S.S.S.

AI LETTORI

Molti anni fa, prima di entrare in seminario, mi diedero un libro da leggere. S’intitolava
«I fioretti di p. Cencio». Era la biografia di p. Vincenzo Dolza, pioniere del Meru in
Kenya. Lessi e rilessi quel libro con tanta allegria e partecipazione, fin quasi a saperlo a
memoria. Ogni tanto, oggi, un ricordo riemerge. Due sono tornati con insistenza in una
notte insonne d’aprile – insonne perché ai primi di maggio riprendono le scuole in Kenya e le
scuole vogliono contanti, non promesse -: la storia dei «Canada» e dei «Canapia» e le sue
famose lettere agli amici con scritto un solo e grande «S.S.S.» e firmate «Cencio».
Avendo ricevuto una volta la visita di un cacciatore canadese di passaggio, divennero subito
amici. Questi, vedendo l’estrema povertà del padre, si offrì di aiutarlo. P. Cencio gli spiegò che
erano fatti l’uno per l’altro, perché uno proveniva dal «Can-a-dà» (colui che da, in piemontese)
e, l’altro era cittadino di «Can-a-pia» (colui che prende). Invece l’«S.S.S.» significava semplicemente
«Sono Senza Soldi»; plastica espressione per indicare il suo stato di perenne indebitato a
causa della generosità con cui si dedicava ai poveri (vedi foto p. 65, MC 12/2011). P. Cencio aveva
imparato bene dall’Allamano che il missionario deve essere un canale per quel che riguarda i
soldi e una conca nel suo rapporto con Dio. Quel vecchio libro dovrebbe far parte dei testi di
formazione nei seminari missionari e probabilmente farebbe del bene anche a molti politici
nostrani.
Non sono sicuro di aver imitato p. Cencio nell’essere una conca di santità, ma quanto all’altro
aspetto, un po’ ci ho provato. Quando sono partito per il Kenya nel 1988, non ho cercato soldi,
perché non li consideravo una priorità. Sognavo l’evangelizzazione pura: catechesi, formazione,
testimonianza, camminare con la gente, imparare da loro ed essere «povero con i poveri».
È andato tutto bene fino a quando non mi sono scontrato faccia a faccia con la povertà, anzi no,
con i poveri, quelli veri, di carne e ossa, con nome e cognome, una faccia, una storia, un odore.
Incontri fatti spesso solo di un semplice sguardo, un gesto, pochissime parole, o scontri fatti
anche di storie lunghissime che puzzavano pure d’imbroglio, forse goffo tentativo di coprire con
un po’ di orgoglio una dignità umiliata dalla miseria. Da allora sono diventato anch’io un
«canapia», non per me, non ne ho bisogno, ma per quelli che, volente o nolente, mi accompagnano
sempre – «i tuoi poveri, i tuoi bambini» -, anche quando vado a mangiare una pizza con gli amici.
Perché vi scrivo questo? Il binomio «missione=soldi per i poveri» è talmente solido nella
mente di tanti buoni cattolici da indurre gruppi missionari a definirsi tali più per quanto
raccolgono in favore del loro progetto che per come vivono la missione. Ci sono poi molti
missionari che sono diventati quasi «prigionieri» dell’aiuto ai poveri, a causa della crisi
economica, ormai mondiale, che ha impoverito i donatori, riducendone le risorse, e peggiorato
la situazione dei poveri con l’aumento dei prezzi e del costo della vita, e sta rendendo impossibile
sostenere programmi e progetti come scuole, orfanotrofi, ospedali e adozioni che esigono
continuità. L’equilibrio di un tempo è saltato e la crisi è pagata soprattutto da chi è già povero.
E il missionario si sente tra l’incudine e il martello.
La crisi di cui tutti parliamo e soffriamo evidenzia un sistema che non ha più l’uomo al centro,
ma il profitto per il profitto; un sistema che premia la speculazione (a vantaggio di pochi) e
penalizza il lavoro di chi, in fondo, è trattato peggio di uno schiavo; una monetizzazione del
tutto (anche dell’uomo), dove l’azzardo finanziario (ormai democratizzato dal «gratta e vinci»)
conta più del sudore della fronte e gli algoritmi di banche e fondi d’investimento mandano a
K.O. nazioni intere.
Che senso ha in questa situazione un missionario che scriva agli amici un «S.S.S.»? Forse è
uno che, nonostante tutto, ha ancora fiducia nell’uomo perché ha fede in Dio, il Dio fatto uomo
in Gesù Cristo. Crede ancora che nel cuore di ogni persona, anche quella in difficoltà, ci sia
una capacità di compassione e di solidarietà inesplorata e inestinguibile, una capacità d’amore
che nessuna crisi economica può uccidere, perché imparata dal Figlio di Dio, un Dio dalla
parte dei poveri.
                                                                                                                              Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




1. L’apostolo Paolo

4 chiacchiere con…

Iniziamo con questo numero una nuova rubrica dove idealmente cercheremo di dialogare con dei testimoni del passato che hanno lasciato tracce indelebili sui sentirneri dell’evangelizzazione. Un dialogo tra persone vissute in tempi diversi può avvenire solo con una finzione letteraria. Seguiremo pertanto questa pista, cercando di far emergere i punti di riflessione che possano servire per una migliore e incisiva animazione missionaria per i nostri giorni.

Di fronte a un gigante del Vangelo come Lei mi sento un po’ a disagio e abbastanza in difficoltà nell’affrontare certi temi.
Intanto cominciamo col darci del tu; ai miei tempi si dava del tu anche all’imperatore, mentre voi in chiesa date del tu a Dio e poi sul sagrato al primo omuncolo con qualche carica pubblica che incontrate, gli date del Lei.
Ok ricevuto, prova a raccontare – sintetizzando ovviamente – la tua vita per i nostri lettori.
Allora vediamo… Sono nato a Tarso in Cilicia (attuale Turchia centro-meridionale) nei primi anni dell’era cristiana; appartengo a una nobile famiglia ebraica che si era conquistata la mitica cittadinanza romana. Per capirci, è come se oggi un extracomunitario (come eravamo noi ebrei che vivevamo fuori d’Israele) che arriva da paesi sperduti e lontani, riuscisse ad avere non solo il permesso di soggiorno, ma anche la carta d’identità italiana! Sono stato educato secondo la ferrea disciplina dei farisei, nella rigorosa osservanza della legge mosaica e nell’assiduo studio delle scritture sotto il grande Gamaliele, fino a ottenere il prestigioso titolo di dottore della legge. Tutto in me era impregnato dall’Antica Alleanza, per questo non riuscivo a capire cosa si nascondesse dietro la nascente comunità dei discepoli di Gesù di Nazareth, che ritenevo scismatici, eretici nonché pericolosi sovversivi; per questo ero diventato uno dei loro più accaniti persecutori.
Già, ma sulla via di Damasco successe qualcosa d’imprevedibile, non è vero?
Non me ne parlare! Quell’esperienza ha cambiato radicalmente la mia vita e forse anche la tua. Perché incontrarsi con Dio è sempre un avvenimento che ti sconvolge e ti segna non solo spiritualmente ma anche fisicamente: vedi Giacobbe che uscì zoppicante e con le ossa rotte dopo un incontro ravvicinato con Lui, e anch’io rimasi cieco per un po’ di tempo.
Il nostro Dante nella sua Divina Commedia, ti definisce «gran vasello/de lo Spirito Santo» (Pd. XXI, 128) facendo riferimento alla dichiarazione che si trova negli Atti degli Apostoli a seguito della tua straordinaria conversione: «Egli è per me uno strumento eletto per portare il mio nome dinanzi ai popoli» (Atti 9, 15).
Già, proprio questo è stato il copyright che mi ha riservato il Maestro; gli altri apostoli erano ebrei come me, ma erano sempre vissuti in un’ottica molto provinciale, praticamente quei pochi viaggi fuori dalla terra di Israele li avevano fatti seguendo Gesù. In più avevano la fissa che bisognasse, prima di tutto, annunciare il Vangelo al popolo di Israele; una volta convertiti gli ebrei (il che avrebbe significato farli cadere tutti da cavallo) passare poi alla seconda fase, ovvero portare la Buona Notizia a tutte le genti.
La tua strategia missionaria però non era di questo genere.
Assolutamente no! Pur essendo io più impegnato di loro nell’osservanza alla legge mosaica, ritenevo che per portare al mondo pagano, greco o romano che fosse, la meravigliosa novità di vita che Cristo ci aveva lasciato, bisognasse far saltare tutti i paletti, lacci e lacciuoli legati alla legge antica.
Ti riferisci al problema della circoncisione?
Certo, anche perché con il battesimo, sacramento iniziatico che fa di te una persona nuova e si dà a tutti, uomini e donne, liberi e schiavi, ebrei e pagani, sei trasformato radicalmente, senza nessun bisogno di altri segni che ti legano al passato.
Già, ma Pietro, Giacomo e altri non erano poi tanto d’accordo.
Difatti glielo dissi a viso aperto (oggi diremmo a muso duro), anche perché Pietro, pur avendo ricevuto il mandato di presiedere la comunità, subiva l’influsso di Giacomo, il quale, col carattere che si ritrovava (sia lui che suo fratello Giovanni furono definiti da Gesù figli del tuono, tanto erano irruenti) cercava in ogni modo di imporre una linea di evangelizzazione che non condividevo affatto.
Già, ma in quanto al carattere anche tu non scherzavi.
Quello che dovevo dire l’ho sempre detto e se chi mi stava attorno cercava di farmi dire cose diverse o intraprendere strade che non ritenevo praticabili, non stavo tanto a perdere tempo, quello che andava detto glielo dicevo in faccia e amen, atteggiamento che purtroppo avete dimenticato, tant’è vero che da voi per definire un linguaggio di chiesa si dice «curiale». Come cambia il mondo!
Sei definito l’Apostolo delle genti proprio perché da autentico missionario, sfruttando la rete delle strade imperiali di allora e del traffico via mare, tutto sommato abbastanza sicuro per l’epoca, hai percorso migliaia di chilometri per portare il Vangelo nel tessuto sociale delle pulsanti città dell’Impero. Qual era la tua strategia missionaria?
Se devo rispondere con una battuta, la mia strategia missionaria la chiamerei: implantatio ecclesiae (piantare la Chiesa); quando arrivavo in una città, facevo la visita alla sinagoga per incontrare i fratelli dell’antica alleanza e parlare loro del Vangelo di Gesù, della sua morte in croce e risurrezione e se questi mi respingevano, passavo ad annunciare la Buona Notizia alle altre genti, più aperte e disponibili. Una volta avviata e formata una piccola comunità in grado di camminare con le proprie gambe, proseguivo per un’altra destinazione.
Già, ma ad Atene, in quella città di grandi accademie culturali, non hai poi ottenuto gran che.
È vero, anche se io credo che quella frase di Luca scritta negli Atti degli Apostoli: «Ti sentiremo su questo un’altra volta» (Atti 17, 32) non necessariamente va intesa come un rifiuto, può darsi che gli ateniesi avessero bisogno di una «pausa di riflessione» per afferrare il senso più autentico del messaggio di Cristo.
Per quanto riguarda l’attività missionaria dei giorni nostri, che suggerimenti daresti.
Credo che le cose da fare siano le stesse di allora: occorrono discepoli innamorati del messaggio da comunicare, pronti ad andare fino agli estremi confini della terra (e non a rinchiudersi in recinti dorati sempre più angusti, con piccoli gruppi che se la contano tra di loro), che siano disponibili ad affrontare le nuove sfide del terzo millennio e creare autentiche comunità di vita cristiana (invece di ricercare sicurezze dal potente di tuo) che sappiano diluirsi come lievito nella massa e alla fine trasformare la società; ci siamo riusciti noi che avevamo di fronte nientemeno che l’impero romano, figuriamoci se non ce la potete fare voi.
Grazie Paolo, faremo tesoro di tutto questo.
Buon lavoro ragazzi e ricordatevi sempre che Cristo il mondo l’ha già vinto.

Mario Bandera

Mario Bandera




Star male da mangiare

Cause e conseguenze dell’obesità

Al problema della fame nel mondo si aggiunge l’obesità, che tocca un miliardo di persone.
Nei paesi ricchi ma anche in quelli poveri.
L’Italia è al primo posto in Europa per persone in sovrappeso. Le cause sono quello che mangiamo e il nostro modo di vivere. E l’obesità scatena una lunga serie di malanni.

Da sempre la fame nel mondo assilla l’umanità e tuttora muoiono di fame complessivamente più di 7,6 milioni di bambini in età prescolare ogni anno. Eppure a questo problema, ben lontano dall’essere risolto, se ne è aggiunto un altro, insospettatamente presente ovunque, anche nei paesi in via di sviluppo: l’obesità.
Secondo i dati dell’Oms (Organizzazione mondiale della sanità), il numero di persone in sovrappeso nel mondo è di oltre un miliardo (di cui 300 milioni francamente obese), decisamente superiore a quelle che soffrono la fame, cioè 925 milioni (rapporto Fao del 2010). Una vera e propria epidemia.
Oltretutto l’Oms stima una crescita dell’obesità del 50% nei prossimi 10 anni. In alcuni paesi occidentali, come gli Stati Uniti, si calcola che solo una persona su tre sia normopeso, ma troviamo dati preoccupanti anche in Messico, Egitto e Sudafrica con più della metà degli adulti in sovrappeso, cioè con indice di massa corporea (Imc) pari o superiore a 25. L’Imc è il rapporto tra il peso espresso in chili e  il quadrato dell’altezza espressa in metri. Negli stessi paesi un quarto della popolazione è obesa (Imc pari o superiore a 30). In quasi tutti i paesi dell’America Latina, in buona parte del Medio Oriente e del Nord Africa almeno un quarto degli adulti è sovrappeso. Ormai iniziano a fare i conti con questo problema anche paesi molto poveri come l’Uganda e la Nigeria.

