelo: il capitolo quarto descrive l’incontro di Gesù con la donna samaritana al pozzo di Giacobbe; tra i due si instaura un duetto sull’acqua che dà sete e sull’acqua che disseta per la vita eterna attraverso la parola di Gesù Messia (cf Gv 4,10.26); il cieco alla piscina di Betzatà deve immergersi nell’acqua agitata dall’angelo (cf Gv 5,1-7); il cieco nato deve lavarsi alle acque di Sìloe (cf Gv 9,7) e l’umanità nuova nata sotto la croce, rappresentata dalla madre e dal discepolo, sono lavati dall’acqua e dal sangue sgorgati dal costato di Cristo (Gv 19,26.34). Le giare di pietra, inutili alla purificazione che si apprestano a contenere il vino giornioso dell’alleanza, ora sono profezia dell’umanità di Dio.

Paolo Farinella

(31 continua).

Paolo Farinella




Il silenzio e la parola

20 maggio: giornata mondiale delle comunicazioni sociali

Animo e mente hanno bisogno di silenzi e riflessioni individuali e comunitarie.
Il silenzio è parte integrante della comunicazione. E favorisce il discernimento.
Le nuove forme di comunicazione, aiutano la chiesa a dialogare con l’uomo moderno.
Scopriamo il messaggio del papa per la 46a giornata delle comunicazioni sociali.

La frase del pastore e teologo Dietrich Bonhoeffer «Facciamo silenzio solo per amore della Parola», sintetizza più di ogni altra considerazione il messaggio di Benedetto XVI, inviato a gennaio per la giornata delle comunicazioni sociali del 20 maggio, alla chiesa universale e a tutti coloro che desiderano confrontarsi, con serietà, responsabilità e libertà sul tema dell’informazione. La parola non sempre ci fa pensare a ciò che diciamo o fingiamo di ascoltare. La relazione tra persone, la ricerca di una sintesi nella complessa babele di parole che ci travolgono a tutti i livelli è necessaria per vivere e non sopravvivere all’urto dell’immanente flusso presente di fatti e vicende.
L’anima e la mente hanno bisogno di silenzi e riflessioni, individuali e comunitarie, anche nell’ambito di ciò che di più prezioso abbiamo ricevuto in dono. A causa delle attuali dinamiche della comunicazione siamo sommersi da un flusso continuo di domande e risposte, spesso anzi di risposte non richieste, che vorrebbero anticipare e indurre questioni di nessuna utilità.
In questo contesto, ricorda Benedetto XVI, «il silenzio è prezioso per favorire il necessario discernimento tra i tanti stimoli e le tante risposte che riceviamo, proprio per riconoscere e focalizzare le domande veramente importanti».
Le grandi domande della filosofia, sul senso della vita, del sapere e della speranza, non si sono estinte nel cuore dell’uomo e continuano a manifestare «l’inquietudine dell’essere umano sempre alla ricerca di verità, piccole o grandi».
Fare silenzio
Nel giorno della festa di San Francesco di Sales, patrono dei giornalisti e comunicatori – il messaggio del Papa parte dall’affascinante titolo «Silenzio e parola: cammino di evangelizzazione». Silenzio e parola, scrive Benedetto XVI, sono due aspetti essenziali di ogni comunicazione, senza l’uno, l’altro è privato di senso: «Il silenzio è parte integrante della comunicazione e senza di esso non esistono parole dense di contenuto». Per Benedetto XVI, il silenzio «apre… uno spazio di ascolto reciproco» che rende «possibile una relazione umana più piena». È nel silenzio, infatti, che «ascoltiamo e conosciamo meglio noi stessi», che il pensiero si «approfondisce» e che «comprendiamo con maggiore chiarezza ciò che desideriamo dire o ciò che ci attendiamo dall’altro». Allo stesso modo, «tacendo, si permette all’altra persona di parlare, di esprimere se stessa, e a noi di non rimanere legati, senza un opportuno confronto, soltanto alle nostre parole o alle nostre idee».
Non a caso, prosegue il pontefice, «nelle diverse tradizioni religiose», la solitudine e il silenzio sono «spazi privilegiati per aiutare le persone a ritrovare se stesse e quella verità che dà significato a tutte le cose». Anche nel mondo contemporaneo, in cui l’uomo «è bombardato da risposte a quesiti che egli non si è mai posto e a bisogni che non avverte». «Là dove i messaggi e l’informazione sono abbondanti – aggiunge papa Ratzinger -, il silenzio diventa essenziale per disceere ciò che è importante da ciò che è inutile o accessorio».
Social network
E i social network, Facebook e Twitter? Non proprio una «benedizione» ma un segno, secondo Benedetto XVI, di considerazione verso le nuove forme di comunicazione online che essi rappresentano, dai micro messaggi di 140 caratteri o agli sms «non più lunghi di un versetto biblico», come afferma anche il cardinale Gianfranco Ravasi che accetta la sfida della comunicazione globale come una diretta conseguenza della sua missione: «Aiutare la chiesa a dialogare con l’uomo contemporaneo, cercandolo dove è, anche nel mondo del web, come un esploratore in perlustrazione in territori sconosciuti, distanti e spesso ostili, conduce la sua ricerca libero da preconcetti, con l’apertura al confronto caratteristica dell’uomo di cultura».
Le nuove tecnologie non sono guardate con sospetto dal papa ma con curiosità e apertura, nella consapevolezza che, per la Chiesa, ogni «mezzo» è «buono» se valido è il messaggio. Benedetto XVI non dimentica che viviamo in un’epoca in cui «le varie forme di siti, applicazioni e reti sociali» possono aiutare l’uomo «a vivere momenti di riflessione e di autentica domanda» e anche «a trovare spazi di silenzio, occasioni di preghiera, meditazione o condivisione della Parola di Dio». «Nella essenzialità di brevi messaggi – aggiunge – si possono esprimere pensieri profondi se ciascuno non trascura di coltivare la propria interiorità». Scrive papa Ratzinger: «Gran parte della dinamica attuale della comunicazione è orientata da domande alla ricerca di risposte. I motori di ricerca e le reti sociali sono il punto di partenza della comunicazione per molte persone che cercano consigli, suggerimenti, informazioni, risposte. Ai nostri giorni, la rete sta diventando sempre di più il luogo delle domande e delle risposte».
Complessità del mondo globale
Il direttore di «Civiltà Cattolica», padre Antonio Spadaro, grande esperto di nuovi media, scrive: «Parola e silenzio si integrano e non si oppongono. Il messaggio del papa scardina l’opposizione tra silenzio e parola, che ha la sua verità, ma solamente in casi estremi. Si deve sperare che da oggi in poi non si debba più assistere ad elogi del silenzio in sé e per sé, al di fuori di un tessuto comunicativo.
Chi prega sta in silenzio, ma in realtà non è di per sé vero. Chi prega elabora un linguaggio di comunicazione con Dio ed è proprio per elaborare questa parola, questo discorso, che tace esteriormente».
E oggi, nella realtà delle mille voci dissonanti e polifoniche, che sono una ricchezza, ma anche un indicatore della complessità del mondo globale, è necessario fare sintesi, pensiero, approfondimento.
Dare strumenti per comprendere e utilizzare la comunicazione, interpretarla e condurre le coscienze mature a un processo di dialogo e confronto, nel rispetto delle differenze delle fedi, delle culture e delle tradizioni che fanno dell’umanità un tesoro da salvare, per costruire un futuro sulle vie della pace e della frateità.
Parlare dell’evangelizzazione come luogo di comunicazione, è dire della relazione tra fede e comunicazione. Questo tocca tre aspetti dell’evangelizzazione: l’azione missionaria, la catechesi e la pastorale. La comunicazione ha un compito preciso in tutti gli aspetti della missione della chiesa, deve essere parte integrante di ogni piano pastorale e per questa ragione è necessaria la formazione di responsabili pastorali. Inoltre è fondamentale che i cristiani siano educati a selezionare l’informazione e a sviluppare lo spirito critico.
Nell’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi del 1975 di Paolo VI, evangelizzare è la grazia e la vocazione propria della chiesa, la sua identità più profonda. Quest’ultima esiste per evangelizzare, cioè per predicare e insegnare, essere canale del dono della grazia, riconciliare i peccatori con Dio, perpetuare il sacrificio di Cristo. In un primo tempo l’evangelizzazione si caratterizza nell’azione missionaria, cioè la missione «Ad gentes». La chiesa considera che la ricchezza della «buona notizia», ricevuta dalla bontà divina, è accolta per essere comunicata a tutti gli uomini. Perciò, nella pre-evangelizzazione, si tratta di stabilire degli obiettivi capaci di essere assimilati e condivisi da tutti gli uomini di buona volontà: il valore assoluto della persona umana, la difesa della vita, il valore della famiglia, il primato della verità, la possibilità di dare un senso alla vita.
la buona novella
Il linguaggio usato per l’annuncio della Buona Novella, deve essere comprensibile a chi riceve il messaggio di salvezza. Ciò richiede un processo di inculturazione inerente alla radicalità della fede, applicato soprattutto alla realtà linguistica e culturale del popolo. Nell’Ecclesia in Africa, vi è menzionato che le forme tradizionali di comunicazione sociale non debbano mai essere trascurate, perché sono ancora molto utili ed efficaci in molti centri africani. Come veicolo di saggezza e di espressione popolare, costituiscono una sorgente speciale di temi e ispirazioni per i tempi modei. La chiesa contemporanea può dunque disporre di diversi mezzi di comunicazione sociale, tanto tradizionali che modei. È suo dovere fae il miglior uso per diffondere il messaggio della salvezza.
Parlare della «comunicazione evangelizzatrice», è pure parlare dell’azione catechetica. La catechesi costituisce un momento efficace all’interno di un procedimento globale dell’evangelizzazione. Segue l’azione missionaria e precede l’azione pastorale. È l’azione «per la quale un gruppo umano interpreta la sua situazione, la vive e l’esprime alla luce del Vangelo».
Naturalmente la catechesi è comunicazione educativa e annuncio di fede, ed è, in questo senso, informazione, sulle dottrine, sulle riflessioni, sulle convinzioni. La fede rimane un «dono» di Dio e una libera adesione dell’uomo. Il documento del magistero Catechesi tradendae pone l’accento sull’importanza della comunicazione sociale e del linguaggio contemporaneo nella catechesi, nella quale devono essere orientati al dialogo, alla condivisione, alla conoscenza e all’accettazione reciproca delle diversità.
Parlare dell’azione evangelizzatrice come luogo di comunicazione è parlare della stessa azione pastorale. L’azione pastorale si riferisce a coloro che hanno l’incarico di guidare il gregge di Dio; ha per scopo l’incarnazione del Vangelo nelle condizioni di vita delle persone e si basa sul servizio della parola, la celebrazione liturgica dei sacramenti, sull’azione di carità e l’impegno sociale.
Nell’azione pastorale, la comunicazione invade tutti i settori dell’attività umana. La pastorale si occupa di un’insieme di azioni che necessitano una cornordinazione e una complementarietà, che sono possibili solamente grazie al dinamismo di comunicazione all’interno stesso della chiesa.
Tracce del Vaticano II
È a questo punto che, nell’anno del cinquantesimo anniversario dell’inizio del Vaticano II, è doveroso dare voce nella chiesa a quell’afflato di profezia che sembra smarrito. Che fine ha fatto la chiesa coraggiosa e aperta, di cui il Concilio aveva tracciato il profilo? Si è chiesto padre Bartolomeo Sorge, sulla rivista «Aggioamenti Sociali». E anche noi, oggi, dobbiamo porci lo stesso interrogativo. Le risposte manifestano più delusione e preoccupazione che fiducia e speranza. La chiesa – si dice – oggi non guarda più al futuro, ma al passato. E si citano l’involuzione in atto nei confronti della riforma liturgica; l’impasse del movimento ecumenico; l’insistenza sui «valori non negoziabili» che ostacola il dialogo; gli interventi della gerarchia che condizionano l’autonomia dei laici in politica. In realtà, non ci si può fermare a questi (e altri) casi, per quanto significativi. Un’indicazione di riflessione la fornisce Carlo Maria Martini in «Conversazioni nottue a Gerusalemme. Sul rischio della fede». Con la «parresia» evangelica che lo contraddistingue, il cardinale inizia rilevando che oggi «vi è un’indubbia tendenza a prendere le distanze dal Concilio. Il coraggio e le forze non sono più grandi come a quell’epoca e subito dopo». Come mai? «È indubbio – riconosce – che nel primo periodo di apertura alcuni valori sono stati buttati a mare. La chiesa si è dunque indebolita»; pertanto non devono sorprendere le paure e le resistenze di molti: «Posso ben comprendere le loro preoccupazioni se solo penso a quanti in questo periodo hanno abbandonato il sacerdozio, a come la chiesa sia frequentata da un numero sempre minore di fedeli e a come nella società e anche nella chiesa sia emersa una sconsiderata libertà». Tuttavia, i limiti del post Concilio non tolgono nulla alla grandezza dell’evento conciliare. «Nonostante tutto – conclude Martini – dobbiamo guardare avanti. […] credo nella prospettiva lungimirante e nell’efficacia del Concilio». La comunicazione della fede va riassunta in tre prospettive: 1. la necessità per i cristiani di «pensare in modo aperto»; 2. il bisogno che la chiesa ha di riscoprire il ruolo dei giovani; 3. l’urgenza di costruire una nuova «cultura della relazione».

