I dubbi dell’isola «Ribelle»

Dopo Hong Kong, reportage dall’«altra» Cina

Separata dal 1949, l’isola di Taiwan (ex Formosa) è divisa tra nazionalisti (che guardano alla Cina) e democratici (che guardano agli Stati Uniti e all’Occidente). Con la vittoria elettorale dei primi, Taipei si è molto avvicinata a Pechino, come dimostra anche l’adesione ad un importante accordo di libero scambio (l’Ecfa). Eppure, anche se pochi taiwanesi parlano di «indipendenza» (termine tabù), ancora meno considerano l’opzione della «riunificazione» alla Cina continentale.

Taipei. Per avere un’idea di come i taiwanesi guardino alla storia cinese, basta farsi un giro al memoriale dedicato a Chang Kai-shek. Una struttura imponente, persa in mezzo ad una piazza immensa e deserta, cui fanno capolino alcuni taiwanesi impegnati a diffondere quanto di più proibito c’è per Pechino: il culto del Falun Gong, il gruppo religioso-filosofico fuorilegge in Cina dal 1999. Per i taiwanesi il memoriale è un simbolo: pur avendo perso la battaglia per la Cina (1949, leggere box), essi hanno trasformato quella sconfitta nell’annullamento (ancorché simbolico) degli storici rivali, i comunisti cinesi. Siamo a Taipei, circa tre ore di volo da Pechino (i viaggi diretti sono in vigore solo da tre anni; in precedenza, per andare dalla Cina a Taiwan, era necessario uscire dal paese, passare per Hong Kong e prendere un volo verso l’isola considerata ancora oggi ribelle da Pechino), ma la distanza sembra secolare.
Il Partito comunista cinese non è mai menzionato nel museo di storia nazionale, tra le macchine lussuose usate dal generale Chang Kai-shek e le foto in cui è ritratto insieme ai leader che riconobbero Taiwan. I cinesi chiacchierano e guardano stupiti i documenti e l’immensa statua di Chang Kai-shek, al termine delle tante scale che portano al monumento. Un altro mito che la Cina si appresta a fare crollare. Pechino, ormai, è sempre più vicina. La profonda recessione economica di Taiwan (ante-2010) pare essere risultata determinante per un cambiamento permanente dei rapporti tra l’isola «ribelle» e la Grande Cina, così vigorosa e imponente nella sua crescita economica.

SOLTANTO UN ACCORDO DI 
LIBERO SCAMBIO?
Per capire a che punto siano le relazioni tra Cina e Taiwan è necessario un breve excursus, che mostra nel recente accordo economico-commerciale tra i due paesi il nuovo ago della bilancia, il nuovo equilibrio. Con esso si sigilla la scelta della classe politica oggi al potere a Taiwan, i nazionalisti del Guomindang (leggere box), per un riavvicinamento nei confronti della Cina, a scapito dell’influenza storica degli Stati Uniti.
Solo nel 2009 – per la prima volta dal 1949 – i leader dei due paesi si sono incontrati a Pechino, a seguito di un anno vissuto pericolosamente. Prima di quella data a Taiwan erano al potere i democratici, schierati su posizioni indipendentiste. Nel 2008, con la vittoria del Guomindang, il partito nazionalista di Ma Ying-jeou, tutto è cambiato. La Cina ha subito approfittato della salita al potere dei nazionalisti, schierati su posizioni ad essa favorevoli, per dare inizio ad una nuova stagione nei rapporti tra i due paesi. Un avvicinamento confermato anche dalle recenti (novembre 2010) elezioni in cinque città che hanno dato – anche se di stretta misura – il via libera popolare alla scelta del Guomindang: la maggioranza della popolazione ha votato in favore di chi riteneva che l’avvicinamento alla ricca Cina fosse necessario.
Il 29 giugno 2010 era stato infatti firmato l’Economic Cooperation Framework Agreement (Ecfa), un accordo economico che abbassa le tariffe degli scambi commerciali tra i due paesi, con la conseguente creazione di un’area di libero scambio che ricorda molto da vicino le politiche cinesi già in precedenza attuate per le zone economiche speciali o per Hong Kong. L’Ecfa ha diviso la società civile taiwanese in due tronconi: i favorevoli e i contrari a Pechino.

I DEMOCRATICI:
NON CI FIDIAMO
Esistono ancora forti differenze, ma – come in un gioco di specchi – i taiwanesi si considerano più cinesi degli abitanti continentali. Usano ancora gli ideogrammi tradizionali, si dedicano molto più, almeno in apparenza, al culto dello spirito rispetto agli ipermaterialisti cinesi di oggi. «Noi non sputiamo e siamo educati», mi raccontano alcuni ragazzi che incontro in uno dei tanti night market della città. Sono cortesi, felici di poter chiacchierare con uno straniero e parlano un buon inglese. I taiwanesi mangiano quasi sempre fuori casa, dati i prezzi economici e la diffusione capillare dei mercati all’aperto tra fumi di tofu, salsicce e ogni genere culinario. Il piatto forte è una specie di cotoletta di pollo croccante, da avvolgere in un pezzo di carta e mangiare con le mani. Le file sono lunghissime e con la compagnia incontrata c’è tempo per scambiare più di una battuta. Scopro così che si tratta di attivisti del Democratic Progressive Party, l’opposizione taiwanese: volantinano e regalano pacchetti di fazzoletti di carta con in bella vista il volto di Tsai Ing-wen, la leader del partito.
Girano tra i vari mercati, quando li incontro sono in pausa, in attesa della bistecca di pollo: «Non siamo cinesi – specificano -. Ad esempio, non sputiamo, non abbiamo un partito unico e siamo democratici». Una volta terminato il pasto in piedi, mentre osserviamo la fiumana di gente muoversi in modo agitato tra i vari stand, li seguo nella loro attività militante: molte persone si fermano, discutono, altre scuotono la testa e affermano di essere a favore del Guomindang. La mia presenza sembra aizzare un poco gli animi, specie quando mi viene chiesto da dove arrivo e la risposta include la parola Cina. Molti infatti lasciano briglia sciolte alle peggiori nefandezze contro Pechino. In molti criticano il partito di governo, per criticare la Cina. Sono loro, i nazionalisti taiwanesi, ad avere operato per spingere l’isola sotto il controllo pechinese.
«I nazionalisti hanno venduto Taiwan alla Cina», affermano i ragazzi, che sono durissimi verso l’Ecfa: «È un modo come un altro per mettersi nelle mani della Cina e garantire ai ricchi taiwanesi i propri affari».
I giovani rappresentano la base, il corpo sociale del partito democratico. Shane Lee, invece, è professore della Chang Jung Christian University di Taipei. Il suo approccio è da intellettuale organico al partito democratico, molto attento alle parole senza evitare però stoccate dure e pungenti ai suoi avversari politici. È lui che prova a spiegarmi le ragioni del malcontento dei democratici rispetto alla nuova piega presa dalle relazioni tra Pechino e Taipei: «L’accordo non favorisce la nostra industria, la disoccupazione salirà e il gap tra i ricchi e i poveri aumenterà. I ricchi diventeranno sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Speriamo che in futuro il nostro governo cambi questo approccio di estrema dipendenza dalla Cina. Siamo preoccupati perché ormai conosciamo i cinesi: attraverso l’economia cercheranno di stringere intorno al nostro collo il nodo politico, finendo per farci perdere le conquiste democratiche della nostra storia. La nostra gente è molto preoccupata da questo avvicinamento. Del resto la Cina non è mai stata “gentile” con noi. Oggi però, secondo i sondaggi, la maggioranza dei taiwanesi è favorevole alle relazioni con la Cina sia per questioni economiche che militari. Taiwan è militarmente debole e vulnerabile ad eventuali attacchi missilistici di Pechino. Questo lo sanno tutti e tale aspetto rimane una delle principali preoccupazioni della popolazione».

I NAZIONALISTI:
È SOLTANTO ECONOMIA
Sun Yang-ming è un ex giornalista, vice presidente del Cross-Strait Interflow Prospect Foundation, un think tank che esamina le relazioni tra Cina e Taiwan. La sua è la posizione di chi ha lavorato all’accordo e di chi, più in generale, è favorevole a Pechino: «L’Ecfa è importante per entrambi, ma ognuno ha le proprie interpretazioni. Pechino crede che questo sia il momento per andare verso un’intensificazione dei rapporti con Taiwan: per i cinesi, l’Ecfa è soltanto il primo passo dei molti che hanno in mente. Noi diciamo un’altra cosa: vediamo come esso funziona, come la gente reagirà, se, soprattutto, sarà utile a risollevere la nostra economia. Noi non possiamo andare veloci quanto la Cina. La nostra parola d’ordine è stabilità. Anche perché, ora come ora, la posizione del nostro presidente è debole: Ma Ying-Jeou paga la crisi e l’Ecfa è una prima risposta».
C’è da chiedersi, specie per uno come Sun Yang-ming, molto vicino ai teorici statunitensi, cosa pensano gli Stati Uniti dell’accordo economico: «Gli americani – dice ridendo – sono estasiati dall’Ecfa! Erano terrorizzati dai leaders del Partito democratico e dai loro continui balletti e sparate mediatiche contro la Cina. Per loro era un problema. Comunque, anche con gli Usa noi siamo stati chiari: l’Ecfa non è un passo verso la riunificazione politica. Siamo stati onesti e abbiamo specificato tutto quanto vogliamo fare». È la verità? «Sinceramente: una eventuale unificazione politica non è un’opzione valida in questo momento dal nostro punto di vista. Alla popolazione di Taiwan ormai non interessa più essere indipendente o essere considerata cinese: vuole soltanto vivere in pace e in una situazione economica tranquilla. Vuole controllare il proprio portafoglio e sentirlo pieno. La gente di Taiwan del resto non può essere spinta ad una unificazione quando per cinquant’anni abbiamo detto peste e coa dei cinesi. Sarebbe assurdo».