Situazione Italia
Secondo i dati del ministero della Salute, l’Italia è al primo posto in Europa, con il 36% delle persone in sovrappeso. Un altro dato allarmante dell’Oms riguarda il tasso d’incremento dell’obesità infantile, che è in continua crescita. Complessivamente i bambini rappresentano la metà degli individui stimati in sovrappeso ed in particolare 40 milioni di loro sono clinicamente obesi nel mondo. Nel nostro paese, secondo un’indagine promossa dal ministero della Salute e condotta tra i bambini di 9 anni, in alcune città campione di Lombardia, Toscana, Emilia Romagna, Campania, Puglia e Calabria, il 23,9% è in sovrappeso ed il 13,6% è obeso. Questa indagine inoltre ha evidenziato una maggiore prevalenza dell’obesità nelle città del Sud (16% a Napoli), rispetto a quelle del Nord (6,9% a Lodi).
Il problema dell’obesità si è ovunque acuito negli ultimi 20 anni, complici la sempre maggiore disponibilità di cibo e le innovazioni tecnologiche, che ci evitano una buona parte dei lavori faticosi.
Ma se questa situazione è più facilmente comprensibile nei paesi ricchi, viene da chiedersi cosa stia succedendo in quelli più poveri. In questo caso possiamo parlare di «transizione alimentare», cioè il passaggio dalla denutrizione all’iperalimentazione avvenuto in meno di una generazione. Chi si reca attualmente in paesi come Messico, Cina, India, Filippine può osservare situazioni molto diverse rispetto ad una ventina di anni fa: è aumentato enormemente il consumo di bibite, i ragazzini passano molte ore davanti alla tv, gli adulti si spostano sempre più in motorino anziché a piedi e il cibo viene comperato al supermercato, dove abbondano dolcificanti, oli di semi e cai a basso costo, conseguenza del business agroalimentare.
Inoltre è aumentata l’urbanizzazione. Peraltro si riscontra un aumento dell’obesità anche nelle aree rurali. Il Messico è forse il paese in via di sviluppo più colpito dall’epidemia di obesità: nel 1989 le persone in sovrappeso erano meno del 10% della popolazione, mentre l’obesità conclamata era praticamente inesistente. In un’indagine nazionale del 2006, il 71% degli uomini ed il 66% delle donne sono risultati in sovrappeso o obesi, una situazione molto simile a quella riscontrata negli Stati Uniti.
Sicuramente, tanto nei paesi meno sviluppati che in quelli ricchi, l’obesità prevale tra le persone povere e con un basso livello di istruzione.
Parallelamente alla crescita del numero degli obesi, in Messico è cresciuto quello degli individui ammalati di diabete di tipo 2 (o dell’adulto), che fino a 15 anni fa era pressoché inesistente, mentre ora ne soffre quasi un sesto della popolazione.

Tutti i mali dell’obesità
La situazione messicana rispecchia quella a livello mondiale: agli inizi del 2000 c’erano circa 170 milioni di individui affetti da diabete di tipo 2, mentre si prevedono 366 milioni di malati nel 2030, secondo l’andamento attuale. L’obesità, oltre che al diabete di tipo 2, risulta associata a una pletora di ulteriori problemi sanitari (che si riscontrano sempre più spesso anche tra gli obesi in età giovanile) come il rischio di sviluppare  aterosclerosi, disordini neurodegenerativi, patologie dell’apparato respiratorio, alcune forme di cancro, sindrome metabolica (intesa come un complesso di condizioni legate all’obesità).
La sindrome metabolica è direttamente correlata a un aumentato rischio cardiovascolare, la principale causa di morte tra gli obesi. Certamente per l’insorgenza del diabete di tipo 2 è importante la predisposizione genetica, tuttavia vi sono parecchie evidenze che lo stile di vita e in particolare l’obesità svolgono un ruolo cruciale.
È emblematica, in tal senso, la storia degli indiani Pima, originari del Messico e migrati circa 2000 anni fa in Arizona, dove riuscirono a rendere fertile una zona desertica. Questa popolazione è geneticamente predisposta al diabete di tipo 2, tuttavia vivendo per secoli con una dieta ricca di fibre e di carboidrati complessi e povera di grassi, è riuscita a vivere a lungo priva della malattia. Agli inizi del ´900 gli americani colonizzarono quella zona, deviarono il corso di un fiume e resero nuovamente desertica l’area occupata dai Pima, che vennero risarciti dal governo americano con foiture di zucchero, farina e lardo. Le abitudini alimentari di questa popolazione variarono bruscamente, con il risultato che essi si ritrovarono con la più elevata prevalenza mondiale di diabete di tipo 2, in associazione all’obesità, cioè l’85% della popolazione. Analizzando gli indiani Pima rimasti in Messico, con le antiche abitudini alimentari, la prevalenza del diabete è risultata di poco inferiore al 10%.
Del resto, l’obesità favorisce un’alterazione del normale funzionamento del segnale dell’insulina, a livello cellulare, che si traduce nell’insulino-resistenza caratteristica del diabete di tipo 2. L’insulina è un ormone ipoglicemizzante prodotto dalla porzione endocrina del pancreas. Tale ormone stimola le cellule ad assumere il glucosio dal sangue (da cui la riduzione della glicemia) e a utilizzarlo per la produzione dell’energia utilizzata nelle molteplici funzioni cellulari.
È stato rilevato che l’80% dei pazienti diabetici è obeso e che la correlazione tra le due patologie è ancora più forte quando l’obesità è di tipo addominale. Entrambe le patologie risultano associate ad un incremento della disponibilità alimentare e ad una riduzione dell’attività fisica.

Problemi di comunicazione
L’organismo umano è programmato per fare fronte alle scarsità alimentari, per cui non è capace di rispondere adeguatamente a disponibilità praticamente illimitate di fonti caloriche, né all’enorme risparmio energetico derivante dall’utilizzo di macchinari, che ci evitano i lavori più faticosi. Il nostro corpo immagazzina l’energia in eccesso nel tessuto adiposo, che sarebbe meglio considerare come «organo adiposo» poiché capace di produrre ormoni propri, in particolare la leptina, una molecola che informa il cervello sul contenuto in grasso delle cellule adipose. L’informazione giunge all’ipotalamo, una parte del cervello che presenta il «centro della sazietà» e il «centro della fame». Altre informazioni importanti per la regolazione del livello energetico giungono al cervello da stomaco, fegato ed intestino.
È probabile che nelle persone obese esista un difetto di comunicazione tra gli organi suddetti e il cervello, con conseguente attivazione del «centro della fame».
Certamente l’enorme diffusione dei supermercati tanto nei paesi ricchi, quanto in quelli poveri ha reso facilmente disponibili in grande quantità e a costi relativamente bassi bevande dolcificate, cibi industriali, cibi di origine animale e oli di semi, cioè sostanzialmente alimenti ad alta densità energetica. Poiché il corpo umano regola l’appetito in base al volume di cibo introdotto, piuttosto che in base alle corrispondenti calorie, è evidente che la grande disponibilità di cibi altamente calorici è già di per sé un primo passo verso la diffusione dell’obesità.
Quest’ultima, secondo il rapporto Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) Obesity and the economics of prevention: fit not fat (2010) comporta una riduzione della  vita di 8-10 anni per una persona gravemente obesa, e il rischio di morte prematura aumenta del 30% ogni 15 chilogrammi di peso in eccesso.
L’obesità comporta degli elevati costi sociali. Sempre secondo il rapporto citato, nei paesi dell’Ocse (a cui appartiene anche l’Italia), l’eccesso di peso è responsabile dell’1-3% della spesa sanitaria (5-10% negli Stati Uniti), ma questa spesa è destinata a salire con l’aumento delle patologie correlate all’obesità.
Spesso quest’ultima è caratterizzata dalla presenza di fame compulsiva, una sorta di dipendenza dal cibo del tutto simile a una tossicodipendenza.
Sia in un caso che nell’altro è stato infatti osservato un aumento dei livelli serici di dopamina dopo avere assunto il cibo o la droga. La dopamina è un neurotrasmettitore che conferisce una sensazione di benessere ed è coinvolta nei meccanismi di ricompensa e di motivazione comportamentale. Quindi il cibo, in particolari circostanze, può rappresentare una droga e, per giunta, non solo legalizzata, ma necessaria per la sopravvivenza, per cui diventa molto più difficile stae alla larga.
Fortemente responsabile dell’impennata dell’obesità mondiale è il cosiddetto «cibo-spazzatura» (i vari fast food, snack, preparazioni alimentari industriali, che ci fanno risparmiare tempo in cucina), particolarmente ricco di zuccheri semplici e di grassi saturi, e povero di frutta, di verdura e di cereali integrali. L’industria alimentare fa affari d’oro, grazie alla pubblicità martellante e al basso costo di questo tipo di cibo, il cui valore nutrizionale, inteso non soltanto come apporto calorico, bensì di vitamine, di oligoelementi, di grassi polinsaturi (utili per contrastare l’aterosclerosi) come gli omega-3, è decisamente molto basso.
Tra l’altro va detto che un target molto importante della pubblicità di prodotti alimentari sono i bambini al di sotto degli 8 anni, nei quali viene creata una vera e propria dipendenza psicologica dai cibi ad alto contenuto di grassi e di zuccheri, in modo da indirizzae le scelte future.
Secondo uno studio apparso su Nature, gli alimenti ricchi di grassi e di zuccheri creano la stessa dipendenza del fumo. Si intuisce, in tutto questo, l’enorme giro d’affari dell’industria alimentare prima e di quella farmaceutica dopo. E naturalmente di quella pubblicitaria.
Per contrastare l’obesità, in attesa di conoscere meglio i meccanismi biochimici, che ne sono alla base, valgono i vecchi buoni consigli del medico: alzarsi da tavola con ancora un po’ di appetito e fare gioalmente un po’ di attività fisica (lasciamo a riposo l’auto e l’ascensore, per esempio). E poi diamo la preferenza a frutta, verdura, cereali e grassi polinsaturi vegetali o presenti nel pesce grasso, piuttosto che a carne, grassi saturi di origine animale, zuccheri raffinati e pane bianco.

Rosanna Novara Topino

Rosanna Novara Topino




«Albese» prete e missionario

A tre anni dalla morte pubblicata biograifa di padre Paolo Tablino

È uscito lo scorso marzo 2012 presso le Edizioni S. Paolo il libro intitolato Paolo Tablino – un missionario immerso nel Vangelo, ne è autore don Giovanni Ciravegna, già rettore del Seminario Diocesano di Alba.