Luca Rolandi

Box
Le comunicazioni e la chiesa
DAL CINEMA A FACEBOOK

Il 30 gennaio 1948 viene istituita da Pio XII la «Pontificia commissione di consulenza e di revisione ecclesiastica dei film a soggetto religioso o morale» e il 17 settembre dello stesso anno sono approvati il nuovo statuto e il nome di «Pontificia commissione per la cinematografia didattica e religiosa». Per essere più adatta alle esigenze dei nuovi mezzi di comunicazione, allora emergenti nel 1952, è di nuovo modificato lo statuto e la denominazione in «Pontificia commissione per la cinematografia» e vengono nominati numerosi esperti.
Lo sviluppo e il miglioramento di questo organismo continuò e nel 1954 il nome della commissione venne nuovamente mutato in «Pontificia commissione per la cinematografia, la radio e la televisione». L’8 settembre 1957 Pio XII promulga l’enciclica Miranda Prorsus sulle comunicazioni mentre il 17 febbraio 1958 dichiara santa Chiara d’Assisi «celeste patrona» della televisione e delle telecomunicazioni.
Nel 1959 Giovanni XXIII erige la Filmoteca Vaticana che viene affidata alla commissione. Soprattutto con il Concilio Vaticano II, che apre le porte e le finestre della chiesa al mondo, la comunicazione diventa elemento essenziale nella testimonianza e nell’evangelizzazione dei popoli. Per la prima volta in duemila anni, osservatori estei professionisti chiamati «giornalisti» sono ammessi a documentare e raccontare lo svolgimento dei lavori di un’assise così importante e influente sui destini dell’intera comunità cattolica mondiale. Del Vaticano II abbiamo riprese televisive, registrazioni audio, migliaia di fotografie e un numero sterminato di articoli che, spesso con dettagliata precisione, danno conto di dibattiti e polemiche intee che in passato sarebbero rimaste completamente segrete o, tutt’al più, sarebbero state oggetto di ricerca e analisi per gli storici, anni dopo la conclusione dell’evento. Per fare un paragone: del Concilio immediatamente precedente, il Vaticano I, abbiamo soltanto qualche dipinto e alcuni, spesso reticenti, resoconti. E nel Vaticano II viene soprattutto promulgato un documento, il decreto sui mezzi di comunicazione sociale il 4 dicembre 1963, la Inter Mirifica.
Durante il Concilio Vaticano II, Paolo VI con il motu proprio «In fructibus Multis» del 2 aprile 1964 cambia la denominazione del dicastero in «Pontificia commissione per le comunicazioni sociali» e affida a essa tutto quello che concee la comunicazione. A partire dal 1967 viene istituita da Paolo VI la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali che da quella data si ripete a cadenza annuale. Con la costituzione apostolica Pastor Bonus del 1988 il dicastero viene elevato al grado di pontificio consiglio da Giovanni Paolo II. Il 20 maggio 2012 si celebra la 46esima giornata mondiale delle comunicazioni sociali sul tema «Silenzio e Parola: cammino di evangelizzazione».

Luca Rolandi

Luca Rolandi




Linea di galleggiamento

Un passo avanti e uno indietro

Sotto il presidente Benigno Aquino i problemi del grande arcipelago asiatico non sono cambiati: la riforma agraria è fallita; la povertà e la disoccupazione rimangono alte; la tratta di esseri umani prospera; nel Sud agiscono alcuni gruppi terroristici. Per tutto questo, le Filippine – tra l’altro sovrappopolate – sono caratterizzate da una massiccia emigrazione.

Con l’arrivo alla presidenza nel giugno 2010, dopo un’accesa campagna elettorale, di Benigno Aquino III detto «Noynoy», le Filippine sembravano tornate ai loro ideali e a nuove speranze. Cinquantenne, schivo e pragmatico, single con fama di playboy, impegnatosi in campagna elettorale in un programma riformista e moralizzatore della vita pubblica, Noynoy, pur con molti limiti di appartenenza sociale, carattere e capacità, poteva forse essere l’unica possibilità lasciata alle Filippine. Una possibilità che, al momento, rischia di essere sprecata. Corruzione, nepotismo, povertà, difficili rapporti con la gerarchia cattolica rendono la presidenza Aquino a dir poco tormentata, certamente poco efficace nel risolvere i problemi nazionali. Su una cosa, però, filippini e osservatori inteazionali sono concordi: pochi sarebbero in grado di gestire efficacemente e in soli sei anni i problemi di un paese come le Filippine e molte delle difficoltà attuali sono eredità dell’amministrazione precedente, quella della presidente Gloria Macapagal-Arroyo.
La difficoltà di delineare la fisionomia di un arcipelago – frammentato per geografia, storia e sovrapposizioni culturali – si gioca su linee comuni e su specificità locali.
Nella prima categoria rientrano la lotta agli antichi privilegi, la riforma agraria, quella del sistema scolastico, il dibattito su educazione sessuale e contraccezione che vede fortemente schierata la Chiesa cattolica; nella seconda, la situazione di Mindanao e del lontano meridione filippino, ma anche quella delle tante «periferie» del paese, luoghi geograficamente, ma soprattutto culturalmente e per possibilità di crescita, troppo lontani dall’indaffarata, caotica e anche disincantata Manila. Ecco allora che proprio da queste aree periferiche parte l’emigrazione, la più massiccia al mondo in percentuale sulla popolazione totale. Manila, nonostante i tentativi di decentralizzazione amministrativa, è ancora una strozzatura nel sistema che organizza le partenze per l’estero attraverso una complessa rete di agenzie pubbliche e private, a volte nell’ulteriore incertezza della clandestinità. Nei paesi d’emigrazione, è invece probabile l’incontro con connazionali raggruppati in comunità sovente vaste e bene organizzate, in cui è possibile acclimatarsi prima ancora di cercare un’integrazione nei paesi d’accoglienza.