Simone Pieranni

ACCORDI ED AMBIGUITÀ

IL MONDO OLTRE LO STRETTO

Gli interessi economici sembrano aver sopito le polemiche tra la Cina del continente e la Cina di Taiwan. Tuttavia, Pechino considera Taipei sempre una «provincia ribelle». E non vedrebbe di buon occhio un ritorno al governo del paese del Partito democratico in caso di vittoria nelle elezioni presidenziali del 2012.

Per i taiwanesi oltre lo Stretto c’è la Cina o il Continente? La rettificazione dei nomi è una delle chiavi di volta del pensiero confuciano. In accordo con lo zhengming (teoria confuciana dei nomi, ndr), per raggiungere le finalità proprie alla posizione e agli obblighi sociali di ciascuno, i nomi devono essere corrispondenti all’oggetto cui si riferiscono.
Negli ultimi tempi il dibattito politico a Taiwan è ruotato attorno ai due termini: Cina e continente. Merito del presidente Ma Ying-jeou che ha sollevato il problema a colloquio con i parlamentari del Guomindang, il Partito nazionalista, tornato al governo tre anni fa, dopo otto anni in cui aveva dovuto cedere la guida dell’isola al Partito progressista democratico (Pdp), schierato su posizioni indipendentiste. Per oltre cinquant’anni, ossia da quando le truppe nazionaliste di Chang Kai-shek furono sconfitte nella guerra civile dai comunisti guidati da Mao Zedong e dovettero riparare a Formosa, entrambe le sponde dello Stretto si sono considerate la sola e unica Cina.
Qualcosa è cambiato con l’inizio del nuovo secolo. Negli anni di governo del Pdp, tra il 2000 e il 2008, gli abitanti dell’isola avevano iniziato a considerare il proprio Paese qualcosa di diverso dalla Repubblica popolare. Era semplicemente Taiwan. Mentre sull’altra sponda, superato il braccio di mare che li divide dagli ingombranti cugini, c’è la Cina. Dopo aver riportato i nazionalisti al governo, il presidente Ma ha avviato un percorso di riavvicinamento con il governo cinese, suggellato lo scorso giugno dalla firma di un accordo di cooperazione economica che ha segnato il punto più alto delle relazioni tra Pechino e Taipei dal 1949. «È un momento decisivo per lo sviluppo di un dialogo a lungo termine  –  disse Chiang Pin-kung, capo della delegazione di Taipei -, dobbiamo cogliere l’opportunità di lavorare insieme e fidarci reciprocamente». L’accordo, conosciuto come Economic Cooperation Framework Agreement o semplicemente Ecfa, prevede che Pechino abbassi le tariffe d’importazione su 539 prodotti taiwanesi. L’isola farà lo stesso per 267 prodotti cinesi. Nel 2008, primo anno dall’apertura delle frontiere ai turisti cinesi, in oltre 2 milioni hanno visitato l’isola. E quest’anno, i visitatori cinesi a Taiwan, 1,2 milioni, dovrebbero superare i giapponesi. Senza contare gli oltre 2.000 studenti che, attraversato lo Stretto, saranno ammessi quest’anno nelle università taiwanesi.
Eventi e problemi
È in questo contesto che si colloca il discorso tenuto a febbraio 2011 dal presidente. Un ritorno al cosiddetto «Consenso del 1992», un testo stilato dai due governi – ma mai messo in atto –, che stabilisce i parametri comuni per l’interpretazione del concetto di unica Cina.
In pratica ognuna delle due parti lo utilizza a proprio piacimento, entrambe riconoscendosi come la vera Cina. Per Pechino l’isola continua a essere una «provincia ribelle», mentre per Taipei – erede della Repubblica fondata nel 1912 al crollo del secolare Celeste impero –  al di là dei 180 chilometri di Stretto c’è il Continente. La presa di posizione del presidente sembra sostenuta dai sondaggi. Secondo una ricerca del Global Views Monthly, pubblicata a fine gennaio 2011, il 54,8 per cento dei taiwanesi è propenso a mantenere lo status quo. E a fronte di un 27,7 per cento che aspira alla definitiva indipendenza, soltanto il 7,1 per cento vede nel proprio futuro una riunificazione politica con la Repubblica popolare.
I risvolti diplomatici di questa ambiguità sono emersi all’inizio dell’anno, quando Taipei ha richiamato i propri rappresentanti nelle Filippine, colpevoli di aver estradato a Pechino 14 cittadini taiwanesi accusati di frode. Nel 1975 il dittatore filippino Ferdinand Marcos firmò un accordo con l’allora primo ministro cinese, Zhou Enlai, con cui riconosceva l’esistenza di una sola Cina, di cui Taiwan era una parte inscindibile. Pur tra le legittime preoccupazioni del governo taiwanese per la sorte dei propri connazionali (accusati di essersi appropriati di oltre 20 milioni di dollari), Manila non ha potuto non rispettare l’accordo di estradizione firmato con Pechino nel 2001 ed entrato in vigore cinque anni dopo. Ricorda infine uno scenario da Guerra fredda l’arresto, quattro mesi fa, del generale Lo Hsien-che, con l’accusa di aver passato per anni segreti militari alla Repubblica popolare e condannato per questo all’ergastolo a fine maggio. Per il ministero della Difesa di Taipei si tratta del più grave caso di spionaggio negli ultimi 50 anni e, secondo quanto riferito dall’agenzia missionaria Asia News, potrebbero essere coinvolte almeno altre 10 spie.
Così come ricordano vecchi rancori le accuse mosse contro alcuni quotidiani, i cui articoli sul Continente sono considerati forme di propaganda pro cinese, finanziata da Pechino, in spregio a una vecchia legge che vieta di fare pubblicità alle aziende o ai prodotti made in China.
Le presidenziali del 2012
Tutto questo avviene mentre l’isola inizia a prepararsi per le presidenziali di gennaio 2012. La presidentessa del Pdp, Tsai Ing-wen, si è aggiudicata il sondaggio telefonico commissionato dai democratici per la scelta del proprio candidato, superando di un punto percentuale l’ex primo ministro, Su Tseng-chang: 42,5 per cento contro 41,5 per cento il risultato finale della rilevazione. Prima donna a correre per la poltrona presidenziale, è per gli elettori una mediazione tra le posizioni indipendentiste intransigenti di parte dei democratici e la politica di riavvicinamento con la Cina continentale del Gmd. È considerata una moderata, esponente dell’ala pragmatica del partito, decisa a non interrompere bruscamente i nuovi rapporti economici con Pechino. Questo sebbene negli anni Novanta sia stata tra le ispiratrici della «teoria dei due Stati», propugnata dall’ex presidente Lee Teng-hui, e della proposta di cambiare il nome ufficiale di Formosa da «Repubblica di Cina» a «Repubblica di Taiwan».
Tuttavia l’appartenenza al Pdp è tutt’altro che una garanzia per la dirigenza cinese. «È una persona mite, ma resta comunque una separatista, sebbene moderata. I rapporti tra le due sponde dello Stretto potrebbero subire un’inversione di rotta», ha sottolineato Wang Jianmin, ricercatore dell’Accademia cinese per le scienze sociali. Tsai non ha intenzione di rinnegare quanto fatto negli ultimi tre anni dal suo rivale, ma è decisa a trattare la Cina come un qualsiasi altro partner economico e soprattutto con il sostegno dell’«Organizzazione mondiale del commercio» che, al momento, il governo di Taipei ha preferito lasciare fuori dai rapporti con Pechino.
Gli scambi con la Cina hanno spinto l’economia dell’isola a un tasso di crescita che, nel 2010, ha toccato l’11 per cento, il più veloce degli ultimi 23 anni. E a marzo le esportazioni verso il continente hanno superato i 2,5 miliardi di euro. Vinto il primo round, Tsai dovrà ora cercare di tenere unito il suo stesso partito. Dal suo sfidante alle primarie ci si attende un impegno a favore della vincitrice. Su è però in rotta con uno dei principali sponsor politici di Tsai all’interno del Pdp, quel Frank Hsieh battuto due anni fa alle presidenziali da Ma Ying-jeou. Nei sondaggi, tra l’attuale capo di Stato e la sua sfidante è al momento testa a testa. Tuttavia, Ma può contare su un precedente propizio: la sconfitta di Tsai nella corsa a sindaco di Taipei lo scorso anno, quando a vincere fu il candidato dei nazionalisti.

Andrea Pira

La situazione religiosa

Diversi da Pechino

A Taiwan la religione è libera. Il culto più praticato è il buddismo, anche se il taoismo è la religione, la seconda, che ha più templi sull’isola (circa 18mila). Il 4,5 % della popolazione è cristiana: protestanti con circa 3mila chiese e cattolici con circa 298 mila membri e oltre 1.000 chiese. A Taiwan, inoltre, sono presenti molte sette e culti minori, come il Falun Gong, religione vietata in Cina che ha trovato molti adepti sull’isola ribelle, dove può essere praticata liberamente.