È opportuna una premessa: esattamente tre anni or sono, padre Paolo Tablino moriva a Nairobi, in Kenya, all’età di 81 anni, dei quali circa cinquanta vissuti nelle aride terre del Nord del Kenya, ai confini con l’Etiopia, e, per sua volontà, veniva sepolto a Marsabit. In questa regione, d’intatta se pur selvaggia bellezza, caratterizzata da clima ostico e comunicazioni malagevoli, insieme ad altri sacerdoti, religiosi e laici, inizialmente italiani e albesi, aveva annunciato il Vangelo, realizzato scuole, chiese e strutture per la promozione umana, stabilendo contatti con popolazioni di cui, fino agli anni ‘60, poco si conosceva quanto a modo di vivere, lingua e struttura sociale.
Ben noto, pur così lontano, in Alba città e diocesi, aveva sempre mantenuto contatti epistolari e personali con un vasto numero di amici, che, nei tre anni trascorsi dalla morte, hanno mantenuto per lui quanto mai vivo il ricordo, l’affetto e, direi, la venerazione: questo libro soddisfa l’attesa di molti, sia degli amici di lungo corso e quelli più recenti. La prova più evidente della costanza dei legami che tutti costoro mantengono con lui è il gruppo di uomini e donne di ogni età che il giorno quattro di ogni mese – anniversario del suo passaggio al cielo -, si riunisce nel duomo di Alba alla messa delle ore diciotto, preceduta da un’ora di adorazione eucaristica.
Il libro è strutturato linearmente in forma biografica: dopo un flash iniziale sulle impressioni e reazioni seguite alla notizia del decesso, l’autore segue le vicende della vita di Paolo Tablino, dalla giovinezza alla formazione, all’ordinazione sacerdotale, all’impegno missionario, che assume rispondendo all’invito dell’amico don Bartolomeo Venturino, anch’egli albese, primo sacerdote fidei donum in Italia nel 1958, e di mons. Carlo Cavallera, vescovo di Nyeri fino al 1964, poi di Marsabit (vedi MC 2011/03, pag. 16). La narrazione abbina le circostanze individuali ai luoghi in cui ha operato: Alba, Kenya, Roma, rammentando le persone da lui conosciute, ricordando momenti, fatiche, scritti, decisioni importanti di un’esistenza spesa senza risparmio al servizio del Vangelo e degli uomini e delle donne che la vita gli aveva fatto incontrare.
Questa è la struttura di un testo in cui, intercalate nella trama della sua vita s’inseriscono testimonianze, concise talvolta, altre volte approfondite, di persone che l’hanno frequentato, ne hanno condiviso tempi di vita e momenti decisivi, hanno dialogato con lui di argomenti e di scelte di grande rilevanza.
Assai spesso l’autore fa parlare padre Paolo stesso, riportandone scritti da lui inviati e gelosamente conservati dai destinatari: la costanza e la cura nello scrivere a tantissime persone sono state certamente una delle caratteristiche più note e importanti della sua personalità. Queste lettere, che colpiscono per la spontaneità e la capacità di rapportarsi con l’interlocutore, toccano tutti i casi della vita: avvenimenti lieti e tristi, scelte impegnative, drammi e miracoli che solo il cuore conosce. Un complesso di migliaia di fogli, scritti a mano con calligrafia precisa, i più su carta leggera per posta aerea dove i francobolli e le diciture portano immagini esotiche di animali africani o di paesaggi di bellezza primordiale. Sovente si tratta di lettere dense di contenuti dottrinali, pastorali, teologici: queste sono per lo più dirette ai maestri e agli amici del seminario di Alba, del gruppo missionario, dell’Azione Cattolica.
Il libro di don Giovanni Ciravegna attinge in modo esauriente a questa raccolta di documenti, che spazia dai primi appunti giovanili, già rigorosi nella loro semplicità, alle lettere serene della maturità, scritte con il pensiero ormai oltre la morte.
Nel testo parlano anche, con voci riportate in diretta, molti amici, nei quali la richiesta fatta loro dall’autore di fornire una testimonianza personale ha dato avvio a un flusso inarrestabile di ricordi e di memorie comuni, in cui emergono momenti di comunione o di percorsi umani condivisi.
Questa è, in sintesi, la sostanza del libro che vede ora la luce. Il ritratto umano e sacerdotale di padre Paolo Tablino mi pare più che riuscito. Poiché questa è la prima biografia che si presenta al pubblico, senza dubbio è auspicabile un prossimo accurato studio che approfondisca tutti gli aspetti della ricchissima personalità del missionario.
Quello che si può affermare, senza che possa suonare come giudizio riduttivo, è che il protagonista del volume è considerato da un punto di vista quasi esclusivamente «albese»: è albese l’autore, albesi per lo più sono gli amici che ne hanno parlato e Alba è stata ben presente nella vita di p. Tablino, costantemente ricordata nelle savane desertiche del Nord Kenya (la Gazzetta d’Alba vi è sempre arrivata, ben attesa, per anni, coi tempi permessi dalle poste).
Don Giovanni Ciravegna ne esamina accuratamente il periodo giovanile di formazione scolastica e sacerdotale: è questo il momento fondamentale per la comprensione del futuro missionario. Sullo sfondo della Alba degli anni ‘40 e ‘50, l’autore cita i maestri che lo hanno formato, sia sacerdoti che laici, analizza i primi anni di apostolato come prete accanto a uomini di grande livello, impegnati insieme in una molteplice varietà di iniziative. È un periodo di fecondità straordinaria nella fede e nelle opere che segnerà la vita di tanti, di p. Paolo per primo e di tanti amici.
Ma l’uomo e il missionario sono stati molto di più: l’Africa e insieme la missione, a un certo punto della sua vita, sono state le sole cose importanti. I cinquant’anni dedicati alla gente del Nord Kenya dovranno essere oggetto di studio approfondito, magari da parte di uno dei giovani, ora uomini, da lui formati ed avviati a culture e studi per loro del tutto nuovi e neppure immaginati fino a prima di incontrarlo. Gli argomenti su cui lavorare sono ancora molti e tutti di grande interesse: possediamo documenti, in parte pubblicati, in italiano ed in inglese. Mi riferisco agli studi linguistici, etnografici e religiosi sui popoli dell’area Nord Kenya/Etiopia, condivisi con don Bartolomeo Venturino, che gli hanno valso la conoscenza e l’amicizia di studiosi di tutto il mondo. Accenno ancora agli scritti sulla storia dell’evangelizzazione di quella che in epoca coloniale era l’inaccessibile Northe Frontier (frontiera settentrionale). In questo campo, la sua testimonianza, vissuta direttamente e condivisa con persone ormai quasi tutte scomparse, è preziosa e insostituibile. I due volumi, pubblicati in inglese dalle Paulines Publications Africa delle Figlie di S. Paolo di Nairobi, costituiscono una miniera fondamentale per la storiografia dell’evoluzione umana e cristiana del Nord del Kenya, presentata nel contesto dello sviluppo della Chiesa nell’Est Africa ed in Etiopia, a cui sono dedicati alcuni accurati capitoli.
Esiste poi una larga quantità di studi biografici di persone da lui conosciute, intrapresi per fae memoria e per manifestare gratitudine: i suoi maestri e amici Alberto Abrate, Giuseppe Pieroni, Sandro Toppino, don Mario Mignone, mons. Pietro Rossano, don Natale Bussi, don Agostino Vigolungo ed altri ancora.
Mi piacerebbe che questa ulteriore ricerca biografica potesse illuminare altri aspetti – appena accennati nel libro di don Ciravegna – di una personalità di grande rilievo. Sarà una volta di più confermata la statura di un uomo che, fino all’ultimo, ha tenuto fede all’intuizione ricevuta a sedici anni: quella di un mandato che, nel termine latino che lo definisce, missio, suona come sinonimo di quella che è stata la sua ragione di vita: la missione.
Cito per conclusione le parole dello stesso p. Tablino in chiusura del libro I Gabbra del Kenya:
«Se Gesù Cristo ci ha detto di andare a tutte le genti, egli sapeva che tra queste c’erano anche i Gabbra. Tutte le nostre incertezze e le nostre opinioni non possono cancellare il valore di quel mandato».

Silvio Veglio
(architetto, discepolo-amico di don Tablino e volontario per alcuni anni nella diocesi di Marsabit)

Silvio Veglio




La religione delle montagne

Religioni in Cina: il Taoismo

Filosofia e religione ad un tempo, il taoismo è parte della vita del popolo cinese. Ci sono templi (1.800), monaci (20 mila) e fedeli (10 milioni), ma non c’è un leader spirituale di riferimento. Il precetto fondamentale del taoismo dice di «coltivare il proprio sé». Raggiunto questo obiettivo, sarà facile trovare un accordo con il mondo e con l’Universo.

Pechino. Baiyun guan, il tempio (guan) della Nuvola Bianca, è il principale tempio di Pechino della corrente taoista quanzhen. A mezzogiorno, il tempio è assolato. I monaci, dalle tuniche blu e dai capelli raccolti con un fermaglio sulla testa, si aggirano tra i padiglioni. I fedeli, accendono gli incensi, entrano nelle varie sale e si inchinano, tre volte, davanti alle numerose divinità taoiste.

LA GIORNATA DI UN MONACO TAOISTA
Liu Zongmin è a Baiyun guan da cinque anni: «Non chiedere a un monaco per quale ragione ha fatto questa scelta, spesso e volentieri è un percorso difficile, non è, come la gente crede, un passaggio comodo e tranquillo. In principio è molto duro». Oggi, il monaco Liu vive in una stanza singola di dieci metri quadrati, tra i suoi libri e un paravento di legno intarsiato. Dipinge calligrafie cinesi e alleva cinque tartarughe. «Simbolizzano la longevità», suggerisce.
Il tempio dove vive ha visto nascere conglomerati religiosi taoisti fin dalla dinastia Tang (618-907 dopo Cristo), ma fu l’imperatore Chinggis qan (Genghis Khan), della dinastia mongola degli Yuan che nel 1224 fece ricostruire il tempio da Qiu Changchun, importante monaco e patriarca del taoismo quanzhen.
Durante la dinastia dei Ming (1368-1644 dopo Cristo) prese, poi, il nome di tempio della Nuvola Bianca e, da quel momento è sempre stato un punto di riferimento per i monaci e i fedeli. Nel folle periodo della Rivoluzione culturale (1966-1976) è stato uno dei pochi luoghi di culto a non aver subito danni e scempi eccessivi ed oggi è divenuto la sede dell’Associazione taoista cinese.
Tra il 18 e il 22 settembre del 1978 venne istituita a Pechino la terza sessione dell’undicesimo congresso del Comitato centrale del Partito comunista cinese. Deng Xiaoping denunciò gli errori della Rivoluzione culturale. Da quel momento in poi cominciò l’era delle riforme: venne coinvolto l’aspetto economico della Cina e, in silenzio, anche la religione.
«Durante le feste, alle quattro del mattino, siamo già in piedi, per offrire i servizi religiosi ai fedeli, altrimenti la sveglia è alle sette, la colazione è alle sette e mezza… Durante la giornata ci sono due letture fisse, quelle del mattino e della sera, per i vivi e per le persone morte e le letture per lo studio, che cantano le gesta dei grandi maestri e dei patriarchi. Ad esempio, c’è una frase che dice, l’uomo potrà essere in pace e con lui l’intero Universo. Il concetto fondamentale del taoismo è coltivare il proprio sé; quando l’animo sarà sereno tutto avverrà in maniera autentica e naturale», continua il monaco Liu.
Il taoismo ha sempre coinvolto diversi piani culturali e religiosi, per cui, spesso e volentieri in Occidente si sono cercate formalizzazioni che incanalassero l’indagine della conoscenza in compartimenti più agibili, e si è confusa la parte con il tutto, definendo una determinata corrente taoista di una particolare epoca come il taoismo intero.

UNA REALTÀ COMPOSITA E VARIEGATA
Era comune la differenziazione tra il taoismo religioso e quello filosofico. Oggi, negli studi contemporanei, si va oltre questa visione, provando ad analizzare il taoismo da più punti di vista: c’è la metafisica e la cosmologia; ci sono i numerosi testi e i commentari ai testi che spesso condividono parte del lessico con il buddismo e il confucianesimo. C’è poi anche un piano sociale, istituzionale e liturgico, sia a livello locale che centrale, il quale si è dipanato nel lungo corso del tempo e in tutta la Cina e che ora sta finalmente emergendo.
Wang Ka, membro dell’Accademia delle Scienze sociali di Pechino presso il Dipartimento di Studi religiosi, afferma che «il taoismo è sempre stato tra la gente, nella società. È sbagliato pensare ad esso come qualcosa di esterno. È una religione viva: ci sono i monaci, i templi e i fedeli, il taoismo è parte della vita del popolo cinese. Fino al 1949, per ogni lutto che avveniva nelle famiglie era invitato un monaco taoista a leggere i testi, oggi nelle campagne avviene ancora ma in città molto meno».
La differenziazione tra le campagne e le città si ripercuote sensibilmente anche sulla religione: ci sono templi ufficiali nelle città, come ad esempio il Baiyun guan, che possono essere considerati come una vetrina della rinascita del taoismo, e numerosi templi dislocati nelle aree non cittadine, i quali assurgono ad una funzione di collante sociale e religioso per le comunità.
Tracciare una linea chiara e dai contorni tersi sul taoismo, sia a livello storico che religioso, è un’impresa difficile e non renderebbe neanche giustizia ad una realtà composita e variegata.
Quello che è certo è che il taoismo risulta esente da un unico credo e da un unico leader spirituale. I testi, criptici e sintetici, derivano da un panorama culturale localizzato, dove il culto si è sempre differenziato a seconda del contesto economico e sociale e dal luogo di residenza di chi lo praticava.
Vincent Goossaert, direttore per la Ricerca per gli affari religiosi a Parigi, sottolinea: «A livello teologico, cosmologico (e quindi anche per la coltivazione del sé) e liturgico, gli elementi chiave del taoismo sono rimasti stabili. I rituali taoisti compiuti tra la gente, piuttosto che nei templi ufficiali, sono praticamente gli stessi del passato, sia per la loro funzione sociale che a livello di contenuto. Alcuni elementi istituzionali rilevanti sono venuti meno durante il ventesimo secolo, e hanno reso il taoismo ancora più decentralizzato».
Il taoismo, così come altri culti locali cinesi, durante il ventesimo secolo ha avuto un forte ripiegamento su se stesso: l’influenza occidentale e il valore dato alla scienza e alla tecnica hanno visto la distruzione di numerosi luoghi di culto durante la rivoluzione del 1911-1912, e ancora nel 1926 e nel 1928, con la guerra civile cinese, durante la quale si sono voluti sradicare le strutture sociali che avevano caratterizzavano la Cina fino a quel momento.
Con la fondazione della Repubblica popolare cinese, nel 1949, a Pechino, vennero distrutti la maggior parte di templi taoisti e buddisti. La Rivoluzione culturale, infine, ha ulteriormente sfregiato quello che già era stato parzialmente annientato.
Per il professor Wang Ka, però, il termine annientare non è adatto e  si infervora nello spiegare che «nell’arco degli ultimi trent’anni, dal periodo delle Riforme in poi, in Cina ci sono ufficialmente più di mille e ottocento templi taoisti, molti nelle zone rurali. Una statistica ha annunciato che i credenti taoisti sono più di dieci milioni, anche se registrare i credenti in Cina non è impresa facile, mentre i monaci arrivano a essere ventimila».