LA DIFFICILE EREDITÀ DEL CARDINALE SIN
Una emigrazione in cui anche la Chiesa ha un ruolo: sia chiedendo norme a tutela degli emigranti e offrendo attività di counseling in patria, sia provvedendo alle molte cappellanie filippine in oltre un centinaio di nazioni.
La storia filippina del dopoguerra è stata caratterizzata prima dalla costruzione di una fragile democrazia elitaria, eredità della colonizzazione statunitense (anni 1945-1965); da una dittatura lunga e dura guidata da Ferdinand Marcos (1965-1986), all’inizio mitigata da una politica populista e anti-elitaria; infine dal ritrovato orgoglio democratico dopo la «Rivoluzione dei fiori e dei rosari» del febbraio 1986 guidata da Corazón Aquino. Anche nel contesto storico contemporaneo, un cenno va fatto al ruolo della Chiesa nell’accompagnare questo difficile periodo della storia dell’arcipelago asiatico, passato da una democrazia «ritrovata», a una democrazia «tradita». Oggi anche a una rinnovata speranza, ma con poche illusioni.
Sarebbe sbagliato ridurre l’impegno della Chiesa a un ruolo «politico». In realtà, due sono sempre stati i suoi obiettivi fondamentali: formare la coscienza degli elettori e favorire consultazioni libere ed oneste. Senza mai appoggiare espressamente alcun candidato né programma di governo, i vescovi hanno suggerito i criteri morali per una valutazione delle candidature: operare con impegno e coerenza per il bene comune; promozione e difesa della giustizia; spirito di servizio; opzione preferenziale per i poveri e per la difesa dei diritti umani.
Un impegno, quello della Chiesa filippina, o almeno dei suoi settori più progressisti, che ha accompagnato negli ultimi 25 anni una società civile attiva e variegata, sovente ideologizzata e insieme repressa. Va ricordato anche il ruolo del cardinale Jaime Sin, negli anni bui della dittatura, coscienza critica del potere e poi «censore» della nuova e fragile democrazia filippina.
Il cardinale, deceduto il 21 giugno 2005, per quasi trent’anni dal 1974 al 2004 arcivescovo della capitale, è stato simbolo della Chiesa locale, sia nella capacità di dialogo – sovente intransigente – con il potere civile, sia nel tenere acceso l’impegno sociale senza però venir meno ai fondamenti di una Chiesa fortemente tradizionalista.

LA TERRA E LA RIFORMA MANCATA
Con la «Rivoluzione dei fiori e dei rosari», la caduta della dittatura Marcos e la presidenza di Corazon Aquino, la pressione della piazza e di settori dell’esercito costrinse allo studio e all’avvio di un «Programma complessivo di riforma agraria». Presentato come un mezzo per ridistribuire in modo equo le terre del latifondo a contadini senza terra, ha finito col diventare una trappola per i nuovi piccoli proprietari, lasciati senza mezzi concreti. A questo vanno aggiunti le «eque» compensazioni per i possidenti (che avevano ceduto «volontariamente» le proprie terre, mentre in parte venivano ridistribuite a membri delle loro stesse famiglie) e il riacquisto delle terre dai contadini non in grado di vivere del loro lavoro in mancanza di strumenti di sostegno finanziario e tecnico.
Inoltre, solo il 50% delle terre coinvolte nel progetto di riforma era di proprietà privata (e di queste solo il 4% è stato ridistribuito dopo una requisizione; il resto è stato prima acquistato dallo Stato); il rimanente 50% è (o era) proprietà pubblica. Oggi il 68% degli agricoltori non sono proprietari delle terre che lavorano e solo il 3% ha ottenuto la terra attraverso la riforma agraria.

MINDANAO, TRA GUERRIGLIA E BANDITISMO
Posta a sud delle Filippine, Mindanao è l’isola maggiore per superficie di questo paese che di isole ne conta oltre 7mila, ma ospita solo il 24 per cento della sua popolazione. I suoi 120 mila chilometri quadrati sono da quarant’anni un campo di battaglia e i suoi  23 milioni di abitanti (il 70 per cento cattolici e il 23 per cento musulmani) sono ostaggio di un conflitto tra esercito e movimenti indipendentisti che in anni recenti hanno in parte aderito al radicalismo di origine afghana e araba, rilanciando le rivendicazioni locali nel più ampio teatro globale successivo all’11 settembre 2001. Questo nonostante la creazione di una regione autonoma di Mindanao musulmana (con una popolazione islamica al 90 per cento), che comprende le province di Lanao del Sur, Maguindanao, Tawi-tawi e Sulu.
Il massacro di una sessantina di persone, per metà donne della famiglia di un candidato alla presidenza e per metà giornalisti, da parte di un clan rivale nel novembre 2009 nella provincia di Maguindanao, ha aperto gli occhi dell’opinione pubblica filippina e internazionale sui potentati locali, sovente armati, ai quali è garantita immunità e copertura in cambio di appoggio elettorale. Una situazione oggi complessa, quasi inestricabile, quella di Mindanao, come complessa è la sua storia. Da tempo le rivendicazioni autonomiste e identitarie guidate da notabili musulmani locali, eredi di antichi sultanati e privilegi, sono state espropriate da movimenti guerriglieri («Fronte nazionale di liberazione Moro», «Fronte islamico di liberazione Moro») prima e, oggi dal banditismo con pretesto religioso di Abu Sayyaf.
Nel meridione filippino, non a caso sovente definito dagli stessi media locali «far west», la questione religiosa diventa pretesto di divisione e di violenza. Ad essa non è estranea la strategia di Al Qaida e del jihadismo globale che su queste spiagge ha trovato approdi accoglienti, rifugi e uomini pronti a continuare la lotta, ma un ruolo importante hanno anche i vasti interessi delle multinazionali minerarie, le fazioni politiche e le stesse strutture militari.
La Chiesa locale e la missione in questo contesto riescono solo con grande difficoltà ad operare per la pace e la convivenza, come pure per la giustizia e lo sviluppo. Il rischio di essere «presi nel mezzo», di diventare oggetto di minacce, sequestri e anche  obiettivo di sicari è alto e già pagato a caro prezzo.

FAMIGLIA, SINDACATO, MULTINAZIONALI
La società filippina aggrega e insieme vive di un numero enorme di associazioni, gruppi, coalizioni e istituzioni. Una situazione connaturata alla tradizione, alla cultura filippina, che stima aggregazione e armonia sociale come valori prioritari, a partire dall’ambito familiare. Allo stesso tempo, questa impostazione «partecipatoria» più che «di azione» è un limite alla loro attività. L’altro, e ancora più pesante, è la difficoltà ad agire, in particolare in ambito economico o politico. Per decenni, dopo l’indipendenza, sindacati e Ong sono state illuse che la possibilità di crescere sotto il protettorato de facto americano potesse garantire una reale influenza sulla vita pubblica. Inoltre, la dipendenza del paese dalle iniziative imprenditoriali e dagli investimenti stranieri si è scontrata contro gli interessi locali portati avanti da alcuni gruppi. Non si può negare che la forte sindacalizzazione, molto avanzata rispetto ad altri paesi fino dagli anni Settanta, sospettata spesso di collegamenti con Partito comunista al bando e con le sue ali armate e guerrigliere, abbia costretto alla chiusura un gran numero di fabbriche nate per iniziativa straniera, giapponese in particolare, o al loro ridimensionamento.
Oggi le cose sono cambiate. Lo dimostrano le aree economiche speciali come quella che gravita attorno alla città di Olongapo (che include l’ex base navale statunitense di Subic Bay). Qui vincono la deregulation e i diktat degli investitori stranieri e delle loro controparti locali più che le necessità di tutela e di benessere della popolazione.
Mentre – e è un poco lo specchio del paese – accanto alle attività che danno da lavorare a migliaia di filippini nel settore formale (con punte avanzate di tecnologia e know-how), prosperano prostituzione e sfruttamento.
Insomma, le Filippine modificano l’apparenza ma non la sostanza. La scarsa memoria dell’arcipelago continua a giustificare il potere di pochi, l’«ineluttabilità» dei suoi mali incentiva mille iniziative, ma non una reazione. Non a caso l’emigrazione, incentivata fin dai tempi della dittatura, è oggi organizzata, gestita e per certi aspetti sfruttata proprio dalle strutture governative.

Stefano Vecchia

Stefano Vecchia




Cercare gli ultimi

L’intervista: il missionario

Fede, chiesa, missione, teologia secondo padre Ezio Roattino.