Il Falun Gong è un sistema di pratiche e credenze fondato recentemente, nel 1992, ad opera di Li Hongzi. Si tratta di un movimento spirituale, considerato come una setta dal Partito comunista cinese, che ha finito per avere grande diffusione in Cina negli anni ‘90. Secondo dati ufficiali cinesi nel 1998 sarebbero stati oltre 70 milioni i praticanti del Falun Gong, un mix tra spiritualismo qigong e grande enfasi alla morale. Dopo essere stati bollati come una setta, molti praticanti del Falun Gong a fine anni ‘90 diedero vita a numerose proteste pacifiche. A Pechino 10 mila persone contestarono il governo a causa del trattamento subito dai media proprio a Zhongnanhai, quartier generale dei leader cinesi. Da quel momento il Falun Gong è considerato illegale in Cina.

Andrea Pira




La vergogna della fame

La povertà, il sottosviluppo e quindi la fame sono spesso il risultato di atteggiamenti egoistici che partendo dal cuore dell’uomo si manifestano nel suo agire sociale, negli scambi economici, nelle condizioni di mercato, nel mancato accesso al cibo e si traducono nella negazione del diritto primario di ogni persona a nutrirsi e quindi ad essere libera dalla fame. Come possiamo tacere il fatto che anche il cibo è diventato oggetto di speculazioni o è legato agli andamenti di un mercato finanziario che, privo di regole certe e povero di principi morali, appare ancorato al solo obiettivo del profitto? L’alimentazione è una condizione che tocca il fondamentale diritto alla vita. Garantirla significa anche agire direttamente e senza indugio su quei fattori che nel settore agricolo gravano in modo negativo sulla capacità di lavorazione, sui meccanismi della distribuzione e sul mercato internazionale. E questo, pur in presenza di una produzione alimentare globale che, secondo la FAO e autorevoli esperti, è in grado di sfamare la popolazione mondiale.

Papa Benedetto XVI
udienza alla Fao, 1 luglio 2011

Verso metà giugno ho cominciato a ricevere notizie della grave situazione di fame in Kenya, soprattutto nel Nord, dove anche nella «mia» Maralal (è stata la prima missione per me) la gente muore letteralmente di fame a causa di un lunghissimo periodo di siccità. So cosa vogliano dire siccità e fame: ero là nel 1992 quando sconvolsero la vita della gente e nella missione distribuivamo razioni a oltre 2000 persone ogni settimana e acqua ogni giorno a più di 700 famiglie. In quel frangente molto bestiame morì, ma non le persone. Ora, 20 anni dopo, la siccità ha colpito ancora e non solo muore il bestiame, ma con esso le persone, senza che ci siano scorte sufficienti, senza un efficace piano di aiuti, con il prezzo del cibo alle stelle e le solite speculazioni sulla pelle della gente. Questo mentre il Kenya (ma non è l’unico paese africano a farlo!) continua ad esportare fiori verso l’Europa (20% del mercato), latte (anche in Italia), verdura fresca per i supermercati londinesi e granaglie – svuotando le sue riserve – verso altri paesi africani che pagano meglio.
Per contro, viaggiando nella nostra bella Italia si nota facilmente come le aree incolte siano in aumento. Chi è troppo piccolo per l’agricoltura non coltiva più, chi è grande riceve invece sussidi per non coltivare oppure, invece di produrre per cibo, produce per il ben più redditizio mercato della cosiddetta bio-energia, che di «bio» (vita) ha davvero poco.
Poi sento da amici panettieri dell’esorbitante quantità di pane che sono costretti a buttare ogni giorno perché non «fresco di giornata», e dello spreco delle mense aziendali, scolastiche e pubbliche che non possono riciclare il cibo inutilizzato, e dei ristoranti e supermercati che buttano via quantità industriali di prodotti ancora perfettamente commestibili a causa di date di scadenza iperprotettive, spesso più utili alle tasche dei produttori che alla salute dei consumatori. Senza poi dimenticare le tonnellate di prodotti (dal latte alle arance) mandati bellamente al macero per non abbassare i prezzi di mercato, ed i magazzini nazionali e comunitari che hanno riserve di cibo ben inferiori a quanto previsto dalla legge e dal buonsenso perché costa troppo gestirle.
E c’è di peggio: il cibo è diventato preda della speculazione in borsa, con investitori senza scrupolo e senza controllo che ne fanno salire artificialmente il prezzo. E allora si capisce il perché delle «rivolte del pane», della rabbia dei poveri, delle morti per fame. Quale povero, guadagnando due dollari al giorno (se li guadagna!), può permettersi di pagae uno per un solo chilo di farina? E la farina da sola non basta, ci vogliono acqua pulita, carbone, olio, verdura, frutta, carne, sale, zucchero… che diventano lussi impossibili. Quante persone può saziare un chilo di farina, se le sazia?
È semplicemente un’oscenità che dopo tanto parlare, tanti dispendiosi ed enfatici summit a tutti i livelli per debellare la povertà entro il 2015, continuino a morire di fame uomini e donne in molte parti del pianeta. È il fallimento della politica che invece di servire il bene comune si è arresa alla logica del profitto, del più forte e di chi, ancor oggi, continua a pensare che una minoranza ricca abbia il diritto di accaparrarsi tutto, perché il mondo è fatto di dominatori e dominati, padroni e schiavi, benestanti e poveracci, di chi elargisce il lavoro e di chi deve ringraziare di avere il privilegio di lavorare anche se sottopagato, precario, sfruttato e perennemente indebitato.
Qualcuno certo dirà: «Non sono discorsi da missionari questi! Questo è fare politica!»
Forse, però vada a dirlo ai tanti missionari, missionarie e volontari che sul fronte della fame, della guerra, della povertà devono seppellire i morti…

di Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




Mediamente

Il piacere di capire

FUORI DAL CORO

Bianca come il latte, rossa come il sangue
Alessandro d’Avenia,  Mondadori,  2010 – Euro 14,00

Il giovane Alessandro d’Avenia, classe 1977, firma un romanzo dallo stile fresco e autentico. Il suo rapportarsi alla realtà grazie al mestiere dell’insegnante gli consente di avvicinarsi con emotività e senza nulla di artificioso alle voci dei ragazzi, storie di vita raccolte prevalentemente in classe. Il suo romanzo d’esordio si legge d’un fiato e ci riporta tutti, chi più e chi meno, a quelle prime pulsioni e domande esistenziali dell’adolescenza. Leo è un sedicenne che sta maturando un percorso introspettivo verso una maturità più completa. Il suo sogno principale si colora di rosso, perché rossi sono i capelli di una certa Beatrice che incontra a scuola. Quando la spinta di tanto entusiasmo si ammala, la vita di Leo viene invasa da un bianco penetrante, il simbolo dell’assenza e del nulla. Inizia così una partita con la vita e una lenta consapevolezza dell’ineluttabilità umana ma anche della forza e della bellezza delle più semplici relazioni.  

«Diamoci del tu»: botta e risposta con l’autore

Il tuo libro è stato definito da alcuni critici come un libro di «formazione» quasi specificamente diretto a un pubblico adolescenziale. La pensi così o credi che il pubblico, di qualsiasi età, possa avvicinarsi a questa lettura?  
L’adolescenza è l’età in cui si scopre il fascino dell’età adulta. Non si tratta di leggere le età della vita come tappe concluse una volta per tutte, ma di integrarle nell’unità storica della persona. Non vuol dire rimanere bambini o adolescenti, ma conservare ciò che ognuna di queste tappe ha conquistato: la semplicità del bambino e la fame di senso dell’adolescente. Il mio libro parla ad ogni adolescente: chi ha quell’età o chi l’ha avuta. Parla ai genitori, parla ai professori. È un libro per tutti.

Il bianco è l’assenza, il rosso è la vita. Si potrebbe dire che, proprio grazie alle  relazioni interpersonali, si attua la maturazione esistenziale del protagonista?   
Oggi le relazioni sono diventate “liquide”, come dice un filosofo contemporaneo, perché da un lato non si vogliono costruire legami forti che sembrano toglierci la libertà, dall’altro si ha una sete estrema degli stessi e li si cerca quasi ossessivamente saltando da un legame all’altro, illudendosi che con la quantità si possa sopperire alla mancanza di qualità. Manca un fondo solido su cui muoversi. I ragazzi vivono secondo i modelli che la cultura adulta presenta e incoraggia. Non è un problema loro, ma della cultura di chi li ha generati. I ragazzi hanno fame di maestri e ancor più di testimoni. Solo la vita educa e solo la vita incanta. Un insegnante “accende” se è “acceso” lui, se ha trovato lui la stella. Solo chi ama conosce. Non c’è altra strada: insegna a vivere solo un insegnante che ama la vita sua e dei propri ragazzi e la difende, la conserva, la incoraggia.

Giovane professore, giovane maestro di vita. La complicità tra romanziere e personaggio letterario come nasce e cosa vuole trasmettere a chi legge?
La storia, diceva Aristotele, racconta le cose come sono, l’arte le racconta come possono essere. Nel romanzo c’è una forte tensione ad una scuola possibile, che in questi anni ho visto spesso realizzarsi grazie alla collaborazione con colleghi e genitori impegnati in un unico scopo. I ragazzi, se trovano professori che “professano” la loro materia come una fede, che amano le loro vite come un tesoro prezioso, sono disposti a seguirti ovunque, con i tipici alti e bassi della loro età e gli errori di noi adulti. La scuola, come la famiglia, è un sistema imperfetto. Il Sognatore è uno che aiuta Leo a diventare Leo perché vive lui la pienezza della sua vocazione di uomo adulto e insegnante. Lo diceva bene la Ginzburg: solo chi ha una vocazione e la vive ne provoca altre attorno a sé. Io questo lo vedo accadere, nonostante tutte le difficoltà e le sconfitte che comporta.