MONACI E LAICI 
A Baiyun guan, i monaci si differenziano a seconda delle loro funzioni.
«L’abate del tempio è colui il quale ha la responsabilità delle relazioni con l’esterno, mentre il supervisore è incaricato dell’andamento di tutto ciò che avviene all’interno tempio, c’è poi chi si occupa delle scritture e chi è assegnato all’accoglienza dei fedeli, in totale oggi siamo cinquantanove monaci», racconta sempre il monaco Liu, mentre continua a versare il tè nelle piccole tazzine sul tavolo della sua camera.
Le funzioni religiose vengono spesso espletate grazie all’aiuto degli huoju daoshi, termine generico che indica i laici avviati allo studio e alla pratica del taoismo.
«Quanti siano i huoju daoshi è difficile da determinare, non c’è stata una ricerca generale, ma nei grandi templi, per valutare quanti siano, si procede con l’individuare le famiglie di volontari che sono coinvolti nei riti, da qui si ha un’idea generale», continua il professor Wang.
A livello storico, sono sempre state figure al margine, in quanto lo Stato, anche nel passato, non ha mai voluto conferire la possibilità ai taoisti di celebrare i riti al di fuori di un luogo ufficiale, come vuole essere il tempio.
Per lungo tempo gli è stato impedito di espletare le funzioni religiose, mentre dagli anni Novanta si sta cercando un modo per regolamentare la questione, con l’attivazione di precetti e linee guida che il taoista laico dovrebbe rispettare. Nonostante le proibizioni e i precetti scritti di recente, queste figure hanno accompagnato il taoismo nelle sue funzioni sociali e liturgiche.
Alcune ricerche dell’Associazione nazionale taoista hanno individuato, nel 2000, ventimila taoisti laici a livello locale, ma è senza dubbio difficile avere un dato preciso, seppure si suppone un forte aumento nell’ultimo decennio.

IL TAOISMO E LA PRESENZA GOVERNATIVA
L’Associazione taoista cinese, fondata nel 1957, ha avuto la funzione primaria nella restaurazione dei templi distrutti. All’inizio degli anni Ottanta si è proceduto con il recupero dei luoghi di culto nelle zone urbane per poi passare alle zone rurali negli anni Novanta.
Nella regione del Jiangsu, ad esempio, nel 1993 i templi taoisti erano solo cinque, ma nel 1999 erano già quarantadue.
L’Associazione, oltretutto, si occupa dell’educazione dei monaci e della regolamentazione del riconoscimento dei luoghi di culto a livello ufficiale.
Questo implica, senza dubbio, una presenza del governo all’interno dei luoghi di culto, che d’altronde stanno beneficiando dei finanziamenti statali e degli introiti dovuti al boom turistico.
La burocrazia a cui sono sottoposti i templi, segue una logica diversa da quella che era visibile nel passato, dove i templi minori, a livello locale, erano autonomi, seppur collegati in vari modi ai templi più importanti.
La funzione dei templi ufficiali, connessi con all’Associazione taoista cinese, pone in primo piano la diffusione della cultura taoista in senso lato. Il turismo, con la vendita dei souvenir religiosi (bracciali, oggetti di giada, statuette, ecc.), si associa ad una divulgazione di «precetti morali», che ben si confanno alla politica attuale della «società armoniosa». Spesso in questi templi, come a Baiyun guan, sono presenti dei veri e propri ambulatori dove si effettuano diagnosi e cure mediche, secondo i principi della medicina cinese.
«I fedeli, che vengono al tempio per bruciare gli incensi, hanno motivazioni diverse. C’è chi crede o chi viene per il giorno della nascita dei patriarchi1, c’è invece chi ha dei problemi in famiglia, chi cerca fortuna o un lavoro… abbiamo un rapporto stretto con i fedeli. Può accadere che qualcuno abbia dei dubbi nel corso della vita o si trovi in un momento di impasse, noi proviamo ad aiutarli», conferma il monaco Liu. I servizi che i monaci di oggi offrono ai fedeli, comunque, sono simili a quelli che offrivano nel passato: accompagnare nelle tappe fondamentali della vita, ossia nascita, matrimonio e morte.
«C’è sempre stato il fascino dell’eremita e di colui che si ritira dalla società. Ma per superare queste rappresentazioni e capire il ruolo del taoismo nella vita delle comunità locali di oggi, abbiamo bisogno di osservazioni sul campo e di dettagliate fonti storiche. Questo non è stato possibile fino a tempi relativamente recenti, ma adesso gli studi sul taoismo sono incentrati  sull’importanza del taoismo a livello sociale», afferma il professor Goossaert, ricordandoci che la Cina è cambiata anche da questo punto di vista.

CITTÀ E CAMPAGNA, DIMENSIONI DIVERSE
Spesso e volentieri i rituali sono espletati solo in parte nei tempi urbani ufficiali, molti si celebrano in quelli delle piccole comunità. I fedeli vengono coinvolti in brevi sezioni che in altre circostanze, invece, possono durare giorni, come nel caso del funerale. Sebbene la liturgia sia molto simile, differente è il contesto e lo stile dei riti.
Negli abbienti templi urbani, ad esempio, si sfoggiano oamenti religiosi come vesti e strumenti musicali che invece scarseggiano nelle comunità rurali.
I principali templi urbani accolgono una tipologia di fedele. Data la funzione divulgatrice della cultura taoista e visto il costo relativamente alto dei biglietti di ingresso al tempio, il fedele taoista, spesso e volentieri si dirige in templi locali o di periferia.
Questi templi non sono, solitamente, collegati con l’Associazione taoista cinese, ma sono piuttosto gestiti da organizzazioni locali, le quali possono agire in autonomia, sebbene spesso le ristrutturazioni e il recupero dei luoghi fisici siano state finanziate anche da parte del governo, sovente come ampliamento dell’area urbana.
I templi delle piccole comunità locali, nella continua ricerca di una loro dimensione tra la cooperazione e l’autonomia, sono tuttora presenti sul territorio cinese. Così si intrecciano i diversi piani delle aree urbane e di quelle rurali. Le prime volte alla diffusione delle cultura taoista e le seconde, più integrate nella comunità locale, che celebrano i riti per i fedeli. Quello che emerge è comunque una dimensione del taoismo variegata e più immersa nella società di quanto siamo stati abituati a vedere o a leggere sui libri2.

Désirée Marianini

Note
1 – Il taoismo, a differenza delle religioni abramitiche, non ha un unico padre fondatore. Il Pantheon taoista è sorprendentemente ampio, varia nel tempo e a seconda della corrente religiosa. Tra le varie divinità ci sono anche figure rappresentative o grandi maestri, definiti patriarchi, in quanto hanno avuto una funzione importante per la scuola di riferimento. Ad esempio il quinto patriarca della scuola Quanzhen è Wang Chongyang, personaggio storico vissuto nel dodicesimo secolo dopo Cristo. .
2 – Alcuni testi consigliati: Marcel Granet, Il pensiero cinese; Kristofer Schipper, Il corpo taoista; Fabrizio Pregadio, Awakening to the reality.

BOX

Breve storia del taoismo

UNA PAROLA, MOLTI SIGNIFICATI

Il testo fondamentale, il Daodejing, risale al 300 avanti Cristo. Si distinguono due correnti principali: la corrente «zhengyi» e la corrente «quanzhen».

La parola taoismo deriva dal cinese tao, secondo il sistema Wade-Giles (utilizzato per la traslitterazione dei caratteri cinesi in alfabeto latino nel ventesimo secolo). Secondo il sistema Pinyin (traslitterazione usata dal 1958 ad oggi) deriva invece da dao. Molti testi utilizzano indifferentemente la parole taoismo (da tao) o daoismo (da dao). Il carattere cinese è, comunque, la raffigurazione di vari concetti: via, cammino, percorso, metodo, parola e dottrina. Nell’affrontare una lettura su cos’è il taoismo dovremmo abituarci ad una multi-semantica e renderci subito conto della «non linearità», caratteristica della lingua e della cultura cinese.
Fermandoci ad osservare la linea del tempo della storia taoista notiamo come abbia raggiunto lo status di religione ufficiale della Cina contemporanea, ma anche quante diverse correnti si sono evolute nel tempo.
Una semplice immagine concessaci dal sinologo ed esperto di taoismo Russell Kirkland, merita di essere riportata: «Non è un’unica tradizione che si evolve, ma piuttosto il risultato di vari concetti e insegnamenti che si dipanano nel tempo, ed eventualmente confluiscono insieme, come le correnti confluiscono in un fiume». 
Il peo del corpo taoista si rifà alla lontana epoca della dinastia Zhou, ossia un periodo di tempo che corre dall’XI alla fine del III secolo avanti Cristo.
Nel 1993, a Guodian una città del centro sud della Cina, gli archeologi trovarono una copia del testo fondamentale del taoismo, il Daodejing, risalente a trecento anni prima di Cristo (leggere box successivo).

Il taoismo contemporaneo si muove tra gli inizi del XIX secolo e oggi, in tutto questo periodo ha subito depressioni e rinascite.
Le due più grandi correnti attive nella Cina contemporanea sono la corrente zhengyi e la corrente quanzhen. La prima si fa risalire al 142 d.C., quando Zhang Daoling fondò ufficialmente la Chiesa dei Maestri Celesti.
A quel tempo risale l’attuale visione di una teologia burocratica, in cui i monaci sono concepiti come dei funzionari dell’universo. In quel periodo vengono istituzionalizzati i centri di culto da parte del governo, e i templi taoisti vengono chiamati guan, nome ancora oggi utilizzato.
Il luogo centrale per le ordinazioni istituzionali dei monaci era il monte Longhu, nella provincia cinese del Jiangxi. La caratteristica principale della corrente zhenyi è il metodo di ordinazione dei monaci, che ha seguito, fino a tempi recenti, una affiliazione familiare, per cui esclusivamente alcune famiglie possedevano i requisiti per poter consacrare i novizi come monaci.
Da molti studi risulta che i monaci zhenyi sono stati e sono tutt’oggi esperti nei riti, piuttosto che nelle pratiche individuali di coltivazione spirituale. I templi zhenyi, oggi, sono localizzati al sud della Cina e a Taiwan, molti dei monaci sono sposati e vivono da laici, con figli e famiglia.
La corrente quanzhen, emerse verso il XII secolo dopo Cristo, con Wang Zhe, ma il suo effettivo sviluppo avvenne grazie al monaco e patriarca Qiu Changchun (1148-1227) che riorganizzò l’interno ordine.
Differenziandosi dalle istituzioni familiari della corrente zhenyi, la corrente quanzhen pone l’accento della sua pratica nella visione di una coltivazione personale e spirituale, comunemente definita come alchimia interiore.  L’ordine ebbe uno sviluppo indipendente durante il corso della dinastia mongola degli Yuan, con la creazione di numerosi templi per l’ascesi individuale e le pratiche interiori.
Un aspetto fondamentale per l’ordinazione dei monaci era lo spostarsi e poi risiedere in templi diversi su tutto il territorio cinese per accumulare esperienza e pratica meditativa con diversi maestri.

Désirée Marianini

BOX2

Divinità, luoghi sacri e scritture
GUARDARE AGLI «IMMORTALI»

I monaci interpretano le scritture taoiste, che sono espressione diretta delle divinità. Queste sono il modello di riferimento per i fedeli.

Le divinità taoiste – dette anche «Immortali» – sono l’oggetto del culto taoista in quanto personificazione del dao. Sono l’essenza del Qi originario1, dal quale sono nati e al quale ritornano.
Sono modelli per le persone comuni, a cui tendere nella propria vita, sono comunque esseri straordinari, che la narrativa taoista vede volare nel cielo dotati di poteri straordinari. Il mondo in cui vivono è simile al mondo terreno in cui sussiste un ordine gerarchico e istituzionalizzato. Molte delle divinità risiedono anche sulla terra e i luoghi in cui dimorano sono sacri. L’altare delle divinità taoiste è occupato da tre immortali: i Tre Puri.
Le montagne, come luogo di residenza delle divinità taoiste, hanno una grande importanza nella religione, vengono considerate sacre e sono mete di pellegrinaggio. Durante la dinastia Han furono consacrate cinque montagne per proteggere i quattro punti cardinali ed il punto centrale e associate con il culto taoista. Così, il monte Heng nello Shanxi rappresenta la protezione per il Nord, al monte Heng (stesso nome, ma scrittura diversa) nella regione dello Hunan è affidato il Sud, mentre il monte Tai nello Shangdong protegge l’Est, infine l’Ovest è affidato al monte Hua. Nello Henan la montagna Song è il fulcro centrale di tutti i punti cardinali.
Le scritture hanno un ruolo fondamentale perché il testo scritto è espressione diretta della divinità, i monaci tramite la comprensione del testo comunicano con gli spiriti ed il testo in sé diventa un talismano.
Le scritture sacre Jing hanno un carattere salvifico in quanto sono un contratto con le divinità ma anche l’espressione di una conoscenza esoterica di una realtà sconosciuta. Gran parte della narrativa taoista oggi è scritta nel Daozang, il canone taoista, la cui ultima versione risale al 1444 dopo Cristo.

Ricordiamo allora i testi principali del taoismo.
Daodejing o classico della via e della virtù: viene attribuito allo stesso Laozi, ma gli studiosi hanno più volte dibattuto sulla sua effettiva pateità. La versione più antica risale al III sec. a.C.. È un testo  breve ed enigmatico di circa cinquemila caratteri cinesi, nel quale vi sono istruzioni e regole per la crescita personale ma anche per la vita in un contesto socio-politico. Viene analizzato il concetto di Dao e di Virtù (De). Al testo sono stati accorpati diversi commentari i quali esplorano diversi significati in base alle scuole e le correnti di riferimento.

