Cari missionari

CRISTO DE LOS DESTERRADOS
Carissimi, saluti a tutti. Ed ora sentite questa:
proprio come nella storia di Pinocchio: «…come andò che Vicente, pas­ seggiando lungo la spiag­ gia di Ladrilleros [Costa delPacifico] trovò un pez­ zo di legno che piangeva e rideva chiedendo aiuto…» lnciam pai in un pezzo di legno, una radice di man­ grovia, annerita  e abbru­ stolita da un incendio pro­ vocato da qualche abitan­ te d ella foresta per
ripulire con ilfuoco un pezzetto di terra che a lui e alla sua gente serviva per seminare la manioca e ilriso per poter conti­ nuare a vivere e lavorare. Non so come sia andata,
ma ilfatto è che un bel giorno quelpezzo di legno brucia cchiato, trascinato
dalla corrente di un fiume finì nelm are e sballottato dalriflusso della marea finì sulla spiaggia che mi ospitava abbandonato in mezzo a uno dei tanti gro­ vigli di porcherie che ab­ bruttiscono le splendide spiagge delPacifico. Appena lo scoprii, non po­ tei evitare un salto di ioia e un «oh!» di pietà. Cio
che appariva  ai miei oc­ chi era la perfetta figura di un uomo stilizzato, cui
furono strappati i piedi e le mani: un Cristo senza piedi e senza mani con i monconi delle braccia che imploravano pietà. Era come fossel’icona di questa gente, scacciata violentemente dalle sue
terre, vagante senza meta e senza prospettive. Immediatamente ilmio pensiero volò ad Arie,l un artigiano  sognatore che
in Ladrilleros si guadagna la vita lavorando conchi-
glie e cose tipiche per venderle ai turisti ed ave­ re un pezzo di pane per non morire di fame. Nelle sue mani ilpezzo di legno si trasformò in un Croci­ fisso senza mani e senza piedi che animò la via crucis della Settimana Santa 2011.
Ora aspetta in un angolo
della capanna che per a­ desso funge da cappella e potrà essere, un giorno,
la pietra angolare di un futuro santuario in onore del Cristo «de los Dester- rados», patrono di Ladril- leros e di tutta la gente che con fede lo invocherà in cerca di protezione e benedizione. Sognate an- che voi e se sono rose fio- riranno. Saluti,

Vicente (P. Vincenzo Pellegrino) Ladrilleros, Cauca, Colombia 24 /10/2011

Dopo aver cercato Ladril-leros sulle mappe, ho scritto a P. Vicente, «dove
è questo tuo Ladrilleros, che dici essere in riva al mare e invece da Google map risulta sulle monta- gne della cordigliera? E poi, la tua residenza non
è in Cali che col mare non ha proprio niente a che fare?». Ecco la sua pron- ta risposta.
Ladrilleros è una frazione di Buonaventura, distante un’ora di motoscafo dalla città. Il luogo è un paradi- so terrestre con un cielo
«così bello quando è bel- lo» (Manzoni) che ti inna- mora a prima vista. È un po’ meno allettante quan- do piove, e questo capita
in media una volta nelle
24 ore. Siamo nel cuore della selva umida tropica- le.
Cosa faccio a Ladrilleros? Ci sono capitato là tre an- ni fa come turista e spero lasciare le mie ossa nella
bella cavea che il mare ha scavato lungo il litora- le. Risiedo a Cali, però in Ladrilleros, La Barra e Guanchaco – i tre paesetti disseminati a poca di- stanza l’uno dall’altro – è sorta una fondazione sen- za scopo di lucro che si propone di far qualcosa per la gioventù offrendo loro alternative per mi- gliorare la situazione sta- gnante in cui si trovano.
Il mio peccato fu lanciare l’ idea ad alcuni amici quando venni in Italia. La cosa interessò, stanno aiutando e speriamo con
il nuovo anno di iniziare in serio un’attività agro-sil- vo-pastorale con l’idea di riformare il mondo. Intanto il Cristo de los de- sterrados che mi è appar- so mi dice che lì vuol im- piantarsi. Io desidero dir- gli di sì, però intanto mi trovo nei pasticci, come il profeta Geremia; questa è la storia. Tu ricamaci su… e si vedrà. Caminante, no hay camino, se hace ca- mino al andar (Viandante, non c’è il cammino, si
crea camminando). È ov- vio che vivo in Cali, però quando si affaccia il ri- schio di ammuffire, il ri- chiamo della selva mi fa scattare e Ladrilleros mi aiuta a ringiovanire. A presto.
Vicente
Ladrilleros, 26/11/2011

VI ANNIVERSARIO DELLA MORTE DI DON ANDREA SANTORO Pubblichiamo ora queste riflessioni di Don Andrea Santoro in preparazione al VI anniversario del suo martirio. Non è stato possibile pubblicarle l’anno scorso, in occasio- ne del V anniversario, perché erano arrivate quando la rivista era già
in stampa. Le proponiamo perché il valore di queste parole, firmate con il sangue, non svani- sce col tempo.

Don Andrea Santoro, sa- cerdote fidei donum della diocesi di Roma è stato ucciso (con due colpi di pistola) il 5 febbraio 2006 mentre pregava nella chiesa di S. Maria a Trab- zon (Turchia).
In questo momento stori- co di dibattito e di crisi sulla identità religiosa, sul dialogo e convivenza tra popoli, richiamiamo brevemente alcuni pen- sieri che don Andrea, nei suoi anni di vita sacerdo- tale a Roma e in Turchia, ha ripetuto spesso ai suoi parrocchiani e ha scritto nei suoi diari e nelle sue lettere per aiutarci a su-
perare certe logiche di di- sgregazione della propria identità e di divisione tra realtà diverse.
Don Andrea aveva parti- colarmente a cuore il rapporto tra l’Oriente e l’Occidente, la relazione fra le tre religioni che hanno avuto origine nel Medio Oriente: l’ebrai- smo, il cristianesimo e l’islamismo.
Don Andrea diceva:
… l’identità cristiana
non è una identità territo- riale e neppure semplice- mente culturale. È un’i- dentità evangelica: è il sale di Cristo in noi, è la nostra trasformazione in Lui…è la visibilità di Cri- sto attraverso noi, è lo scrivere il vangelo nel nostro essere, sentire e vi- vere;
… dialogo e convivenza
non è quando si è d’ac- cordo con le idee e le scelte altrui ma quando gli si lascia posto accanto alle proprie e quando ci si scambia come dono il proprio patrimonio spiri- tuale, quando a ognuno è
dato di poterlo esprimere, testimoniare e immettere nella vita pubblica oltre che privata;
… non bastano inter-
venti di natura politica, di- plomatica o militare, e neanche un generico di- battito culturale… Occor- re una mobilitazione più profonda delle coscienze, ponendosi domande che toccano il cuore della no- stra fede e del nostro rap- porto con Dio, le pratiche abituali del nostro modo
di pensare e di vivere, le relazioni tra persone, po- poli e fedi diverse… Ci so- no mutamenti profondi che Dio chiama tutti noi a compiere;
… imporre o soffocare
non è degno né di Dio né dell’uomo. Spesso l’occi- dente ignora questo dirit- to in cambio di interessi economici o vantaggi po- litici. Si tratta di una pro- blematica scottante. Ma la realtà è che spesso il potere, sotto qualunque forma si presenti, politica o religiosa, serve solo se stesso o il bene di alcuni a danno di altri. La paura di dare all’altro ciò che si reclama per sé… arma le mani e il cuore…
(pochi giorni prima di
essere ucciso aveva scrit- to) … due errori credo sia- no da evitare: pensare che non sia possibile la convi- venza tra uomini di reli- gione diversa oppure cre- dere che sia possibile solo sottovalutando o accanto- nando i reali problemi, la- sciando da parte i punti su cui lo stridore è maggiore, riguardino essi la vita pubblica o privata, le li- bertà individuali o quelle comunitarie, la coscienza singola o l’assetto giuridi- co degli stati. Crediamo che questi pensieri possa- no essere elaborati da tutte le persone di “buona volontà”, che siano cre- denti e non credenti, che
si richiamino alla sola ra- gione o anche alla Rivela- zione, perché ognuno possa aprirsi ad un dialo- go vero (e non ad un mero dibattito), che porti ad una convivenza pacifica nel ri- conoscimento e rispetto reciproco.
Associazione
Don Andrea Santoro

Bibliografia:
Lettere dalla Turchia, Città Nuova, 2006 – Diario di Terra Santa, San Paolo, 2010 – DVD, La fede è partenza, Città Nuo- va 2007 – DVD, Don Andrea Santoro sacerdote e parroco
a Roma, Associazione don
Andrea Santoro 2010.

RICORDANDO P. ALEX MORESCHI
È morto venerdì 9 settem- bre a Malonno (Brescia), all’età di 66 anni, di cui 43 di professione religiosa e
38 di sacerdozio, padre A- lessandro Moreschi, Mis- sionario della Consolata, per anni membro e ani- matore della comunità operante a S. Valentino (Castellarano). Il funerale si è tenuto a Malonno do- menica 11 settembre. Padre Alex, dopo anni di missione in Kenya, era rientrato in Italia per oc- cuparsi dell’animazione missionaria. È così che lo abbiamo conosciuto in Diocesi e in particolare al Centro Missionario, sem- pre estremamente dispo- nibile e collaborativo, sia per l’attività ordinaria co- me per i servizi straordi- nari, quali l’accompagna- mento di giovani nei viaggi missionari in Madagascar e in Rwanda (e anche Tan- zania e Kenya).
Lo ricordiamo con affetto, riconoscenza ed ammira- zione per la generosità, per la franchezza, per la libertà interiore e la pa-
zienza, di cui ha dato prova straordinaria in questi ul- timi due anni, alle prese con la malattia inesorabile che lo ha consumato…
Il Centro Missionario Diocesano di Reggio Emilia

P. Alex Moreschi è stato ospite delle pagine di questa rivista più di unavolta (l’ultima su MC 7-8/2008, pag. 70), sia quando era in missione in Kenya che quando impe- gnato nell’animazione missionaria qui in Italia. Appassionato lettore e critico della rivista, pochi giorni prima del suo ri- too alla casa del Padre ci aveva scritto una lunga lettera. Ve ne offriamo
dei passaggi.

Complimenti,
la rivista ha migliorato tantissimo ultimamente.
I dossier sono interessan- ti, specie l’ultimo sul capi- tolo e il carisma dei mis- sionari della Consolata. Devo dirvi che una coppia che era anche impegnata missionariamente mi ha chiesto di disdire l’abbo- namento. Le motivazioni sono due: è troppo impe- gnativa negli articoli, per- ché troppo approfondita e densa. Il secondo motivo perché è di parte e setta- ria su qualche argomen- to, cioè non scopre il ro- vescio della medaglia su certe questioni (OGM, Madre terra, palestinesi, politica sud americana, etc.).
Si vuole scrivere troppo, senza tenere presente a chi va la rivista e chi la legge (in genere gente che ha da fare e non ha tempo di approfondire e anche anziani).
Ho in mente dei mensili che scrivono di argomenti molto impegnativi e sono più snelli, essenziali, scritti chiari con caratteri più grossi. La nostra rivi- sta sembra che voglia esaurire lo scibile in pagine difficili da affrontare. Recentemente si rispon- deva a dei seminaristi
che non volevano più ricevere la rivista perché ne ricevevano troppe. Nella risposta si argomentava che la nostra rivista è a difesa dei poveri, degli impoveriti del Sud del mondo, che combatte le ingiustizie sociali ed eco- nomiche del pianeta. Sa- crosanta verità, ma se l’accesso a questo stru- mento è difficile come
farà la rivista a raggiungere il suo scopo?
I complimenti sono molti e la rivista ha acquistato un aspetto più missiona- rio, almeno un po’ di più. Certe rubriche sono un po’ tendenziose e non og- gettive […].
Avendo molto tempo a di- sposizione ho letto molto
«Missioni Consolata» spinto anche da qualche padre che neppure la a- pre e anche da altre per- sone che hanno la stessa idea di parzialità.
Una coppia di giovani ai quali ho mandato la rivi- sta la ritiene molto buona però dovrebbe essere più snella e accessibile a vari ceti di persone.
Tanti auguri!

Alex Moreschi
23/8/2011




Pensare alternativo

Ai lettori

Due nonni sprint hanno scritto questo messaggio  natalizio  e di fine anno ai propri nipoti.
«Quest’anno vogliamo farvi un regalo in più: un po’ di fame, anzi tanta fame.
Fame di conoscere e di sapere;
fame di guardare al di là del corto orizzonte  delmondo che vi circonda;
fame d elevarvi sopra le idee ristrette che predominano nelvostro am bie nte;
fame d superare il”fanno tutti così”, il”tanto non c’è niente da fare” e il”non t occa a me” ;
fame d mettervi in gioco ogni giorno fino alla fine dei vostri  giorni;
fame d sottrarvi alla logica dell’arrivismo, dei soldi,  dell’individualismo;
fame d far prevalere ildiritto degli altri, soprattutto dei deboli e degli ultimi, sulvostro diritto;
fame d mettere davanti a tutto  ilBene Comune e non ilvostro personale;
fame d lasciarvi  escludere perché non volete conformarvi alle idee degli altri, del gruppo;
fame d ideali grandi, che vi diano la libertà e la felicità del cuore;
fame d Dio e della sua Parola, che nutra la vostra libertà, sete di giustizia  e bellezza. Elevatevil Diventate autonomi, anticonformisti, liberil Siate voi stessi l Sempre.
Oggi facciamo memoria della nascita di Dio: Dio si fa carne, diventa uno di noi, uomo come noi.
Vi liberi  dalle catene della pigrizia,  degli stereotipi e dei pregiudizi, della acriticità.
Vi doni la Sapienza, cioè l’Intelligenza, la capacità di partire dalpassato per leggere ilpresente e progettare ilvostro futuro.
Vi accompagni in scelte e in azioni sempre  positive. Questo è l’augurio che vi fanno i vostri  nonni».