I primi sullo scaffale

Revolutionary Road, Richard Yates  
Minimum fax, 2009 – Euro 18,00

Un cult pubblicato nel 1961 dalla Garzanti con il titolo I non conformisti torna nell’edizione del 2009 ed è più attuale che mai. Ambientato nel 1955, è la storia dei Wheeler, una giovane coppia trentenne, che coltiva il proprio anticonformismo in modo ingenuo e anche un po’ ipocrita. L’ambizione frustrata e il fallimento si svelano in ogni gesto e all’interno della loro casa, specchio della middle class, ma anche di una crescente amarezza. Yates coglie perfettamente le nevrosi e il vuoto di una società basata sull’immagine e indaga sui rapporti interpersonali, sulla famiglia mononucleare, sulla solitudine degli anonimi sobborghi cittadini fino a ricalcare, come su un palco teatrale, le orme della tragedia shakespeariana. 

Il cane nero, Rebecca Hunt
Ponte alle Grazie, 2011 – Euro 16,00

Il 22 luglio 1964, nella sua dimora tra le tranquille colline del Kent, Winston Churchill si sveglia e si ritrova in compagnia di una vecchia conoscenza, un ospite tutt’altro che gradito. È un gigantesco cane nero e, dal buio del suo angolo, non gli toglie gli occhi di dosso. Qualche ora più tardi, nella sua casetta a schiera, la giovane Esther si prepara ad accogliere un aspirante inquilino: è il cane nero che vuole installarsi a casa sua, anzi nella sua mente. Ironico, umano e mai banale, il romanzo della Hunt si apre a un’interessante interpretazione tra la depressione e le sue vittime. Dove l’unica possibilità per combattere il male del secolo ha un nome: accettazione.

Che te lo dico a fare, marco biaz
Miraggi Edizioni, 2011 – Euro 24,00

Siamo a Torino, il 2008 volge al termine. Nel cuore della città, a due passi dalla stazione, c’è il Bojan Faust, un malfamato albergo gestito come uno stato da due macedoni e da un Dj africano. Intoo al Bojan orbitano strani personaggi provenienti dai quattro angoli del globo. Che te lo dico a fare è un romanzo veloce e asciutto sulla vita trasversale di una città: una Torino che sembra una capitale europea ma che non riesce a liberarsi dal suo Dna intollerante, un luogo ospitale solo per pochi e un porto franco per piccoli e grandi delinquenti. Storie di uomini e donne accomunati da un unico destino: resistere, evitare la galera e il giro della morte, tornare a casa.

Paris, je t’aime
Un film corale, 2006

Film corale firmato da registi più o meno famosi e presentato a Cannes. Un tributo a Parigi, vista sotto differenti angolature, e all’essenza delle relazioni con l’altro da noi.
Oltre al buon uso della tecnica cinematografica e alla capacità dei registi di far stare in soli 5 minuti di visione l’essenzialità del contenuto, Paris je t’aime ha la capacità di trasmettere un’infinita varietà di emozioni e di interpretazioni…differenti per ogni spettatore.
Non è facile, dunque, dare delle linee chiare e delle chiavi di lettura del film. Ogni episodio trasmette qualcosa di «diversamente» riconoscibile per ognuno di noi.

Gabriella Mancini

Gabriella Mancini




L’anno delle foreste

Cooperando

Arriva in questi giorni al giro di boa il 2011, che le Nazioni Unite hanno dichiarato anno
internazionale delle Foreste per «sensibilizzare l’opinione pubblica mondiale su temi come la conservazione, la gestione e lo sviluppo sostenibile di tutti i tipi di foreste».

I progetti di MCO nelle foreste
Missioni Consolata Onlus sostiene una pluralità di progetti che i missionari della Consolata portano avanti da anni nelle foreste d’Africa e America Latina. L’idea che anima questi progetti è basata sulla convinzione che la preservazione e l’uso sostenibile del patrimonio naturale non sono fini a se stessi, ma acquistano senso e si rafforzano se l’obiettivo ultimo è il benessere delle persone.
Il «Tuuru Water Scheme»
Era il benessere dei bambini poliomielitici del centro di Tuuru, in Kenya, che fratel Giuseppe Argese aveva in mente quando iniziò il lungo lavoro che lo condusse alla costruzione dell’acquedotto della foresta di Nyambene. Il centro, come tutta la zona dell’Igembe, aveva sempre sofferto della mancanza di acqua potabile mentre la foresta, a venticinque chilometri di distanza, ne aveva in abbondanza.
Il progetto nacque su scala ridotta e venne realizzato piano piano, goccia a goccia, nel corso di quarant’anni, impiegando migliaia di persone della zona che, grazie a questo coinvolgimento, lo hanno fin da subito fatto proprio e avvertito come qualcosa che apparteneva alla popolazione locale. Oggi sono previste ulteriori opere di ampliamento per garantire l’acqua anche durante prolungati periodi di siccità, pur continuando a non intaccare l’equilibrio dell’ecosistema forestale. Per questo la protezione della foresta e la sua demarcazione, la difesa contro insediamenti abusivi e il taglio illegale di legname, sono aspetti essenziali del progetto.
Maestra Foresta
A Catrimani, nell’Amazzonia brasiliana, i missionari della Consolata lavorano dagli anni Sessanta con gli indios Yanomami, per la difesa dei loro diritti – in primis il diritto alla terra – e per la salvaguardia della loro cultura. L’etno-educazione, come viene definita la forma di istruzione alla quale accedono le nuove generazioni indigene, è un tipo di formazione che valorizza le caratteristiche culturali del popolo Yanomami, a partire dalla lingua, dalla cosmogonia e dalla medicina tradizionale. P. Corrado Dalmonego sta portando avanti un progetto che si chiama Maestra Foresta proprio per sottolineare come dalla selva gli Yanomami traggano non solo il loro sostentamento ma anche le norme che regolano la loro vita, nel pieno rispetto dell’ecosistema circostante (vedi in questo stesso numero l’articolo di Daniele Ciravegna a pag. 51-57).
I pigmei di Bayenga
A stretto contatto con la foresta vivono anche i pigmei Bambuti, considerati fra i primi e più antichi abitanti della foresta dell’Uele e dell’Ituri, nella Repubblica Democratica del Congo. Nel territorio di Bayenga, Alto Uele, dove i missionari della Consolata sono presenti dagli anni Settanta, la popolazione pigmea conta circa duemila persone che vivono di caccia e raccolta, e scambiano i propri prodotti (carne affumicata, miele e frutti della foresta) con quelli agricoli della popolazione bantu della zona. Il rapporto con i Bantu non è mai stato semplice, poiché questa etnia discrimina i pigmei considerandoli esseri inferiori a metà fra uomo e scimmia.
Per questo p. Andres Garcia e i missionari della Consolata, in stretta collaborazione con la Diocesi di Wamba, hanno avviato progetti educativi, sanitari e agricoli con l’obiettivo di sostenere i pigmei Bambuti nel loro sforzo di essere riconosciuti come cittadini alla pari degli altri. I progetti educativi promuovono un diritto all’istruzione che tenga conto dei tempi della comunità pigmea, legati alla foresta: durante il periodo della caccia, infatti, le famiglie si trasferiscono nella foresta e di questo occorre tenere conto nel fissare il calendario scolastico. Lo stesso vale per l’agricoltura, che non vuole sostituirsi alla caccia stravolgendo così i fondamenti della cultura pigmea, bensì vuole solo fornire un’opportunità complementare alla caccia per l’approvvigionamento di cibo.
La selva colombiana
Intenso è il lavoro dei missionari anche in Colombia, nella zona amazzonica del Caquetá. Si tratta di una zona dove la fitta foresta fornisce un ideale nascondiglio ai gruppi armati in lotta per il controllo del mercato della coca. La popolazione civile, vittima del fuoco incrociato fra esercito, Farc e paramilitari, vive in un clima di costante tensione e timore a causa della presenza capillare, anche se spesso invisibile, dei tre gruppi in lotta, che minacciano i civili e puniscono duramente quelli sorpresi a collaborare con le forze avversarie.
In zone come queste, la cosiddetta bonanza della coca attrae colombiani provenienti da tutto il Paese, che si fermano solo il tempo necessario per trarre vantaggi economici dalla coltivazione delle foglie da cui si ricava la polvere bianca, per scappare in seguito verso zone più sicure. Le persone, dunque, cambiano di località troppo frequentemente e questo crea non pochi ostacoli a chi cerca di portare avanti insieme ai loro progetti duraturi e solidi.
Nonostante le difficoltà, tuttavia, i missionari della Consolata presenti fra Puerto Ospina, Puerto Leguizamo, La Tagua, Solano, Remolino e San Vicente del Caguán continuano a investire sui progetti di formazione per creare nelle popolazioni locali una mentalità diversa, non più rassegnata alla morte e succube della violenza legata al commercio della cocaina ma aperta a un futuro migliore dove un essere umano valga di più dei grammi di droga che trasporta.

Chiara Giovetti

Chiara Giovetti




Chi comanda ad Hong Kong?

Autonomia o dominio cinese?

Difficile governare 7 milioni di abitanti barcamenandosi tra la «Basic Law», la minicostituzione di Hong Kong, e i voleri di Pechino. Per ora diritti e libertà sembrano secondari rispetto agli aspetti economici. Ma in futuro le cose potrebbero cambiare.