Zhuang zi: questo testo viene associato ad un personaggio che visse nel IV sec. a.C., il maestro Zhuang e che probabilmente ne scrisse sette capitoli. Sono presenti aneddoti e storie le quali illustrano la realtà universale e l’impossibilità della sua conoscenza attraverso la parzialità dell’esperienza umana.

Huainan zi: venne compilato nel 139 a.C. da Liu An, nipote del fondatore della dinastia Han, abile prosatore che divenne in seguito re di Huainan. Il testo è una collezione di ventuno brani nei quali Liu An esplora vari elementi dello scibile umano: filosofia, scienza, politica, astronomia.

Baopu zi: la parte intea del testo, venne scritto da Ge Hong nel 320 avanti Cristo, ed esplora i significati dell’alchimia interiore e la meditazione come mezzo per arrivare alla trascendenza.

Des.Ma.

Note
1 – Il Qi originario è a livello cosmologico e ontologico il pneuma (respiro o soffio) dell’antecedente al cielo, (termine importante per la cosmologia cinese, lo stato in cui Yin e Yang non si sono ancora uniti). Il Qi originario emerge dal Dao, è immateriale e rifugio dell’essenza, ossia rifugio del seme per la nascita del cosmo intero..

Désirée Marianini




Figlio della savana

Intervista con il cardinale Polycarp Pento, arcivescovo di Sar es Salaam

Nato nel 1944 in un villaggio della diocesi di Sumbawanga, Polycarp Pengo fu ordinato prete nel 1971; laureato in teologia morale all’Alfonsiana (Roma), fu rettore del seminario maggiore di Segerea (1978-83); consacrato vescovo di Nachingwea nel 1984, fu trasferito nella diocesi di Tunduru-Masasi (1986) e poi a quella di Dar Es Salaam (1990) come coadiutore del card. Rugambwa, a cui succedette nel 1992. Fu creato cardinale nel 1998.

Il cardinale Polycarp Pengo, arcivescovo di Dar Es Salaam e presidente del Simposio delle Conferenze episcopali d’Africa e Madagascar (Secam) è stato uno dei protagonisti della II Assemblea Speciale per l’Africa del Sinodo dei Vescovi (Roma, 4-25 ottobre 2009). Sintesi di tale Assemblea è l’esortazione apostolica postsinodale Africarne Munus, un documento che «darà alla Chiesa nuovo slancio per costruire un’Africa riconciliata nel cammino della verità, giustizia, amore e pace, e al Tanzania uno stimolo nuovo per una fede più matura» afferma il cardinale.

Cardinale Pengo, fra gli eventi significati della sua vita, certamente vi spicca il giorno in cui fu nominato arcivescovo di Dar Es Salaam. Quali furono, allora, i suoi sentimenti e quali sono oggi?
Entrai in servizio effettivo come arcivescovo di Dar Es Salaam nel 1992 e avevo una grande paura. Mi dicevo: «Polycarp, tu sei un figlio della brughiera e della savana! Che cosa farai in una grande e modea città? Come ti accoglierà la gente?».

La gente l’ha accolta bene e continua a farlo.
È vero. E di questo ringrazio il Signore.

Si dice che i tanzaniani, religiosamente, si dividano in tre gruppi uguali: il 33 per cento sono i cristiani e altrettanti sono i musulmani e i seguaci delle  religioni tradizionali. Qual è il rapporto fra cattolici, luterani, anglicani, «salvati», ecc.?
Il rapporto fra i cristiani cattolici, luterani e anglicani è buono. È molto migliorato rispetto a qualche decennio fa. Oggi, ad esempio, nell’ospedale governativo «Muhimbili» di Dar Es Salaam i cristiani condividono la stessa cappella, pur conservando le loro differenze dottrinali. Invece, con i «cristiani salvati» (walokole) abbiamo grossi problemi.  Questi vanno a caccia dei loro fedeli nelle varie chiese e imbrogliano le persone religiosamente e psicologicamente. Assai meglio è relazionarsi con i musulmani, perché conosci bene il loro pensiero. Quanto al numero, i dati citati sono superati, perché i cattolici da soli coprono il 27 per cento della popolazione e superano i musulmani.

Circa l’islam, Lawrence Mbogoni scrisse: «Durante gli anni 1985-95 gruppi di musulmani disprezzarono con asprezza i cristiani; il disprezzo culminò il 13/02/1998 allorché 2 cristiani furono uccisi e molte abitazioni distrutte»1. Eminenza, oggi qual è il rapporto fra cristiani e musulmani?
I disordini del decennio 1985-95 furono causati da diversi giovani musulmani, disoccupati, mandati a studiare l’islam fondamentalista in Egitto o in Arabia Saudita. Al loro ritorno in Tanzania, manifestarono la loro ostilità verso i cristiani saccheggiando molti negozi di carne suina a Dar Es Salaam e compirono altre distruzioni. Oggi non si registrano più atti del genere. Tuttavia l’ostilità verso i cristiani persiste. Non mancano gli insulti. La polizia sente tutto e sa tutto, ma non interviene. La mia paura è che i cattolici, che ora sopportano tutto in silenzio, un giorno perdano la pazienza. E allora saranno guai, purtroppo.

Il 2011 è stato un anno significativo per il Tanzania, perché ha celebrato 50 anni di indipendenza. Secondo il giornale «Mwananchi», lei commentò l’evento in questi termini: «Nei 50 anni passati abbiamo avuto dei successi. Ora dobbiamo darci da fare affinché, quando celebreremo il centenario della nostra indipendenza, non si dica: era meglio al tempo dei colonialisti». E aggiunse: «La nostra nazione nasconde gruppi di traditori, egoisti, capaci anche di uccidere i loro compagni pur di acquisire potenza e ricchezza»2. Eminenza, queste sono parole pesanti. Forse troppo pesanti, o mi sbaglio?
Sì, sono parole pesanti. Però ritengo che sia mio dovere denunciare con verità e chiarezza la situazione difficile del Tanzania. L’uomo della strada, di fronte a tante prevaricazioni subite, ha bisogno di una parola forte, affinché si cambi rotta. Altrimenti, potrebbero succedere grossi guai anche in Tanzania.

Da poco è uscito il documento di Benedetto XVI «Africarne Munus», che riguarda il Sinodo dei vescovi africani (Roma, 4-25 ottobre 2009). La Chiesa in Africa sta affrontando problemi cruciali che possono scoraggiare. Nel documento il papa scrive: «Scongiuro la Chiesa universale a guardare l’Africa con occhi di fede e speranza»3. Eminenza, che cosa consiglia al Tanzania?
In Tanzania noi cattolici dobbiamo rendere più matura e concreta la nostra fede cristiana. Troppi cattolici vivono ancora secondo la fede tradizionale-pagana, che non è la fede cristiana. Ad esempio: di fronte a una difficoltà (riguardante soprattutto la salute), il tanzaniano a chi si rivolge? Si rivolge al «curatore tradizionale» (che spesso è anche stregone). Questo è un segno chiaro che non si è ancora cristiani, che la fede è ancora pagana. Non abbiamo assunto la rivoluzione-liberazione di Gesù Cristo. E non dimentichiamo che  Gesù non ci ha salvati percorrendo la strada della ricchezza, del prestigio e delle comodità. Inoltre non ha ucciso nessuno, ma si è lasciato uccidere, dopo aver sofferto una morte atroce. Questo è il dono della sua salvezza. È nostra responsabilità accoglierla così com’è. Non imbrogliamoci né imbrogliamo con tante parole. Non cadiamo nella tentazione di ricambiare i torti patiti, anche di fronte ai musulmani. Costruiamo la fede su Gesù Cristo che perdonò tutti, morì in croce e, dopo tre giorni, risorse.

Anni fa lessi un articolo di un missionario, intitolato «Io sono uno straniero nella casa di mio Padre» (I am a stranger in my Father’s house). Perché il missionario, anche dopo tanti anni di lavoro, si sente ancora mzungu, cioè un «diverso», un pesce fuori dall’acqua?
Questo fatto rattrista un poco. Però non è un dato comune. Molti missionari si sentono a casa loro nella cultura del Tanzania o di altri paesi. Conosco missionari della Consolata e di altre congregazioni che rifiutano di ritornare in patria, che dicono: ora i miei fratelli sono questi e non quelli del paese in cui sono nato, che non mi conoscono nemmeno per nome.

Francesco Beardi

1    Cfr. Lawrence E. Y. Mbogoni, The Cross versus The Crescent (Religion and Politics in Tanzania from the 1880s to the 1990s), Dar Es Salaam 2004, 171-184.
2    Mwananchi, Agosti 14, 2011.
3    Africarne munus, Esortazione postsinodale di Benedetto XVI, 2011, 5.

Francesco Beardi




La chiesa rompe l’assedio

La visita del Papa

Per adattarsi ai nuovi tempi, anche Cuba sta cambiando, pur rimanendo fedele alla propria Rivoluzione. Gli Stati Uniti, che dall’isola distano soltanto cinquanta chilometri, rimangono sempre l’oppositore più intransigente. Come nel 1998, anche nel 2012 è toccato alla Chiesa cattolica rompere l’assedio.