«Io mi sforzo di ispirarmi al vangelo di Gesù. Quindi, cerco di condividere l’esistenza con i crocefissi. I crocefissi sono i poveri, gli impoveriti, le vittime. In una parola, sono gli ultimi. Con loro io mi sento bene. Oggi gli ultimi sono i campesinos sfollati, gli afrocolombiani e, nella mia quotidianità, gli indios del Cauca. Anche se faccio fatica, anche se ho i miei anni, anche se parlo la lingua nasa più o meno, io sono contento di essere lì con loro. Natale Vivalda, prete di Genova trapiantato in Colombia, ove morì il 13 luglio 2011, mi fu d’esempio. Lui andava nelle notarie pubbliche per controllare di chi fosse la terra. Natale mi diceva: “Tu, Ezio, non ti salverai da solo. Gli altri ti salveranno”».

Nel Cauca, da molti anni i missionari della Consolata vivono tra gli indios nasa. Con quale obiettivo?
«Li accompagniamo e li ascoltiamo. Sapendo che sono “altri”. Occorre proseguire sulla strada della “convivialità delle differenze” (essere alla stessa tavola), come diceva don Tonino Bello. E, se sono “altri”, altro sarà l’incontro con il vangelo. Come un seme che diventerà spiga con la linfa della terra e con il sole e la pioggia del cielo.
A Pentecoste tutte le genti, convocate dalla terra intera, ascoltavano la parola di Dio, proclamata da Pietro, nelle loro proprie e diverse lingue. Il vangelo, liberato dalla cultura occidentale (la cosiddetta inculturazione) e fondato sul dialogo (l’interculturalità), è sfida primaria della nostra missione.
Juan Del Valle, il primo vescovo (era spagnolo) di Popayan, così scriveva – attorno al 1546 – al Re di Spagna: “Qui gli indios sono più maltrattati che gli israeliti in Egitto. E se non si rimedia io continuerò a gridare, nonostante mi buttino pietre”. Se è fondamentale l’esistenza di una resistenza, allora occorre dare voce a chi la resistenza la mette in pratica. Vivere quotidianamente con i Nasa risponde a questo obiettivo».
Vivere la quotidianità è vivere la trascendenza?
«“La gloria di Dio è la vita dell’uomo”, dice San Ireneo. E, come precisava l’arcivescovo Romero, dandone un tocco latinoamericano, “la gloria di Dio è la vita del povero”. Bonhoeffer scriveva dal carcere ad un amico: “Dobbiamo imparare a vivere ogni giorno come fosse il primo e l’ultimo giorno della nostra vita. Può darsi che il giudizio universale arrivi domani, ma fino a domani io lotterò per la trasformazione di questo mondo”. Dunque, come missionari della Consolata siamo in Colombia, perché crediamo che dobbiamo sì lottare per la vita eterna, ma anche per la vita storica. Che poi è la ricerca dell’eguaglianza, della libertà e della solidarietà».

Una rivoluzione, dunque?
«La Rivoluzione francese non parlava forse di liberté, egalité, frateité? E con essa tante altre rivoluzioni. E la rivoluzione di Gesù, figlio di Dio e figlio dell’uomo, si sarà forse esaurita in Duemila anni di storia? Avremo già sfruttato questa miniera di risposte e di nuovi cammini? Occorrerebbe credere di più per osare di più e incidere di più».

Qualcuno si lamenta affermando che lottare per trasformare il mondo terreno non è compito di un missionario…
«Un giorno un confratello del Kenya mi chiese: “Ma la teologia della liberazione in America Latina non è finita?”. Io gli risposi: “Fino a che nel Padre nostro ci saranno le parole  ‘Liberaci dal male’, la teologia della liberazione, che diventa spiritualità e pratica della liberazione, non si potrà seppellire, perché è parte del vangelo”.
Un caro amico, sacerdote colombiano, padre Federico Carrasquilla, ci diceva: “Nella nostra Chiesa vedo chi lavora per Dio e chi lavora per il Regno, come se fossero due cose separate. Ma non si può lavorare per Dio senza il Regno, né lavorare per il Regno senza Dio. Da una parte, abbiamo belle liturgie e cerimonie senza preoccuparsi di chi non ha pane né lavoro, né casa; dall’altra, è tutto un organizzare comitati, sindacati, assemblee senza preghiera, eucarestia, lettura della parola di Dio. Non può esistere un Re senza Regno, né un Regno senza Re. Gesù non ha predicato Dio e non ha predicato il Regno, ma ha predicato il Regno di Dio”».

Padre Ezio, come vede la missione dei missionari della Consolata?
«È la missione della consolazione: consolare i poveri, i più poveri, gli ultimi. Giuseppe Allamano, il nostro fondatore, ci ha lasciato come esempio la vita e l’opera dello zio Giuseppe Cafasso. Questi, durante tutta la sua esistenza, visitò le quattro carceri di Torino. Lo fece ogni settimana, accompagnando fino al patibolo 68 condannati a morte. Per questo venne soprannominato “il prete della forca”, il prete degli ultimi.
In Colombia, chi sono e dove sono i condannati a morte? Se li conosciamo, stiamo accompagniandoli?».

Paolo Moiola

Paolo Moiola




Resistenza e dignità

Gli indigeni del Cauca

Sono pochi, ma combattivi. Nel Cauca, il movimento indigeno, nato dalla lotta di Manuel Quintín Lame, ha pagato il suo impegno con una lunga serie di morti. I più conosciuti sono padre Alvaro Ulcué (1984) e Cristobal Secue Tombé (2001). Ma il tributo di sangue continua ancora oggi. La guerriglia, i paramilitari e la forza pubblica non gradiscono un’opposizione, che fa della resistenza nonviolenta la propria forza.

In Colombia, su una popolazione totale di 47 milioni di abitanti, gli indigeni sono un milione e 400mila1. «Molti sostengono – racconta padre Roattino – che gli indigeni siano l’unico gruppo sociale che protesta e che si fa sentire». Questo vale soprattutto per gli indigeni del Cauca, appartenenti in maggioranza all’etnia nasa. Le loro mingas suscitano sempre molto clamore. «In effetti – conferma il missionario -, riescono a mobilitare 15-20 mila persone in marce di 4-5 giorni per arrivare fino a Bogotà. Hanno visibilità, anche se poi questa non produce frutti per quanto riguarda la risposta dello Stato. Le firme sono fatte su accordi che vengono regolarmente disattesi dalle autorità. Tuttavia, le mingas sono fondamentali per generare coscienza e solidarietà a livello nazionale».

L’oggetto del contendere è sempre lo stesso: la terra. Per i bianchi, essa è soprattutto una questione economica. Per gli indios, è innanzitutto una questione mistica: la terra è madre. Da difendere a costo della vita.
In Cauca, uno dei primi a parlare di diritti indigeni sulla terra è Manuel Quintín Lame (1880-1967), indio di padre nasa e madre guambiana. La sua lotta inizia combattendo il sistema del terraje. Questo prevede che i coloni (ex schiavi) paghino ai latifondisti un «affitto» costituito in parte da prodotti agricoli, in parte da giorni di lavoro gratuito. Non riuscendo ad ottenere risultati, Lame si fa più ardito iniziando a chiedere la restituzione della terra ai legittimi proprietari, gli indigeni. Una lotta impari, soprattutto per le terre più produttive, quelle in pianura. Tutte le volte in cui gli indios nasa si sono spinti verso le «terre basse», in mano al latifondo o ai paramilitari, è sempre finita nel sangue. Come ricordano il massacro di López Adentro (1984) o quello del Nilo (1991). Ma da anni il problema è anche sulle «terre alte» (conosciute come «tierras quebradas»), in mano agli indigeni, che sono state invase dagli attori del conflitto armato (la guerriglia, l’esercito, i paramilitari) e, più recentemente, dalle imprese multinazionali.
«Oggi – spiega padre Roattino – la vera ricchezza è data dalla enormi riserve di acqua. Si parla di migliaia di sorgenti idriche, centinaia di lagune. Quest’acqua beneficia tutta l’industria della Valle del Cauca e le grandi coltivazioni di canna da zucchero, ma gli indios – unici a poter accampare diritti – non ricevono nulla. Ed anzi rischiano di vedersi espropriati se non stanno all’erta».

Dopo la morte di Manuel Quintín Lame, nel febbraio del 1971 nasce il «Consiglio regionale indigeno del Cauca» (Consejo regional indígena del Cauca, Cric). Ma la lotta degli indigeni della regione trova nuovo impulso quando – è l’anno 1973 – sulla scena appare Álvaro Ulcué Chocué, il primo sacerdote di etnia nasa della Chiesa cattolica colombiana. Padre Roattino ha conosciuto bene padre Alvaro, avendo lavorato con lui dal 1982 al 1984 nei resguardos di Toribio, Jambaló e Taquejó. «Alvaro non soltanto ha marcato un’epoca, ma ha segnato in profondità la coscienza indigena».
Il sacerdote nasa voleva svegliare, scuotere l’indio che la colonia aveva umiliato e standardizzato. Voleva «decolonizzare la mente» degli indios. In primis, riappropriandosi della lingua madre, tratto essenziale dell’identità indigena.
«Una volta – racconta padre Ezio – mi convocarono quelli del Das, Departamento Administrativo de Seguridad. Uno dei punti su cui i servizi segreti vollero interrogarmi era proprio la lingua. “Padre, dicono che lei parli la lingua indigena. Dunque, chi non la conosce non può capirla”. Volevano dirmi: “Lei nasconde delle cose”. Il potere voleva controllare, ma per farlo basta fare una cosa: imparare la lingua. Cosa non facile invero, anche all’interno dei nasa. Un giorno feci salire in auto una ragazza di 15-16 anni che veniva da Cali e andava al suo villaggio. Le chiesi in lingua nasa: “Come stai?”. Lei mi rispose: “Buongiorno, padre”. In spagnolo. “Scusa – le dissi -. Ma tu non sei indigena?”. E lei: “Mia madre era indigena”. Che tradotto significava: per me non è più così».