Hong Kong attende centomila nuovi residenti che andranno ad aggiungersi ai 7 milioni di abitanti dell’ex colonia britannica, tornata alla Cina nel 1997 e il cui definitivo passaggio a Pechino è previsto per il 2046. Il primo aprile si è concluso un calvario lungo 12 anni ed è arrivata al termine la controversa vicenda dei figli di cittadini di Hong Kong, nati in Cina. I ragazzi potranno adesso riunirsi alle proprie famiglie da cui erano stati separati per anni.
Per la maggior parte sono figli di matrimoni misti celebrati tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, quando molti anziani cittadini di Hong Kong, ancora non tornata sotto il controllo di Pechino, cercavano moglie nel sud della Cina. Nel 1999, la Corte di appello finale dell’ex colonia decise che i figli dei residenti nel Territorio avevano lo stesso diritto di residenza di cui godevano i genitori. Un diritto esteso anche a quanti erano nati quando i genitori non avevano ancora ottenuto la residenza permanente. Si permetteva così il ricongiungimento familiare, cui il governo di Hong Kong, guidato dal filo-pechinese Tung Chee-hwa, si oppose, paventando un’invasione di oltre 2 milioni di nuovi cittadini. L’amministrazione della regione autonoma si affidò all’Assemblea nazionale del popolo, il parlamento cinese, per reinterpretare la legge sull’immigrazione – rendendo di fatto illegale il ricongiungimento – e la «Basic Law», la mini-Costituzione di Hong Kong ratificata nel 1990, sei anni dopo la Dichiarazione sino-britannica con cui  Margaret Thatcher riconsegnava a Pechino la sovranità su Hong Kong.
La nuova legge presentata dal Segretario alla sicurezza, Ambrose Lee Siu-kwong, prevede che possa chiedere la cittadinanza chi aveva meno di 14 anni al momento della concessione della residenza ai genitori. Il passo in avanti, come è stato definito dagli attivisti che da anni si battevano perché fosse riconosciuto questo diritto, è una conseguenza del cambiamento demografico nell’ex colonia. Nel 2009 il tasso di incremento delle nascite è stato uno dei più bassi al mondo: 11,7 per mille.  La società della colonia è sempre più vecchia e manca una forza lavoro giovane, che cinicamente il governo vorrebbe impiegare come mano d’opera. Una strategia che, ha scritto Asia Sentinel, dimostra come il governo tenga in scarsa considerazione «il grande vantaggio che Hong Kong ha su Shanghai o su altre città cinesi: lo stato di diritto e la sacralità dei contratti».

AUTONOMIA ED INTERFERENZE
Un caso analogo di interferenza nell’autonomia della magistratura e più in generale nella definizione circa la sovranità o meno di Hong Kong, si è ripetuto nel processo che oppone il fondo statunitense Fg Hemisphere Associates alla Repubblica Democratica del Congo (RdC) e al colosso dei trasporti China Railway Group. L’Fg Hemisphere è uno dei cosiddetti fondi avvoltornio, ossia un fondo speculativo di investimento privato che compra a basso prezzo i debiti di imprese in difficoltà o di Paesi in via di sviluppo che hanno accumulato un certo ritardo nel  pagamento. La società aveva comprato un debito della Snel, la società elettrica congolese, contratto negli anni Ottanta del secolo scorso con la ditta yugoslava Energoinvest, quando ancora la  RdC si chiamava Zaire. Nel 1991 lo Stato africano non aveva ancora cancellato il debito e ammise il default. Sei anni fa, avendo ormai perso la speranza di farsi rimborsare, Energoinvest vendette il debito al fondo d’investimento che cercò di farsi valere su Kinshasa in diversi tribunali nel mondo. Lo scorso febbraio la Corte d’appello di Hong Kong ha concesso alla Fg Hemisphere di prelevare l’ammontare del debito, 100 milioni di dollari, dal fondo di 350 milioni di dollari stanziati dall’impresa statale China Railway in favore della Gécamines, una società mineraria congolese.
L’accordo  tra la società cinese e il Congo è tipico della strategia di Pechino in Africa, fatta di accesso alle risorse naturali del continente  – in questo caso cobalto e  rame – in cambio di grandi progetti infrastrutturali. La China Railway è quotata nella Borsa dell’ex colonia sotto la cui giurisdizione, pertanto, ricade la causa contro l’azienda. E qui nasce quella che per molti critici è una minaccia all’autonomia della magistratura. Il governo locale sostiene la tesi difensiva di Kinshasa e dalla China Railway, secondo cui il tribunale di Hong Kong non ha giurisdizione sulla causa perché la Repubblica democratica del Congo è uno Stato sovrano. In questo caso a occuparsene dovrebbe essere un altro Stato sovrano, la Cina appunto. Secondo la Basic Law infatti la politica estera è competenza di Pechino e ogni decisione è rimessa nelle mani del comitato permanente dell’Anp. La Repubblica democratica del Congo si appella all’immunità totale per le imprese a partecipazione statale, prevista nell’ordinamento cinese. Meno chiaro è quanto preveda invece la legge nell’ex colonia. In teoria la Basic Law si ispira ai principi stabiliti dai britannici che governavano il «Porto profumato» dal 1860. Negli anni Ottanta del secolo scorso stabilirono che l’immunità non doveva essere applicata agli accordi commerciali. Il dibattito ruota attorno a un’unica questione, ossia capire se si tratti di affari o di un rapporto tra Paesi sovrani.

IL PREMIER DONALD TSANG
La Corte d’appello si trova davanti a tre possibili scelte: confermare la sentenza di febbraio e irritare Pechino; rigettarla; rimettere la decisione nelle mani dell’Assemblea nazionale del popolo e lasciare ai delegati cinesi il compito di interpretare la legislazione di Hong Kong. Per i critici si tratterebbe dell’ennesima spallata alla politica di «un Paese, due sistemi», che doveva garantire alla Regione amministrativa speciale una forte autonomia e un’indipendenza legislativa per almeno 50 anni dal ritorno alla Cina. Hong Kong gode di libertà di stampa, giudici indipendenti (un lascito della Gran Bretagna) ed elezioni regolari, sebbene il governatore non sia eletto direttamente dai cittadini e metà del Consiglio legislativo sia nominato dalle «functional costituencies», le corporazioni professionali che il governo cinese ha deciso di non abolire perché favorevoli alla sua politica. Già in passato l’amministrazione britannica cercò di cornoptare o marginalizzare le opposizioni, ma questo non impedì di svolgere le prime elezioni all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso.
Dopo il 1997 tuttavia Pechino decretò che il suffragio universale non sarebbe stato possibile prima del 2012, per poi spostare l’asticella ancora più in là di altri cinque anni. Come scrive per l’Hong Kong Joual l’analista Frank Ching: «Trascorsi 13 anni l’autonomia promessa da Pechino si sta restringendo. Allo stesso tempo si sta assistendo a un cambiamento nell’atteggiamento dei cittadini. Nel 1997 in molti volevano tenere le distanze dal Continente, ma oggi che la Cina è diventata la seconda economia al mondo, sanno che devono attaccarsi al vagone della locomotiva rossa». Lo dimostrano le scelte dell’attuale capo dell’esecutivo, Donald Tsang, che ha nominato in posti chiave figure gradite a Pechino, in alcuni casi deputati all’Anp o alla Conferenza politico consultiva del popolo cinese, e lui stesso considerato filocinese.

LA MORTE DI SZETO WAH
Un cambio di direzione che risale al 2003, quando oltre mezzo milione di manifestanti scesero in piazza per protestare contro la difficile situazione economica e contro un nuovo pacchetto di leggi che limitava i diritti di base e la libertà. Il tutto mentre nell’ultimo anno si è assistito a una scissione nel movimento democratico tra un’ala disposta al compromesso e un’altra più radicale. E che a gennaio ha dovuto affrontare la morte di Szeto Wah, settantanovenne veterano e icona dei democratici. Fondatore dell’Alleanza per il sostegno del movimento democratico in Cina e organizzatore per anni della veglia di preghiera per le vittime del massacro di Tiananmen nel 1989 è stato definito una spina nel fianco per la Cina. Ai funerali avrebbero dovuto partecipare anche gli ex leader del movimento studentesco di Tiananmen, Wang Dan e Wuer Kaixi, ora in esilio a Taiwan, cui però è stato negato il visto per entrare nell’ex colonia. Un’occasione persa di dimostrare autonomia, ha scritto Fank Ching, sia per Pechino sia per Hong Kong.

Andrea Pira

Andrea Pira




Cari missionari

Lettere dai lettori

Non ti è lecito
Stimata Sr. Rita e sorelle, comunità Rut,
fermo restando il totale apprezzamento della vostra opera e la solidarietà verso Susan e tutte le altre, e non di meno ferma restando l’intima vergogna per le umane miserie e insensibilità, non mi pare giusto accostare le feste di certe «ville del potere» con l’immagine della donna (assai mercificata) della nostra società contemporanea e addirittura con lo schiavismo sessuale di quest’epoca di bibliche emigrazioni. Credo proprio che anche senza quelle feste e quelle ville, la strumentalizzazione dell’immagine femminile sarebbe uguale (e pure lo schiavismo sessuale).
Quest’immagine femminile che deprechiamo, al contrario, proviene dalle stagioni 68ttine, dalle conquiste e libertà di ben identificate culture e politiche, che poi si sono risolte in mera commercializzazione del corpo femminile, che fa da antipasto al trionfo della pornografia. Per questo devo manifestare il più vivo turbamento nel constatare che lo sdegno per l’odiea immagine e concezione mercificata della donna (basta guardare qualsiasi pubblicità, anche su Famiglia Cristiana), abbia avuto bisogno di certe feste nelle ville del potere per emergere finalmente. Perché non prima e proprio adesso? Se poi penso che uguali critiche (tardive), provengono in blocco da giornali, culture e politiche che di quelle conquiste e libertà sono state paladine (ricordo bene che fino a che non divenne assai impopolare, anche la pedofilia rientrava tra le libertà da conquistare e da sottrarre all’oscurantismo dei preti e dei fascisti), mi viene da raccomandare prudenza, di non farsi immischiare. L’immoralità di [un] politico o dei politici (di ogni singola persona) è una cosa, l’immagine e la concezione della donna sono cosa diversa, e ancora diverso è lo schiavismo sessuale. Allego un interessante articolo di Antonio Socci che mi pare imposti correttamente la questione. Distinti saluti.