L’Avana. Nel decennio che ho vissuto in Italia prima di atterrare nella più grande Isola delle Antille, ho imparato che per parlare di Cuba, prima bisogna scegliere quale sarà il nostro punto di osservazione.
Si può decidere di osservarla dal Nord del mondo, in questo caso dall’Italia, lontana novemila chilometri, una distanza siderale (e non solo nel senso geografico del termine), oppure si può scegliere di osservarla con i piedi piantati nel Sud del mondo, a partire da paesi simili a quest’isola. Simili per popolazione, per risorse naturali e prodotto interno lordo. Credo che guardare Cuba dal Sud sia eticamente più corretto, altrimenti si rischia inconsapevolmente di assumere in modo acritico le idee tergiversate che promuovono i mezzi di comunicazione mainstream e, dietro a questi, i nemici della Rivoluzione cubana. Cuba è un paese socialista, con undici milioni di abitanti, che ha deciso di contraddire, con la sua Rivoluzione, la più grande potenza militare ed economica al mondo, che si trova a cinquanta chilometri scrasi dalle sue coste.  Con la sua Rivoluzione contesta anche il modello di libero mercato professato e promosso dal Nord del mondo. Questo è costato all’isola caraibica un embargo economico che dura da più di mezzo secolo, oltre al terrorismo finanziato apertamente dagli Stati Uniti e dai cubani fuoriusciti e stabilitisi a Miami. Credo che pochi paesi al mondo potrebbero resistere in simili condizioni. E questo è un fatto storico.
Fatta questa considerazione, possiamo atterrare sull’isola, camminare insieme fra le sue strade e ripercorrere la storia dei contatti e dei contrasti fra la Rivoluzione cubana e la Chiesa cattolica.
CUBA SI MUOVE
Quello attuale è per Cuba un periodo di grandi cambiamenti, non certo il primo e nemmeno l’ultimo che quest’isola caraibica, situata al centro del grande Golfo del Messico, si è trovata a vivere.
Le strade cubane sono diverse da qualsiasi altra in America Latina: qui non ci sono cartelloni pubblicitari, mentre negli ultimi trent’anni la pubblicità ha letteralmente ridisegnato i paesaggi urbani degli altri paesi del continente. Questi sono stati davvero invasi da un groviglio d’insegne d’ogni forma e dimensione, accalcate disordinatamente, con vistosi colori fosforescenti di giorno e luci artificiali di notte, come tanti piccoli altari consacrati alla fede della società consumistica.
Nelle strade dell’Avana invece questo non accade: i pochi manifesti che si trovano appesi sono messaggi in difesa della rivoluzione o di denuncia dell’embargo, a cui ultimamente si sono aggiunti gli appelli per il ritorno dei cinque eroi antiterroristi, ingiustamente incarcerati negli Stati Uniti. Le strade di quest’isola, così particolari, stanno vivendo al tempo stesso (come l’intera isola) un processo di profonda trasformazione. Nell’ultimo anno i cambiamenti si sono fatti evidenti: si tratta di una crescita a dir poco esponenziale di chioschi, piccole caffetterie, ristorantini a conduzione familiare, piccoli bar istallati nei cortili delle case dei privati, in cui si offrono pizze, caffe, spremute di frutta e una lunga serie di dolci della variegata pasticceria habanera. L’Avana è in metamorfosi, i cosiddetti cuentapropistas (quanti lavorano per conto proprio e non alle dipendenze dello Stato) tra il 2011 e il 2012 si sono moltiplicati, grazie alle aperture del VI Congresso del Partito comunista dell’anno scorso. I cuentapropistas stanno reinventando il modo di fare commercio. Stanno cambiando anche il volto del mercato. Una quantità di carretti (il cui arrivo è anticipato dalle grida dei venditori) girano oggi per le strade, carichi di ananas, pomodori, tuberi di manioca, fagioli e altre verdure, fra cui la tipica malanga. Questa è una patata dolce, che insieme alla carne di maiale, costituisce uno dei fondamenti nella dieta cubana, a tal punto da diventare, come racconta il cantautore popolare del gruppo Buena Fe, un prodotto socioculturale. Questo paese e il suo popolo hanno un loro ritmo di vita peculiare, che oltre ad essere una particolarità degli isolani, è diventato ancora più indecifrabile e caratteristico dal marchio lasciato dalla combinazione di oltre mezzo secolo di rivoluzione socialista e privazioni dovute all’embargo.
In questi giorni, nei giornali più popolari, quali Juventud Rebelde (dell’Unione dei Giovani comunisti) e Granma, il giornale ufficiale del Partito comunista, si pubblicano una serie di articoli sulla storia della Chiesa cattolica e alcuni comunicati ufficiali della conferenza di vescovi cattolici di Cuba. Nelle chiacchiere disordinate che si fanno per strada fra conoscenti e passanti, l’arrivo del pontefice è diventato un tema inevitabile.
Ritorniamo un po’ in dietro dove ebbe inizio questa storia.
CHIESA E RIVOLUZIONE:
UN INIZIO DIFFICILE
La Chiesa cattolica e la Rivoluzione hanno cominciato il loro rapporto, diciamo, col piede sbagliato. Questa è l’opinione di Sergio Samuel Arce Martinez, notabile teologo presbiteriano, che nel suo libro «La missione della Chiesa in una società socialista» (La misión de la Iglesia en una sociedad Socialista), afferma: «Il trionfo della rivoluzione sorprese la Chiesa, che si trovava teologicamente impreparata, inadeguata dal punto di vista pastorale e  ideologicamente reazionaria […] La peggiore delle nostre povertà era quella pastorale, che non impegnandosi a favore del popolo, praticava un amore che non possedeva l’efficacia della giustizia e si traduceva in rassegnazione conformista. La povertà pastorale della chiesa nel 1959 trovava corrispondenza nella sua povertà teologica, incapace di analizzare evangelicamente o biblicamente la Rivoluzione, situazione che portò all’esodo dei pastori agli inizi del 1960».
Nello stesso libro, qualche pagina oltre, Arce cita un discorso di Fidel Castro al riguardo: «Il movimento rivoluzionario internazionale, lungo la sua storia, non ha mai stabilito la questione dell’esclusione dei credenti dal partito. Nel caso di Cuba obbedì alla circostanza eccezionale del conflitto che sorse fra la gerarchia cattolica e la Rivoluzione nei primi anni, giacché purtroppo, la religione cattolica era la religione dei ricchi».
Secondo la blogger cubana Yasmín Silva, membro dell’Osservatorio critico: «La Chiesa cattolica lungo il ventesimo secolo e fino al ‘59, fu una chiesa prevalentemente urbana e associata alle classi alte. Quando, negli anni ’50, a Cuba si comincia ad articolare il movimento di liberazione dalla dittatura batistiana con una serie di scioperi e grandi manifestazioni popolari, la chiesa non ebbe una risposta coerente di fronte a questo movimento, ma appoggiò, per omissione o in modo cosciente, i governi reazionari che allora erano alleati con gli Stati Uniti. La situazione peggiora ulteriormente dopo il 1959, quando la rivoluzione si dichiara socialista e la chiesa si oppone con violenza, fino a risultare coinvolta in progetti e operazioni della Cia, come l’«operazione Peter Pan» (1960-’62), con cui si fecero uscire da Cuba migliaia di bambini senza genitori, perché fossero accolti negli Stati Uniti. Quest’operazione ebbe la sua giustificazione nella menzogna che questi bambini sarebbero stati mandati nell’Unione Sovietica per essere addottrinati. Con questi avvenimenti, la chiesa perse molto di quella già esigua base sociale, che aveva nella prima metà del ventesimo secolo».
NUOVA AMERICA, NUOVA
CHIESA
Da allora molta acqua è passata sotto i ponti nelle vicende fra la Rivoluzione cubana e la Chiesa cattolica. Per cominciare si fece il Concilio Vaticano II, che aprì la Chiesa a un mondo pluralista ed ebbe le sue ripercussioni in America Latina, con la conferenza di Medellin nel 1968. Quest’apertura, in Cuba, si tradusse in una serie di cambiamenti nell’ottica della distensione, come la Carta pastoral del 1969, in cui l’episcopato marcava la propria distanza dal radicalismo controrivoluzionario annidato a Miami.
Nei decenni successivi, i movimenti di liberazione nel vicino Centroamerica ebbero una forte componente religiosa, soprattutto all’interno del Frente Sandinista de Liberación Nacional (Fsln) in Nicaragua, dove un sacerdote ed esponente della Teologia della liberazione, Eesto Cardenal, durante il periodo rivoluzionario nicaraguense (1979-1990) fu ministro della Cultura. Nel Salvador, durante gli anni Ottanta, ricordiamo l’assassinio di monseñor Aulfo Romero e di un gruppo di gesuiti dell’Università centroamericana (Uca), che si erano spesi in difesa dei settori popolari e contro la repressione militare. O pensiamo al Guatemala, all’assassinio di monseñor Juan Gerardi, insieme a quello di molti altri preti guerriglieri che diedero la loro vita, tutti impegnati nell’opzione per gli impoveriti, che in quegli anni  trovava spazio all’interno della Teologia della liberazione. Questi eventi ebbero una forte ripercussione a Cuba e nei rapporti fra Chiesa cattolica e Rivoluzione.
Nel 1991, nell’ambito del quarto Congresso del Partito comunista cubano e delle conseguenti riforme costituzionali dell’anno seguente, si affermò la distensione fra le Chiese cattolica e protestante e la Rivoluzione cubana.
ANNO 1998: FIDEL CASTRO E GIOVANNI PAOLO II
La visita di Giovanni Paolo II a Cuba nel 1998 fu un evento che in qualche modo chiuse questo periodo. Si attendeva come l’incontro fra i due giganti: Fidel Castro, leader indiscusso della Rivoluzione cubana e Giovanni Paolo II, punta di lancia dell’anticomunismo, i due superstiti del crollo del socialismo, della fine di un’epoca, quella del bipolarismo e della guerra fredda. Quest’incontro aveva gli occhi del mondo intero puntati addosso. Quattordici anni dopo, molte cose sono cambiate. Allora fu Fidel Castro quello che raccolse più vantaggi dalla distensione delle relazioni con il mondo cattolico cubano. In quest’occasione saranno Raul Castro, la Rivoluzione cubana e in definitiva il popolo cubano insieme alla chiesa cattolica, che trarranno vantaggi dal dialogo fra Chiesa e Rivoluzione.
Molti religiosi hanno lavorato in questa direzione, come il teologo e attivista brasiliano Frei Betto, che nell’aprile del 2005, alla fine del suo intervento speciale nell’Incontro intergenerazionale sulla teologia cubana, celebrato nella cattedrale episcopale della Santissima Trinità dell’Avana, affermava: «Essere Chiesa in un paese come il Brasile, come il Salvador o il Guatemala, è diverso da essere Chiesa a Cuba. Perché in questi paesi il popolo non vede ancora garantito, né strutturato politicamente, il diritto alla vita. Sebbene in Brasile si siano fatti passi avanti con Lula, i nostri problemi sono così imponenti da non poter essere risolti in quattro anni; in questo paese [Cuba, ndr], dopo più di quarant’anni, si è riusciti a garantire la vita a tutti, ovvero, qui si condivide il pane. Questo non significa che le nostre chiese debbano sacralizzare il sistema politico cubano. Piuttosto è fondamentale che le chiese si mettano al servizio del popolo cubano, perché la gente abbia la vita e la vita piena. Se la Rivoluzione va in questa direzione, la Rivoluzione va nella direzione di Gesù. La Rivoluzione aiuta a costruire nella storia il Regno di Dio».

José Carlos Bonino

José Carlos Bonino




La svolta di Macky

Macky Sall, quarto presidente del Senegal

Il Senegal conferma la sua tradizione democratica. Il duello finale tra il presidente al potere da 12 anni e il suo giovane allievo si è svolto nella calma. Nonostante i morti di febbraio e i vizi di incostituzionalità. La temuta deriva per il potere è stata arginata.
E ora il neopresidente deve rimboccarsi le maniche.

È la sera del 25 marzo, tiepida e tranquilla come quella di tante domeniche in questa stagione a Dakar. Il presidente del Senegal Abdoulaye Wade telefona a uno dei suoi «allievi», Macky Sall: «Le cose stanno definendosi, la vittoria è tua. Ti faccio i miei complimenti». Macky risponde con malcelata soddisfazione ma con rispetto: «Vi ringrazio!».
I senegalesi hanno votato tutto il giorno nella calma, per eleggere il loro nuovo presidente della Repubblica. I concorrenti al ballottaggio: «il vecchio» Wade e «l’allievo» Macky. Chiuse le ue alle 18, le proiezioni davano già il secondo con oltre il 60% di preferenze (risultato che si attesterà a 65,80%). I timori di un’involuzione «modello Costa d’Avorio» con il presidente uscente sconfitto che non vuole mollare, sono subito smentiti dalla telefonata. Il Senegal è a una svolta storica.

Un uomo ostinato
Abdoulaye Wade, «le vieux» (il vecchio) come viene soprannominato nel suo paese, ha 85 anni, ma ha deciso di attaccarsi al potere, nonostante tutto e tutti.
Eletto la prima volta alle consultazioni del 19 marzo 2000, questo oppositore storico divenne così il terzo presidente della Repubblica del Senegal. Dopo Léopold Sédar Senghor, il padre della patria e Abdou Diouf, entrambi del Partito Socialista, ognuno dei due al potere per 20 anni di fila dal giorno dell’indipendenza, il 4 aprile 1960. Diouf è sconfitto al secondo tuo da Wade. Nel 1974 Wade aveva fondato il Parti démocratique senegalais (Pds) di cui diventa il primo presidente.
Nel 2000 dunque si grida al «cambiamento» e si spera in una nuova era per il Senegal. Ma così non è. Ci si renderà presto conto che il sistema di corruzione e clientelismo perdura e si diffonde.
Il referendum costituzionale del 2001 dota il paese di una nuova Costituzione (la quarta dal 1960). La modifica fondamentale è quella dell’articolo 27: la durata del mandato presidenziale è ridotta da 7 a 5 anni (più consona alle democrazie modee) e il numero di mandati è limitato a due. Una clausola importante sancisce che queste due regole saranno modificabili solo tramite referendum popolare. La nuova Costituzione sopprime inoltre il Senato: il parlamento diventa unicamerale.
Finito il primo mandato nel 2007 (Wade era stato eletto quando vigeva l’altra Costituzione, con settennato), il presidente viene rieletto per altri cinque anni. È il secondo mandato e lui ha 80 anni. In questa occasione il presidente dichiara: «Non potrò più presentarmi in futuro perché ho bloccato la Costituzione su questo punto».
Ma nel 2008 ci ripensa. Il governo (il Senegal è una repubblica presidenziale, per cui il presidente della Repubblica è il capo dell’esecutivo) fa votare cinque leggi costituzionali, tra le quali quella che modifica l’articolo 27, riportando il mandato presidenziale a 7 anni. Il modo con cui l’emendamento viene fatto è però anticostituzionale, in quanto non è stato utilizzato il referendum.
dopo wade, wade?
Negli ultimi anni Abdoulaye Wade manda avanti suo figlio Karim, facendogli assumere sempre maggiori incarichi di potere. Lo nomina presidente dell’Agenzia nazionale dell’Organizzazione della Conferenza Islamica (Anoci). Il giovane deve seguire gli imponenti cantieri per l’incontro internazionale previsto nel 2008 proprio a Dakar. Ma l’Assemblea Nazionale (il parlamento) lo convoca per cattiva e opaca gestione dei fondi.
Il presidente dell’assemblea è Macky Sall, già primo ministro di Wade e suo possibile successore nel partito. Le vieux non lo perdonerà.
Karim Wade si candida a Dakar nelle amministrative del marzo 2009, ma il verdetto delle ue è implacabile. Sarà consigliere d’opposizione. Neanche due mesi dopo il padre Abdoulaye lo nomina ministro con la responsabilità di quattro dicasteri (Cooperazione internazionale, Territorio, Trasporti aerei e Infrastrutture). Nel 2010 colleziona anche l’importante ministero dell’Energia. Ma i senegalesi mal sopportano questa concentrazione di potere nelle mani di famiglia.
Nel giugno 2011 Wade propone di modificare lo scrutinio presidenziale: si eleggerebbe un «ticket presidenziale», ovvero presidente e vice-presidente, con appena il 25% dei suffragi. La popolazione vi vede il disegno di una successione ereditaria.
I principali partiti politici si rivoltano e così la società civile: le manifestazioni in capitale, di fronte all’Assemblea Nazionale, assumono contorni violenti. Wade è costretto a ritirare il progetto di legge.

Qualcosa si muove
Pochi giorni dopo nasce il Movimento 23 giugno (M23), fondato da alcuni partiti d’opposizione e da diversi gruppi della società civile. Movimento variegato e tutt’altro che unito, M23 ha come obiettivo dichiarato la partenza del presidente: «Wade vattene!». Le altre richieste sono: l’instaurazione di un sistema neutrale per l’organizzazione delle elezioni; che Karim Wade lasci il governo e i media di stato siano più neutrali.
Ci racconta un cornoperante italiano che da anni lavora in Senegal: «M23 è nato come movimento di piazza durante le manifestazioni di giugno 2011 e, in seguito, è stato colonizzato sempre più dai partiti, che l’hanno sicuramente usato per la campagna elettorale. Tra questi Benno Siggil Senegal. Resta comunque un movimento interessante per l’esperienza di coabitazione mista tra diversi soggetti della società civile e partiti». E continua: «Il gruppo più attivo all’interno dell’M23, e anche quello più radicale è “Y en a marre” (ne ho abbastanza, in gergo giovanile, ndr), nato da rapper e appoggiato da moltissimi giovani nelle principali città. Si posiziona come movimento slegato dai partiti – lo ha confermato in campagna elettorale – ed è riuscito a mobilitare giovani che fino a oggi non partecipavano alla vita politica, utilizzando un linguaggio vicino ai ragazzi: rap, slogan efficaci, immagini da puri e duri», conclude.
«Wade fu eletto dal popolo, ma ora ha deluso questo popolo, lo ha tradito. Adesso i senegalesi vogliono un cambiamento». Chi parla è Babacar Sarr, presidente del Fesfop (Festival internazionale del folklore e delle percussioni) di Louga, importante città nel Nord del paese.
«Con il movimento M23 la gente ha detto “No”. Basta andare contro la Costituzione. Si sono trovati partiti politici e leader della società civile. È un nuovo movimento che accompagnerà tutti i cambiamenti nel paese».
«Il popolo senegalese ha bisogno di azioni concrete, anche sulle istituzioni. Occorre separare il potere legislativo, esecutivo e giudiziario. E poi una buona governance. Un legislativo che rappresenti il popolo, un potere giudiziario che giudichi in nome del popolo, un potere esecutivo che governi per gli interessi del popolo».
Ma le violenze in Senegal non finiscono. Wade è candidato al suo terzo mandato, il Consiglio costituzionale lo ammette il 27 gennaio scorso. Non è accolta invece la candidatura del celebre cantante Youssou Ndur. A Dakar si scatena la guerriglia urbana. I morti sono almeno sei, ma alcune fonti parlano di 15, 150 i feriti, numerosi gli arresti. Per Babacar Sarr, 65 anni, con una vita di impegno politico alle spalle, il paese sta vivendo un momento storico: «Il popolo non deve sempre essere tradito e truffato. La nostra è stata un’indipendenza senza guerra, negoziata. Non abbiamo mai avuto morti. Quelli causati dal regime Wade sono stati i primi. La cittadinanza è sempre più vigilante, esigente, partecipativa». Il Consiglio costituzionale è composto di 5 «saggi», ma l’opposizione sostiene siano stati influenzati dal potere: «La candidatura è anticostituzionale, ma questo dimostra la scarsa indipendenza del potere giudiziario. Perché il Consiglio è stato “costretto” da Wade», sostiene Babacar Sarr.
«La modifica della Costituzione è avvenuta durante il suo primo mandato, il Consiglio sostiene che quello non entra nel conteggio. I suoi oppositori politici, avendo partecipato alle elezioni, è come se lo avessero accettato», spiega invece Mouhamadou Sarr, cornordinatore dei senegalesi del Piemonte, che vive tra Torino e Dakar.

Primo tuo
Il 26 febbraio scorso il presidente uscente affronta il primo tuo contro altri 12 pretendenti, molti dei quali suoi ex alleati, o «allievi» come Idrissa Seck, Macky Sall, Moustapha Niasse. Wade è convinto di vincere al primo tuo ben oltre il 50%. Ma la sua campagna non convince, e soprattutto i suoi ultimi anni di «regno» hanno visto una deriva autoritaria. Così gli elettori lo puniscono.
Il verdetto delle ue gli concede solo il 34,82% con un secondo posto a Macky Sall, 26,57%. Wade ha perso un milione di voti rispetto al 2000 e ne ha totalizzati solo 220.000 in più di Macky. È uno schiaffo per le sue ambizioni. L’astensione è alta: 48% del corpo elettorale.

Il giovane allievo
Macky Sall, 50 anni, è stato tra i più brillanti allievi di le vieux. Dopo gli studi in ingegneria in Senegal e Francia entra in politica aderendo al partito di Wade alla fine degli anni ‘80. Si rivela presto brillante e un valido collaboratore. Nominato ministro dell’Energia e Miniere nel 2001, poi dell’Inteo (2003), diventa in seguito fedele primo ministro di Wade (2004 – 2007) per poi passare alla presidenza dell’Assemblea Nazionale (il parlamento unicamerale). È qui che si consuma la rottura con il «maitre» (maestro), quando, nel novembre 2007 ne convoca il figlio Karim per spiegazioni sulla gestione dei fondi.
Le vieux lo costringe alle dimissioni. Macky fonda il suo partito d’opposizione, l’Alleanza per la Repubblica (Apr – Yakaar).
«Sono stato sorpreso in Senegal, visitando i villaggi in questi ultimi anni, nel vedere che Macky stava lavorando e preparando bene il terreno», racconta Mouhamadou Sarr.
«Io ho sempre speranza in coloro che vogliono cambiare le cose, anche se la situazione culturale e la mentalità politica senegalese tende a resistere al cambiamento», continua il cornordinatore dei senegalesi del Piemonte.
E per quanto riguarda Wade? «Io sono neutrale, ma penso che anche se fosse il migliore presidente del mondo, arrivato alla sua età si dovrebbe preoccupare delle sue preghiere con Dio e dei suoi affari personali, piuttosto che correre ancora dietro al potere».
E continua: «Penso che l’elezione di Macky porterà a un cambiamento in Senegal. Io provengo dalla periferia di Dakar e sono consapevole delle difficoltà che hanno le persone in città, ma anche in provincia. La vita è dura, la gente non riesce più ad andare avanti. Sicuramente abbiamo grosse potenzialità ma le opportunità non vengono date alla popolazione.
Adesso speriamo che questo gruppo di potere sia composto da gente onesta e competente, ma soprattutto con il coraggio di imporre una rottura con alcune pratiche e credenze. Finché i governi sono succubi o influenzabili dai capi religiosi e marabut, perché questi garantiscono loro dei voti, nulla potrà cambiare».
Al secondo tuo, Macky Sall riesce a mettere insieme tutti i candidati perdenti e ricevere il loro appoggio. Wade, invece, cerca voti religiosi, e si reca dal marabut Serigne Béthio Thioune, della potente confrateita dei Muridi, di fondamentale importanza nella complessa società senegalese. Ma questo non gli porterà molto.
«Io sono mouride, ma non ascolto il marabut per andare a votare, separo la politica dalla religione» dichiara Babacar Sarr. E continua: «Il senegalese medio che è andato a votare è una persona nel bisogno e vede tanti sprechi: soldi che vengono regalati a piacimento, spese fatte secondo priorità diverse da quelle della popolazione. Gente frustrata, stanca, disperata: questo fa dire vogliamo che Wade se ne vada».
È chiaro che Macky dovrà «pagare» politicamente l’appoggio degli altri candidati, in particolare Moustapha Niasse (arrivato terzo al primo tuo con 13,20%) e Ousmane Tanor Dieng (quarto con 11,45%). Importante è stato anche l’appoggio del cantante Youssou Ndour, di fama internazionale.
Ma ora soprattutto gli elettori lo aspettano alla prova del governo. «Macky ha accettato e ha firmato la “Carta di buona gouveance democratica” prodotta dalle Assise Nazionali. È questa la differenza. Inoltre c’è un salto generazionale, che è importante. Le raccomandazioni delle Assise saranno prese in conto dal governo di Macky. Il popolo sarà vigilante ed esigente su questo» insiste Babacar.
Le Assise Nazionali sono state organizzate a giugno 2008 e per circa un anno hanno realizzato un enorme lavoro partecipativo in tutto il paese e con la diaspora, per definire la «Carta di buona governance» che deve «guidare la ricostruzione nazionale e il rinforzo della repubblica». Le raccomandazioni delle Assise prendono in conto tutti i settori (agricoltura, ambiente, territorio, diritti, ecc.) e propongono una «visione», valori e un modello di governance per il Senegal.
Il tutto è poi rimasto nel cassetto senza mai venire utilizzato restando solo un ottimo esercizio di democrazia partecipativa.

Le priorità
Diverse emergenze attendono ora Macky e i suoi.
La crisi alimentare del Sahel di quest’anno toccherà almeno 800 mila senegalesi nell’interno del paese. Poi l’aumento del costo della vita, il prezzo dei carburanti, le inondazioni e i black out che fanno soffrire la popolazione di Dakar.
Un lavoro importante sarà anche il risanamento delle finanze dello stato.
Cosa chiede la diaspora
Anche in Italia la diaspora senegalese vuole un cambiamento. Macky ha vinto nella quasi totalità dei seggi per i senegalesi sul nostro territorio.
«Perché abbiamo qualche speranza che con Macky, siano affrontate alcune problematiche a noi care. Si tratta delle convenzioni sulle pensioni, gli accordi bilaterali sui flussi migratori, l’import di macchine usate, tutte cose sulle quali il governo Wade non ha fatto nulla», ricorda Mouhamadou. «La diaspora è molto stanca di non essere considerata. Vorremmo che si definisse una politica migratoria in Senegal. Speriamo che con Macky ci sia un cambiamento». Mouhamadou Sarr è molto attivo nelle associazioni dei migranti senegalesi in Italia.
Oggi la diaspora senegalese nel nostro paese è ben organizzata: esiste una federazione del Nord Italia e si sta lavorando per una federazione del centro e una del Sud. Il tutto per arrivare a una confederazione italiana. «Abbiamo raggiunto un livello di maturità importante – ricorda Mouhamadou – con un potere di pressione e un ruolo di plaidoyer, presso i governi del Senegal e dell’Italia. Analizziamo le politiche di cooperazione e i rapporti bilaterali e vogliamo presentare un documento di proposte al nuovo presidente. Poi vogliamo essere attenti affinché alcune cose vengano realizzate e le promesse elettorali mantenute».

Marco Bello

Marco Bello




Conoscersi attraverso il cibo

Mangiare in una coppia mista

Le coppie miste sono un laboratorio interculturale, dove le differenze si incontrano, si scontrano e si trasformano. Ruoli di genere, divisione del lavoro, uso del denaro, educazione dei figli, religione, ma anche lingua ed abitudini alimentari. Queste ultime, in apparenza poco rilevanti, possono divenire un proficuo elemento di incontro e condivisione.

Una particolarità dei cosiddetti matrimoni misti (o unioni miste) è la loro natura interculturale che li rende un vero laboratorio di scambio, sperimentazione e soprattutto negoziazione, nelle più varie pratiche della vita quotidiana. Pratiche che spaziano dagli orari di vita (per mangiare, dormire, etc.), ai gusti e alle abitudini culturali, alle credenze e pratiche religiose. Naturalmente queste attività d’interazione non riguardano in via esclusiva le coppie miste. In tutti i rapporti tra due o più persone (ma in modo particolare all’interno di una coppia) si scambiano e si negoziano opinioni, gusti, abitudini, principi e decisioni. Tuttavia, le differenze che si «giocano» all’interno delle coppie miste sono di solito più evidenti (anche se non necessariamente più contrastanti). Questa condizione di particolarità si deve proprio al fatto di coinvolgere due persone nate, cresciute e quindi socializzate in due culture diverse, che hanno deciso di vivere assieme e di costruire un progetto di famiglia condiviso. Questa scelta comporta un’attività di negoziazione quotidiana.

UN ELENCO DI DIFFERENZE
Alcuni ricercatori hanno identificato almeno due categorie di differenze culturali che abitualmente vengono prese in considerazione all’interno delle unioni miste: le differenze (quasi) innocue e le differenze (più) rilevanti, essendo queste ultime quelle che con maggiore probabilità possono diventare un motivo di separazione per la coppia. Nelle prime è possibile far rientrare la lingua e le abitudini alimentari, mentre tra le seconde compaiono la religione, i ruoli di genere e la divisione del lavoro, l’uso del denaro e l’educazione dei figli. Ciò non significa che le prime siano irrilevanti ma che, per le coppie oggetto delle ricerche, tali differenze non hanno rappresentato un motivo di rottura. A questa prima categoria appartiene un elemento che, proprio per la sua quotidianità, è spesso passato inosservato, pur rivestendo una grande importanza in virtù della sua necessarietà per la vita di qualsiasi individuo, indipendentemente della cultura in cui sia nato e cresciuto: il cibo.
Secondo lo scrittore, linguista e semiologo, Roland Barthes «il cibo è in ogni posto e in ogni epoca un atto sociale». Mangiare non è solamente un atto fisiologico e materiale dell’uomo, ma anche un’espressione permeata di significati culturali, sociali e simbolici, che, in più, possono variare da una cultura all’altra. In questo modo, proprio perché il cibo è presente lungo tutto il percorso di vita dell’essere umano, perché le specifiche abitudini alimentari sono le prime a conformarsi e perché, attraverso il cibo e lo sviluppo della cultura gastronomica, si può esprimere la propria identità culturale, nei processi migratori si sono studiati i cambiamenti alimentari e anche psicologici (proprio derivati dei cambiamenti nella dieta alimentare) che di solito sperimenta una persona/gruppo quando emigra in un contesto (gastronomico, ma non solo) diverso.