Nel gennaio 1984 gli indigeni recuperano (non occupano) un latifondo a Corinto: la Hacienda López Adentro, una «terra bassa». Vi rimangono per circa un anno. Il 9 di novembre arrivano i militari che distruggono tutto: 300 ettari di coltivazioni, case e macchinari. Il giorno dopo, 10 novembre 1984, muore padre Alvaro Ulcué, ammazzato a Santander de Quilichao da 2 sicari. «Non fu una coincidenza – spiega padre Roattino -, ma un avvertimento: gli indios si erano spinti troppo in là. Quindici anni dopo sarebbe toccato a Cristobal, altro leader indigeno molto impegnato e deciso nell’azione del recupero delle terre».
Cristobal Secue Tombé viene assassinato il 25 giugno 2001, nel municipio di Corinto. Da allora è stato (è) uno stillicidio. Secondo dati ufficiali di Somos defensores2, nel 2010 in Colombia sono stati assassinati 32 difensori dei diritti umani. Di questi, 11 erano indigeni, di cui ben 8 del Cauca.

Sono passati 500 anni dalla Conquista: l’indio di oggi non è più quello di ieri. «Alcuni leader – spiega Roattino – vorrebbero tornare al passato, dimenticando che anche l’indio è nel 2012. Non si può dire: “Sii indio”. Ci sono indios che non vogliono essere tali. Non si può obbligare, imporre. Occorre dire: “Sii indio, se vuoi”. Personalmente, vedo 3 tipi di indio: c’è quello tradizionale che vuole essere la fotocopia del passato, c’è quello moderno che critica le tradizioni e c’è l’indio nuovo. Quest’ultimo è quello che ha una radice antica, che prende dal passato senza però dimenticare il tempo in cui vive». Un tempo segnato dalla strenua difesa della terra e della propria identità. Lungo questa difficile strada si sono incamminati i 120 mila indigeni del Cauca. A dispetto delle Farc, dei paramilitari e dello Stato colombiano.

Paolo Moiola

Note
1 – La cifra è quella dell’ultimo censimento (anno 2005) effettuato dal Departamento administrativo nacional de estadistíca (Dane). Secondo la stessa fonte, gli afrocolombiani sono poco meno di 4,3 milioni.
2 – Rapporto 2010 di Somos Defensores.

Paolo Moiola




La guerra dentro casa

Un paese senza pace

Cambiano presidenti e comandanti, ma non la situazione. La guerra civile colombiana dura da oltre mezzo secolo. Ne fa le spese la popolazione, soprattutto gli oltre 4 milioni di sfollati e gli indios.
Ne abbiamo parlato con padre Ezio Roattino, missionario nel Cauca, regione dove guerriglia, esercito e paramilitari si fronteggiano senza esclusione di colpi. Sulla pelle dei civili per i quali dicono di combattere.

Spari di mitraglia, boati di esplosioni. Il sito internet delle «Forze armate rivoluzionarie di Colombia» (Farc) ha un «sottofondo musicale» piuttosto particolare. In questo spazio virtuale, il 26 febbraio viene pubblicato un comunicato in cui si annuncia la prossima liberazione di 10 prigionieri di guerra, soldati e poliziotti nelle mani della guerriglia1. Nello stesso comunicato, si annuncia che d’ora in poi le Farc non prenderanno più in ostaggio uomini e donne della popolazione civile. Padre Ezio Roattino, missionario della Consolata, da 30 anni in America Latina (o Abya Yala2, come egli preferisce dire), è scettico. «Nella logica della guerra, ci sono momenti in cui il linguaggio conciliatorio è reso necessario dalla situazione oggettiva. In questo momento le Farc sono in difficoltà». Non si sa con certezza di quanti uomini la guerriglia disponga oggi. Si parla di poche migliaia; qualche anno fa erano oltre 20 mila. I vari fronti e colonne mobili in cui le Farc sono organizzate sembrano muoversi in maniera disordinata, al di fuori di ogni strategia nazionale. «Il cornordinamento – spiega padre Ezio – è diventato molto complicato. Sia per la fortissima militarizzazione del territorio, sia per la diffusione di tecnologie sempre più sofisticate. Molte delle recenti disfatte delle Farc sono state possibili grazie all’intercettazione dei cellulari».
Oltre che dalle sconfitte patite ad opera dello Stato3, le difficoltà della guerriglia sono aggravate dalla scarsità di risorse finanziarie e, probabilmente, dalla mancanza di un forte comando centrale.
Negli ultimi quattro anni, le Farc hanno perso Raul Reyes, Manuel Marulanda, Mono Joyoy e da ultimo Alfonso Cano. Da novembre 2011, il nuovo leader è Rodrigo Londono-Echeverry, detto «Timochenko», di cui però si sa ancora troppo poco.
Paradossalmente, le difficoltà delle Farc si sono tradotte in maggiori pericoli per la popolazione civile, in modo particolare nel Cauca. «A Santander de Quilichao, per le imprese è molto pericoloso sottrarsi al pagamento della “quota rivoluzionaria”, un vero e proprio “pizzo”. Poi, oltre alle estorsioni nei confronti dei soggetti economici, ci sono i sequestri di persona».
Padre Ezio ricorda la vicenda del rapimento di Francesco Menotti Perlaza, figlio di una famiglia benestante. Il ragazzo riesce a scappare, ma per la famiglia l’incubo continua con minacce, bombe e un omicidio. Il 21 aprile 2011 viene assassinato Agustín Perlaza, zio di Francesco. Pochi giorni dopo quella tragica morte, padre Roattino si espone pubblicamente scrivendo una lettera aperta alle Farc. In essa si scaglia contro la «cultura della morte» fino ad affermare che una vera rivoluzione ha una propria etica e mistica oppure non è una rivoluzione.

«LEI NON PUÒ ENTRARE CON LE ARMI»
Ancora più difficile è la situazione per chi vive nei centri minori. Come a Toribio, il piccolo comune di montagna, in gran parte abitato da popolazione di     etnia nasa, dove padre Roattino
(continua a pag. 18)
è stato parroco fino a pochi mesi fa e dove gli attacchi della guerriglia sono molto frequenti. L’obiettivo è la locale stazione di polizia, ma gli effetti si ripercuotono su tutti.
«Le Farc che io conosco – parlo  di Toribio e del Cauca di questi ultimi anni – non lottano più per un ideale sociale, ma sono entrate nello spazio del terrorismo. Per esempio, il fatto di usare le bombole del gas che esplodendo colpiscono indiscriminatamente, secondo me va contro qualsiasi etica rivoluzionaria».
Sabato 9 luglio 2011 a Toribio è giorno di mercato. È attesa una chiva, una corriera, carica di prodotti della campagna. Invece, ne arriva una piena di bombe e ordigni esplosivi. L’esplosione, violentissima, avviene vicino alla stazione di polizia, non lontano dalla chiesa. Ci sono 3 morti e 122 feriti. Un bilancio che sarebbe potuto essere molto più tragico se la chiesa e la casa parrocchiale non avessero fatto da muro di contenimento, attutendo l’urto dell’onda esplosiva e proteggendo così tutta la gente che riempiva il mercato della piazza principale di Toribio.
Padre Roattino è duro con le Farc, ma lo è altrettanto con lo Stato. A Toribio il missionario non consente alla polizia di entrare in chiesa con le armi. Una decisione che viene spesso interpretata come un affronto di lesa maestà. «Un giorno, un comandante della locale stazione di polizia chiese di leggere le scritture durante la messa. Ma io mi opposi. “Io non metto in dubbio la sua fede – gli dissi -, ma lei rappresenta uno Stato armato”. A volte, mi vedo costretto a ricordare che Gesù Cristo fu ammazzato dalle forze dell’ordine… La parola di Dio – “Tu non uccidere” – vale sia per la guerriglia che per lo Stato. Perché non esiste una guerra giusta».

NUOVO TRATTATO, NUOVI ESCLUSI
Dall’agosto 2010 è presidente della Colombia Juan Manuel Santos. Che sicuramente non è un uomo nuovo. È stato ministro sotto la presidenza di Álvaro Uribe e proviene da una delle famiglie più influenti del paese.
I Santos sono stati proprietari ed oggi azionisti de El Tiempo, il principale quotidiano colombiano. Padre Roattino non vede, nel paese, i progressi che politici e media propagandano. «Viene esaltata – spiega il missionario – l’inteazionalizzazione del paese perché, il 12 ottobre 2011, il Congresso degli Stati Uniti ha approvato il “Trattato di libero commercio” con Bogotà. Ma il Tlc sarà certamente un brutto colpo per la Colombia degli esclusi. I prodotti provenienti dagli Stati Uniti invaderanno il mercato colombiano spiazzando con i loro prezzi bassi le produzioni locali».
Anche sul tema del conflitto armato interno, i proclami della presidenza Santos si scontrano contro la realtà. Nel luglio 2011, è stata promulgata la «Legge per le vittime e la restituzione delle terre»4, che si prefigge di restituire agli sfollati (desplazados) la terra persa a causa del conflitto e di indennizzare le vittime di violazione dei diritti umani. Peccato che la legge nasconda svariati trucchi giuridici5.
In Colombia, esistono almeno 4 milioni di sfollati6 e si stima che le terre in mano a proprietari illegittimi siano almeno 6,5 milioni di ettari. Numeri enormi. «Dubito molto sull’efficacia di questa legge. Basta ragionare un attimo: chi ha il coraggio di andare a reclamare una terra su cui si sono insediati altri soggetti, certamente più forti e più protetti di una famiglia di sfollati?».
I soggetti cui padre Roattino si riferisce sono latifondisti e paramilitari. Va ricordato che la «Legge di giustizia e pace»7, fulcro del processo di disarmo dei paramilitari, è sostanzialmente fallita. Oggi si sono formati nuovi gruppi paramilitari che, secondo cifre ufficiali, conterebbero 5.700 membri. Il fenomeno è reso possibile dalla connivenza con il mondo politico (come ha evidenziato lo scandalo conosciuto come «parapolitica») e con una parte delle forze di polizia. Nel 2011, almeno 180 poliziotti sono stati incarcerati per vincoli con i paramilitari8.
La terra è ambita da tutti, ma a prevalere sono sempre i soliti. In questi ultimi anni, c’è stata un’invasione di multinazionali minerarie sulla Cordigliera andina colombiana, la quale, tra l’altro, è una grande riserva di acqua, ospitando le sorgenti di tutti i grandi fiumi: Magdalena, Putumayo, Caquetà, Cauca. Ebbene, qui il governo ha già rilasciato 64 concessioni minerarie per poter estrarre petrolio o altre ricchezze come l’oro. «Ci sono resguardos indigeni – spiega padre Roattino – venduti a compagnie minerarie senza una consultazione previa con le popolazioni, come previsto dalla Costituzione. Quindi, l’acqua e la foresta appartengono agli ultimi arrivati. D’un colpo, la storia è tornata indietro di 500 anni!».
Per il 2012 in Colombia si prevede una crescita del Prodotto interno lordo pari al 4,5%. Numeri da invidia per politici, economisti e media del sistema neoliberista. Peccato che questo sviluppo segua le consuete strade della diseguaglianza, come sottolinea padre Roattino: «Oggi in Colombia gli ultimi – indios, afrodiscendenti, campesinos – stanno peggio di prima. Non ci sono dubbi che l’esclusione è in aumento. Com’è in aumento l’insicurezza. A Bogotà si dice più o meno così: nella condizione in cui ci troviamo oggi, i poveri non possono più mangiare, la classe media non può più comprare, i ricchi non possono più dormire (per la paura di essere derubati)».
A parte le vittime della guerra e della delinquenza, tra la gente comune a rischiare la vita sono soprattutto i sindacalisti e i difensori dei diritti umani. Nel 2011, sono stati assassinati 26 dei primi e 49 dei secondi9. L’impunità continua a coprire la violazione dei diritti umani. Il governo di Santos non si distingue da quello di Álvaro Uribe, suo predecessore, neppure in questo.

Paolo Moiola

Note
1 – La liberazione degli ostaggi è avvenuta lo scorso 2 aprile 2012. Alcuni erano prigionieri da 13 anni.
2 – Abya Yala è il nome indigeno delle Americhe.
3 – Pur lasciando spazio a colpi di coda, come avvenuto il 17 marzo 2012 quando le Farc hanno ucciso 11 soldati nel dipartimento di Arauca. Pochi giorni dopo, la controffensiva dell’esercito ha portato all’uccisione di 33 guerriglieri e alla cattura di 5.
4 – Ley de víctimas y restitución de tierras. La legge è scaricabile dal web.
5 – Gilberto Lopez y Rivas, Colombia. Il terrorismo di Stato continua, Latinoamerica n. 4, 2011, pagg. 68-71.
6 – Sono 3,7 milioni secondo Acción Social, organismo pubblico; sono invece 5,3 milioni secondo Codhes, nota Ong colombiana.
7 – Ley de justicia y paz, n. 975, 25 luglio 2005.
8 – Rapporto di Human Rights Watch, gennaio 2012.
9 – Rapporto di Somos defensores, Ong che si occupa di proteggere i difensori dei diritti umani: www.somosdefensores.org.

Paolo Moiola




Terzo polmone del cristianesimo

Cristiani in Siria: tra due fuochi

La Siria è, insieme al Libano, la terra che esprime pienamente la ricchezza e la complessità della storia cristiana: orientali, cattolici e ortodossi, ci sono tutti; un crogiolo di confessioni, riti e culture che, attraverso i secoli, è diventato un laboratorio di dialogo ecumenico e tolleranza interreligiosa; un’esperienza bimillenaria presa tra due fuochi: le violenze settarie dei ribelli e la repressione feroce del regime.

Da oltre un anno si susseguono le notizie sulla carneficina in corso in Siria. Tra le loro pieghe, ogni tanto si sentono accenni a cristiani in fuga: caldei, assiri, siro-ortodossi, siro-cattolici… Per la maggior parte della gente questi cristiani sono un mondo sconosciuto; i più informati li considerano residuati di un mondo esotico e complesso, conosciuti per i loro riti pittoreschi e le tante giurisdizioni: nella sola città di Aleppo ci sono 11 chiese diverse, la maggior parte delle quali con a capo un vescovo.
Di fronte a una guerra civile ormai in corso, con bombardamenti dell’esercito regolare e autobombe degli insorti, i cristiani si trovano tra due fuochi. Incombe sulla Siria la minaccia comune a molti paesi del Medio Oriente: la fuga dei cristiani e l’estinzione delle più antiche Chiese cristiane, risalenti all’epoca apostolica. Sarebbe una perdita enorme per l’intera umanità, che non può permettersi di vedere disperso un ricchissimo patrimonio culturale e religioso tramandato ininterrottamente per duemila anni.

il polmone siro-orientale
La prima evangelizzazione della Siria, secondo l’antica tradizione ecclesiastica, risale all’apostolo Giuda Taddeo, del clan familiare di Gesù, e all’apostolo Tommaso, nel suo viaggio verso la Persia.
La Siria, a quei tempi, comprendeva i territori dell’omonima provincia romana, dalla Palestina alle regioni dell’Eufrate, e aveva come capitale Antiochia di Siria. L’area geografica si allarga di molto se pensiamo alla lingua parlata in quelle regioni: il siriaco, un dialetto strettamente legato all’aramaico, la lingua parlata da Gesù e dagli apostoli.
Ad Antiochia soggioò a lungo l’apostolo Pietro, prima di stabilirsi a Roma; sempre ad Antiochia tutti i discepoli di Gesù, giudei e pagani, da allora e per sempre vennero chiamati «cristiani».
Intoo all’anno 36, sulla via di Damasco, folgorato da Gesù stesso, Saulo di Tarso divenne l’apostolo delle genti e fece di Antiochia di Siria il punto di partenza dei suoi viaggi missionari. E dopo la distruzione di Gerusalemme per mano dei romani (70 d.C.), Antiochia diventò il centro delle chiese di lingua siriaca e scuola del pensiero cristiano d’Oriente, come Alessandria (poi Costantinopoli) lo fu delle chiese di lingua greca e Roma di quelle di lingua latina.
Già nel II secolo la teologia siriaca, non ancora influenzata dal pensiero greco, si sviluppò con caratteristiche autoctone, grazie alla riflessione di grandi figure come gli apologeti Teofilo di Antiochia e Taziano il Siro, Afraate monaco, asceta e vescovo, e soprattutto il grande sant’Efrem il Siro (306-373), teologo, poeta e padre della chiesa.
Alla fine del III secolo, la chiesa siriaca era profondamente radicata nelle città e nelle campagne, grazie soprattutto alla straordinaria fioritura del fenomeno ascetico-monastico, le cui caratteristiche indigene, come la forma eremitica degli stiliti, distinsero la chiesa siriaca e la resero famosa su tutte le altre. San Simeone Stilita (521-592) e san Marone sono alcuni dei più noti tra i tanti monaci che vissero in questa regione. Testimoni di tale fioritura sono migliaia di luoghi di preghiera, risalenti al IV e V secolo, i cui ruderi ancora visibili sono disseminati nelle famose «90 città morte» a ovest di Aleppo.
Ben presto la Siria fu teatro delle controversie cristologiche che causarono la divisione religiosa in Oriente: quando il concilio di Calcedonia (451) condannò il monofisismo (Cristo avrebbe una sola natura), condanna ribadita nel secondo concilio di Costantinopoli (553), la maggior parte dei cristiani siriaci rifiutarono le decisioni conciliari, dando vita alla chiesa siro-ortodossa (monofisita). Più che a divergenze teologiche, lo scisma fu dovuto a fraintendimenti linguistici e, soprattutto, alla reazione nazional-religiosa contro i dominatori greco-bizantini. Una parte della società, più colta e ellenizzata, accettò senza difficoltà le decisioni conciliari, dando origine alla chiesa melchita (melek=re).
Per tutto il millennio (cioè finché le condizioni lo permisero) i siriaci, soprattutto orientali, svolsero una stupefacente attività missionaria, espandendo il vangelo nella penisola arabica, fino a raggiungere varie tribù mongole dell’Asia centrale, il Tibet e la Cina.
Di valore eccezionale è la produzione di testi teologici e spirituali delle chiese siriache: un patrimonio letterario ricchissimo, purtroppo poco conosciuto e in parte perduto, che non ha nulla da invidiare alla letteratura greca e latina, tanto che uno dei massimi studiosi di questa tradizione, Sebastian Brock, riprendendo una immagine di Giovanni Paolo II, afferma che la cristianità respira con tre polmoni: quello latino, quello orientale e quello siriaco.

Impatto con l’islam
In seguito alla conquista araba (VII secolo) i cristiani bizantini e siri esercitarono un enorme influsso anche sulla nascente civiltà islamica, sia quando Damasco divenne la capitale dei califfi Omayyadi, sia quando la capitale fu spostata a Baghdad dalla dinastia degli Abbasidi (750). Funzionari cristiani ed ebrei pullulavano nell’establishment dei vari califfati. Uno di essi fu san Giovanni Damasceno (675-749), di nobile famiglia arabo-cristiana, amico e consigliere del califfo e responsabile economico del califfato fino a quando si ritirò nella laura di San Saba in Palestina.
L’incontro tra cristianesimo e islam portò per forza alla presentazione delle rispettive dottrine di fede. Lo stesso Damasceno analizzò il Corano, lo paragonò alla Bibbia e ne dedusse che l’islam era un’eresia cristiana.
Ben presto l’arabo divenne idioma cristiano, usato nel dibattito culturale e nelle differenti controversie religiose nell’area islamica: il vescovo Teodoro Abucara (741-825), discepolo del Damasceno, compose in arabo le sue opere, tra cui il trattato sulla Difesa delle icone, traendo argomenti dal Corano e dai detti del Profeta.
Per tre secoli, numerosi cristiani siriaci (ed ebrei) animarono le famose accademie musulmane fiorite in Siria e in Mesopotamia e, su incarico dei califfi, intrapresero una sistematica traduzione dal greco in arabo, attraverso il siriaco, dei testi letterari, filosofici e scientifici dell’antichità classica. In tal modo la conoscenza del mondo greco-romano divenne uno dei fondamenti della cultura arabo-islamica.
Durante il Medio Evo gli arabi, attraverso la Spagna, riportarono i testi classici della filosofia greca in Europa, che aveva quasi del tutto dimenticato questa tradizione.
Nel secondo millennio, sotto il dominio dei mamelucchi e poi dei turchi ottomani, la storia dei cristiani della Siria fu costellata di violenze e pogrom anticristiani; ma nei momenti di calma essi riuscirono a contribuire allo sviluppo della regione con le loro attività commerciali e intellettuali, culminate in iniziative culturali, verso la metà del secolo XIX, come scuole, tipografie, giornali, testi scolastici e di letteratura… che hanno creato in Libano e in Siria il senso di «arabità», collante comune a cristiani e musulmani in chiave anti ottomana e terreno di coltura del nascente nazionalismo siriano.
Durante il mandato francese (1921-46), un giurista cristiano libanese, Edmond Rabbath, ispirò la Costituzione del 1930: sfruttando il senso di arabità, fu prescritta una rigorosa neutralità del potere civile nei confronti delle varie confessioni religiose. Il modello «laicizzante» rimase anche dopo la dichiarazione d’indipendenza (1944) e nella nuova Costituzione elaborata all’inizio degli anni ‘50: nonostante le pressioni dei Fratelli musulmani, l’islam non fu menzionato come religione di Stato; mentre fu prescritta l’assoluta appartenenza alla religione islamica del presidente della repubblica (art. 3).
Altri cristiani contribuirono all’indipendenza della Siria, come Michel Aflaq, militante nazionalista, che nel 1947 fondò il Partito Baath arabo socialista (o semplicemente Baath, ossia, risurrezione). Un altro cristiano, Fares al-Khoury, anche lui tenace nazionalista, fu eletto presidente della Repubblica per due volte (1945 e 1954) e fu acclamato padre della patria, ma, a differenza di Aflaq, si oppose al pan-arabismo di Nasser e alla unione tra Egitto e Siria (1958-1961).

Caleidoscopio di riti e culture
Trent’anni fa in Siria vivevano 9 milioni di abitanti; oggi sono quasi 23 milioni, compresi 472 mila rifugiati palestinesi e 1,5 milioni di sfollati iracheni: un mosaico di «47 gruppi etnici e religiosi», secondo un professore di relazioni inteazionali di Damasco.
Sotto l’aspetto etnico il popolo siriano è composto da arabi e aramei arabizzati (86%), curdi (7%), armeni (2%), turchi, circassi, caldei, assiri, turkmeni, ceceni e altri. Sotto l’aspetto religioso la società siriana risulta ancora più frastagliata. La maggioranza dei siriani sono musulmani sunniti (74%) il resto è formato da minoranze di sciiti, alawiti, drusi, ismailiti e altri gruppi islamici.
I cristiani sono circa 2 milioni (quasi 10%) e costituiscono a loro volta un autentico caleidoscopio di riti e tradizioni, con 11 gerarchie e comunità differenti, con ben 3 patriarchi di chiese orientali che hanno la propria sede a Damasco, erede della sede apostolica antiochena.
Metà di essi appartiene alla chiesa antiochena (greci ortodossi); circa 500 mila costituiscono la chiesa ortodossa siriaca; 125 mila la chiesa apostolica armena; poche migliaia di nestoriani o assiri e protestanti.
I cattolici siriani sono circa 430 mila, divisi in varie chiese con giurisdizioni diverse per i fedeli di ciascun rito: greco-cattolici o melchiti, siriaci, maroniti, armeni, latini, caldei. 
La Siria è, insieme al Libano, l’unico paese arabo in cui l’islam non è definito religione di stato dalla Costituzione e la religione non è riportata sulle carte d’identità. I cristiani, quindi godono di totale libertà di culto e possono svolgere i loro riti e funzioni (messe, processioni, pellegrinaggi…) liberamente e pubblicamente, purché non disturbino l’ordine pubblico; le solennità cristiane come Natale e Pasqua sono giorni festivi per tutto il paese; croci, insegne religiose, edicole mariane… sono apertamente esposte nei quartieri cristiani. Non esiste alcuno ostacolo all’edificazione di nuove chiese e strutture religiose; anzi, talvolta è il governo a facilitae la costruzione, particolarmente nelle aree suburbane di Aleppo, Damasco, Homs, offrendo il terreno e accelerando i permessi. Senza dimenticare che, al pari di moschee e strutture islamiche, chiese e edifici cristiani sono esenti da tasse e godono della foitura gratuita di elettricità e acqua.
Un decreto presidenziale del 2006 garantisce ai cattolici la possibilità di regolare questioni di diritto familiare ed ereditario secondo norme e criteri differenti da quelli derivanti dalla legge coranica. Tutto ciò ha garantito e stabilizzato la presenza cristiana nel paese e scoraggiato l’emigrazione.
Sulla libertà di coscienza, però, pesano le regole dettate dalla tradizione musulmana. Nessuna legge proibisce il proselitismo cristiano, ma il governo lo scoraggia, fino a perseguitare i missionari cristiani; la conversione al cristianesimo è ritenuto un reato dall’establishment religioso e sociale; come in tutte le società islamiche, una donna musulmana non può sposare un cristiano; se una cristiana sposa un musulmano i suoi figli sono automaticamente considerati musulmani.
Per tenere insieme questo mosaico di gruppi etnici e religiosi la società siriana ha saputo sviluppare una mirabile ma fragilissima armonia sociale e interreligiosa, basata sul nazionalismo arabo di matrice laica, ma anche imposta, da oltre 40 anni, con l’uso della repressione poliziesca. Da quando, cioè, governo ed esercito, con il colpo di stato che nel 1970 portò al potere Hafez al Assad, sono passati nelle mani degli alawiti, una minoranza di matrice sciita, rinnegata come eretica dalla maggioranza sunnita.