Questo messaggio è stato scritto dai due nonni  dopo aver rimuginato con un po’ di amici sul primo  dei cosiddetti «dieci comandamenti» delBeato Giuseppe Alla mano: «Elevatevi ald i sopra delle idee ristrette delvostro ambiente».
Ne è venuta fuori un’interessante attualizzazione.
Mentre  scrivo, all’inizio di dicembre, ilnostro paese sta vivendo le ore traumatiche del decreto
«Salva Italia» in un misto di rassegnazione e rabbia e puntate secessioniste. Nelmondo… Avevo scritto qui una lunga lista di situazioni difficili che marcano  ilnostro tempo:  troppe e fin troppo facili  da elencare. L.:ho cancellata. Credo che tutti siamo  ben coscienti  delmomento diffici­ le per ilnostro paese e per l’umanità, anche senza altre parole superflue.
Non abbiamo bisogno di compilare liste, ma di reagire a questa situazione per non farci appiattire dalla mancanza di speranza,  dall’apparente ineluttabilità degli eventi e dalbla-bla dei politici. C’è bisogno dawero di «elevarsi aldi sopra delle idee ristrette delnostro ambien  e»
nuare a vivere e sognare e diventare soggetti  non vittime della nostra storia.  E vero, ci vogliono misure tecniche,  politche ed economiche per uscire dalla crisi in cui ci troviamo, ma queste da sole non bastano. Occorre cogliere questo tempo per fare delle riforme dentro noi stessi, nelno­ stro modo di pensare, relazionarci e agire. La crisi richiede ed offre la possibilità di un profondo rinnovamento della persona e delsuo  modo di vivere. C’è bisogno di un uomo nuovo più solidale, più sobrio, più responsabile, capace di fare ilcammino della vita a piedi e non comodamente se­ duto in macchina  brontolando nella mega-coda della vita.
Questa crisi  può essere l’occasione per riscoprire le dimensioni più vere della nostra umanità, per vedere con occh i e cuore nuovo ilnostro vicino, per inventare nuove forme d i solidarietà e costrui­ re ponti invece che trincee,  per approfondire la valenza rigeneratrice del dono della fede che sca­ tena la nostra carità e alimenta la speranza,  per liberarci dall’invasione delle cose che occupano ogni angolo di casa nostra ed anche i nostri pensieri. Pensare alternativo, pensare fraterno, pen­ sare «divino»: si può, cogliamo l’occasione.
Buon 2012.

Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




Suore, venti anni dopo

Mediamente

Mariapia Bonanate, Paoline Editoriale Libri, 2010 – Euro 18,00
A volte occorre andar oltre il titolo di un libro, oltre il pregiudizio spesso infondato di ciò che potremmo trovare tra le sue pagine. Così fu per me la conoscenza con Suore, il libro di Mariapia Bonanate, continuazione del lavoro omonimo scritto 20 anni prima. Il libro rimase inizialmente a decantare qualche tempo sul comodino, in una fase di assoluta sospensione tra il desiderio di leggerlo e la poca volontà. Poi, finalmente, una sera in cui la casa era stranamente silenziosa, iniziai a sfogliarlo e passai velocemente dal semplice sfogliare alla lettura. I personaggi vividi, quasi tangibili sulla carta, la capacità della scrittrice di trasmettere, attraverso le donne incontrate, un contagio positivo, mi conquistarono. In ogni pagina di Suore, nella testimonianza attiva di queste donne eccezionali (alcune delle quali laiche), si avverte il palpitare della spiritualità nella vita quotidiana. In punta di piedi, quasi a ritmo di danza, la voce al femminile di Mariapia si fa strada e racconta un mondo taciuto, dove donne coraggiose si «lasciano abitare dall’altro» e, con intelligenza, umanità e fantasia, ridisegnano la storia.
Quello di Suore è un macrocosmo femminile che non fa notizia, ma che testimonia, con un’incredibile forza spirituale, come la speranza passi attraverso l’amore senza condizioni e possa essere l’antidoto all’attuale vuoto delle nostre esistenze.

Donne e suore in prima linea
Sono passati venti anni da quando Mariapia ha incontrato le sue amiche suore. Donne che sono rimaste a combattere in prima linea, senza giudizio e con amore.
Donne che diventano fonte di sopravvivenza per chi vive il dramma della prostituzione, della tossicodipendenza, delle guerre e della miseria. Nove capitoli arricchiscono il libro con i nuovi incontri. Dall’inchiostro prendono vita tante umanissime figure che vivono il Vangelo in prima persona. Niente a che fare con la mistica o con la catechesi, l’universo femminile di Mariapia è reale. Dalla scelta del «silenzio» a quella dell’azione sociale con un filo rosso comune: la costanza e il raccoglimento per riscoprire Dio. Da suor Teresa, alla studentessa di Praga, a suor Rossana e alla Carmelitana scalza (Cristiana Dobner) per citare esempi di vita contemplativa. Esistenze dove l’amore per il mondo si concretizza nel raccoglimento, mai fine a sé stesso ma sempre attento a ciò che accade al di fuori, informato sui passi di un mondo in continua trasformazione. Sul versante dell’attivismo tante figure indimenticabili. Ridare dignità e speranza alle «creature del bisogno» è l’obiettivo di tutte le amiche di Mariapia che, chi in un modo e chi nell’altro, fuggono dalle certezze per camminare fianco a fianco con gli ultimi dell’universo. Ecco allora emergere dal racconto, solo per citare alcune di queste grandi donne, Suor Eugenia, una sorella delle missionarie della Consolata che, dopo un lungo periodo in Kenya, decide, una volta tornata in Italia, di  dedicarsi alle africane emigrate e costrette a vendersi sui marciapiedi di Torino. Nel difficile territorio campano, invece, Suor Rita apre Casa Rut e dona il suo aiuto alle tante ragazze madri, scampate alla tratta; Carla Osella fonda una scuola e poi un sindacato per gli zingari (l’Aizo); Maddalena di Spello mette a disposizione il suo focolare domestico a tutte le ore del giorno e della notte per offrire un pò di calore e di conforto a chi brancola nel buio; come lei, suor Teresa Martino – ex attrice di successo – guida Casa Betania, ritrovo di malati di mente, barboni e diseredati. Una geografia umana che non ha bisogno di tante parole, che antepone l’azione alla predica, che ascolta e non giudica, che sa farsi sentire attraverso il gesto amoroso. (gm)

Una domenica con Mariapia Bonanate

Suono alla porta di Mariapia Bonanate in una domenica dal cielo terso e dai colori accesi. Torino è silenziosa, piacevole, soiona. Mariapia mi accoglie con la calda informalità di chi ha il cuore aperto. La sua casa è piena di luce e, seppur nella tranquillità festiva, si avverte un pulsare di vita e di calore umano. Suore è oggetto di discussione ma non solo. La nostra conoscenza passa attraverso sottili emozioni e riflessioni. Come nella scrittura, anche nel racconto orale, Mariapia riesce a trasmetterti un pezzo di cielo, la speranza oltre la speranza. Lo fa semplicemente, con umiltà, e si presta non solo al suo racconto personale ma anche all’ascolto, alla condivisione. Nel suo volto elegante e intelligente, i segni di una ricerca profonda, di una vita vissuta pienamente, di tanta bellezza e anche molta sofferenza. Il fascino e il carisma possono dissolversi, la coraggiosa umanità no. Così è Mariapia Bonanate, così sono le donne del suo libro.

Nell’introduzione tu parli del linguaggio dell’anima che non invecchia mai. Cosa significa?
«La perdita di valori della nostra epoca si rispecchia proprio nel vuoto di parole ed è solo l’anima – parte più autentica di noi –  a dar spessore alle parole. Nelle donne che ho incontrato, l’anima si manifesta attraverso il loro corpo, il loro “esserci” sempre e senza condizioni. La loro totale presenza in tutte le situazioni è il loro linguaggio. La loro viva testimonianza non è fatta di parole, farcite di mistica o di devozione, ma del loro operato, del loro coraggio quotidiano, dei loro gesti amorevoli e di quell’accoglienza gratuita e silenziosa che sanno donare, lasciandosi “abitare” dagli altri».

Venti anni fa e oggi. Come sono cambiate le «tue» suore e cosa ti hanno regalato?
«La maggior parte di loro le ho ritrovate con lo stesso entusiasmo di venti anni fa. L’atteggiamento che non è cambiato è proprio quella forma di condivisione che fa intravedere un futuro migliore. Ritengo ancora più necessario, rispetto agli anni passati, che le porte dei monasteri si aprano, che le finestre si spalanchino verso il mondo, in un positivo contagio con la gente. Le mie amiche suore mi hanno donato il senso della gratuità, la fiducia nell’invisibile e la capacità di reinventarmi la vita anche nelle situazioni più complesse».

Cosa intendi con «la festa dell’anima»?
«La loro dedizione e il loro abbandono totale verso gli altri portano una nota di gioia. Tutte le donne di cui parlo nel mio libro  hanno la capacità di creare, attorno a loro, un’atmosfera di felicità e di armonia che rende accettabile anche il contesto più drammatico. È il mistero della sofferenza che, se accettato e non rifiutato, apre la via della speranza. Il ponte per superare l’odio e la paura è l’amore: esigenza primordiale di tutte le persone e segno distintivo di tutta questa galleria di donne e suore che riescono a ridare fiducia anche alle esistenze più tormentate».

Gabriella Mancini

Gabriella Mancini




Nel bicchiere di James Bond

Viaggio nel mondo dell’alcol (terza e ultima puntata)

L’alcol è tossico per le cellule. È un agente tumorale. Produce assuefazione e dipendenza. Ha un effetto disinibente, ma porta alla depressione. Non è un alimento, ma fa ingrassare. Non è afrodisiaco, ma al contrario danneggia la sessualità. Non fornisce energia ai muscoli,
né calore. Vale la pena bere alcol?

L’alcol è una droga e come tale è classificato dall’Oms. In quanto droga, nel tempo l’alcol induce assuefazione (quindi bisogna aumentare la dose consumata per ottenere lo stesso effetto) e dipendenza. Secondo l’Oms, in Europa si ha il più elevato consumo di alcol al mondo (il doppio per abitante, rispetto alla media mondiale). Nel continente, l’alcol rappresenta il terzo fattore di rischio per i decessi e per le invalidità ed è il principale fattore di rischio per la salute dei giovani. Sempre in Europa, l’incidenza delle malattie riconducibili al consumo di alcolici è doppia rispetto alla media mondiale.
Dal punto di vista chimico, l’alcol è etanolo (alcol etilico) e presenta una molecola piuttosto piccola (CH3-CH2-OH), molto solubile (sia in acqua che nei lipidi) e capace di penetrare facilmente nei tessuti, entrando rapidamente nel flusso ematico e raggiungendo con esso tutti i distretti corporei. L’etanolo è una sostanza non essenziale per il nostro organismo, anzi estranea al nostro metabolismo (è uno xenobiotico). Esso è tossico per le cellule ed inoltre è un potente agente tumorale. Le bevande alcoliche non possono essere considerate un alimento, perché, oltre all’alcol etilico e all’acqua, contengono vitamine, sali minerali, proteine e zuccheri solo in tracce. L’alcol provoca un danno diretto alle cellule di molti organi, tra cui il fegato ed il sistema nervoso centrale. Pur presentando un elevato potere calorico (7 Kcal/g, inferiore solo ai grassi), l’alcol etilico non può essere utilizzato dall’organismo per fornire energia ai muscoli, ma solo per il metabolismo basale, al posto degli altri principi nutritivi come gli zuccheri ed i grassi (che sono pertanto sottoutilizzati), per cui può essere considerato una delle cause del sovrappeso. Dopo essere stato assunto, l’alcol viene presto assorbito, senza bisogno di digestione, in parte nello stomaco (20%) ed in parte nel duodeno, cioè nel primo tratto dell’intestino tenue (80%), dopodiché passa direttamente in circolo. La velocità di assimilazione è variabile e dipende da vari fattori, tra cui lo stato di replezione (pienezza) dello stomaco: essa aumenta infatti a stomaco vuoto ed inoltre se, contemporaneamente, si assumono bevande gassate, se gli alcolici sono ad alta gradazione ed in caso di gastrite. L’assimilazione è invece più lenta se lo stomaco è pieno e se i cibi ingeriti sono ad alto contenuto di grassi. Una volta assimilato, l’alcol raggiunge tutti i distretti corporei in tempi diversi: in 10-15 minuti raggiunge il fegato, il cervello, il cuore ed i reni; dopo circa un’ora arriva ai muscoli ed al tessuto adiposo, dove tende a concentrarsi.

Il FEGATO E LE SUE «FATICHE» 
In quanto sostanza tossica, l’alcol etilico deve essere metabolizzato dal fegato, per ridue la nocività. Il metabolismo consiste nell’ossidazione completa dell’alcol, che viene trasformato in acetaldeide, grazie all’enzima epatico alcol-deidrogenasi (Adh), per una quota tra il 90%-98%, mentre il resto viene eliminato attraverso l’urina, le feci, il latte materno, il sudore e l’aria espirata. Il fegato è capace di metabolizzare l’alcol in quantità di 7 g/ora, quindi l’alcol in eccesso può continuare a circolare liberamente, andando a danneggiare tutte le cellule, i tessuti e gli organi con cui viene a contatto. L’acetaldeide derivante dall’ossidazione dell’alcol si unisce alla dopamina, formando tetraidrosochinoline, che sono degli oppiacei. Inoltre l’alcol può essere metabolizzato anche da altri enzimi epatici, responsabili del metabolismo di alcuni farmaci. I diversi meccanismi di metabolizzazione dell’alcol entrano in azione in tempi diversi, a seconda della quantità di alcol ingerito, quindi il fegato si abitua a smaltie quantità sempre maggiori (aumento della tolleranza). Tutto ciò non è però privo di conseguenze: in primo luogo il fegato è sottoposto all’azione tossica di sempre maggiori quantità di alcol, che finiranno con il danneggiare le sue cellule, gli epatociti, fino a causare steatosi epatica, epatopatie acute e croniche o cirrosi epatica. Inoltre, può venire accelerato anche il metabolismo di alcuni farmaci (tra cui gli ormoni e le vitamine), di cui è perciò necessario aumentare le dosi, per ottenere lo stesso effetto. I bevitori possono sviluppare delle patologie anche gravi, causate dalla carenza di tali farmaci metabolizzati troppo velocemente (ad esempio, polineuropatie, malnutrizione, problemi sessuali). Come abbiamo visto, dall’ossidazione epatica dell’alcol si formano delle sostanze oppiacee, che al pari dell’eroina, della morfina e del metadone agiscono sul sistema dopaminergico e sul sistema oppioide endogeno, provocando un forte stimolo motivazionale al consumo, per ottenere gratificazione. L’azione di queste sostanze si esplica particolarmente sull’asse ipotalamico-ipofisario, inducendo un’alterata produzione di melatonina, l’ormone del sonno, ed inoltre di ormone adrenocorticotropo (Acth) e di β-endorfine, interferendo quindi su tutti i settori neuroendocrini. Questo spiega la ridotta capacità di fare fronte agli stress, da parte dei forti bevitori, al pari dei consumatori di oppiacei. Inoltre l’alcol, come i barbiturici, fa parte dei depressori non selettivi del sistema nervoso centrale. Si tratta di sostanze capaci di indurre (a dosi crescenti) delle alterazioni comportamentali progressive, che vanno da un effetto ansiolitico e disinibente, ad uno sedativo-ipnotico, fino al coma ed alla morte per depressione dei centri cerebrali regolatori della respirazione e della funzione cardiocircolatoria. Poiché, inoltre, l’alcol stimola la liberazione di dopamina, l’astinenza da esso porta ad una drastica riduzione di tale sostanza, che è associata al piacere ed all’euforia, per cui il soggetto va facilmente incontro ad anedonia (incapacità a provare piacere) ed a disforia (alterazione dell’umore), caratteristiche dell’astinenza da altre sostanze come la morfina, la cocaina, le anfetamine e la nicotina. Si instaura perciò una vera e propria dipendenza fisica, che può portare ad una crisi d’astinenza, con agitazione ed irritabilità. Nei casi di grave intossicazione alcolica, l’improvvisa interruzione dell’uso dell’alcol (come può verificarsi, per esempio, in concomitanza con un ricovero ospedaliero per qualsiasi motivo) può portare a sintomi molto gravi come agitazione, febbre, disidratazione, allucinazioni visive ed uditive, crisi convulsive finanche alla morte nei casi estremi, se la persona non viene trattata con un’adeguata terapia. Questo quadro prende il nome di delirium tremens ed è dovuto al fatto che l’alcol inibisce la normale produzione, da parte dei neuroni, di acido gamma-amino-butirrico o Gaba (sostituendosi ad esso), un potente antagonista dell’adrenalina, che è un neurotrasmettitore ad azione fortemente eccitante. Nel momento in cui si interrompe bruscamente l’assunzione di alcol e mancando contemporaneamente la sintesi del Gaba da parte dei neuroni messi, per così dire, a riposo dall’alcol, l’adrenalina in circolo, non più controllata da alcun antagonista, può svolgere liberamente la sua funzione eccitante, provocando la sintomatologia del delirium tremens. Oltre alla dipendenza fisica, si può instaurare anche una dipendenza psicologica (craving), cioè l’intenso ed irrefrenabile desiderio di assumere bevande alcoliche, per potere provare gli effetti piacevoli, che ne derivano, oppure per allontanare quelli spiacevoli, conseguenti all’astinenza. L’alcolismo provoca alterazioni metaboliche (iperuricemia, ipertrigliceridemia, ipofosfatemia) e l’inibizione del sistema immunitario. Quindi, tra le altre cose, il forte bevitore è una persona che può ammalarsi più facilmente, perché le sue difese risultano indebolite.

TANTE CREDENZE DA SFATARE
Bisogna, tra l’altro sfatare alcune credenze, perché l’eliminazione dell’alcol non è favorita né da una doccia fredda, né dall’attività fisica e nemmeno dall’assunzione di caffè, come molti pensano. Ciò vuole dire che chi svolge attività faticose non elimina più velocemente l’alcol, rispetto ad una persona sedentaria. Ma questi non sono i soli luoghi comuni. Ad esempio, comunemente di pensa che l’alcol favorisca la digestione, ma in realtà la rallenta e causa un alterato svuotamento dello stomaco. Spesso, poi, si sente dire, da chi ama bere, che il vino fa buon sangue, ma il consumo di alcol può essere responsabile dell’insorgenza di varie forme di anemia, come ad esempio quella sideroblastica, caratterizzata da un’alterata produzione dei globuli rossi, come conseguenza della carenza di vitamina B12 o di folati dovuta alla scarsa alimentazione, che spesso è presente nell’alcolista. Inoltre l’alcol diminuisce l’aggregazione piastrinica, quindi fluidifica il sangue ed aumenta il rischio di emorragie e, come già visto sopra, determina un aumento dei grassi nel sangue. Probabilmente, chi pensa che l’alcol faccia buon sangue è indotto in errore dal fatto che le persone dedite al consumo di alcolici spesso presentano il volto rubicondo, per via della vasodilatazione periferica provocata dall’alcol.
Erroneamente qualcuno pensa che l’alcol aiuti a combattere il freddo, ma, come abbiamo già visto esso causa solo vasodilatazione periferica, che dà una temporanea sensazione di calore e che, però, nel contempo porta ad una dispersione del calore interno con raffreddamento del corpo e rischio di assideramento, quando ci si trovi esposti a freddo intenso.
Un altro errore, in cui molti cadono è quello di considerare l’alcol una specie di afrodisiaco capace di favorire le relazioni sessuali. Addirittura, in certe culture, si associa la capacità di reggere bene l’alcol, cioè la tolleranza, ad un’immagine di virilità. Molto spesso anche le pubblicità di alcolici (ed il cinema) trasmettono un’idea di questo tipo: basta pensare a quante volte abbiamo visto immagini di donne affascinate da uomini, che stanno sorseggiando un superalcolico. La realtà, però, è ben diversa. L’alcol, infatti, ha un effetto soprattutto inibitorio sul sistema nervoso ed inoltre il consumo di grandi quantitativi di alcolici compromette severamente tutto il circuito della sessualità, con danni talora permanenti sia nell’uomo che nella donna. Gli uomini, che consumano alcolici in dosi elevate possono infatti andare incontro ad impotenza, sterilità e perdita dei caratteri sessuali secondari maschili (riduzione della peluria e della massa muscolare), rischiando nel contempo di acquisire un carattere di tipo femminile, cioè la ginecomastia, ovvero un abnorme aumento delle mammelle. Le donne invece possono andare incontro a sterilità ed a problemi mestruali. Inoltre non bisogna dimenticare che l’effetto disinibente dell’alcol può portare a trascurare, durante un rapporto sessuale, quelle norme precauzionali, che proteggono dal rischio di contrarre malattie sessualmente trasmissibili. Peraltro, sotto l’effetto dell’alcol si ha una diminuzione della percezione del rischio in generale, nonché delle sensazioni di dolore e quindi si tende ad assumere comportamenti, che possono essere dannosi per sé stessi e per gli altri. Inoltre non dimentichiamo che l’effetto disinibente dell’alcol lascia ben presto il posto, dopo un’iniziale euforia, ad uno stato depressivo.
C’è poi chi è convinto che l’alcol possa aiutare in caso di shock, ma anche questo è un errore perché, come già detto, l’alcol provoca la dilatazione dei capillari, determinando un minore afflusso di sangue agli organi interni, tra cui il cervello.
Qualcuno pensa che l’alcol dia forza, ma invece esso attenua solo il senso di affaticamento e di dolore, senza quasi alcun apporto energetico per i muscoli.
Contrariamente a quello che qualcuno pensa, l’alcol non toglie la sete, ma invece tende a disidratare, poiché blocca l’ormone antidiuretico, quindi fa aumentare la diuresi e la sensazione di sete.
Che dire poi del fatto che qualcuno pensa che bere birra aiuti le neo-mamme a fare più latte? Come già detto, bevendo alcolici in gravidanza e durante l’allattamento, l’alcol passa direttamente al bambino, che non ha la possibilità di metabolizzarlo, subendone tutti gli effetti dannosi. Per produrre latte in quantità sufficiente al fabbisogno del bambino basta bere acqua ed avere un’alimentazione nutriente.

Rosanna Novara Topino


Rosanna Novara Topino




Missione una e trina

Mepanhira, Mecanhelas, Entre Lagos: panoramica a volo di uccello

Ero stato nel Niassa un mese dopo l’accordo di pace tra Frelimo e Renamo, firmato a Roma  il 4 ottobre 1992. Avevo trovato missioni in macerie e gente poverissima, affamata, con vestiti a brandelli… Sono ritornato il giugno scorso: dopo 20 anni, ho trovato comunità rifiorite, come quelle che fanno capo a Mecanhelas, una triplice parrocchia fino a pochi anni fa, ora ridotta a due, ma ricca di iniziative e di speranze.

In viaggio da Gurué a Mecanhelas, accompagnato da mons. Lerma, ci fermiamo nella missione di Mepanhira: una sosta molto breve ma sufficiente per confrontare i cumoli di macerie trovati 20 anni fa con la risurrezione delle numerose opere, per rivivere soprattutto le emozioni provate quando sentii raccontare le sue origini (cfr Missioni Consolata, aprile 1993, pag. 48-51).

Un pezzo di storia… che se ne va
Il primo a portare il vangelo in quella zona era stato un certo Namuro Chipenenga, nato nell’estremo sud del Niassa nel 1888 e morto a Mecanhelas nel 1990, alla bell’età di 102 anni.
Avventuriero, analfabeta e prepotente, cercò fortuna prima in Sudafrica, poi nel Nyassaland (oggi Malawi), dove imparò a leggere e scrivere. Un giorno entrò per curiosare in una chiesa cattolica e rimase folgorato dalle parole del missionario monfortano: si iscrisse al catecumenato e a 35 anni si fece battezzare col nome di Giovanni Battista.
Nel 1933 Giovanni Battista toò al suo villaggio natio e cominciò a insegnare la via del vangelo. L’anno seguente toò in Malawi con 250 catecumeni per farli battezzare nella missione dei monfortani. Estese la sua evangelizzazione ad altri villaggi e ogni anno portava centinaia di catecumeni nel Nyassaland per essere battezzati e confermati nella vita cristiana, finché i padri monfortani, consigliarono a Chipenenga di rivolgersi ai missionari della Consolata, da pochi anni presenti a Massangulo.
E così fece. Tre missionari della Consolata seguirono Chipenenga, che presentò loro 600 catecumeni pronti per il battesimo, cercarono un luogo adatto e si stabilirono nella zona: così nacque Mepanhira. Era l’anno 1938. 
Mepanhira divenne presto il centro propulsore dell’evangelizzazione del sud del Niassa, dando origine a nuove parrocchie, come Mitucue (1939) e Maua (1940), che a loro volta, dopo la II guerra mondiale, diedero vita ad altre fondazioni.
Fiore all’occhiello di Mepanhira fu la nascita delle «Suore dell’Immacolata Concezione», la prima congregazione di suore mozambicane, fondate da padre Oberto Abondio.
Con l’indipendenza del Mozambico (1975), tutta la missione fu nazionalizzata e i missionari cacciati. Trasformata in base militare del Frelimo e gli edifici ridotti a caserme, Mepanhira fu più volte bombardata e saccheggiata dai soldati della Renamo.
Solo Chipenenga, ormai cieco, rimase al suo posto e per 12 anni continuò a rincuorare i cristiani, sfidando le minacce del Frelimo e le pallottole della Renamo, finché un nipote lo portò in salvo a Mecanhelas.
Toata la pace, da Mecanhelas i missionari ripresero la cura delle comunità di Mepanhira e ne fondarono di nuove, restaurarono la chiesa e le altre strutture, e nel 2003 consegnarono la parrocchia al clero locale. «Con un certo rammarico – confessa padre Diamantino principale artefice della risurrezione di Mepanhira quando era parroco di Mecanhelas -. Se ne va così un pezzo della nostra storia, la seconda missione fondata dai missionari della Consolata in Mozambico; ma ne siamo anche felici, poiché il seme gettato in tanti anni di lavoro ha portato frutto, fino alla maturità della Chiesa locale.

Mecanhelas: vulcanica missione
«Anche in questa zona troviamo comunità molto antiche, formate dai nostri primi missionari. È la parte più evangelizzata del Niassa, popolata dall’etnia macua, molto aperta al vangelo, a differenza della popolazione del nord del Niassa in prevalenza musulmana» spiega il confratello colombiano padre Rogelio Alarcón, attuale parroco di Mecanhelas, insieme al portoghese padre José Neves. Entrambi hanno in cura 180 comunità cristiane: 140 formano la parrocchia di Mecanhelas, altre 40 quella di Entre Lagos.
«Il nostro è anzitutto e naturalmente un lavoro pastorale – continua padre Rogelio – di evangelizzazione e servizio sacramentale, visite alle comunità e animazione vocazionale e missionaria, formazione di catechisti, animatori di comunità, operatori ecclesiali: è la cosiddetta chiesa ministeriale, caratteristica in tutto il Mozambico, cioè, una chiesa dove i laici sono chiamati ad assumere e svolgere ruoli importanti nella vita della comunità cristiana».
Alla pastorale religiosa si aggiungono una folta serie di iniziative e progetti di carattere sociale: corsi di risorse umane, doposcuola per alunni in difficoltà, servizi sanitari, laboratori di carpenteria e meccanica, attività agricole e zootecniche…
Fiore all’occhiello della missione è il «Centro nutrizionale padre Ariel Granada», missionario della Consolata ucciso in un’imboscata nel 1991, durante la guerra civile mozambicana. Era stato lui a raccogliere i primi orfani in questo luogo, poi l’opera si è sviluppata e continua in sua memoria. Il Centro accoglie e cura bambini da 0 a 3 anni con seri deficit alimentari, causati da malattie (malaria), parassiti, mancanza di cure dei genitori. Nei casi più gravi si ricorre agli ospedali della zona e del Malawi.
Altra opera importante sono i «lares», case di accoglienza per studenti provenienti da comunità dell’interno che frequentano le scuole secondarie di Mecanhelas, Entre Lagos e altri due grossi villaggi. «Chiediamo loro un contributo in natura (prodotti agricoli) e un minimo in denaro; ma naturalmente non riescono a pagare tutte le spese» spiega padre Rogelio.
«L’ultimo progetto lanciato a Mecanhelas sono i corsi di microinformatica – riprende il missionario -. Iniziati da padre Simon Pedro, stiamo studiando la maniera di migliorarli con computer più modei. Per noi è un impegno gravoso, ma vale la pena. Anche in questo sperduto angolo del mondo l’informatica è indispensabile per chi vuole continuare gli studi o semplicemente trovare un lavoro».

Tito, il capomastro
Mi domando come facciano due soli missionari a portare avanti tante attività. Padre Rogelio mi legge nel pensiero: «La risposta è semplice: coinvolgiamo la gente del luogo e accogliamo laici dall’esterno». Il Centro nutrizionale è affidato a due mamme, coadiuvate da due giovani laiche missionarie portoghesi.
«La scuola d’informatica è nata grazie ad alcuni giovani portoghesi, venuti d’estate a Mecanhelas: hanno insegnato a maneggiare il computer ai coetanei locali, uno dei quali si è specializzato nel centro di formazione della parrocchia di Cuamba e, tornato al paese, è responsabile di tale progetto».
Da 4 anni a Mecanhelas c’è anche Tito Abraão, un laico missionario portoghese, che mi racconta sorridendo la sua storia. Già maturo e affermato capomastro, chiese di diventare fratello missionario della Consolata, ma durante il noviziato in Italia maturò la decisione di rispondere alla vocazione missionaria come laico. Tornato in Portogallo, incontrò il vescovo di Lichinga, Luis Ferreira da Silva, che lo portò nella sua diocesi.
«Ho lavorato per 14 anni con il dom Luis, un sant’uomo che riusciva ad avere aiuti con facilità – racconta Tito -. Abbiamo ricostruito le missioni distrutte dalla guerra, ingrandito la chiesetta di Lichinga facendone una degna cattedrale, costruito il monastero delle suore dell’Immacolata e nuove chiese, una delle quali può contenere più di mille persone sedute».
Tito ha lavorato per due anni anche nella diocesi di Inhambane, dove ha costruito scuole e un centro per la promozione delle donne. Da quattro anni è a Mecanhelas, occupandosi inizialmente di falegnameria, officina meccanica, catechesi e altre faccende. «A Mecanhelas erano sorte oltre 60 chiese e cappelle in varie comunità, con un programma di 8 costruzioni ogni anno, ma ben presto sono andate in rovina, perché fatte in fretta e senza l’esperienza. Ora sono state rifatte più solide e non cadranno facilmente».

Entre lagos: scuola di dialogo
Padre José e padre Rogelio si alternano nel servizio alle comunità della parrocchia di Entre Lagos, ai confini con il Malawi, ma non vi abitano, mancando ancora di strutture adatte. Ci sono invece tre suore brasiliane della Divina Provvidenza, che praticamente suppliscono il parroco in molte attività pastorali, come corsi di formazione e accompagnamento di catechisti, animatori e ministri laici, visite alle varie comunità.
Esse curano anche le opere sociali della parrocchia: seguono le due case di accoglienza per gli studenti, organizzano corsi di arti e mestieri per ragazzi e ragazze, promuovono artigianato e altri progetti di sviluppo.
Alle suore è affidata pure la gestione dei lares per ragazzi e ragazze e il funzionamento dell’Esam (Ensino secundario aberto moçambicano), un grande progetto educativo della diocesi di Lichinga, che ha aiutato tanta gente, soprattutto giovani, ad acquisire una formazione secondaria pre-universitaria. Nata in Malawi per opera dei gesuiti a favore dei rifugiati mozambicani, la scuola è stata adottata dalla diocesi di Lichinga ed è diventato un motore di sviluppo per tutta la regione del Niassa.
«La popolazione di quel luogo è in maggioranza musulmana -spiega padre José Neves, mentre mi accompagna in visita ad alcune comunità di Entre Lagos – ma la chiesa cattolica è molto ben accettata e la popolazione è molto cornoperativa, anche la parte islamica. Qui cristiani e musulmani vivono il dialogo interreligioso, che si traduce in frateità interreligiosa, nella gioia e nel dolore; quando muore un musulmano, per esempio, i cristiani preparano la tomba; viceversa, i musulmani la preparano per i cristiani. Un ambiente di frateità che rende facile la nostra attività.
Abbiamo in cantiere incontri con le autorità tradizionali: regoli, capi, imam e pastori di chiese cristiane, per condividere le idee sull’educazione tradizionale, riti di iniziazione, usi e costumi culturali e morali che hanno bisogno di essere purificati; ma vogliamo farlo attraverso il dialogo e il reciproco rispetto».

Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Paradiso «artificiale»

Reportage da Dubai: grattacieli nel deserto

Dalla pesca e coltivazione di perle al boom del petrolio, Dubai è uno specchio della penisola Arabica: un miscuglio di ambizioni e contraddizioni, megalomanie e sfruttamento umano, tradizionalismo islamico e modeità, tolleranza religiosa e umori di rivolta… ma affari e finanza mettono tutto e tutti d’accordo.

Fu il veneziano Gaspero Balbi, nel 1580, il primo a nominare nel suo diario l’industria perlifera che fioriva lungo le coste di Dubai. Nei mercati di Venezia le perle di Dibei erano tra le mercanzie più ambite dalla nobiltà e le piccole sferette di madreperla rimasero l’unica risorsa del porto arabo fino agli anni Trenta del Novecento, quando l’industria delle perle artificiali indusse il governatore del regno, lo sceicco Saeed bin Hasher al Maktoum e in particolare il suo successore Rashid bin Saeed al Maktoum, a cercare altre forme di sviluppo.
Dapprima fu l’ampliamento del porto di Dubai, nel 1963, ad attirare i primi investimenti. Grazie alla favorevole posizione geografica, a pochi chilometri dalle coste iraniane, e alla presenza di numerosi commercianti indiani, la città diventò il principale centro di scambio dell’oro nel Medio Oriente. «Ancora oggi il Gold Souk è una delle attrazioni turistiche e commerciali più visitate di Dubai, ma pochi sanno che proprio da queste stradine si è costruita l’immensa ricchezza della metropoli» spiega Praful Soni, proprietario della Shyam Jewellers, una delle più antiche oreficerie della città.

Risorse diversificate
Ma gli ambiziosi piani della famiglia Maktoum non avrebbero potuto realizzarsi senza lo sfruttamento di quello che è stato il vero propellente dello sviluppo del piccolo regno arabo: il petrolio. La scoperta alla metà degli anni Sessanta dei primi giacimenti, ha permesso lo sviluppo di una fiorente industria, consentendo a Dubai di prevalere sull’eterna rivale Abu Dhabi, capitale politica degli Emirati Arabi Uniti.
Una prosperità che sarebbe effimera, quella di Dubai, visto che gli esperti prevedono che già nel 2025 le viscere dello sceiccato si prosciugheranno. «La ricchezza petrolifera degli Emirati è sempre stata monopolizzata da Abu Dhabi – mi dice Hisham Abdullah Al Shirawi, vice presidente della Camera di commercio di Dubai – ma Dubai ha saputo diversificare in tempo le proprie risorse, mantenendo una supremazia economica e culturale riconosciuta da tutto il mondo».
L’attuale governatore di Dubai, Sheikh Mohammed bin Rashid Al Maktoum, ha saputo anticipare gli eventi sino a ridurre al 6% i ricavi economici derivanti dall’export petrolifero (contro il 25% dell’intera nazione) trasformando la città in una sorta di calamita per gli investimenti stranieri. Chi arriva qui, aspettandosi di trovare pozzi petroliferi, raffinerie e le tipiche fiamme che illuminano la notte delle desolate lande del deserto, rimane deluso. Dubai si è trasformata in un centro finanziario mondiale e la città è il punto nevralgico non solo della nazione, ma dell’intero Medio Oriente. Nel suo immenso aeroporto, il quarto del pianeta, transitano 60 milioni di passeggeri all’anno trasportati da 150 compagnie che collegano 220 destinazioni, mentre nelle 49 banchine del porto di Dubai i 30.000 lavoratori smistano annualmente 12 milioni di Teu (l’unità di misura standard nel trasporto dei container; un container da 6,1 metri corrisponde a 1 Teu, ndr). Il Pil, pari a 50 miliardi di euro, è garantito per il 22,6% dagli investimenti immobiliari, per il 16% dal commercio e per l’11% dai servizi finanziari.

Crisi e sorpasso di Abu dhabi
Ma Dubai è ancora febbricitante: il ricordo della crisi che ha colpito la finanza, ma ancora più duramente l’orgoglio di tutti gli Emirati, è una ferita ancora aperta. Già, la «crisi del debito di Dubai». Così è stata chiamata dal mondo finanziario la più grave congiuntura che ha colpito la monarchia islamica in tutta la sua storia, rischiando di far crollare l’impero creato dalla famiglia Al Maktoum.
Il 29 novembre 2009 il colosso Dubai World, il principale conglomerato imprenditoriale dell’Emirato controllato dalla casa regnante, aveva annunciato di non essere in grado di far fronte al pagamento di 26 miliardi di dollari di debiti, di cui 4 miliardi di sukuk, i bond islamici, i più importanti di tutto il mondo musulmano. Senza finanziamenti, il giorniello del Dubai, il Dubai Burj (torre), il più alto grattacielo al mondo, oramai quasi ultimato, avrebbe rischiato di rimanere un immenso cantiere aperto, e la sua guglia incompiuta a 828 metri di altezza si sarebbe trasformata in un chiodo arrugginito piantato nel centro della città a simboleggiare il fallimento della sua economia.
A soccorrere Dubai è intervenuta però l’eterna rivale Abu Dhabi, con un prestito di 10 miliardi di dollari che ha permesso di terminare la costruzione del Dubai Burj, stranamente (ma non troppo) ribattezzato, a pochi giorni dall’inaugurazione (4-1-2010), Burj al-Khalifa (Torre del Califfo), un omaggio, neppure troppo celato, a Khalifa bin Zayed Al Nahayan, presidente degli Emirati Arabi Uniti (Eau) e sceicco di Abu Dhabi. Insomma, uno schiaffo alla famiglia Al Maktoum che molti analisti hanno interpretato come una volontà di ridistribuzione di poteri all’interno dell’Emirato. Abu Dhabi, infatti, pur essendo la capitale politica dello stato, è sempre stata economicamente in secondo piano rispetto a Dubai. Christopher Davidson, professore di politica del Medio Oriente alla Durham University, asserisce che «la crisi del 2009 ha fatto perdere a Dubai l’autonomia che, de facto, aveva da 170 anni. Ora è Abu Dhabi l’emirato emergente ed è chiaro che la capitale degli Eau sta cercando di dare un’impronta più centralizzata e meno autonomista all’intera nazione».
Approfittando della crisi finanziaria, Abu Dhabi ha iniziato la sua ascesa economica in competizione con Dubai. La compagnia di bandiera di Abu Dhabi, la Etihad, sta togliendo importanti fette di mercato alla Emirates Airlines; la capitale si è aggiudicata lo svolgimento del Gran Premio di Formula 1 ed ha costruito il Ferrari World, l’unico parco a tema al mondo dedicato alla scuderia di Maranello. Nei prossimi anni verranno inaugurati musei come il Louvre Abu Dhabi e il Guggenheim, mentre l’aeroporto, che oggi ospita 12 milioni di passeggeri all’anno, sta per essere ampliato in modo da garantie il transito di 40 milioni. Infine, dulcis in fundo, durante la visita della regina Elisabetta d’Inghilterra nel novembre 2010, lo sceicco di Abu Dhabi ha ufficialmente varato il suo programma nucleare che vede accordi con Stati Uniti, Corea del sud, Francia e Gran Bretagna e la costruzione di 4 reattori entro il 2020.

Uno stop alla megalomania
Insomma, viene da chiedersi se la prospettiva proposta nel 2007 da Sheikh Mohammad bin Rashid Al Maktoum, di trasformare Dubai in «una città araba di importanza globale che rivaleggi storicamente con Cordoba e Baghdad» si sia arenata.
«Non è facile rispondere a questa domanda» afferma Stephanie Fisher, consulente dell’American Business Council di Dubai; «governo e ditte private non rilasciano dichiarazioni facilmente ed è quindi obiettivamente difficile capire come stia andando l’economia dell’Emirato».
Comunque è chiaro che la megalomania araba si è alquanto ridimensionata. Basta andare a fare un giro con la sofisticata linea della metropolitana, costata più di 4 miliardi di dollari, per accorgersi che numerosi cantieri sono ancora fermi e che tra una zona e l’altra, vi sono chilometri di «nulla»: aree di sabbia da anni precettate dai conglomerati finanziari e su cui, in attesa di tempi migliori, sorgeranno futuristici parchi, campi da golf, hotel, parchi tematici, grattacieli, centri commerciali. «Sulla carta ci sono progetti per quasi 500 miliardi di dollari, ma molti sono stati sospesi per mancanza di liquidità» mi dice Ahmad Othman, dell’Ufficio Comunicazioni della Hsbc, una delle maggiori agenzie finanziarie e bancarie del mondo.
Delle famose isole artificiali, tutte progettate e costruite dalla Nakheel, appartenente, manco a dirlo, alla famiglia reale, solo una, The Palm Jumeirah, è stata quasi ultimata. Gli altri progetti, compresi i tanto reclamizzati The World Islands, The Universe, Palm Deira e Dubai Waterfront, sono stati interrotti o la data di completamento procrastinata sine die.
Naturalmente i grandi gruppi finanziari e i governanti ostentano fiducia: «Dopo la grande crisi che ci ha colpito nel 2009 e nel 2010, il Pil di Dubai crescerà del 4,6% nel 2011, dimostrando a tutto il mondo la solidità della nostra economia e l’abilità dei nostri governanti» sentenzia Hamad Buamin, direttore della Camera di Commercio e dell’Industria di Dubai.

Gli immigrati
Il suo ottimismo, però, crolla di fronte alle critiche di Saabir, immigrato pakistano che abita nel quartiere di Deira: «È naturale che il Pil di Dubai aumenterà del 4,6% nel 2011, visto che il governo ha aumentato del 15% acqua ed elettricità, del 33% la benzina e del 40% i biglietti dei servizi pubblici! Come sempre, l’emirato si arricchisce a spese degli immigrati!».
Saabir ha il dente avvelenato nei confronti degli arabi. E non a torto. Dei 2,3 milioni di abitanti di Dubai, solo il 17% sono cittadini dell’Emirato, il restante 83% sono immigrati, la maggioranza dei quali svolge lavori di manovalanza. Il 42% sono indiani, il 13% pakistani, l’8% bengalesi, il 2,5% filippini. Gli immigrati «di lusso», europei e nordamericani, sono solo 1,2% della popolazione cittadina, ma, assieme agli arabi, detengono tutti i posti di comando della finanza e dell’economia. Sono loro che vivono nella fantasmagorica Dubai, quella dei grattacieli, alberghi mozzafiato, centri commerciali più grandi al mondo.
Nell’albergo dove alloggio, il Movenpick Jumeirah, il personale si dice soddisfatto del trattamento: «La direzione e il management sono attenti alle nostre esigenze e la paga è estremamente alta, se comparata con quella dei nostri colleghi in Europa» spiega una ragazza della reception. La stessa soddisfazione la riscontro tra le cameriere della sala della colazione.
Ma so che questa è solo una fortunata minoranza: la maggioranza degli altri stranieri vive in condizioni di semischiavitù. Orari di lavoro impossibili, stipendi inadeguati, ammortizzatori sociali inesistenti, case fatiscenti sono facili micce per proteste. Le più eclatanti sono state quelle che hanno interessato la convulsa costruzione del Burj Khalifa quando, nel marzo 2006 e novembre 2007, 2.500 lavoratori protestarono chiedendo condizioni di vita migliori e paghe più adeguate. Il Ministero del Lavoro rispose facendo intervenire la polizia e minacciando i manifestanti di deportazioni in massa nei loro paesi d’origine.
Samer Muscati, ricercatore dell’Human Rights Watch (Hrw), mi descrive una situazione disastrosa: «I lavoratori stranieri impiegati in ditte edili vengono pagati tra i 100 e i 250 euro al mese per lavorare 12 ore al giorno, 6 giorni alla settimana. Molto spesso le compagnie che assoldano gli operai sequestrano loro i passaporti per ricattarli, obbligandoli a lavorare senza alcuna condizione di sicurezza. I sindacati sono inesistenti; chi solo cerca di organizzare un’associazione che tuteli i diritti dei lavoratori viene immediatamente espulso».
Fuori dal Burj Khalifa, incontro Ravi, un lavoratore indiano. È la sua pausa pranzo e ci sediamo all’ombra dei luccicanti vetri che ricoprono la facciata del grattacielo: «L’Arabtec, la ditta che ha costruito il Burj Khalifa, ci alloggiava in una cinquantina di campi lavoro sparsi attorno a Dubai, lontano dagli occhi dei turisti. A loro si deve far vedere il paradiso». Vedere questa povertà assoluta, infatti, rischierebbe di smantellare il mito di Dubai come una sorta di Disneyland araba.
Eppure lo sceiccato di Dubai è stato il primo nella storia a denunciare la tratta degli schiavi nel 1820, quando con il governo di Sua Maestà siglò il «General Maritime Peace Treaty».

il paradiso che non c’è
Con un gruppo della Caritas visito uno di questi quartieri e mi ritrovo in una fogna a cielo aperto: sporcizia ovunque, case fatiscenti dove in pochi metri quadrati alloggiano anche 20 persone in un’atmosfera di promiscuità assoluta. Le latrine sono perennemente intasate e d’estate, con 50 gradi, l’odore è nauseabondo; una sorta di cappa infeale che rende la vita impossibile. L’acqua, bene prezioso per una città come Dubai, viene spesso razionata per permettere il continuo rifoimento negli alberghi e nelle zone commerciali. Il solo sistema di condizionamento del Burj Khalifa equivale allo scioglimento di 12.500 tonnellate di ghiaccio; mantenere il green del campo da golf Tiger Woods richiede 18 milioni di litri di acqua al giorno, nel centro commerciale Mall of the Emirates c’è una pista da sci da 500 metri con impianti di risalita, uno chalet svizzero e una temperatura costantemente mantenuta tra i 4 e i 10 gradi sotto lo zero, mentre il grandioso e lussuoso complesso Atlantis, oltre ad avere un parco acquatico con 40 milioni di litri di acqua, vanta un hotel letteralmente immerso in un acquario, dove gli ospiti hanno l’impressione di dormire, mangiare e farsi la tornilette tra squali, ceie, murene. Il paradiso descritto da Ravi. Ma non c’è posto per tutti in questo paradiso e Ravi, come molti altri suoi colleghi, che questo paradiso lo hanno costruito, sono costretti a vivere nell’inferno.
La condizione delle collaboratrici domestiche è ancora peggiore: segregate nelle lussuose ville dei loro padroni, sono spesso oggetto di abusi sessuali. Un sondaggio condotto dall’Hrw nel gennaio 2010, ha evidenziato il terrore della componente femminile nel denunciare eventuali soprusi commessi a loro danno. Il 55% delle donne, infatti, ha ammesso che non contesterebbe alcun abuso sessuale per paura di ritorsioni delle famiglie ospitanti. Del resto non c’è da stupirsi di tanta omertà, visto che la corte di giustizia è sottomessa alla famiglia reale, tanto da assolvere dall’accusa di tortura Sheikh Issa bin Zayed al Nahyan, figlio del precedente presidente degli Emirati, nonostante un video lo inchiodasse. Il motivo dell’assoluzione? Lo sceicco sarebbe stato vittima di una cospirazione.

Islam differente
Passeggiando lungo la Jumeirah Beach, la spiaggia pubblica all’ombra del Burj Al Arab, davanti all’hotel più lussuoso del mondo, dove il costo di una stanza va da mille a 28 mila dollari a notte, vedo giovani arabi d’ambo i sessi bagnarsi nelle stesse acque e prendere il sole in bikini. «Ciò accade solo a Dubai – mi avverte mons. Paul Hinder, vicario apostolico del Sud Arabia -. Ad Abu Dhabi, ad esempio, le spiagge sono ancora separate secondo l’usanza islamica».
A Dubai incontro un islam completamente differente da quello conosciuto in altri paesi. «Questo è il vero islam» mi dice Nasif Kayed, direttore del Centro per la comprensione culturale (Sheikh Mohammed Centre for Cultural Understanding, Smccu), rinnegando quanti si arrogano il diritto di affermare nel mondo altre componenti musulmane: dai taleban agli ayatollah, dagli hezbollah ai fratelli musulmani.
Qui tradizione e modeità hanno saputo armonizzarsi tra loro sino a convivere e a trasformarsi a vicenda, per cui l’islam che si respira è assai diverso da quello di altre culture musulmane. Non potrebbe essere altrimenti, in una città che ha fatto della globalizzazione spinta, la sua bandiera. Una islamizzazione radicale avrebbe potuto allontanare imprenditori e finanziatori. Tutti sanno che Dubai è sempre stata la lavanderia dei soldi destinati alla jihad. La famiglia Bin Laden ha sempre avuto un rapporto privilegiato con la famiglia regnante e lo stesso Osama bin Laden, negli anni passati è stato ricoverato negli attrezzatissimi ospedali dell’Emirato. Il governo degli Eau, del resto, è stato l’unico al mondo, assieme a quelli del Pakistan e Arabia Saudita, a riconoscere l’Afghanistan dei taleban, ma è anche uno dei paesi arabi che mantiene strette relazioni politiche e militari con gli Stati Uniti, sino a garantire alle forze statunitensi due basi militari sul suo territorio.
Anche se la costituzione garantisce all’islam il ruolo di religione di stato, a Dubai esistono chiese cristiane, templi hinduisti e sikh, gli hotel inteazionali possono servire alcolici e carne suina.
Ma se l’islam «di stato» può essere tollerante, molti immigrati non accettano questo «inquinamento» di valori: «Dubai si è venduto all’Occidente e ha perso la via indicata dal profeta – mi spiega Khurram, un pakistano di Quetta da cinque mesi arrivato a Dubai -. Noi musulmani non possiamo neppure andare in spiaggia senza vedere donne nude o uomini che bevono birra o alcolici. Dubai non è l’islam e non è un luogo dove vorrei vivere».
Gli fa eco Shamil, anche lui pakistano: «L’islam predica l’unità dei fedeli per combattere gli infedeli, ma qui a Dubai sembra che i nostri fratelli si siano alleati con gli infedeli per combattere i fedeli. Una jihad al contrario».
A Khurram e Shamil risponde senza mezzi termini Nasif Kayed: «Se la pensano così, allora perché vanno in spiaggia? Se non vuoi vedere questa “promiscuità” o gente bere alcolici, non andare in spiaggia né ai bar: sai benissimo che se vai in questi luoghi, troverai queste situazioni».
La sfida religiosa di Dubai è proprio quella di restare in equilibrio su un filo sospeso nel baratro della rivolta religiosa. Da una parte il governo di Al Maktoum deve soddisfare le aperture richieste dall’Occidente, dall’altro non può negare a chi mantiene il «paradiso» la propria religiosità. E allora ecco che una richiesta per una scuola cattolica, rimane ferma da quattro anni sulla scrivania di un ministero.
Il motto del Smccu è «Open doors. Open minds», aprire le porte, aprire le menti, ma è obiettivamente difficile applicare questa massima a una città che fa della finanza e della crescita economica l’unico senso della sua esistenza.
Ma, forse, è proprio questa sfida che Sheikh Mohammed bin Rashid al Maktoum, principe di Dubai, vuole vincere, come ha scritto in una sua poesia:
«Le notti buie e i difficili giorni;
li accogliamo come ci vengono dati
e non abbiamo timore del futuro.
Camminiamo lungo un sentirnero non ancora battuto
e se la via è difficile, mi diverto maggiormente».

Piergiorgio Pescali

Piergiorgio Pescali




La chiesa cresce nella culla dell’islam

Discepoli di Cristo nella terra di Maometto

Mentre in Medio Oriente si assiste all’esodo dei cristiani, nella Penisola Arabica il numero dei fedeli di Gesù cresce senza sosta, formando una chiesa giovane, vivace, ma «pellegrina», povera di strutture e soprattutto a libertà vigilata.

«Quando nel 2003 fui nominato vicario apostolico d’Arabia, che allora copriva 6 paesi (Emirati Arabi, Oman, Yemen, Arabia Saudita, Bahrein e Qatar), il vescovo di Münster in Germania, mio amico, mi scrisse una lettera di congratulazioni, aggiungendo: “Ma non so cosa vai a fare in Arabia, perché non ci sono cristiani”. Gli risposi subito che avevo forse più cattolici di lui». Inizia così, sorridendo, mons. Paul Hinder, alla richiesta di tracciare un quadro generale della chiesa cattolica nella Penisola arabica. «Non esistono cifre ufficiali, ma dalle stime fatte sulla base delle indicazioni delle ambasciate in loco, si calcola che nei due vicariati ci sono oltre 4 milioni di cristiani, tre quarti dei quali cattolici».

Puramente pellegrina
Facciamo i calcoli, anche se rimangono approssimativi. Con circa 1 milione e 400 mila immigrati filippini, per l’85% cattolici, e altrettanti indiani, è plausibile che in Arabia Saudita il numero dei soli cattolici si avvicini a due milioni. Negli Emirati Arabi, secondo gli ultimi dati, ci sono circa 6 milioni di abitanti, di cui 5 costituiti da lavoratori stranieri. La stragrande maggioranza di tali immigrati professa l’islam (circa 3,2 milioni), ma i cristiani sarebbero oltre un milione e mezzo, di cui 580 mila cattolici. Un buon numero di cristiani è di lingua araba (oltre 100 mila, 12 mila solo ad Abu Dhabi) e proviene da Libano, Siria, Giordania, Palestina e Iraq. Analoga situazione si riscontra in Kuwait, la cui popolazione è formata da un milione di cittadini e due milioni di stranieri; di questi immigrati circa 500 mila sono i cristiani, tra i quali i cattolici sono 350 mila (320 mila di rito latino e 30 mila di rito orientale).
«Prima di tutto la nostra è una chiesa puramente pellegrina – continua mons. Hinder -. Siamo tutti stranieri; non ci sono cittadini cristiani, salvo qualche sparuta eccezione in Yemen e Kuwait. Siamo tutti a tempo: anche noi, vescovi, preti e suore, tutti dobbiamo rinnovare il permesso di soggiorno, che non sarà mai un permesso permanente».
Si può dire che la prosperità dei paesi del Golfo è resa possibile dagli stranieri, gente molto attiva, ma a volte molto povera: moltissime donne e moltissimi uomini vivono con il minimo, spesso trattati come schiavi. Le condizioni per la loro presenza in questi paesi sono molto chiare: devono avere un visto debitamente ottenuto, che sarà sempre temporaneo; nessuno straniero può accedere alla cittadinanza araba, né possedere terre o immobili; nessuno sciopero è permesso né reclamare in pubblico; non esiste alcuna sicurezza sociale né tutte le facilitazioni per salute, studio, abitazione… godute dai cittadini arabi. Ogni infrazione legale causa l’espulsione immediata. Gli immigrati sono utilizzati secondo le necessità del paese. «I nostri fedeli – spiega mons. Camillo Ballin, vescovo del Kuwait e ora vicario apostolico dell’Arabia settentrionale – sanno che nessun paese del Golfo sarà la loro nuova patria; vi possono restare finché́ hanno un visto di lavoro; quando il lavoro verrà a mancare o arriverà l’età della pensione, dovranno tornare al proprio paese o cercarsi un’altra nazione, di solito gli Stati Uniti». 

Evviva… la babele
Quella d’Arabia è una Chiesa molto viva, formata a volte da realtà piccolissime e in situazioni d’insicurezza, come quelle presenti nello Yemen, altre volte da parrocchie mastodontiche, come quella di Saint Mary a Dubai, con 200 mila fedeli, dove ogni settimana si distribuiscono più di 50 mila comunioni. Ad Abu Dabi dal venerdì alla domenica si susseguono decine di migliaia di fedeli in una dozzina di messe.
La pratica per molti cattolici rimane difficile, prima di tutto a causa delle distanze; ma anche dove ci sono luoghi di culto, essa si riduce spesso a Natale e Pasqua, perché in molti casi i padroni musulmani non danno il permesso di recarsi in chiesa in modo regolare, specialmente se si tratta di domestiche.
«Se tutti venissero in chiesa non sapremmo come accoglierli  – spiega mons. Ballin -. Il problema dello spazio è enorme in tutti gli stati del Golfo. In Kuwait abbiamo solo due chiese e due cappelle per oltre 300 mila fedeli. La cattedrale è stata costruita 50 anni fa per 700 persone, ma ad ogni messa ne abbiamo almeno mille. Una situazione che molti parroci europei, le cui chiese sono spesso semi vuote, invidierebbero; ci vorrebbe il miracolo di Loreto: un volo di qualche cattedrale europea dalle parti del Golfo» conclude il vescovo sorridendo.
«Siamo una realtà piccola, ma molto variegata, che, nonostante la sua piccolezza, riflette tutta la ricchezza spirituale della Chiesa cattolica» continua mons. Ballin. I fedeli sono diversi per nazionalità e cultura: indiani, filippini, bengalesi, singalesi, pakistani, coreani, egiziani, etiopi, arabi mediorientali, europei, americani… Alle differenze nazionali si aggiunge la diversità dei riti e delle lingue: rito latino,̀ celebrato in inglese, konkani, tagallog, tamil, singalese, bengali, oltre a francese, italiano, polacco e arabo; riti siro-malabarico e siro-malankara, officiati in lingua malayalam; riti maronita e copto celebrati in arabo, con parti rispettivamente in siriaco e in copto.
Si possono immaginare le difficoltà provocate da una babele del genere, soprattutto quando si tratta di programmare le varie cerimonie e fissare spazi e tempi in cui le differenti comunità possono riunirsi. Ne è un esempio la veglia pasquale in Kuwait: alle 19 comincia la celebrazione in lingua konkani; alle 21 inizia la veglia in inglese presieduta dal vescovo, che deve finire entro le 23, per dare spazio alla veglia in arabo, che a sua volta deve terminare entro le 24.30, quando comincia quella di rito maronita. E sono tutte affollatissime con migliaia di persone.
«Dal punto di vista logistico il problema di far quadrare il cerchio si presenta anche durante l’anno – continua mons. Ballin -. Ma i miei preti sono abilissimi al riguardo». Per accontentare tutti, per quanto è possibile, le celebrazioni domenicali si fanno in contemporanea: cioè,̀ mentre un sacerdote celebra in cattedrale, altri preti celebrano in altre lingue o riti nei grandi saloni al pianterreno, nel sotterraneo e al primo piano. In certi periodi, come Natale, Settimana Santa, Pasqua, primo e ultimo giorno dell’anno e alcune feste della Madonna, è del tutto normale celebrare una ventina di messe al giorno. Un altro esempio è la veglia nottua tenuta ogni terzo giovedì del mese, dalle 10 di sera alle 6 del mattino seguente: vi partecipano sempre oltre mille persone, dall’inizio alla fine.
«Abbiamo fedeli ferventi e molto praticanti, che sono una grande consolazione per noi pastori – conclude il vescovo Ballin -. Non hanno altri appoggi se non nel Signore. Molti di loro sono soli: per portare la famiglia devono avere un salario mensile di almeno mille dollari. Tale solitudine è̀ molto sentita soprattutto nelle grandi feste».

Libertà… vigilata
La maggior parte dei fedeli che compongono la chiesa d’Arabia sono giovani, animati quindi di entusiasmo e voglia di impegnarsi tipica della loro età; ma deve fare i conti con una libertà religiosa molto limitata. La libertà di coscienza non esiste affatto o è a senso unico, cioè, un cristiano può farsi musulmano, ma un musulmano non può farsi cristiano.
Sulla libertà di culto bisogna fare notevoli distinzioni, a cominciare dai luoghi di culto. Re e sceicchi dei paesi del Golfo (Arabia Saudita esclusa) si sono dimostrati comprensivi nel permettere edifici per il culto, almeno uno in ogni loro stato; ma non più di una per città, come avviene negli Emirati Arabi. Non esiste alcun contratto stabile sulla proprietà e sull’uso degli edifici, scuole e chiese: tutto funziona finché persiste il benvolere del monarca. Poiché lo straniero non può possedere niente in questi paesi, anche il suolo dove si trovano le chiese è dato in affitto dal governo, che può richiederlo indietro in qualsiasi momento per costruirvi una strada, una piazza o altra struttura di comune vantaggio.
Generalmente non è permesso alcun segno esterno che possa far notare la presenza cristiana, come croci e campanili, suono di campane o altoparlanti; ogni chiesa è spesso affiancata da una o più moschee dalle dimensioni imponenti e con vistosi e altisonanti mezzi di presenza, anche quando i praticanti sono scarsi.
All’interno dei luoghi concessi alla chiesa c’è totale libertà di culto; si possono svolgere tutti i riti e cerimonie che si vogliono; ma tutto deve rimanere dentro le mura di cinta del complesso parrocchiale; nulla deve apparire all’esterno. La polizia vigila; ma lascia fare. Generalmente non si ha l’impressione di essere controllati. «Anche nelle mie prediche sono libero – afferma mons. Hinder -. Sono più libero del mio vicino imam, che il venerdì deve usare il testo ufficiale fornito dal ministero degli affari religiosi o un suo testo sottoposto all’approvazione dello stesso ministero. A me e ai nostri preti ciò non è richiesto. Abbiamo quindi una certa libertà negli Emirati, sultanato di Oman, Qatar e Bahrein».
«Forse il nostro lavoro sembra ristretto al ruolo liturgico – continua mons. Ballin -. Non ci è possibile avere alcun ruolo sociale, tanto meno prendere posizioni o fare dichiarazioni in difesa dei diritti negati a qualsiasi cattolico. Ma non ci accontentiamo delle grandi folle; pensiamo anche a quelli che per vari motivi e condizioni non possono venire a celebrare con gli altri o credono di non avee bisogno e cerchiamo di aiutarli a essere veramente cristiani nel mare magnum musulmano».
E questa è un’altra sfida della Chiesa in terra arabica: molti cattolici confessano di sentirsi più cristiani di quanto non lo fossero in patria; vivere immersi nel mondo islamico li rende autenticamente testimoni di Cristo e responsabili nel dimostrare che il cristianesimo non si identifica con lo stile di vita che va per la maggiore in Occidente.

Nella culla di Maometto
L’Arabia Saudita «in fatto di libertà è molto in ritardo a causa del sistema politico-religioso dello stato – spiega benignamente mons. Hinder -. Il re attuale, il quasi novantenne Abdallah Ibn Abd el Aziz, è impegnato a introdurre lentamente certe riforme, ma non sappiamo se continuerà su questa strada, sia per le enormi resistenze della società saudita, sia per l’incertezza della sua successione. Ma non entro nei dettagli, poiché si tratta di un argomento delicato e non voglio mettere a rischio quel poco che possiamo fare. Spero che passo passo, con discrezione, possiamo migliorare la situazione».
Non è un mistero per alcuno che nel regno saudita i diritti umani sono calpestati, quello della libertà religiosa e di coscienza non esiste affatto. L’unica religione ammessa è l’islam, nella sua versione giuridico-teologica del fondamentalismo wahhabita. In base a una rigorosa prescrizione coranica, la patria di Maometto è suolo sacro e non può esservi tollerato alcun altro culto all’infuori dell’islam. Agli inizi tale sacralità era ristretta alla Mecca e Medina; ma il secondo califfo (634-644) la estese a tutta la penisola.
In base a tale principio è proibito qualsiasi esercizio e segno religioso, chiesa o luogo di culto anche per le cosiddette religioni del libro, ebraismo e cristianesimo, tollerate nel resto del mondo musulmano. È vietato a tutti, anche a visitatori, avere con sé libri religiosi e bibbie, indossare o esporre simboli religiosi, come crocifissi e rosari. Non parliamo di conversione dall’islam al cristianesimo, considerata apostasia, punita con la morte, anche se da tempo non si hanno notizie di esecuzioni per tale reato.
In barba a tale proibizione, nella culla dell’islam, il numero dei cristiani, e quindi dei cattolici, è più alto che in tutto il Medio Oriente. Sono gruppi diversi per riti, lingua e nazione, provenienti dall’Asia, ma anche dall’Africa, Etiopia ed Eritrea soprattutto, che si organizzano anche clandestinamente.
Il governo tollera la loro presenza, finché rimane discreta e occulta. Una tolleranza ufficiosa che permette ai cristiani stranieri di praticare la propria fede «in privato», ma «senza disturbare gli altri». Ma poiché non è ben definito cosa significhi «in privato»,  negli anni più recenti si sono avuti non pochi soprusi da parte della muttawa, la polizia religiosa, che ha potere di perquisire le abitazioni dei cristiani, requisire crocifissi, bibbie, icone, rosari o altri oggetti e simboli religiosi, fino ad arrestare i cristiani sorpresi a pregare.
È pur vero che da quando sul trono saudita siede Abdallah Ibn Abd el Aziz (2005), è diminuito il numero di arresti di cristiani: il sovrano ha limitato i poteri della muttawa. Anzi, il monarca sembra diventato un campione di dialogo interreligioso, promuovendo incontri interconfessionali e interreligiosi. Il 7 novembre 2007 ha fatto visita al papa Benedetto XVI: l’incontro tra il monarca saudita, «custode delle due sante moschee» (Mecca e Medina), e il capo dei cattolici di tutto il mondo è stato definito «storico» dalla stampa araba e ha acceso la speranza di qualche spiraglio di libertà religiosa nel regno saudita, ma per ora ogni speranza rimane nel cassetto. 