DAL MESSICO AL SENEGAL
Un interessante studio di Wallendorf & Reilly (1983) del dipartimento di marketing dell’Università dell’Arizona, partendo dall’analisi dei rifiuti alimentari di un campione di famiglie di origine ispano-americana (in maggioranza messicane) nel sud degli Stati Uniti, è riuscito ad identificare una forma specifica di consumo culinario unico ed originale. Tale forma non si sarebbe sviluppata, infatti, da un processo di assimilazione oppure da una semplice mescolanza tra gastronomia statunitense e messicana, ma avrebbe avuto origine direttamente da queste due distinte tradizioni (quella di origine e quella del paese di destinazione) che però hanno dato vita ad una terza «cultura culinaria» specifica, capace di soddisfare sia le necessità fisiologiche che quelle culturali del gruppo migratorio. Inoltre lo sviluppo di questa «terza opzione» alimentare è diventato anche il pretesto per promuovere momenti in cui persone, che si riconoscono (in quanto parte di un gruppo) legate da un’esperienza migratoria condivisa, si ritrovano a mangiare insieme.
Un altro studio, condotto da Gasparetti del Dipartimento di Studi orientali ed africani dell’Università di Londra, si è invece concentrato sui processi di acculturazione alimentare di un gruppo di migranti senegalesi in Italia, rilevando che le pratiche alimentari di questo gruppo africano, possono essere identificate con un processo di emarginazione. I senegalesi, infatti, preferiscono in via esclusiva i piatti tipici della cultura senegalese, che abitualmente consumano ritrovandosi, e quindi socializzando, solo tra di loro (o al limite con altre culture africane affini). Al contempo non hanno mostrato grande interesse per conoscere e provare la cucina del paese di destinazione, in questo caso dell’Italia.
I due esempi citati vogliono fornire un’immagine un po’ più dettagliata del ruolo e della rilevanza del cibo all’interno di un processo migratorio che, come si è visto, implica un incontro culturale anche in termini culinari. Entrando più nel dettaglio, chiediamoci ora cosa accade quando queste differenze in termini di cultura gastronomica, disponibilità di ingredienti, necessità, preferenza e gusto si ritrovano all’interno di una coppia.

I BENEFICI DELLA «CONTAMINAZIONE»
Dagli studi fatti precedentemente, tra cui uno dei più completi è quello di Peruzzi in Toscana (2008), le differenze alimentari non hanno mai rappresentato un grosso problema tra i conviventi misti. Gran parte dei soggetti che decidono di sposarsi con un partner di un’altra cultura hanno, in genere, già avuto contatto con la cultura gastronomica del coniuge anche prima di conoscerlo.
Le persone che sviluppano, sia per tradizione sia per propensione personale, una cultura di apertura e curiosità verso differenti tipi di gusti e sapori, sono quelle che solitamente sperimentano, assaggiando i piatti di altre culture gastronomiche (soprattutto quelle che possono apparire più esotiche), permettendo la «contaminazione» delle proprie abitudini alimentari con nuovi ingredienti, aromi, sapori, etc. Per queste persone non rappresenta un problema negoziare i consumi alimentari all’interno della coppia mista, e anzi i partner trovano che l’atto di cucinare e il loro gusto per il «ben e diverso mangiare» sia un punto d’incontro, scambio, conoscenza e addirittura di comunicazione interpersonale.
Un fattore importante intorno al cibo è anche il processo di divisione del lavoro che si configura attorno alla sua preparazione e al resto delle attività casalinghe. Quest’ultime di solito vengono fatte dal partner che trascorre più tempo in casa e che, per ragioni strutturali del mercato del lavoro italiano, continuano ad essere maggiormente le donne. Nonostante questo svantaggio generico, si osserva che, all’interno delle coppie miste, tanti uomini hanno sviluppato un gusto per l’arte di cucinare che permette loro di riscoprire un luogo d’azione e di apprezzamento gastronomico condiviso.
Il ruolo del cibo, non solo all’interno delle coppie miste, ma anche come elemento d’acculturazione dei gruppi migranti, ha pure avuto una importante conseguenza economica. Lo si nota nella crescita di diversi piccoli e medi negozi che si occupano della produzione, importazione e commercializzazione, dei cosiddetti «cibi etnici». Questi, nel caso dell’Italia, si trovano maggiormente nei centri urbani con un’alta densità di popolazione immigrata come Roma, Milano o Torino. Nel 2008, in conseguenza della sua rilevanza economica e sociale, la Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura di Torino ha realizzato un’inchiesta sulle iniziative economiche degli immigrati nella filiera alimentare. È emerso che, nel capoluogo piemontese, la maggior parte delle imprese del comparto del cibo sono gestite da titolari provenienti da tre principali paesi: Marocco (30.3%), Cina (22.3%) e Egitto (17.8%). In ogni caso, nel complesso, nel settore della vendita di cibo etnico è possibile trovare rappresentate tutte le aree geografiche continentali. Questa variegata disponibilità di scelta permette alle coppie miste (e soprattutto al partner straniero) di riprodurre, almeno parzialmente, la propria cultura attraverso il cibo, sviluppando la creatività attraverso la mescolanza d’ingredienti e la creazione di nuove ricette. Condividendo la cultura gastronomica non solo con il partner, ma anche con familiari e amici (quelli più disponibili ad assaggiare), si promuoverà un rapporto di conoscenza culturale che va oltre gli aromi e i sapori.

Claudia Zilli Ramirez

Claudia Zilli Ramirez




I dilemmi della famiglia biculturale

L’ora delle scelte

Come si comportano le famiglie miste con i propri figli? Anche in questo caso le possibilità possono essere le più diverse, a seconda che la coppia scelga di valorizzare entrambe le culture, di optare per quella italiana oppure di vivere nell’incertezza. Probabilmente, soltanto quando la cultura sarà vista come elemento dinamico e in evoluzione, potrà nascere una società «diversamente italiana».

Diverse ricerche condotte dagli anni ’90 ad oggi hanno mostrato che esistono tre differenti modalità di gestione delle differenze e delle appartenenze nelle relazioni della famiglia con i figli e con la società. Secondo Graziella Favaro, pedagogista che da anni si occupa di inserimento e successo scolastico di minori stranieri e figli di coppie miste, la famiglia mista può sentirsi: un gruppo cosmopolita; assimilata alla maggioranza; un nucleo instabile e in continua tensione a causa delle differenze esistenti tra le due culture di riferimento familiare.

la FAMIGLIA COSMOPOLITA
Nella prima tipologia familiare i coniugi vivono la propria appartenenza biculturale come un’occasione di arricchimento per sé, per gli altri e tanto più per i figli. In queste unioni le scelte importanti per la vita del figlio vengono rimandate in quell’età in cui il figlio potrà decidere da solo. Questo avviene, ad esempio, in molte coppie in cui la sfera religiosa non è ritenuta fondamentale (i cosiddetti «tiepidi») per cui vengono considerate altre le cose prioritarie da insegnare al proprio figlio. L’atteggiamento dei genitori è orientato alla valorizzazione di entrambe le culture in modo da far conoscere indistintamente tradizioni, valori, usi, al fine di mantenere vive le radici familiari e il sentimento di appartenenza di ogni individuo. Sotteso a questo approccio c’è spesso una conoscenza e un amore per l’altra cultura talvolta anche precedente l’incontro col partner e l’idea che non si sia così distanti, ma sia solo questione di «smussare un po’ gli angoli». Il figlio di queste coppie è quindi portato a vivere una situazione di doppia appartenenza non conflittuale, non considerando minoritaria né l’una né l’altra cultura.

la FAMIGLIA ASSIMILATA
Le famiglie miste che tendono invece all’assimilazione optano per l’accantonamento della cultura e delle origini del coniuge straniero in quanto considerate di intralcio o comunque non funzionali all’inserimento del nucleo familiare, e nello specifico del bambino, nella società in cui esse vivono. L’«invisibilità di un pezzo di storia familiare» sembra essere il prezzo da pagare per proteggere il figlio dalle possibili aggressioni di un ambiente e di un paese che appare discriminante e xenofobo.
È la voce diretta degli interessati che spesso conferma questo aspetto: «Se nel tuo compagno la diversità può essere proprio quell’elemento che attira, che incuriosisce, che stimola l’interesse… quando hai un figlio le cose cambiano perché vorresti solo che tuo figlio fosse il più possibile uguale a te…».

la FAMIGLIA INSTABILE
Le coppie appartenenti al terzo gruppo sono invece coloro che ancora non hanno trovato un’armonia intea e una collocazione nel più ampio ambiente sociale poiché non sono ancora arrivate ad elaborare le differenze alla pari, considerando di eguale valore ed importanza entrambe le culture di riferimento. Queste famiglie vivono in una situazione di continuo conflitto rispetto ad ogni scelta educativa ed identitaria: di conseguenza, le relazioni intee sono stressanti e conflittuali sia per i coniugi sia per i figli i quali vivono la loro appartenenza a due culture in modo problematico e, spesso, scelte orientate ad una piuttosto che all’altra cultura sono vissute come un tradimento nei confronti di uno dei due genitori. Le situazioni di disagio spesso possono evidenziare anche l’esistenza di una disparità nel potere decisionale dei due adulti che li induce a lottare per far prevalere una sola cultura e per trasmettere le tradizioni di un solo paese, il proprio.

LE SCELTE EDUCATIVE
Se nella coppia la differenza, la diversità dell’altro può essere occasione di arricchimento, nella relazione con il bambino far prevalere cultura, abitudini, valori di un genitore, può far emergere sentimenti di perdita e rinuncia. Ecco, dunque, che nelle coppie miste le scelte educative per i figli sono il banco di prova di una negoziazione (o della mancanza della stessa) all’interno della coppia e tra la coppia e l’esterno (famiglie di origine, società di accoglienza). Per tutto questo, per le famiglie miste, l’educazione dei figli è uno degli ambiti più difficili da gestire ed il passaggio famiglia – scuola diventa estremamente delicato.
L’ingresso nella scuola matea, in particolare, segna per i bambini anche il primo confronto con il gruppo, e dunque il confronto con la diversità: il gruppo è il luogo in cui è possibile elaborare la dialettica appartenenza – individuazione, entrambe necessarie allo sviluppo psichico e alla crescita sociale. Il bambino, infatti, nel confronto con gli altri scopre la sua diversità (e le sue somiglianze), mentre gli adulti si trovano a rapportarsi con un’istituzione che ha regole che spesso richiedono un’esplicita dichiarazione della propria scelta sul figlio: l’alimentazione, la lingua, la religione.
Seguendo Favaro, si possono distinguere tre tipologie di scelte dei genitori che ricalcano i gruppi precedentemente individuati: i cosmopoliti; gli assimilati; gli instabili.
I primi sono quei genitori che cercano, attraverso spazi e decisioni quotidiane, di costruire, per i loro figli, legami e appartenenze plurali, senza che vi siano fratture e distanze. Del secondo gruppo fanno parte i genitori che tendono a fare scomparire ogni traccia di memoria e di appartenenza alla cultura altra (quella straniera). Infine, ci sono coloro che oscillano tra scelte ambivalenti e conflittuali che ricadono con effetti talvolta estremamente negativi sul bambino.

«NON SONO MICA UN’EXTRACOMUNITARIA!»
Dal punto di vista dell’istituzione scolastica, invece, è importante da un lato evitare il rischio di non considerare la doppia origine di questi bambini (dato che non sempre la diversità di origini è accompagnata e annunciata da un’evidenza percepibile a prima vista). Dall’altra, occorre non cadere nell’errore di definire «diverso» chi poi nella realtà non lo è, di valorizzare un’appartenenza culturale non sentita o sentita in modo personale (e spesso più complesso) dall’interessato e che è opinabile sia compito della scuola conservare e tramandare.
In una scuola di Milano, ad esempio, quando una ragazzina, figlia di un’egiziana e di un italiano, si è sentita proporre di seguire un corso di arabo a scuola, ha replicato un po’ stizzita: «Non sono mica un’extracomunitaria!». Diventa sempre più importante, inoltre, dato l’aumento delle seconde generazioni, figli di stranieri nati sul territorio italiano, evitare il rischio di reificazione delle culture e di imposizione al bambino «di origine straniera», ma nato e cresciuto in Italia, di una cultura che spesso sente sua tanto quanto, se non meno, quella italiana. Da questo punto di vista è emblematica la storia che l’antropologo Marco Aime racconta a conclusione del suo libro Eccessi di culture1 (la storia a sua volta gli è stata raccontata da don Piero Gallo, parroco di San Salvario, quartiere di Torino caratterizzato da una forte presenza di immigrati): «In una scuola matea del quartiere, frequentata da molti bambini maghrebini, le maestre hanno deciso di preparare il couscous. Hanno cercato la ricetta “originale” per cucinarlo secondo la tradizione. I bambini erano contenti. Poi una maestra ha chiesto ad un piccolo di origini marocchine: “Ti piace?” “Sì”. “È come quello che fa tua mamma?” e la risposta del bambino è stata: “Quello di mia mamma è più buono perché mette uno strato di couscous e uno di tortellini, uno di couscous…”».
È pertanto fondamentale ricordarsi che la cultura non è qualcosa di statico, ma è un processo creato e ricreato dall’incontro tra individui ed è perciò in continua trasformazione ed evoluzione. Le coppie miste e le istituzioni educative sono chiamate a sperimentare congiuntamente pratiche creative nuove e a beneficiare dei successi degli uni e degli altri, sfidando preconcetti e definizioni per la costruzione di una nuova società «diversamente italiana».

Viviana Premazzi

Viviana Premazzi