Futuro di paura
Da oltre un anno i cristiani si sentono in pericolo, da quando cioè sono scoppiate le proteste antigovernative, poi degenerate in atroci violenze. Con una girandola di disinformazione mediatica, governo e oppositori si rimpallano le responsabilità della mattanza, che sarebbe già costata più di 9 mila vittime, con centinaia di bambini. Al di là di tutte le informazioni e disinformazioni che provengono dalla Siria, la situazione è molto complessa. Da una parte c’è il regime autoritario, poliziesco, oppressivo di Bashar al Assad, che dal 2000 ha ereditato potere e metodi dal padre Hafez: nessuno in Siria scorda la feroce repressione della rivolta guidata dai Fratelli musulmani, nel 1982 ad Hama, costata circa 20 mila morti.
Dall’altra c’è l’opposizione che, sull’onda della cosiddetta primavera araba, lotta per una maggiore libertà e democrazia, in modo da affrontare gli enormi problemi economici in cui si dibatte il paese. In pratica però, si tratta di un’opposizione molto frastagliata all’interno, che va dai movimenti laici liberali ai gruppi fondamentalisti, in cui il desiderio di libertà si confonde con quello della rivincita dei sunniti contro la minoranza alawita; un coacervo di movimenti senza veri leader di riferimento; gruppi degenerati in bande armate che infieriscono contro la popolazione civile di ogni confessione.
Alla divisione intea si aggiunge una lotta di influenze, quasi una guerra per procura fra potenze mondiali e paesi confinanti: Usa e paesi sunniti (Arabia Saudita ed emirati del Golfo) dalla parte dei ribelli islamici; Russia, Cina e paesi sciiti (Iran) schierati con Assad.
Nel clima di caos e violenze a pagare il prezzo maggiore sono la popolazione civile e le minoranze non schierate nel conflitto tra sunniti e sciiti; tra queste minoranze ci sono i cristiani, presi tra due fuochi: tra la brutalità del regime e la lotta senza quartiere dei ribelli islamici.
Dall’inizio del 2012, infatti, si stanno registrando parecchi episodi palesemente anticristiani: il 25 gennaio è stato ucciso padre Basilios Nassar, sacerdote greco ortodosso, mentre prestava soccorso a un ferito in una strada di Hama; a Homs i ribelli hanno ucciso 230 cristiani; chiese, scuole e case di cristiani sono state saccheggiate e distrutte; in qualche manifestazione di protesta del venerdì è risuonato lo slogan: «Alawiti alla tomba e cristiani in Libano».
Non siamo ancora all’esodo, ma i cristiani hanno iniziato la fuga: essi temono che, tolto di mezzo il regime degli Assad, che fino ad ora li ha riparati dalle violenze e discriminazioni perpetrate in altri paesi islamici, si ripeta lo scenario dell’Iraq, dove le milizie sunnite praticano apertamente la caccia al cristiano.
Fermare la repressione del regime è un imperativo, quanto fermare una deriva settaria che caratterizza la lotta in corso. «Credo che la Siria, dopo un anno di questa esperienza, non sarà più la stessa – afferma il patriarca melchita Gregorio II Laham -. Credo che ci sarà un cambiamento di base, e credo che anche il presidente Bashar al Assad lo voglia».
Di fronte alle critiche di chi rimprovera la Chiesa in Siria di non schierarsi contro il sistema, il patriarca chiama al dialogo «tutti i partiti in Siria e fuori della Siria» e, rivolgendosi soprattutto ai paesi Europei e del Mediterraneo dice: «Non pensate a cambiare il regime, ma aiutate il regime a cambiare. Credo che sia questa la giusta visione delle cose. E per questo la chiesa è là, e ha fatto molto… Per noi non è il momento di chiedere i nostri diritti, ma di riscoprire la nostra missione in un mondo arabo, che vive una nuova nascita. Predicare la pace, la legalità, la giustizia è la nostra maniera di accompagnare gli avvenimenti, sia all’interno che all’esterno».

Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Cari missionari

Lettere

Terra d’Emilia addio
Alla fine dell’ottobre scorso i missionari della Consolata hanno definitivamente (ma si spera provvisoriamente) lasciato la parrocchia di S. Valentino di Castellarano (Re). Le cronache riportano la presenza dei missionari della Consolata in questa terra d’Emilia già dal 1929. Dopo la pausa bellica sono tornati a Sassuolo (Mo) dove hanno fondato la parrocchia che ancora porta il loro nome e dove sono stati fino al 1992 quando si sono trasferiti al di là del fiume Secchia, nella bellissima collina reggiana. Qui li ho conosciuti nel 1998 al ritorno da un viaggio missionario in Tanzania, quando la parrocchia era retta da p. Enrico Rossi (1935 – 2001). Da allora fino adesso, così come tanti altri frequentatori della missione, ho condiviso la mia vita e la mia storia con loro. Ciascuna delle persone che frequentava la missione ha i suoi ricordi, io ho i miei. Ricordo p. Filosi Beardino condividere con me un goccio di vino da messa di nascosto dopo aver lavorato nell’orto (il Signore l’ha chiamato al banchetto celeste solo pochi giorni fa, il 16 marzo 2012, aveva 64 anni, ndr.). Ricordo p. Svanera (Beppe) parlare della Colombia e i volti di tutti i missionari che passavano di qui per rendere testimonianza nelle varie serate missionarie. Ricordo con grande commozione le estati di studio passate presso di loro e i giovani di Bevera che assieme a p. Mario (Viscardi) venivano in ritiro da noi. Ricordo i tanti Natali e le tante Pasque passate con loro, come se fossimo tutti una famiglia. Ricordo con immenso affetto la saggezza e la bontà di p. Colusso (Giovanni Battista, 1915 – 2007) e di p. Massano (Carlo, 1929 – 2012), scomparso il 5 febbraio scorso, le chiacchierate di latino con p. Antoniani (Athos) e le tante cene animate in compagnia dei vari amici della Consolata. Ricordo p. Sottocoa (Tommaso) celebrare il mio matrimonio.
Ricordo tantissimi avvenimenti che rimarranno per sempre indelebili nella mia mente e nel mio cuore. Quanta parte delle nostre vite è legata a loro! La loro porta era sempre aperta per chiunque. Per me e mia madre, i missionari sono stati una seconda famiglia, soprattutto dopo che abbiamo perso la prima. Non ho mai visto mia madre così felice ed appagata come quando ha prestato servizio per loro, acquisendo il giocoso titolo di madre superiora della casa. Quando ho conosciuto i missionari mi sembrava strano chiamarli «padri». Adesso che se ne sono andati ne capisco il senso, poiché mi sento orfano di loro. Mi sento perciò di ringraziare dal più profondo del cuore (e sono sicuro di farlo a nome di tante persone) tutti i missionari che si sono avvicendati qui a S. Valentino. Il vostro ricordo rimarrà per sempre qui da noi, dove avete dato tanto frutto.
avv. Alessio Anceschi
via email, 24/02/2012
 
KONY 2012
Cari amici missionari,
mi sento un po’ stupida di fronte al filmato che mi ha mandato mia nipote, 18 anni, maturità classica il prossimo giugno. Dopo un momento di sgomento ho pensato a voi, che mi conoscete, siete gli unici di cui mi fidi. (Il filmato è quello di Kony 2012 @ http://www.youtube.com/watch?feature=player_embedded &v=VpS0tEpclzs – che è stato visto da quasi cento milioni di persone, ndr.).
Siete tutti giornalisti, conoscete i segreti del marchingegno, amate i ragazzi, sapete come sono. Io nonna mi sento in bilico: da un lato sono contenta di poter raccogliere quanto il nonno ed io nel tempo, tramite i figli, abbiamo seminato anche nei nipoti; dall’altro non mi fido del marchingegno, delle trappole pubblicitarie, dei facili entusiasmi. Me l’avete insegnato voi. Sono diffidente ed entusiasta allo stesso tempo. Voi siete “smaliziati”, potete dirmi se la cosa è valida, reale, vera, affidabile ecc. Faccio girare? Deludo mia nipote? Cosa le racconto?
Nonna Paola
via email, 13/03/2012
Purtroppo la storia di Joseph Kony e della sua Lord Liberation Army (Lra) è vera. Lui e la sua gente hanno fatto disastri in Uganda, Sud Sudan, Repubblica Centrafricana e nord del Congo. I fatti riferiti nel video riguardano l’Uganda e sono anteriori al 2008 quando la
Lra ha praticamente abbandonato il paese per continuare le sue azioni disastrose nelle nazioni vicine. La Lra è stata poi molto attiva nel Sud Sudan (con l’appoggio – si dice – del Nord Sudan). Le azioni di guerriglia e terrorismo si sono poi estese alla Repubblica Centrafricana e al nord del Congo. Due delle nostre missioni, Bangadi e Doruma, ai confini con il Sud Sudan, sono state ripetutamente assalite e saccheggiate, costringendo i missionari e la gente ad abbandonarle.
Qualcuno dice che il film fa leva sulle emozioni e semplifica le situazioni; in Uganda è stato accolto con molto criticismo, ma mons. Juan Jos Aguirre, vescovo di Bangassou nella Repubblica Centrafricana – dove la Lra ha ora le sue basi -, ha detto che il film ha il merito di portare questa guerra dimenticata all’attenzione del mondo. Certo non è tutto chiaro quello che sta dietro – e chi sta dietro – a questa propaganda.
Di positivo c’è che da molto tempo non si parlava più di Kony, anche se la sua Lra è ancora ben attiva e continua a fare danni, sfruttando la complicità di tanti che hanno interesse a mantenere l’instabilità in una regione ricchissima di risorse e in balia degli speculatori inteazionali.
La Caritas del Congo RD ha appena iniziato un programma di reintegrazione economica per 28.000 delle 320.000 persone che sono state fatte fuggire dalla violenza della Lra nell’Alto e Basso Huele, dove ci sono stati ben 12 attacchi solo in questi primi tre mesi del 2012, con 17 persone rapite. Queste finiscono per fare i portatori se adulti, schiave sessuali se ragazze e bambini soldato se maschietti. A tutti questi vanno aggiunti oltre 30mila congolesi che si sono rifugiati nella Repubblica Centrafricana. Forse nell’Uganda si tratta ormai di rimarginare le ferite e guarire la memoria, ma in altre parti del centro Africa si continua a vivere nel terrore a causa di Kony e del suo folle esercito.