Una protesta non fa primavera
La cosiddetta «primavera araba», l’ondata di proteste scoppiata nel Nord Africa, ha portato lo Yemen sull’orlo di una guerra civile, sconvolto il Bahrein e lambito altri paesi del Golfo, come Arabia Saudita e Oman, che si sono affrettati a promettere qualche riforma politica, economica e sociale; il resto della penisola è rimasta molto calma. Tuttavia il vento della rivolta araba ha provocato tra i cristiani del Golfo «grande preoccupazione per il loro futuro – afferma mons. Ballin -. Temono di perdere il lavoro e di essere rimpatriati nei paesi di provenienza. L’instabilità politica li spaventa e in nessun modo hanno preso parte alle proteste».
«Non sono profeta – sorride mons. Hinder – ma credo che anche nel mondo arabo-musulmano del Vicino Oriente si stiano facendo passi avanti. Tuttavia dobbiamo sempre tenere presente che in ambito di libertà e diritti umani lo sviluppo non sarà lineare, si possono avere due passi avanti e uno indietro; a volte uno avanti e due indietro».
Nulla di nuovo in vista per quanto riguarda la libertà religiosa. I rapporti tra gerarchia cattolica e governanti, a parte l’Arabia Saudita, sono sempre cordiali. Il problema sorge nel passaggio ai fatti: quando si chiede un nuovo spazio o permessi per costruire, per aprire una nuova scuola o rinnovae una già esistente… ai livelli superiori di governo dicono di sì, ma a quelli più bassi gli ostacoli si moltiplicano e sono insuperabili, sia perché le amministrazioni sono spesso in mano a fondamentalisti, sia perché di fronte a qualsiasi evento, anche piccolo, sorgono subito sospetti di proselitismo, anche se nessuno dei preti cattolici si sogna di convertire un musulmano, col rischio di espulsione o chiusura delle loro opere. Al contrario, quando qualcuno, cristiano o di altra religione, si converte all’islam la notizia viene sbandierata con tutti i mezzi di comunicazione.
E tutto questo in barba alla reciprocità invocata in Occidente, quando, concedendo permessi di costruire moschee si chiede che anche nelle regioni a maggioranza islamica sia possibile costruire chiese o comunque sia garantita la libertà di cambiare religione. «È bene che ne parlino i capi di stato quando vengono in visita nei paesi cristiani – afferma mons. Hinder -; ma più che parlare di reciprocità, è importante insistere sul rispetto della libertà di culto e di religione. Inoltre è importante il modo con cui si dicono le cose, si pongono i problemi, senza umiliare i paesi arabi, i nostri interlocutori. E questo vale per tutti gli ambiti: ci troviamo di fronte a persone che sono orgogliose, che non vogliono essere accusate, che non ammettono di essere umiliate».

Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Ben tornata, Arabia felix

Premessa

Fino a 40 anni fa la costa araba che si affacciava sul Golfo Persico era divisa da sette minuscoli regni abitati da 44 diverse tribù il cui unico comune denominatore era la lingua e il senso d’appartenenza alla umma, la comunità islamica. Piccoli stati, divisi, poverissimi, senza alcuna risorsa se non la sabbia; 83.600 kmq di deserto che per 1.318 km si tuffavano nelle acque del Golfo Persico. Lungo la sabkha, la fascia costiera prospiciente il mare, sorgevano piccoli porticcioli, abitati per lo più da pescatori e commercianti che, con i loro piccoli dhows, veleggiavano verso i paesi limitrofi trasportando merci di poco valore.
Poi, nel 1971, uno sceicco più intraprendente e lungimirante di tutti, Zayed bin Sultan Al Nahyan, propose ad altri stati di formare una federazione con il suo regno, Abu Dhabi; così, oltre a garantirsi l’indipendenza dall’impero britannico, avrebbero ottenuto forza politica ed economica sufficiente per ritagliarsi uno spazio tra i giganti arabi. Cosa potevano fare, infatti, quelle minuscole monarchie sottopopolate, povere, senza una storia e prive di una cultura specifica, di fronte a nazioni come Arabia Saudita, Iran, Iraq, Yemen? Da sole sarebbero state sottomesse all’uno o all’altro stato; insieme, forse, sarebbero potute sopravvivere. E così il 2 dicembre 1971, nel Guesthouse Palace di Dubai, Abu Dhabi, Dubai, al-Fujairah, Sharjah, Umm al-Quawain e Ajman siglarono la Costituzione che sanciva la nascita degli Emirati Arabi Uniti; Ras al-Khaymah decise di unirsi al progetto l’anno seguente. Qatar e Bahrein, anche loro invitati ad unirsi alla neonata nazione dopo aver condiviso il periodo coloniale britannico, preferirono seguire una loro strada.
Da allora, l’ascesa economica dei sette nani, trascinata dall’estrazione del petrolio, divenne inarrestabile, soprattutto dopo il conflitto dello Yom Kippur, quando gli stati arabi decisero di utilizzare il petrolio come arma contro i paesi occidentali considerati alleati di Israele: il 16 ottobre 1973 l’Opec (l’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio) decise di aumentare il prezzo del petrolio del 70%. In pochi mesi, grazie a quello che venne soprannominato «l’oro nero», i vari sceicchi del mondo arabo si trovarono le casse ricolme di dollari.
Identico fenomeno è avvenuto nel resto della penisola arabica. In grandissima parte desertica, con una popolazione composta in maggioranza da tribù beduine nomadi o semi-nomadi e con una struttura sociale di tipo tribale e feudale, questa regione era rimasta per secoli ai margini della scena mondiale, fino a una cinquantina di anni fa, quando in seguito alla scoperta e allo sfruttamento del petrolio è ritornata ad essere l’Arabia Felix di cui favoleggiavano gli antichi romani. Da sola, l’Arabia Saudita possiede il 24% delle riserve petrolifere mondiali; estrae ogni giorno 35 milioni di barili di petrolio, esporta greggio per migliaia di miliardi di dollari, con un surplus finanziario di centinaia di miliardi da investire in patria e all’estero.
In un paio di generazioni, la Penisola è passata dalla tenda al grattacielo: oggi, più del 95% della popolazione è sedentarizzato; ma sotto l’aspetto sociale mantiene un piede nel Medio Evo e con l’altro cerca uno stabile appoggio nel XXI secolo.
Il boom petrolifero sta cambiando la vita di queste popolazioni sia sotto l’aspetto economico che sociale, promuovendo fermenti di democratizzazione, riforme del sistema scolastico e perfino la ricerca di riforme costituzionali. Per spingere nell’era modea il piede rimasto indietro, re, emiri, sultani dei paesi che costituiscono il Consiglio di Cooperazione del Golfo (Arabia Saudita, Kuwait, Bahrein, Emirati, Qatar e Oman) moltiplicano le infrastrutture in settori economici e sociali: raffinerie, oleodotti, centrali elettriche, strade, telecomunicazioni, scuole, università, edilizia, turismo, finanza… a volte con progetti avveniristici e spettacolari nelle città capitali. Perfino il deserto sta fiorendo, almeno nelle città.
Tali progetti, insieme a quelli specifici dell’industria petrolifera, hanno obbligato questi paesi a importare cervelli e manodopera dall’estero: sono migliaia di contractor stranieri e milioni di lavoratori provenienti dall’Asia, da altri paesi arabi, alcuni dall’Africa.
Si calcola che tra questi immigrati ci siano oltre 4 milioni di cristiani, 3 dei quali cattolici. «È curioso che, mentre in Europa arrivano immigrati musulmani, nella penisola arabica, culla dell’islam, dopo secoli di assenza sono tornati tanti cristiani, più numerosi che nel resto del Medio Oriente» afferma mons. Paul Hinder, vicario apostolico dell’Arabia meridionale.

Il cristianesimo arrivò nella penisola arabica cinque secoli prima dell’islam, quando i missionari persiani cominciarono a spargere il seme del vangelo lungo la costa del Golfo Persico, fondando le prime comunità cristiane nel Kuwait; in seguito l’evangelizzazione avanzò sempre più verso sud, come testimoniano resti di chiese in vari luoghi delle coste del Golfo. Già nel III secolo esisteva un’eparchia (diocesi) nelle isole Barhein; a partire dal IV secolo tutta l’area appariva come centro principale della Chiesa orientale, la cui influenza si estendeva fino alle coste più meridionali e alle numerose isole del Golfo.
Con la nascita, l’espansione e la dominazione dell’islam, il cristianesimo fu praticamente spazzato via da tutta la penisola, per ritornare timidamente 12 secoli dopo Maometto, nel 1841, quando i Servi di Maria aprirono una missione ad Aden e, superate molte difficoltà iniziali, estesero la loro azione nello Yemen e nel Somaliland. Nel 1888 la missione fu staccata dal vicariato apostolico dei Galla (Etiopia) per ricavae il vicariato apostolico di Aden, ribattezzato l’anno seguente come vicariato apostolico d’Arabia, che fu poi affidato ai cappuccini di Firenze (1916). Nel 1973 la sede del vicariato fu trasferita dallo Yemen ad Abu Dabi negli Emirati Arabi. Nel 1953 una porzione dell’immenso territorio fu staccato per creare la prefettura apostolica del Kuwait, elevata l’anno seguente a vicariato.
Per equilibrare l’estensione tra i due vicariati, un decreto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, in vigore dal 31 maggio 2011, ha stabilito una nuova organizzazione territoriale e la modifica dei titoli: la giurisdizione su Bahrein, Qatar e Arabia Saudita è passata al vicariato del Kuwait, che ha preso il nome di «Vicariato apostolico dell’Arabia settentrionale», sotto la guida del vescovo comboniano mons. Camillo Ballin; Emirati Arabi, Oman e Yemen sono diventati «Vicariato apostolico dell’Arabia meridionale», sotto la giurisdizione del cappuccino svizzero mons. Paul Hinder. Entrambi i vicariati sono stati affidati all’ordine dei frati minori cappuccini.

    Piergiorgio Pescali e  Benedetto Bellesi     

Piergiorgio Pescali e Benedetto Bellesi




Cana (28): Gesù il figlio di Giuseppe

Il racconto delle nozze di Cana (28)

Gv 2,5: [e] dice sua madre ai diaconi/servitori: «Quello che vi dirà, fate[lo]»

Al versetto 5 abbiamo dedicato già le precedenti due puntate, ma è necessario dedicarvene ancora una terza e una quarta, data la pregnanza e la profondità dei rimandi che il testo impone. Non possiamo, infatti, leggere il vangelo in fretta e non dobbiamo conseguire un premio a scadenza. Bisogna prendersi il tempo necessario, quando si tratta della Parola di Dio.
L’amore esige tempo
Tutte le cose importanti hanno bisogno di tempo, di intimità profonda. Lo esige l’autore del vangelo che ci dà gli indizi giusti perché noi possiamo fare il nostro lavoro di ricerca oltre le apparenze. Una persona superficiale si ferma a osservare la funzione della madre di Gesù, che prende l’iniziativa, preoccupata della festa che potrebbe andare in crisi per la mancanza di vino. Da qui poi si parte con una speculazione sulla mediazione della Madonna che si prende cura di due poveri sposini sfortunati per non far fare loro brutta figura.
Una persona un po’ più attenta «all’ascolto» percepirà le assonanze, per cui le basta ricordare il parallelo con Giuseppe, il figlio del patriarca Giacobbe, e così affermare la continuità tra la storia di Israele e quella del Nuovo Testamento.
Tutto ciò a noi non basta. Perché la Parola è esigente «spada a doppio taglio» (Eb 4,12) che vuole solo penetrare la carne viva della fede sincera. Se siamo Uditori della Parola1, dobbiamo «rimanere» su di essa (cf Gv 8,31) e assaporarla sillaba per sillaba, lettera per lettera e «ascoltare» intimamente l’eco di tutte le parole della Bibbia, che risuonano o che richiamano o semplicemente sussurrano. L’uditore diventa profeta perché mentre ascolta mangia la Parola con lo stesso atteggiamento e la stessa disposizione del profeta Ezechiele:

«1Figlio dell’uomo, mangia ciò che ti sta davanti, mangia questo rotolo, poi va’ e parla alla casa d’Israele». 2Io aprii la bocca ed egli mi fece mangiare quel rotolo, 3dicendomi: «Figlio dell’uomo, nutri il tuo ventre e riempi le tue viscere con questo rotolo che ti porgo». Io lo mangiai: fu per la mia bocca dolce come il miele. 4Poi egli mi disse: «Figlio dell’uomo, va’, rècati alla casa d’Israele e riferisci loro le mie parole» (Ez 3,1-4).
Il dramma del nostro tempo è la superficialità che non assapora, ma tutto macina e butta via. Un amore senza tempo a sua disposizione è solo furto di un attimo di consolazione, ma il vuoto resta integro e tragico. Se l’amore di prostituzione calcola il tempo in funzione del guadagno, noi che ci troviamo davanti alla Parola, possiamo passare in fretta rincorrendo magari il nulla?  Noi credenti nel «Dio [che] è Amore» (1Gv 4,8) dobbiamo imparare a essere maestri dell’amore a perdere, quello che nasce solo dall’innamoramento che si nutre di desiderio e presenza, di progetto e attesa come di passione e fisicità. Tutto oggi è veloce e frenetico e spesso si ha la sensazione che si corra a vuoto, verso dove non si sa, in tondo o a zonzo, in omaggio a una velocità che alla fine obbliga all’immobilismo.
Oltre il significato immediato
Non basta fare un collegamento tra le parole della madre che invita a obbedire a Gesù e quelle del faraone che invita a obbedire a Giuseppe per avere «una bella immagine». Bisogna anche domandarsi perché l’autore del vangelo esige questa connessione; perché l’evangelista ci obbliga a riflettere sulla figura del patriarca Giuseppe nel contesto delle nozze di Cana, attraverso un richiamo verbale e letterario che certamente avrà da svelarci qualcosa di nuovo sulla figura di Gesù.
Matteo in tutto il suo vangelo ci presenta Gesù come nuovo Mosè e, infatti, gli fa pronunciare cinque discorsi corrispondenti ai cinque libri mosaici, cioè il Pentateuco (cf Mt 5-6; 10; 13; 18; 24-25). Nei vangeli dell’infanzia lo stesso evangelista presenta Gesù come nuovo Salomone, che attira i sapienti dell’Oriente (cf Mt 2,1-2) come il grande re d’Israele aveva attirato la visita della regina di Saba (cf 1Re 10,1; 2Cr 2,1). Luca da parte sua ci fa contemplare Gesù a cui rendono testimonianza Mosè ed Elia, in rappresentanza di tutta la Toràh e di tutta la Profezia (cf Lc 9,28-34). Giovanni ora ci mostra Gesù come nuovo Giuseppe, il patriarca «salvatore» dei figli d’Israele esuli in Egitto a causa della carestia (cf Gen 42,1-5), che non colpì solo il popolo dell’alleanza, ma fu un flagello per tutta la terra. L’Egitto così, per la lungimiranza di Giuseppe, figlio di Israele, fu la «terra promessa» dei popoli colpiti dalla carestia. Allo stesso modo il patriarca non fu solo il salvatore di Israele, ma colui che distribuì frumento e cibo a tutti i popoli, venuti a chiedere asilo e assistenza all’Egitto, espletando quindi una funzione salvifica universale, come Gesù, «il pane disceso dal cielo» che supera addirittura la manna che mangiarono i padri nel deserto (Gv 6,58; cf Es 16,35; Sal 78/77,24).
Gli evangeli non fanno cronaca, ma teologia e noi abbiamo il dovere di scendere dentro i fiumi carsici degli evangeli e lasciarci trasportare in profondità che forse non abbiamo mai sognato o abbiamo potuto solo immaginare. Per questa riflessione ci affidiamo in modo prevalente ad Aristide Serra, il più grande esegeta cattolico che ha dedicato tutta la sua vita a sviscerare la figura della madre di Gesù nel vangelo di Giovanni, esaminando, tra gli altri, il racconto delle nozze di Cana in ogni direzione, con profondità e prospettive veramente insuperabili. I testi a cui attingiamo sono diversi, ma in modo particolare ci rifacciamo a «Le nozze di Cana: Gv 2,1-12».
Giuseppe nella Bibbia
Del patriarca Giuseppe si parla in quattordici capitoli della Genesi in modo sparso, dal 30 al 50. Poi si hanno due reminiscenze nel libro dell’Esodo: al cap. 1 per giustificare la presenza degli Ebrei in Egitto e al cap. 13 per dire che Mosè, prima di partire dall’Egitto verso la terra promessa, «prese con sé le ossa di Giuseppe» (Es 13,19) per rispettare un desiderio dello stesso patriarca che, mentre da vivo fu esule in Egitto, da morto volle ritornare in mezzo al suo popolo, nella terra di Dio.
Di Giuseppe nell’Antico Testamento si parla complessivamente in otto passaggi, mentre in quarantuno passi si fa menzione dei suoi discendenti o della tribù che porta il suo nome (cf Gs 14,4;17,4;18,11 et passim). Nel Nuovo Testamento un solo passo parla, non direttamente di Giuseppe, ma della tribù che porta il suo nome.
Del grande patriarca, invece, si hanno altre testimonianze. Il diacono Stefano, prima di essere lapidato, fa una breve sintesi della storia della salvezza dal patriarca Abramo fino al re Salomone. All’interno di questa catena, vi è la figura di Giuseppe (cf At 7,9-18) che si lega a quella di Gesù in un nesso che supera la storia, per collocarsi in quell’ambito simbolico che apre a prospettive teologiche: Giuseppe è l’antesignano di Gesù Cristo attraverso le sue parole e i suoi gesti.
Anche la Lettera agli Ebrei, nella lunga galleria dei testimoni della fede, cita il patriarca Giuseppe che diede ordini agli Israeliti di portare con sé le proprie ossa, quando avrebbero lasciato l’Egitto (cf Eb 11,22).
Infine nell’Apocalisse, anche «la tribù di Giuseppe» ha dodicimila rappresentanti tra coloro che sono «segnati dal sangue dell’agnello», insieme alle altre undici tribù (cf Ap 7,8). Qui è la riprova che il Nuovo Testamento non nasce in contrapposizione all’Antico Testamento, ma si situa nel suo alveo e ne assume la linfa feconda, perché anche la Chiesa, lungi dal sostituire e soppiantare il popolo d’elezione, nasce e cresce come figlia d’Israele da cui nessuna potrà mai sradicarla.
Giuseppe sullo stesso piano di Mosè
Da parte sua Giovanni, oltre a mettere sulla bocca della madre di Gesù quasi le stesse parole del patriarca Giuseppe, poco più avanti, nel racconto della Samaritana (cf Gv 4), mette in evidenza, quasi con noncuranza che la città di Sìcar, da cui proveniva la donna samaritana, è l’antica Sìchem dei patriarchi: «Giunse così a una città della Samarìa chiamata Sìcar, vicina al terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio: qui c’era un pozzo di Giacobbe» (Gv 4,5; cf Gen 33,18-20; 48,21-22; Gs 24,32). Tra i Samaritani e i Giudei non correva buon sangue. «La donna samaritana gli dice: “Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?”. I Giudei infatti non hanno rapporti con i Samaritani» (Gv 4,9).
I Giudei disprezzavano i Samaritani perché si erano contaminati con altri popoli, soprattutto sul piano religioso (cf 2Re 17,24-41; Esd 4,1-5). Ciononostante, secondo la testimonianza di Giuseppe Flavio, anche i Samaritani avevano una venerazione altissima del patriarca biblico, posto sullo stesso piano di Mosè, fino al punto che, in alcune circostanze, si definivano «Giudei» perché si ritenevano discendenti di Èfraim e Manasse, cioè i due figli di Giuseppe (cf Flavio Giuseppe, Antichità Giudaiche XI,8.6).
In un testo importante della tradizione samaritana, il codice «Memàr Marqàh – Parola/Insegnamento di Marco», databile tra il sec. II e IV d. C., ma che riflette insegnamenti molto più antichi, come tutti i testi che riportano la tradizione orale, si può leggere:

«Non c’è nessuno come Giuseppe il re, e non c’è nessuno come Mosè il profeta. Ambedue hanno conseguito una posizione elevata: Mosè ha posseduto la profezia, Giuseppe ha posseduta la Buona Montagna [= il monte Garìzim]. Non v’è nessuno più grande di loro due» (Testo e bibliografia in A. Serra, Le nozze di Cana Gv 2,1-12, 354 n. 608).
C’è però ancora qualcosa nel quarto vangelo, il quale per ben due volte sottolinea che il rabbi di Nàzaret è «Gesù, il figlio di Giuseppe» (Gv 1,45; 6,42a). Diverse volte abbiamo detto che in Giovanni quando una parola, un’espressione, un fatto, un nome, una circostanza, ecc. ricorrono due volte è segno che l’autore ci vuole invitare a non passare oltre, ma a fermarci per cogliere il senso nascosto (senso pieno) che c’è oltre il significato ovvio e immediato. È evidente che da un punto di vista ordinario, con l’espressione «Gesù, figlio di Giuseppe» si dice che Gesù è proprio il figlio di Giuseppe, il carpentiere di Nàzaret, perché di quel nuovo rabbi che percorre la Palestina tutti conoscono «il padre e la madre» (Gv 6,42b). Questo è il senso ovvio, il significato primo, quello delle parole così come sono pronunciate e comprese. Noi diremmo il senso materiale.
Il Messia discendente di Giuseppe
Oltre questo, però, Giovanni ci dice dell’altro nel contesto della mentalità, della cultura e delle attese del tempo di Gesù, dove era viva e vigile l’attesa di un doppio Messia: uno discendente di David e l’altro «figlio di Èfraim» o anche «figlio di Giuseppe» (cf Dt 33,17; per la letteratura giudaica invece cf TJI Es 40,9.11; Targum Ct 4,5; Gen Rabbàh 75,6 a Gen 32,6; Pesiktà Rabbati 30,4, ecc.).
Dal punto di vista letterario è interessante notare anche il già citato Gv 1,45: «Filippo trovò Natanaèle [= Bartolomeo] e gli disse: “Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè, nella Legge, e i Profeti: Gesù, il figlio di Giuseppe, quello di Nàzaret”». L’ultima parte del versetto «quello di Nàzaret» in greco è al caso accusativo ed è una apposizione che non si riferisce a Giuseppe (complemento denominativo di specificazione e quindi collocato al caso genitivo), ma deve attribuirsi, «apporsi», al nome «Gesù», che è complemento oggetto e quindi va collocato al caso accusativo. Tradotto in modo più chiaro si direbbe: «Gesù di Nàzaret, figlio di Giuseppe».
Questa semplice annotazione di analisi logica ci dice due cose:
1° – Gesù è di Nàzaret; quindi, se ne conosciamo la città, sappiamo da dove viene: è un uomo, un rabbino che abita nella città di Nàzaret, figlio del carpentiere, è un essere umano, uno di noi.
2° – Con l’espressione «figlio di Giuseppe», l’evangelista afferma che quell’uomo, uno di noi, è anche il Messia, discendente del patriarca, che viene a convocare il suo popolo, non più per organizzarlo a superare la carestia, ma per ricevere «il pane disceso dal cielo» che è lui stesso (Gv 6,41.51.58). Mentre il patriarca dispensa il grano che aveva raccolto nei silos, Gesù dona semplicemente se stesso, senza riserve.
Poiché lo spazio a nostra disposizione per questa puntata è terminato, sarà necessario dedicarvi ancora la prossima per analizzare la figura del patriarca in rapporto sia alla sua funzione «universale» sia in rapporto in modo particolare al racconto dello sposalizio di Cana.
(28 – continua).

Paolo Farinella

Note

1 – K. Rahner, Uditori della Parola, Borla, Roma 1988.

Paolo Farinella




Pakistan: i grigi mattoni dell’ingiustizia

Ogni volta che si parla di Pakistan è sempre per dare brutte notizie. Quando non ci sono attentati o omicidi o bombardamenti della Nato (26 novembre 2011, con 24 militari pakistani uccisi), si tratta di disastri naturali. Un peccato per un paese che altrimenti sarebbe affascinante. All’inizio di novembre 2011, a Karachi, provincia di Sindh, nel Pakistan meridionale, nel giro di pochi giorni sono stati uccisi un commerciante cristiano (Jamil Masih) e un pastore protestante (Jamil Sawan). Pochi giorni prima, nella stessa provincia, in una cittadina nei pressi di Shikarpur, erano stati assassinati quattro medici indù, probabilmente per mano di membri della confrateita musulmana Bhaya Baradari per vendicare un matrimonio tra una indù e un musulmano. Nel frattempo, l’Autorità pakistana delle Telecomunicazioni ha diramato un provvedimento che ordina alle società di telefonia di bloccare i messaggi di testo (Sms) in cui siano inserite una serie di parole ritenute volgari, oscene o nocive. Tra esse vi sarebbero – racconta l’agenzia Fides – anche «Gesù Cristo» e «Satana». Tutti episodi che, ancora una volta, confermano la difficile condizione in cui versano le minoranze non-musulmane che vivono nel paese asiatico, in particolare gli indù e i cristiani. Ognuno di questi gruppi conta circa 3 milioni di fedeli (pari al 2 per cento della popolazione pakistana).
Va ricordato che è ancora aperto il caso di Asia Bibi, la donna cristiana condannata a morte con l’accusa di aver offeso il profeta Maometto (blasfemia). «L’8 novembre 2010 – racconta nella sua autobiografia -, dopo cinque minuti di camera di consiglio, la sentenza si abbatte su di noi come un fulmine. “Asia Noreen Bibi, ai sensi dell’articolo 295-C del codice pakistano, questa corte la condanna alla pena capitale per impiccagione e a un’ammenda di 300.000 rupie”».
Nel frattempo la politica langue nella corruzione. Il presidente Asif Ali Zardari, già marito di Benazir Bhutto (assassinata il 27 dicembre 2007 durante la campagna per le elezioni generali), non ha dato una svolta al paese. Come grida nei suoi affollatissimi comizi Imran Khan, famoso ex capitano della nazionale pakistana di cricket, dal 1996 leader del Movimento per la giustizia, che si prepara alle elezioni del 2013. Oggi Khan è di gran lunga il politico più popolare, surclassando il presidente in carica e Nawaz Sharif. Quest’ultimo, miliardario ed ex primo ministro, è leader della Lega musulmana-N e gode del supporto dell’Arabia Saudita, attore invisibile ma certamente molto attivo sul palcoscenico pakistano. Più visibili sono gli Stati Uniti, che nel maggio 2011 in una città pachistana hanno trovato ed ucciso Osama bin Laden, da tempo ospite – più o meno occulto – nel paese asiatico. Per contrastare i talebani e controllare un paese strategico (e nucleare), Washington sovvenziona copiosamente l’esercito e il governo di Islamabad, ancorché inaffidabili e corrotti. Gioca invece da battitore libero l’Inter-services intelligence (Isi), la potentissima agenzia dei servizi segreti del Pakistan, coinvolta in tutti i conflitti e i complotti.

Indipendentemente da chi sia al potere, finora il paese asiatico non è riuscito ad uscire dal circolo vizioso della povertà. Tutti i dati lo confermano. Su una popolazione totale di quasi 190 milioni di persone, oltre 64 milioni vivono sotto la soglia di povertà, sia nelle aree rurali che nelle immense periferie degradate delle città. Le donne, tradizionalmente costrette ad un ruolo subalterno (nella famiglia e nella società), sono i soggetti più colpiti. Assieme ai bambini: si stima che il 37,4 per cento dei minori sotto i 5 anni siano malnutriti. In queste condizioni, è facile che gruppi di privilegiati – siano militari, politici al potere, religiosi musulmani fondamentalisti o l’oligarchia (composta da una decina di famiglie) – riescano a manovrare una popolazione fiaccata da un’esistenza ai limiti della pura sopravvivenza. In Pakistan, come in molti altri paesi del mondo, la «collera dei poveri» non ha ancora trovato una strada autonoma ed efficace.

Paolo Moiola

Paolo Moiola