Luigi arch. Fressoia,
email, 05/04/2011

L’articolo di Socci si può trovare su http://www.
antoniosocci.com/2011/02/quando-ci-irridevano-per-la-castita/
No comment, direbbero gli inglesi. Spero solo che suor Rita, di certo ben navigata nella vita, abbia preso con un sorriso quel «suorina» che nell’articolo le viene generosamente appioppato.
Ammesso poi che la strumentalizzazione dell’immagine femminile sia colpa del ‘68, c’è da riconoscere che tutto un mondo pseudo-anti-Sessantotto ha saputo impossessarsi senza scrupoli dell’idea per fare soldi in abbondanza. Anzi, sembra che ci abbia proprio preso gusto. A meno che si pensi che i proprietari delle Tv dominananti, degli imperi mediatici, delle case di moda e delle agenzie pubblicitarie siano tutti sessantottini, come, a rigor di logica, dovrebbero essere anche tutti quelli che beneficiano dei servizi delle ragazze costrette alla strada, e soprattutto quelli che si possono permettere le escort.
Distinguere e separare l’immoralità dei politici dalla concezione della donna e dallo schiavismo sessuale può avere delle sue ragioni – che mi sfuggono -, ma mi domando se non siano tutte cose concatenate e conseguenti e segni di un degrado morale, civile e sociale di cui tutti soffriamo, senza distinzione tra destra o sinistra.
Quanto al non immischiarsi e all’essere prudenti: mi pare che lo si sia fin troppo da parte di chi dovrebbe invece parlare. Si diceva una volta che «chi tace, acconsente». Grazie a suor Rita e alle «suorine» che hanno invece il coraggio di parlare.

Quel Moloch chiamato PIL
Mi riferisco al problema sollevato, meritoriamente, dall’articolo di S. Siniscalchi sulla rivista di aprile. Credo di poter aggiungere elementi utili a capire perché esiste e non crolla quel Moloch che si chiama Pil. Prospetto la spiegazione per sommi capi.
– Il Pil è un indicatore che esprime l’entità dell’utile monetario, in qualunque modo realizzato, così come il tachimetro sul cruscotto (per fare un esempio) indica la velocità dell’automezzo. Altri indici esistenti o allo studio esprimono altre grandezze, quali il benessere economico, il livello di istruzione, il grado di sopravvivenza, l’impronta ecologica, ecc. Essi sono come altrettante spie sul cruscotto, che indicano l’andamento delle altre componenti del meccanismo “automezzo”.
– Il sistema politico-economico determina il modo di essere dell’economia reale, ed è paragonabile al conducente dell’automobile. Quello che è seduto al volante da qualche decennio, che si definisce neoliberismo, è esclusivamente e maniacalmente interessato alla velocità (il Pil appunto). Non gli importa nulla del fatto che tutte le spie sul cruscotto sono accese. L’indice della distribuzione della ricchezza segnala il progressivo impoverimento della popolazione, a fronte dell’arricchimento di chi è già ricco? La percentuale di CO2 continua a salire, a fronte della continua distruzione delle foreste che contrasterebbero questo aumento? La riduzione della disponibilità di petrolio è preceduta dall’esaurimento imminente del rame e dell’alluminio? La pesca con modalità industrializzate sta distruggendo la fauna marina? Al nostro autista interessa solo il proprio personale utile monetario di oggi e di domani. Alla catastrofe del dopodomani non ci vuole proprio pensare.
– L’attuale sistema perverso ha potenti mezzi di autoconservazione: gli avversari vengono tacitati col denaro, se non addirittura convertiti e l’informazione viene zittita o adulterata (perfino Voi credete che il problema siano gli indici di benessere).
Concludo. L’inferno esiste, e Ve l’ho descritto. Se gli uomini di buona volontà esistono ancora, si facciano avanti.
Con ossequi.

Gino Folletti
Torrazza P.,
 email 07/04/2011

vari




Consolazione

Editoriale

Quando l’ultimo giorno di settembre 1964 lasciai casa per entrare in seminario, mia madre aveva le lacrime agli occhi, e non di gioia. Era al nono mese di mio fratello e il mio aiuto in casa (ero il «più grande» di sette [più uno]) sarebbe stato una benedizione. Anni dopo, alla mia ordinazione, il fotografo colse altre lacrime sul suo volto, di gioia stavolta, quella stessa gioia quieta e profonda che traspariva in lei ogni volta che poteva venire con me, anche se non glielo chiedevo, per una messa o una celebrazione. L’immagine della consolazione, contenta per il figlio.
Ho rivisto lei, quel suo sorriso contento, pensando alla Madonna Consolata di cui ricordiamo la festa il 20 di questo mese, Colei che è così colma di consolazione da diventare Consolatrice. Consolazione è rallegrarsi per il bene fatto da altri e realizzato in altri, è vedere la bellezza, sperare contro ogni speranza, vivere la primavera, giornire delle cose buone. Consolazione non si coniuga con invidia, pettegolezzo, gelosia, egoismo e violenza. Consolazione si declina con pazienza, mitezza, comprensione, cooperazione, attenzione, cura, solidarietà, gratuità. Consolazione porta pace, gioia, rispetto, fiducia, stima, apprezzamento. Consolazione non è solo dare, ma anche capacità di ricevere, attitudine questa che forse è la più carente nella nostra vita comunitaria ed ecclesiale.
Lo stile missionario della Consolazione è quello di chi non spegne il «lucignolo fumigante», coglie il positivo anche nelle situazioni più dure, offre una possibilità a chi lo ha già fregato tante volte, benedice i nemici, collabora con chi la pensa in modo diverso, si rallegra per il bene fatto dagli altri, incoraggia chi prova a far qualcosa di buono e nuovo, corregge – non ammazza – chi ha sbagliato, dà speranza ai disperati, accoglie gli emarginati … ups, che stia parlando di Uno che è finito in croce 2000 anni fa? «Andando, evangelizzate», ci ha detto, Lui che è la Consolazione attesa dalle genti. Consolare ed essere consolati: ecco un modo speciale di essere «buona notizia» in questo nostro mondo così pieno di paure, sospetti e rabbie.
I missionari e le missionarie della Consolata, che sono convinti di avere il «carisma» della consolazione come elemento distintivo tra tutti gli altri missionari, concluderanno i capitoli generali proprio il giorno della festa della «loro» Madonna, il prossimo 20 giugno, dopo aver dedicato sei intere settimane a capire cosa significa – in questo oggi – essere missionari di Cristo secondo il carisma della Consolata, nella versione data dal Beato Allamano (vedi il dossier di questo numero). Il desiderio (su cui invitiamo tutti ad unirsi in preghiera) è che abbiano il coraggio del loro «carisma» in questo mondo sempre più tentato di diventare come una colonia di ricci ossessionata dalla paura e dal mito della sicurezza, per continuare a rilanciare il messaggio di Gesù con lo stile che il Beato Giovanni Paolo II ha così ben sintetizzato all’inizio del suo pontificato: «Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo! Alla sua salvatrice potestà aprite i confini degli Stati, i sistemi economici come quelli politici, i vasti campi di cultura, di civiltà, di sviluppo. Non abbiate paura! Cristo sa “cosa è dentro l’uomo”. Solo lui lo sa!» (22 ottobre 1978).
È in questo spirito che si guarda con angoscia a quanto succede in Libia e negli altri paesi attorno al Mediterraneo, e che non si possono condividere le paure di chi vorrebbe erigere barriere nel Mare nostrum, come se la causa di tutti i nostri mali venisse solo da fuori. «No alla guerra! – diceva Giovanni Paolo II al Corpo Diplomatico il 13 gennaio 2003 -. La guerra non è mai una fatalità; essa è sempre una sconfitta dell’umanità. Il diritto internazionale, il dialogo leale, la solidarietà fra Stati, l’esercizio nobile della diplomazia, sono mezzi degni dell’uomo e delle Nazioni per risolvere i loro contenziosi». Chi ci guadagna da questa guerra fatta col contagocce, giocata sulla pelle dei libici e manovrata da non così oscuri interessi?
Grazie a tutti coloro che in questa nostra Italia hanno il coraggio di andare contro il politicamente corretto e il clamore mediatico e, con silenziosa discrezione, continuano a compiere azioni di accoglienza, amore, giustizia, pace e compassione sia verso gli immigrati sia verso gli stessi italiani che più soffrono a causa della crisi sociale e civile che stiamo tutti vivendo.

Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




110 anni di missione, fedeli cambiando / Conclusioni

Piccola introduzione alla missione di domani

Yonas nel cortile

Yonas Ashenafi, nato in Etiopia, ha 33 anni. È, a tutti gli effetti, un missionario giovane e, da un certo punto di vista, anche un missionario simbolo di una missione che sta cambiando e che cerca di adeguarsi a un mondo in continua mutazione. Parlo di lui perché l’ho conosciuto personalmente nel Cauca, in Colombia, dove veniva a fare esperienze pastorali mentre studiava nel seminario di Bogotà. Si arrangiava con lo spagnolo, e con un po’ di altre lingue che aveva appreso negli anni precedenti, anche in Kenya, dove aveva fatto il noviziato. L’ho incontrato nuovamente anni dopo in Italia, mentre si preparava per essere missionario in… Polonia, dove oggi si trova. E domani, dove andrai ad annunciare il Vangelo, Yonas Ashenafi?
Una delle immagini usate per definire il mondo in cui viviamo, e in cui ci troviamo ad operare come missionari, è quella del cortile, spazio – in un passato neppure troppo remoto – condiviso tanto dalla gente di campagna quanto da quella di città. Nel cortile i bambini giocavano, i genitori lavoravano o «se la contavano» tirando tardi nelle sere d’estate. La missione odiea è chiamata a far parte di questo grande cortile dove si riuniscono le persone che credono e quelle che non credono, per vivere, lavorare e condividere valori e tradizioni. Le sfide missionarie superano oggi le barriere locali e richiedono la capacità di formulare nuove risposte che tengano conto di contesti territoriali, sociali e culturali più ampi.
La storia di Yonas rivela anche la grande complessità culturale in cui si dibatte la missione contemporanea. Venendo a contatto con persone e popoli di cultura diversa il missionario, da sempre, sa che deve imparare a interagire con la cultura locale, conoscendola e valorizzandola. Ma oggi c’è un fatto nuovo: la sfida dell’interculturalità è dentro le nostre comunità con confratelli provenienti da diverse nazioni e culture che vivono la stessa missione, bevono alla medesima fonte carismatica, riconoscono il beato Allamano come fondatore e padre. Nati come un gruppo di missionari piemontesi, oggi i missionari della Consolata sono una realtà multietnica e multiculturale.
Il vasto peregrinare di Yonas evidenzia però anche l’esigenza di mettere a punto la nostra organizzazione per adeguarla maggiormente alle sfide del presente. Oggi, l’Istituto dispiega le sue forze su un territorio molto ampio e differenziato, con un personale che, pur mantenendosi da qualche anno numericamente stabile (siamo circa un migliaio), rappresenta pur sempre un drappello molto piccolo di missionari in confronto ad una realtà enorme e complessa. Se vorrà venire in aiuto delle esigenze di Yonas, il Capitolo che i missionari della Consolata stanno celebrando dovrà obbligatoriamente affrontare anche una ri-organizzazione strutturale, possibilmente a base continentale e meno centralizzata, per dare delle risposte più flessibili a situazioni nuove e originali di specifiche aree geografiche.
Sarà questa la missione che ci attende? Ce lo diranno il tempo, le circostanze e, perché no, ce lo potranno anche suggerire gli altri agenti della missione. Oggi, infatti, non si può più fare missione «da soli», in questo mondo globalizzato non c’è spazio per i «lupi solitari». La missione appartiene alla Chiesa intera e occorre «fare rete» con tutti coloro che, a diversi livelli, condividono il nostro carisma, la nostra passione per la salvezza integrale di ogni essere umano.
Innanzi tutto le nostre sorelle, le suore missionarie della Consolata. L’esperienza missionaria in Mongolia e la comunità di vita a Nabasanuka, fra gli indios Warao del Venezuela, sono forse gli esempi più radicali di questa volontà di lavorare insieme, offrendo alla missione due interpretazioni complementari dello stesso carisma.
In questi ultimi anni è cresciuta anche l’esperienza dei Laici missionari della Consolata (Lmc), persone che si sono avvicinate alle nostre case e collaborano con l’Istituto perché si identificano con il nostro carisma missionario, vogliono abbeverarsi alla stessa fonte e incarnare nella loro vita l’ispirazione che viene dal nostro fondatore. Alcuni di essi sono partiti dedicando anni della loro vita ad esperienze missionarie sul campo. Altri non hanno in questo momento la possibilità di partire, ma cercano attraverso scelte spirituali concrete e un impegno nel quotidiano di testimoniare il loro entusiasmo missionario “consolatino”.
Non può però mancare una collaborazione anche con le forze della società apparentemente più lontane, ma con cui si condividono battaglie in favore della promozione della giustizia, della pace e della salvaguardia dell’ambiente. Sono i cosiddetti “uomini di buona volontà”, coloro che a vario titolo e in nome dell’umanità, si impegnano concretamente per dimostrare che un mondo differente, più sobrio, solidale e giusto, è davvero possibile.
Insomma, vai Yonas, che non sei solo. Insieme a noi e a tutti quelli che con noi collaborano c’è sempre il Signore a dirci quella che sarà la missione che ci attende domani.

Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




110 anni di missione, fedeli cambiando / Europa

Europa

Il boomerang missionario
Evangelizzatori da evangelizzare

Hola mami, qué tal? Tutto bene? Come ve la passate a Quito? Ti faccio arrivare questa mail attraverso Pedro, spero che te la stampi e abbia voglia di leggertela. Certo che da quando hanno inventato il computer la distanza tra l’Ecuador e l’Italia si è davvero ridotta. Io sto bene, non ti preoccupare. Lo so che ci siamo sentite da poco, ma volevo mandarti i saluti di una persona che non puoi non ricordare… Non ti immagini neppure chi ho incontrato l’altro giorno: padre Vittorio. Immagino lo stupore negli tuoi occhi: sì, proprio lui, il «nostro» padre Vittorio.
Ti ricordi? Per un po’, dopo che aveva lasciato la nostra parrocchia, avevamo provato a rimanere in contatto, ma sai come succede… ci eravamo persi. Quando sono emigrata in Italia, proprio non sapevo che anche lui fosse qui, credevo che fosse ancora in qualche altra zona dell’Ecuador. Invece no, domenica me lo sono trovato davanti, alla messa della comunità; sostituiva il nostro prete che era via e aveva approfittato del suo passaggio e del fatto che sapesse parlare spagnolo per invitarlo a celebrare la messa al posto suo.
Mi ha guardato in faccia e mi ha riconosciuto subito, nonostante gli anni e il fatto che mi sia presentata davanti a lui con i due bambini. Ieri sera è venuto a cena; volevo che incontrasse anche Carlos e desse una benedizione alla casa e a tutti noi, volevo raccontargli tante cose.
In realtà è stato lui a parlare. Sembrava avesse bisogno di sfogarsi un po’, di vuotare il sacco. Sai com’è da noi, non si fanno troppe cerimonie; siamo mezzi italiani ma dentro casa è come essere in Ecuador.
Padre Vittorio saluta tutti. Vorrebbe tornare a vedere come state e ad abbracciarvi, ma oggi come oggi è stato destinato a lavorare in Italia. Ci ha raccontato un po’ di cosa fa e di ciò che invece vorrebbe fare e non sempre riesce. È animatore missionario del suo Istituto, ovvero, così ci ha detto, dovrebbe andare in giro e raccontare la missione: gruppi giovanili, scuole, gruppi missionari, parrocchie… Il fatto è che si sente sovente un pesce fuor d’acqua. Prima di partire per l’America Latina si era già dedicato per un po’ a questo lavoro, ma erano altri tempi. Allora era più giovane e si sentiva realizzato a fare quel che faceva. Pare anche che i giovani fossero molti di più e più interessati alle attività che proponeva; adesso invece, ha detto proprio così, «andare in giro a parlare di missione è come succhiare un chiodo arrugginito»: nessuno sembra aver più voglia di ascoltare le sue storie. Ha detto che si sente un po’ a disagio, ma nello stesso tempo gli dà fastidio l’idea di rimanere a casa a far nulla.
Avresti dovuto vederlo… è ingrassato, e ti confido che ha perso un po’ di smalto. Ti ricordi la grinta che aveva? Come era sempre propositivo, capace di radunare gente e convincerla a darci dentro, ad impegnarsi? Quante cose abbiamo fatto insieme a lui. Gliel’ho ricordato, ma mi ha risposto che, anche se in Ecuador non erano sempre tutte rose e fiori, lui si sentiva più a suo agio lì nel vivere la vocazione missionaria. Il fatto è che in Italia si sente sì un prete, ma non un missionario. Non so cosa dirti, mi ha fatto un po’ pena vederlo così. Carlos ha provato a tirarlo su di morale e gli ha anche dato due dritte su come forse avrebbe potuto sentirsi il padre Vittorio di sempre se solo avesse continuato a fare quello che aveva fatto da noi a Quito: mettersi in ascolto della gente.
Cara mamma, a volte ti tengo nascoste un po’ di cose per farti stare tranquilla, ma l’Italia non è più il paese dei sogni di cui ti raccontavo in altre lettere, neanche per noi che almeno per un momento l’abbiamo visto e sperimentato come tale. La gente inizia a fare fatica anche qui, il lavoro sicuro non è più per tutti e vi sono persone, parlo di italiani, non di stranieri come noi, che diventando anziani diventano anche poveri. Carlos ha provato a raccontarlo a Vittorio. Sai, facendo il mediatore culturale ne vede certamente più di me, ma anche più del prete. Vittorio continuava a dire: «Sì sì, lo so» e ad annuire con la testa. In realtà sembrava che non lo sapesse veramente. Lo sapeva come qualcuno che lo ascolta nel telegiornale. Carlos lo ha invitato a collaborare al suo centro di incontro e può darsi che Vittorio si smuova e metta a disposizione le sue tante ricchezze, che si senta di nuovo in missione.
Con un po’ di faccia tosta gli abbiamo suggerito che noi vedevamo tanti aspetti del suo paese in cui avrebbe potuto sentirsi davvero missionario. Basta guardarsi intorno. Noi per fortuna abbiamo ancora la nostra comunità e celebriamo con un po’ di gusto la nostra fede, ma la maggior parte delle parrocchie qui in giro sono abbastanza deprimenti. Mancano i giovani, le chiese si svuotano; i nostri stessi figli non hanno mica più voglia di venire con noi a celebrare, ma nello stesso tempo non è che vadano in chiesa con i loro compagni di classe. Qui c’è un sacco di lavoro per un missionario che annunci il Vangelo per davvero, perché molte persone con cui entriamo in contatto quotidianamente non hanno mai sentito parlare di Gesù, della Vergine Maria, di tutte quelle cose che padre Vittorio ci insegnava a catechismo. Se poi in questo paese si stesse davvero bene, uno potrebbe anche cercare di capire, ma qui la solitudine regna sovrana, c’è un sacco di menefreghismo… altro che «ama il tuo prossimo come te stesso». In questi giorni la crisi del Nord Africa ha fatto naufragare sulle spiagge italiane migliaia di disperati, ancora più disperati di come eravamo noi quando siamo arrivati in Italia. E questo non sarebbe un lavoro per padre Vittorio?
Carlos gliel’ha detto in tutti i modi, si risentiranno, speriamo riesca a convincerlo che un uomo come lui è in missione sempre, ovunque sia. Certamente può continuare a pensare ai bambini del nostro quartiere di Quito, che avranno sempre bisogno di una mano; ma mentre è qui, a contatto con la sua gente, il suo essere missionario non può frenarlo e impedirgli di andare incontro a chiunque gli si pari davanti.
Speriamo si consoli presto; la nostra porta è sempre aperta, così come lo sono le case di tanti amici che avrebbero bisogno di consigli e dell’appoggio di un uomo come lui.
Mamma, cosa sono i confini? Lo sai che io sogno di tornare da voi e anche Carlos non vede l’ora in cui potremo finalmente costruirci la casetta della nostra vecchiaia, in quel pezzo di terreno che abbiamo comperato fuori Quito. Ma Marisol e Diego, i tuoi amati nipoti, vedono l’Ecuador come il luogo delle loro vacanze: sono italiani; Carlos, ridendo, sosteneva che fossero persino più italiani di padre Vittorio. Nel palazzo dove viviamo ci sono italiani, rumeni, altre due famiglie latinoamericane e una coppia che viene dal Marocco. Gliel’abbiamo detto a padre Vittorio: forse dovresti venire a vivere qui, ad abitare nel confine che non riesci più ad attraversare.
Chao mamita, mi amor. Un beso grande y un abrazo bien apretado y amplio como el mar.
Tu hija
María Feanda
Europa: «terra di missione»
María Feanda non esiste, e padre Vittorio è un missionario (quasi) fittizio. Queste due figure non sono però totalmente inventate: esprimono entrambi una realtà che tocca il nostro continente.
Oggi, parlare di missione in Europa significa sottolineare un certo disagio nel mondo missionario tradizionale, al quale noi apparteniamo. Formati per mentalità e competenze ad andare in Africa, Asia o America Latina, ci costa dover pensare che la missione si è oggi trasferita anche a casa nostra. Questo fattore richiede un ripensamento integrale delle nostre presenze, una nuova pianificazione e una capacità di inculturarsi su un territorio che pensiamo di conoscere perché vi siamo nati e che invece, di fatto, soprattutto se siamo reduci da lunghi periodi all’estero, sembra non ci appartenga più.
È duro per un missionario ritornare a casa. La parola “avvicendamento”, termine con cui si definisce tecnicamente il rientro, è sempre suonata male alle orecchie dei più, anche a dimostrazione di un attaccamento alla propria comunità e al lavoro che in molti casi si porta avanti per anni.
Un tempo, i ritorni dei missionari all’ovile natio erano caratterizzati dall’attività di animazione missionaria e vocazionale: sensibilizzare e animare le comunità nostrane all’ideale missionario, entusiasmare e formare i giovani alla missione, nonché raccogliere fondi per le iniziative pastorali e di assistenza. Era ed è un’attività fondamentale, che continua e vede il contributo instancabile e generoso di molti benefattori, grazie ai quali seguitiamo a portare avanti la nostra opera di evangelizzazione e promozione umana. Essere missionari in Europa oggi, però, ci spinge ad offrire la nostra esperienza in aree che sono a tutti gli effetti di prima evangelizzazione.

Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




110 anni di missione, fedeli cambiando / Americhe

Americhe

Dall’animazione alla missione

Nata prima della Seconda Guerra Mondiale come attività di animazione missionaria e vocazionale (Brasile 1937), la missione nel continente americano scoprì e sviluppò in breve tempo la sua vera dimensione ad gentes. I territori sconfinati delle grandi pianure del Nord argentino, della foresta amazzonica e le valli montane della cordigliera si rivelarono infatti “terre di missione” che ben poco avevano da invidiare alla, fino ad allora per noi classica, missione africana.
Oggi, dopo quasi tre quarti di secolo, i nostri missionari sono presenti in Brasile, Argentina, Colombia, Venezuela, Ecuador, Stati Uniti, Canada e, di recente, in Messico.
Molteplici sono gli ambiti di missione in cui l’Istituto è impegnato oggi in America. L’animazione missionaria e vocazionale, l’impegno nei mezzi di comunicazione sociale, la formazione e, specialmente in Nord America, la raccolta di fondi a servizio delle missioni, rappresentano attività logistiche di supporto a presenze pastorali e di evangelizzazione diretta sul territorio. Quante volte, sulle pagine di questa rivista, i nostri missionari hanno raccontato la storia della nostra presenza in America, parlando di Cristo e di come, grazie al loro lavoro, si è incarnato negli angoli più sperduti di questo grande territorio. Le nostre macchine fotografiche si sono infilate dappertutto, riportando immagini di popoli indigeni, comunità afro-discendenti, comunità rurali e vite compresse nelle immense baraccopoli metropolitane. Abbiamo documentato storie di guerra, ma anche bellissime iniziative di riconciliazione per ricostruire la pace. Abbiamo anche provato a contestualizzare le nostre vicende leggendole insieme a quelle più grandi e importanti di una chiesa che, nel continente, ha saputo in molti casi essere segno di contraddizione, rottura e liberazione profetica dei più poveri. Una chiesa che, tra le altre cose, ha cercato di darsi, sin dal primo incontro delle sue Conferenze Episcopali (Celam – Rio de Janeiro 1955), una dimensione continentale, poi venuta pian piano maturando con le importanti tappe degli incontri sinodali di Medellin, Puebla, Santo Domingo e Aparecida. Anzi, a partire dall’incontro di Santo Domingo, il cammino si è fatto ancora più interessante e complesso, includendo nel percorso ecclesiale anche le comunità del Nord America. Illuminanti a questo riguardo le parole di papa Giovanni Paolo II contenute nell’Esortazione Apostolica post-sinodale Ecclesia in America, pubblicata come documento conclusivo dell’incontro di Santo Domingo: «Gli elementi comuni a tutti i popoli dell’America, tra i quali risalta una medesima identità cristiana come pure un’autentica ricerca del consolidamento dei legami di solidarietà e di comunione tra le diverse espressioni del ricco patrimonio culturale del Continente, sono il motivo decisivo per il quale ho chiesto che l’Assemblea Speciale del Sinodo dei Vescovi dedicasse le sue riflessioni all’America come ad una realtà unica. La scelta di usare la parola al singolare voleva esprimere non solo l’unità sotto certi aspetti già esistenti, ma anche quel vincolo più stretto al quale i popoli del Continente aspirano e che la Chiesa desidera favorire, nell’ambito della propria missione, volta a promuovere la comunione di tutti nel Signore» (EA, n. 5).
Senza confini
Questo spirito di collaborazione tra i due emisferi si è riflesso anche nelle attività dell’IMC, con una dimensione continentale nettamente più marcata che in altre parti dell’Istituto. Un segno di questa collaborazione fra le diverse circoscrizioni americane è dato dall’apertura della nuova missione in Messico, a cui ogni gruppo ha contribuito. Altre iniziative sono state prese a livello di pastorale, formazione e animazione missionaria e vocazionale, cercando di condividere i nostri cammini con le suore missionarie della Consolata e il crescente mondo laicale. Ovviamente, il mettere insieme realtà così diverse come quelle rappresentate dai due poli continentali, Nord e Sud, non è stata cosa facile. Per alcuni, anzi, il Nord America presenterebbe tratti distintivi molto più simili a quelli dell’Europa con cui potrebbe relazionarsi più facilmente tanto a livello di tematiche, che di strategie e mezzi. Finora si è preferito insistere nel creare relazioni fra le due Americhe. Si è creduto infatti importante rinsaldare a livello di fede, un legame già esistente a livello politico ed economico.
L’idea soggiacente è quella di abolire le frontiere dove ciò sia possibile. Ad un mondo che tende ad innalzare barriere in nome di un’idea di sicurezza che tutela i ricchi dai più poveri (il vergognoso muro fra Stati Uniti e Messico non è che un esempio, ma lo sono anche le unità abitative di lusso che separano le persone abbienti delle città latinoamericane da quelle che vivono nelle favelas), la testimonianza missionaria oppone l’abolizione della frontiera, strumento di divisione. Il confine, sia esso rappresentato da una strada o da un fiume, diventa semmai spazio ed occasione di incontro. Un pensiero, questo, in linea con la cultura indigena, refrattaria a fare della natura creata per tutti uno spazio lottizzato.
Per questa ragione il continente americano privilegia un’organizzazione secondo ambiti missionari per la quale i problemi comuni di chi si occupa, per esempio, di pastorale indigena, vengono affrontati a livello continentale con la possibilità di formare e gestire personale specializzato in quel tipo di attività.
Anche l’ultimo progetto, tuttora in fase di implementazione, va in questa direzione: si tratta di organizzare una missione in zona amazzonica che coinvolge addirittura tre paesi: la Colombia, l’Ecuador e alcune comunità in territorio peruviano. A voler significare che il Vangelo tende ad unire e non conosce frontiere.

Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli