Antogo, rito «magico» della pesca

Mali, paese dogon. Nella regione di Mopti, quasi al confine con il Burkina Faso, si staglia la Falesia di Bandiagara: un impressionante costone di roccia lungo 200 km e alto tra i 200 e i 300 metri. Tra i suoi anfratti vi abitarono popoli antichi fin dal III e II secolo avanti Cristo. Fu poi, tredici secoli più tardi, il paese dei tellem. I dogon, invece, vi si stabilirono intorno al XII – XIII secolo. Dal 1989 è patrimonio mondiale dell’Unesco.
Nella parte Nord della Falesia si trova il villaggio di Bamba, uno dei più antichi della zona, dove, «da sempre», ovvero dall’insediamento dell’etnia dogon in questo pezzo magico del Mali, si celebra il «Rito della Pesca»: Antogo in lingua dogon.
Nei pressi di Bamba si trova un lago dalle piccole dimensioni, ma dal grande potere.
Soumaila Guindo è un anziano guaritore dogon, originario di Bamba, ora residente a Bandiagara, «capitale» del paese dogon, ubicata sull’altipiano. Anche grazie a lui cerchiamo di capire e scoprire il fascino di un rituale unico che abbiamo avuto la fortuna di osservare e ora raccontare, senza essere capaci di svelae tutta la magia.
Sabato, giorno di mercato a Bamba. Da sempre. Stessa ora, stesso giorno, stesso mistero. Ore 15 e 15, un caldo indescrivibile, il sole, anch’egli in festa, brucia nel cielo, regalando timide ombre a pochi fortunati. In coincidenza con il sesto mese della stagione secca (Aprile-Maggio), il consiglio dei saggi di Bamba si riunisce per fissare la data del rituale. Durante i primi tre giorni di mercato del mese – in occasione di ogni mercato – un bastone viene piantato nel lago, a indicare l’approssimarsi del rituale, che infine si celebra al sesto giorno. I tre bastoni fungono da segnale, che arriva a tutti i villaggi dogon della Falesia. Antogo si celebra solo una volta l’anno, mentre durante tutti gli altri giorni è proibita a chiunque la pesca nel lago sacro.

Nell’antichità, si dice, l’intera zona era rigogliosa e ricoperta di fitte foreste, ed il lago – le cui acque da subito furono considerate sacre e popolate da geni – offrivano pesci in abbondanza. Il giorno di Antogo centinaia e centinaia di dogon provenienti da ogni angolo della Falesia e non solo, si ritrovano presso il lago di Bamba, per la celebrazione. Una fitta coice nera e silenziosa si disegna attorno al lago: è composta di ragazzini, uomini e anziani poco vestiti, alcuni dei quali portano una sorta di nassa con la quale catturano i pesci. Le donne non possono partecipare al rituale, per loro avvicinarsi al lago è proibito. Esistono varie spiegazioni a questo veto, alcune verosimili, altre meno; la più realistica – in linea con altri aspetti della complessa cosmogonia dogon che confina la donna lontano dalle dimensioni ritualistiche e magiche – vuole la donna intrinsecamente impura per via del ciclo mestruale.
Attoo al lago si notano tre gruppi più folti, ciascuno dei quali composto dalle famiglie più importanti di varie zone: il gruppo più folto è quello delle famiglie di Bamba, che raccoglie 33 villaggi. Ciascun gruppo, in un mistico silenzio collettivo, pronuncia formule rituali e nomi delle famiglie. Chiudono il giro quelli di Bamba, che, all’improvviso, annunciano l’inizio del rituale.
La folla si riversa nel lago, eccitata, convulsa, estasiata. Lo specchio d’acqua ormai non si vede più: ha inizio una danza felice, armonica e fangosa. I dogon si prodigano con mani, bocca e piedi per catturare il maggior numero di pesci, che ripongono in un’apposita borsa a tracolla fatta di pelli. La danza prosegue caotica. Le acque sacre rendono impossibile ferirsi con i pesci, nessuna spina, nessun taglio nei piedi nudi o nelle mani, mai, da sempre. L’acqua color fango disegna volti e corpi: l’intensità del momento è palpabile. Nemmeno 30 minuti dopo l’inizio della pesca un colpo di fucile sparato in aria segna la fine del rito. Le acque del piccolo lago tornano a calmarsi, non vi è più traccia di pesci, solo qualche ragazzino ancora sonda le stanche acque nella vana ricerca di un superstite pinnato.    
I pesci verranno tutti raccolti e portati presso l’anziano di Bamba, per poi essere ripartiti equamente tra tutti gli abitanti. Il rito simboleggia la pace e la coesione tra i villaggi, l’assenza di conflitti e la condivisione dei frutti di un bene comune.
Antogo è un evento toccante e potente, ricco di magia, che faticosamente resiste ai flussi di turisti sempre più presenti, dei bianchi curiosi, che, con difficoltà, accettano la quasi assoluta impenetrabilità del mistero.   

Matteo Bertolino

Il Fotografo

Matteo Bertolino
Nato a Torino e laureato in Scienze Politiche, Matteo consegue un master in Studi sullo sviluppo. La curiosità verso il mondo lo condurrà a lavorare nel settore della cooperazione internazionale in quattro continenti. La passione per la fotografia cresce parallelamente nel corso delle esperienze all’estero, portandolo a specializzarsi nel «reportage sociale». Matteo si occupa inoltre di «comunicazione per lo sviluppo», documentando progetti di cooperazione e realizzando materiale informativo e di sensibilizzazione attraverso l’uso della fotografia. Tra le varie esperienze, ha curato e organizzato un’esposizione fotografica presso un museo internazionale di El Salvador (Marte), che ha visto la collaborazione di artisti italiani e salvadoregni. Come fotografo freelance, Matteo collabora oggi con riviste, agenzie fotografiche e associazioni. Attualmente lavora in Bolivia, dove sta sviluppando diversi progetti fotografici.
www.matteobertolino.com.

Matteo Bertolino




«COME UN PESCE NELL’ACQUA»

DONATA CAIRO, missionaria italiana in cile

Oggi lavora a Copiapó, nella regione cilena di Atacama, conosciuta per i suoi deserti e le sue miniere. Un tempo lavorava come operaia tessile in Puglia. Anche per questo Donata Cairo lotta e combatte per i lavoratori, siano essi minatori, raccoglitori di uva o indios mapuche. Missionaria delle «Piccole sorelle di Gesù», suor Donata non dimentica le sue origini, ma neppure il suo carisma.

In gioventù, fu operaia in un maglificio (a Ugento, in provincia di Lecce). Poi conobbe il Movimento giovanile missionario, le idee di don Tonino Bello e Carlo Carretto e la sua vita cambiò. Entrò nella congregazione delle «Piccole sorelle di Gesù di Charles de Foucauld»1. Oggi Donata Cairo, questo il suo nome, vive e lavora a Copiapó, nella regione di Atacama, in Cile. A dispetto del deserto, nei dintorni della città cilena si estendono pregiati vigneti, dove lavorano moltissimi stagionali. A pochi chilometri da Copiapó c’è poi la miniera di San José, diventata famosa in tutto il mondo per via dell’incidente che, per 69 giorni (dal 5 agosto al 13 ottobre 2010), ha imprigionato sottoterra 33 lavoratori. 
Donata appartiene ad una piccola comunità di quattro religiose, tutte di diversa nazionalità. Temperamento combattivo (nel 2008 è stata anche in carcere), la missionaria italiana ha idee molto chiare.

Donata, mentre le telecamere del mondo erano puntate sulla vicenda dei 33 minatori intrappolati a 700 metri sotto terra, in molte carceri del Cile prigionieri mapuche erano in sciopero della fame nell’indifferenza generale. Come spiegare questa diversità di attenzione?
«È vero: mentre 33 persone sopravvivevano a 700 metri di profondità, altre 34 si lasciavano morire, perché sentivano di non avere diritto di vivere con dignità… La diversità del trattamento è dipesa dagli interessi economici e politici in gioco. Però, una cosa è comune: sia i minatori sia i mapuche sono vittime di un sistema economico ingiusto. E mi spiego. Il salvataggio dei minatori è stata una cosa buonissima. Si sono utilizzate risorse economiche e mediatiche mai viste in Cile. Gli indici di appoggio al governo erano caduti ai minimi termini, per il modo come si stava affrontando la ricostruzione del dopo terremoto (quello avvenuto il 27 febbraio 2010, ndr) e lo tsunami nel sud del paese. Il riscatto dei minatori ha fatto alzare, da un giorno all’altro, questi indici. Sui minatori non si è però affrontato il problema di fondo che è quello delle condizioni lavorative e della sicurezza sul lavoro, non solo nelle miniere. Essi sono stati trasformati in “eroi” dimenticando che, in primis, sono vittime. L’evento della miniera di San José è servito anche per nascondere il conflitto con il popolo mapuche. Accettare che in Cile esista un popolo indigeno è accettare la sua identitá. E l’identità mapuche è legata alla terra: un mapuche senza terra è una persona senza identità».

Cosa sta succedendo nei territori dei mapuche, suor Donata?
«I territori mapuche sono finiti nella disponibilità delle grandi imprese multinazionali e non. Dunque, oggi le terre (tra l’altro molto fertili) sono in mano all’oligarchia e alle imprese straniere: imprese idroelettriche, industrie del legno, allevamenti di bestiame, industrie della pesca. Oltre a ciò, le terre sono ancora fortemente militarizzate e per qualsiasi “reato” si applica la legge antiterrorista emanata da Pinochet2, ma ancora in vigore. Tutto ciò è utile per alimentare la paura e scoraggiare qualsiasi intento di far valere i propri diritti. Dunque, accade che la gente mapuche lavora su una terra, che dovrebbe essere sua, alle dipendenze di altri e per salari da fame. A chi conviene che i mapuche siano i proprietari della terra? A nessuno. Anzi, spesso sono gli stessi governanti ad essere i nuovi padroni. Le leggi le fanno e le applicano loro stessi. E, si badi bene, la situazione non si è creata soltanto con questo governo di destra. Anche con i governi di centrosinistra è stato lo stesso…».

Quella dei mapuche sembrerebbe una lotta disperata, senza possibilità di successo…
«Sì, è come uno scontro tra Davide e Golia. Però, almeno per ora, gli indios l’hanno spuntata, grazie all’intervento opportuno della Chiesa, nella persona di Ricardo Ezzati, un vescovo salesiano italiano che è in Cile da quando era giovanissimo. Il problema non è stato risolto, ma si sono fatti passi in avanti. Per lo meno, non si dovrebbe applicare la legge antiterrorismo. Pensa che qualcuno ha rischiato di farsi 60 anni di carcere per essere stato accusato di aver bucato un pneumatico di un camion. Un camion appartenente ad una impresa forestale che trasportava legname preso sulla terra mapuche…».

Dopo gli anni sotto la guida della Concertación, il Cile è tornato ad essere guidato dalla destra, tra l’altro abbastanza vicina alle idee pinochetiste. Il Cile sta cambiando in meglio, in peggio o tra i due schieramenti non c’è molta differenza?
«A livello macro-economico non c’è differenza, ma per i progetti sociali, per i più poveri, sì. Questo è un governo di immagine, mostra quello che non è, è megalomane. Figurati che invece di impegnarsi in toto alla ricostruzione dopo un terremoto così devastante (9,2 gradi Richter), si vuole fare un gran monumento per ricordare l’evento. Lo stesso atteggiamento è stato tenuto per i minatori: “Li trasformiamo in eroi, teniamo il paese e il mondo intero davanti agli schermi della Tv, senza raccontare che la gente continua a morire nelle miniere a causa delle condizioni insicure sul lavoro”. E, si badi bene, le miniere non sono miniere qualsiasi, sono miniere d’oro!».

Gli organismi economici inteazionali hanno sempre indicato il Cile come il miglior paese dell’America Latina in fatto di sviluppo economico e di applicazione del sistema neoliberista. Questo ha accentuato le differenze sociali all’interno della società cilena? Ad esempio, i cittadini sono tutti eguali quando necessitano di cure mediche e di istruzione?
«I cittadini cileni hanno libero accesso ai mezzi di comunicazione modei e tutte le novitá che esistono nel mondo (cellulari, internet, apparati vari…). Hanno anche libero accesso al credito per il consumo, cioè possono andare nelle grandi catene di negozi e comprare a rate ciò che vogliono. Tutto sembra facile ed accessibile e si pubblicizza in ogni modo, ma in realtà questo è il paese piú ingiusto del mondo. Si può comprare di tutto, ma non una casa, non si possono mandare a studiare i figli alle scuole superiori e se ti ammali, puoi anche morire perché l’accesso alla salute pubblica è molto ridotto. La salute è un business, per cui è accessibile solo a chi guadagna molto. Gli operai con cui noi condividiamo la vita, vivono con 230 euro al mese, e i prezzi sono a livello europeo. Un Kg di pane costa un euro e 40. Inutile parlarti del lavoratori stagionali dell’uva da esportazione, quella che tra poco avrete sulle vostre tavole. Noi Piccole sorelle ci siamo dentro dal 1975 ed io dal 1990. Condizioni di lavoro, salari, sicurezza erano spaventose. Per questo abbiamo portato avanti una difficile lotta. Finalmente, con il governo della presidente Bachelet, siamo arrivate ad ottenere alcune “conquiste”: non ci sono più bambini che lavorano, c’è il diritto a un contratto lavorativo, abbiamo bagni e acqua potabile accessibili durante il lavoro. Tutto questo, che a voi potrebbe sembrare ovvio, a noi è costato anni di lotta».

Come descriverebbe la Chiesa cilena?
«Una volta arrivata la democrazia, si è fatta avanti l’idea che la Chiesa  non si dovesse immischiare in altre tematiche, se non quelle ad essa proprie. Diciamo che è rientrata nella sacrestia. Questo non vuol dire che la gente di Chiesa non si sporchi le mani, ma gli orientamenti generali sono diventati altri. Sono stati nominati vari vescovi dell’Opus Dei, ed altri “de bajo perfil”, come dicono qui. Ma altri – una minoranza, certo – hanno continuato con le proprie scelte. La “teologia della liberazione” è ancora valida e le comunitá di base esistono ancora. Sicuramente, questo non fa notizia, anche perché non costituisce il tragitto principale.
Attualmente sembra che ci sia però un risorgere delle posizioni profetiche della Chiesa. I temi scottanti sono, ad esempio, quelli connessi al diritto all’acqua: alcune grandi imprese minerarie stanno distruggendo e contaminando i ghiacciai (che alimentano fiumi essenziali per la vita delle valli), per estrarre oro, e questo al sud, come al nord del paese. Basta vedere il “progetto Pascua-Lama” per avere un’idea delle devastazioni.
E poi le condizioni di lavoro di cui parlavo prima, e il conflitto mapuche. Su questi temi abbiamo avuto vescovi che hanno alzato la voce, ma la copertura mediatica del governo è tale da gettare “nuvole di fumo” su tutto».

Con la vittoria di Piñera si è parlato di un ritorno del pinochetismo. Durante la dittatura, il generale Augusto Pinochet non perdeva occasione per ricordare la sua venerazione per la Madonna. All’epoca, come si comportò la Chiesa cilena?
«Durante la dittatura militare, la Chiesa cilena ha avuto un ruolo fondamentale. Ha rischiato moltissimo, salvando molte vite umane. Anche noi nascondevamo gente nel sottotetto della casa, aiutavamo a saltare il muro dell’ambasciata italiana, offrivamo spazi nelle parrocchie per le riunioni… Molti sono potuti uscire dal paese perché nascosti nella macchina del vescovo, o perché vestiti da prete o da suora… Abbiamo avuto preti ammazzati dalla dittatura, come per esempio Antres Jarlan, Juan Alsina. Altri sono stati prigionieri, torturati e espulsi… Molti teologi, suore, parroci, partecipavano al “Movimento contro la tortura Sebastian Azevedo”, con proteste, manifestazioni pubbliche… Insomma, qui non è successo come, ad esempio, avvenuto in Argentina o in Perú. Diversa è la situazione nei paesi del Centro America, dove la posizione della Chiesa è stata ancora più chiara».

Toiamo ai mapuche e ai minatori. I primi vogliono difendere i loro diritti di popolo indigeno, i secondi vogliono un lavoro sicuro e con un salario dignitoso. Che succederà?
«I diritti degli uni e degli altri sono giusti. È difficile dire ciò che succederà, perché per cambiare veramente bisogna volerlo, avere volontà politica e un senso di solidarietà che non ci sono. Con il governo della Bachelet, c’era la speranza che qualcosa potesse andare in questo senso, ma con Piñera assolutamente niente. È solo immagine. Lui è un grandisimo impresario che ha scelto i ministri tra i gerenti e amministratori delle sue imprese. Speriamo che il popolo si risvegli da questo letargo che la propaganda mediatica gli ha provocato. Quello che temiamo maggiormente è che il fossato tra i piú ricchi e i piú poveri si allarghi sempre di più».

A proposito di poveri e di lotte, nel 2008 lei è stata in carcere per aver scioperato a fianco dei raccoglitori d’uva…
«Sì, in piena raccolta, nell’unico sciopero riuscito, venne la polizia e caricò tutti, e tra i molti c’ero anch’io… Ci tennero varie ore in cella in commissariato con l’accusa di disordine pubblico, ma poi ci rilasciarono tutti. Inutile dire lo scandalo sui giornali e in televisione, perché era dal tempo della dittatura militare che non succedeva che mettessero dentro una suora. Ricordo che io rimasi sola in una cella per diverse ore. In quella situazione mi dissi che l’unico modo per resistere era la preghiera. Allora, visto che sulle pareti della cella c’era scritto di tutto e di più, a ricordo della gente che era passata da lì, mi dissi che anch’io potevo fare testimonianza per altri: cominciai a pregare scrivendo sulle pareti i salmi recitati a memoria, passi del Vangelo, riflessioni. Non so se le mie scritte siano state utili a qualcuno, ma a me servirono per superare una situazione emotivamente difficile».

La sua esperienza in fabbrica l’ha aiutata ad essere più vicina ai lavoratori?
«Il fatto di provenire da un ambiente operaio, mi ha fatto sentire sempre “un pesce nell’acqua” e ho potuto vivere, giornire, lottare e sperare come loro e con loro. Scoprire che il Volto di Gesù “nazareno”, quotidiano, comune, è come me, come loro, mi ha dato la chiave di lettura, d’interpretazione della vita della gente comune, specialmente dei piú poveri. In un rapporto di  evangelizzazione reciproca, perché Gesù ha scelto questa quotidianità per fare una proposta di vita per tutti. Io sono qui senza mai dimenticare il nostro carisma».

E allora qual è il vostro carisma, suor Donata?
«Accogliere e costruire i valori del Regno; amare gratuitamente di un amore rispettoso e delicato; vivere in comunità nella comunione delle differenze e dei beni; essere una presenza tra gli esclusi; condividere la vita con i più poveri. In poche parole, noi Piccole sorelle siamo chiamate a vivere nei luoghi di esclusione dove il dolore umano è di casa. Qui vogliamo annunciare un Dio misericordioso che ci accompagna con l’amore e la speranza».

Paolo Moiola

(1) Si veda: www.piccolesorelledigesu.it; www.hermanitasdejesus.org.
(2) Legge antiterrorismo 18.314.

Paolo Moiola




Eroi e terroristi in un paese ingiusto

Indiani mapuche e minatori, facce della stessa medaglia

Seppero resistere ai Conquistatori spagnoli, oggi i mapuche sono ridotti allo stremo, dispersi, vessati. In Cile, sono imprigionati con l’accusa di terrorismo per aver difeso la propria terra e il proprio modo di concepire l’esistenza.
Da una parte i mapuche «terroristi», dall’altra i minatori «eroi», usciti vivi dalle viscere della terra. In realtà, sia gli uni che gli altri sono vittime. Delle imprese minerarie, di quelle forestali, di un sistema ingiusto. Mapuche e minatori, facce di una stessa medaglia, che in Cile alcuni hanno cominciato a scoprire…

La pallottola apparteneva ad una Winchester calibro 12 in dotazione ad un carabiniere. Si conficcò nel cranio di Edmundo Alex Lemun Saavedra1, che morì dopo 5 giorni di agonia. Era il 12 novembre del 2002. Alex aveva soltanto 17 anni. Era uno studente appartenente ad una comunità mapuche. Aveva partecipato ad un’azione di recupero territoriale: terre mapuche finite in mano all’impresa forestale Mininco (del Gruppo Matte). L’autore dello sparo mortale, un maggiore dei carabinieri, è stato assolto dalla Corte marziale. E, a tutt’oggi, la famiglia di Alex Lemun non ha ricevuto alcun tipo di indennizzo da parte dello Stato e neppure le scuse dalle istituzioni di polizia.
Jaime Facundo Mendoza Collio2 aveva invece 24 anni, mapuche con qualche anno in più di Alex ma con lo stesso tragico destino. Morì a causa di uno sparo delle Forze speciali dei carabinieri, sparo ricevuto durante un’azione di recupero di terre. Era il 12 agosto del 2009. Come per Alex, anche per Facundo le forze dell’ordine hanno affermato che la loro azione fu un atto di legittima difesa, mentre i manifestanti mapuche hanno sostenuto che essi erano armati soltanto con boleadoras3 e bastoni4.
Veniamo ai giorni nostri. È il 12 luglio 2010, quando – in (sfortunata) coincidenza con il dramma dei minatori sepolti nella miniera -, 32 detenuti mapuche iniziano uno sciopero della fame.
Nelle carceri del Cile sono rinchiusi decine di mapuche accusati in primis di «associazione illecita terrorista» (asociación ilícita terrorista), azioni per recupero di terre e furto di legname ai danni di imprese forestali o latifondisti5. In realtà, la loro colpa è di aver rivendicato o difeso la loro terra da una spoliazione continua e devastante.
A questa situazione già grave, si aggiunge l’incarcerazione di minorenni. Luis Marileo Cariqueo, un adolescente mapuche rinchiuso da 7 mesi nel carcere minorile di Chol Cholo con l’accusa di terrorismo, nel novembre 2010 scrive: «La mia lotta è per la nostra libertà, per il nostro territorio. Non faccio parte di alcuna organizzazione. Il mio modo di pensare è il prodotto dei valori e dei principi tramandati dai nostri antenati. (…) Non credo di essere un pericolo per la società. Mi considero un ragazzo eguale a tutti gli altri che vivono nella comunità e che, insieme alle proprie famiglie, lottano giorno dopo giorno per un futuro migliore»6.
La protesta estrema dello sciopero della fame viena attuata per chiedere procedimenti giusti, l’applicazione di una giustizia obiettiva ed imparziale, ma soprattutto la abrogazione della Legge antiterrorismo (18.314), risalente all’epoca della dittatura del generale Pinochet, applicata nei confronti dei prigionieri mapuche. L’applicazione di quella legge – sostengono le comunità indigene – è una grave violazione dei diritti umani dei cittadini che esercitano il loro diritto alla protesta, domandano il diritto di proprietà sulle terre ancestrali, esigono il rispetto della propria forma di vita e della propria identità culturale.
Per cercare una soluzione, interviene mons. Ricardo Ezzati, arcivescovo cattolico di Conception, che si propone e viene accettato come mediatore tra governo e prigionieri7. Dopo 82 giorni di sciopero della fame, i mapuche imprigionati mettono fine alla protesta, ma i problemi tra Stato cileno e comunità indigene rimangono tutti sul tavolo. Insoluti.
I MAPUCHE, PRIGIONIERI DELLO «SVILUPPO»
Caso unico nella storia della Conquista, i Mapuche resistettero agli spagnoli, con cui arrivarono ad un accordo firmando il Trattato di Quillin (cfr. Tabella della cronistoria). Il loro declino iniziò quando lo Stato cileno ottenne l’indipendenza dalla Spagna, avvenuta nell’anno 1818. Con la sconfitta del 1883, il territorio ancestrale delle comunità mapuche si ridusse progressivamente da circa 10 milioni di ettari a soli 500 mila.
Oggi sui territori (ex) mapuche è arrivato il cosiddetto «sviluppo»: imprese nazionali ed inteazionali stanno sfruttando quella terra senza rispetto alcuno per le comunità indigene e per l’ambiente. Boschi, laghi, fiumi, estensioni marine, sottosuolo: tutto viene sfruttato. Ci sono le imprese forestali che, dopo aver abbattuto parte dei boschi nativi, hanno dato inizio a piantagioni di pino ed eucalipto (a crescita rapida, ma con inaridimento del suolo e conseguente riduzione della biodiversità)8. Le industrie principali sono quelle appartenenti ai gruppi Angelini e Matte, grandi produttori ed esportatori di cellulosa per l’industria della carta. Ci sono poi le imprese idroelettriche (tra cui Endesa, controllata dall’italiana Enel), che stanno costruendo centrali per la produzione di energia elettrica, sfruttando l’abbondante disponibilità d’acqua dei territori mapuche. E ancora le imprese minerarie in cerca di ferro e scandio.Ci sono infine le multinazionali norvegesi del salmone d’allevamento, che hanno portato gravi problemi ambientali nelle acque frequentate dalle comunità dedite alla pesca9.
In questo quadro di «sviluppo» senza regole, la cosa più insopportabile è che le comunità mapuche non sono state consultate. Nonostante il Cile abbia ratificato la Convenzione Ilo (Oit) 169 nel 2008 e questa sia entrata in vigore il 16 settembre 200910. L’articolo 6 della Convenzione prevede che «i Govei devono consultare i popoli interessati, attraverso appropriate procedure, in particolare attraverso le loro istituzioni rappresentative, ogni volta che si prendono in considerazione misure legislative o amministrative che li possano riguardare direttamente (…)». La risposta dello Stato alla comprensibile mobilitazione delle comunità mapuche è stata ed è la repressione e il carcere.
In data 8 ottobre 2010, la «Commissione etica contro la tortura» (Comisión etica contra la tortura)11 rilascia una dichiarazione durissima. «La mobilitazione mapuche – vi si legge – ha reso evidente al mondo che in Cile non esiste uno Stato democratico, che non c’è eguaglianza davanti alla legge e che, di conseguenza, non viviamo in uno Stato di diritto, ma in uno Stato di polizia e di repressione che viene meno ai suoi stessi impegni, contratti davanti alla comunità internazionale, in materia di diritti umani».

Paolo Moiola

NOTE
1 – Amnesty Inteational, Rapporto 2003, pag. 147.
2 – Amnesty Inteational, Rapporto 2010, pag. 198.
3 – Strumento indigeno con tre palle legate da lacci di cuoio. Venivano lanciate alle gambe degli animali per catturarli.
4 – L’8 novembre 2010 il magistrato militare ha condannato il carabiniere accusato dell’uccisione a 15 anni di carcere. La Corte militare potrebbe però ribaltare la sentenza.
5 – Si veda: www.paismapuche.org.
6 – Ancora su www.paismapuche.org.
7 – In termini esatti: «Facilitador de la mesa de dialogo entre el Gobieo y los Mapuches», si veda www.arzobispadodeconception.cl.
8 – Leslie Ray, La lingua della Terra. I Mapuche in Argentina e Cile, pag. 142.
9 – Sulle imprese e sulle multinazionali operanti in territorio mapuche si legga l’opuscolo curato da Sabrina Bussani dell’«Associazione per i popoli minacciati», Bolzano, www.gfbv.it.
10 – La Convenzione Ilo 169 sulle «popolazioni indigene e tribali» è stata adottata già nel 1989. Alla data del 13 novembre 2010, era però stata ratificata soltanto da 22 paesi. Molti stati, tra cui l’Italia e la Germania, sostengono di non avere interesse a ratificarla in quanto non esistono (esisterebbero) popolazioni indigene sui loro territori, ma anche considerando valida (e non lo è) questa obiezione il numero dei firmatari è molto basso. Il 13 settembre 2007 è, inoltre, stata approvata la «Dichiarazione delle Nazioni Unite sui Diritti dei Popoli indigeni».
11 – Si veda: www.contralatortura.org.

Paolo Moiola




Cari missionari

Far di ogni erba un fascio

Spettabile rivista,
se uno afferma categoricamente: il popolo italiano è ladro e corrotto, facendo di ogni erba un fascio, come è tipico del nostro maledetto qualunquismo disfattista e antipatriottico, è certo che non verrà mai preso per razzista. Considerate le nostre attitudini a parlarci sempre male addosso, un tale simile verrebbe anzi applaudito e coronato di gloria. Se, viceversa, un altro tale accusa i Rom o altre minoranze etniche di essere ancora più ladre e delinquenti del popolo italiano, costui si vedrà subito arrivare la patente di solenne razzista e dovrà anche subire il pubblico ludibrio di marca chiaramente progressista e anche catto-comunista. In questo secondo e grottesco caso ci troveremo di fronte a un bell’esempio di pensiero unico alternativo (perché mica esiste solo quello attribuito al potere ufficiale, esiste anche e soprattutto quello sinistrorso), tipico di chi sta a sinistra, cattolici degenerati compresi.
Un pensiero unico che puzza tanto di ipocrisia. E, a chi coltiva questo pensiero unico alternativo, vorrei chiedere: sappiamo di Rom e di romeni che vanno a rubare nelle case e nelle ville degli italiani, ma quanti italiani vanno a rubare nelle case degli immigrati romeni o ucraini o moldavi o in quelle degli zingari, per quanto presumibilmente poco ci possa essere da rubare? E non solo gli italiani si ritrovano derubati, ma per giunta guai se si lagnano e si lamentano e se scendono in piazza a manifestare la propria esasperazione! Stando così le cose, sarebbe il caso di organizzare sit-in di protesta davanti alle varie Ong Cattoliche e non solo, che si occupano di immigrazione et similia. Sarebbe ora che le illuminate menti dei catto-progressisti si decidano una volta e per tutte a prendere in considerazione non soltanto i diritti di chi è costretto a fuggire dal proprio Paese, ma anche di chi vive in questo Paese perché ci è nato e vorrebbe continuare a viverci nella maggior sicurezza possibile! Leviamoci dalla testa utopie di integrazione sic et simpliciter. In America, dopo quasi duecento anni dalla fine della guerra di secessione, hanno ancora problemi seri di razzismo tra neri e bianchi. E pretendere, qui da noi, che le persone di etnia Rom si integrino nella società italiana, vuol dire aspettarsi che abbandonino la propria cultura per assimilare la nostra. E questo non sarebbe razzismo? Anche perché, chi di noi italiani si sognerebbe di compiere l’esatto opposto, ossia rinunciare alla nostra, di cultura, per abbracciare quella Rom?
Vorrei tanto che le tribune cattoliche e laiche più focose su questi temi mi rispondano, evitando di svicolare alquanto indecorosamente, allorché, davanti a precise obiezioni dei lettori, si cerca di far passare tali sacrosante osservazioni per miserevoli pretesti, venati, magari, di razzismo.
Distinti saluti.
Giovanni Pirrera
 Agrigento

Non so se quel catto-comunisti e catto-progressisti è indirizzato a noi, ma mi permetto di offrire alcune precisazioni. Dire che in Italia c’è corruzione (Trasparency Inteational ci pone al 67° posto, dopo il Ruanda, nella lista di 178 paesi dai più virtuosi ai più corrotti) e mafia, che ci sono ladri ed evasori, che c’è lo sfruttamento della prostituzione e pedofilia, non è dire che tutti gli italiani sono ladri, corrotti, mafiosi e pedofili. Sarebbe un’ingiusta generalizzazione. Lo stesso deve valere per altri popoli. Che ci siano ladri tra i rom, imbroglioni e trafficanti di persone tra i nigeriani, sfruttatori di manodopera tra i cinesi, non è dire che tutti i rom, i nigeriani e i cinesi sono così. Che ci siano ladri tra i rom, è vero. Ma se i 1.400.000 furti ca. del 2008 fossero tutti fatti dai 160.000 – dati del Viminale – rom stanziati in Italia, significherebbe che ognuno di loro (anche i neonati e quelli già in prigione) ne ha fatti almeno 9 all’anno!

Quando ero in Kenya, mi faceva molto male sentir dire che gli italiani sono tutti mafiosi. È vero che in Kenya, soprattutto a Malindi, ci sono anche italiani mafiosi e drogati e trafficanti di minori e ragazze, ma la stragrande maggioranza degli italiani in quella nazione sono persone oneste e grandi lavoratori, e certo non sono mafiosi gli oltre 700 missionari italiani che là spendono la loro vita. Ma mi dava (e mi dà ancora) fastidio anche la classifica di italiani donnaioli o latin lover (caratterizzazione che pure è normale anche in campagne pubblicitarie su riviste al di sopra di ogni sospetto e, purtroppo, anche ad altri livelli). In Svizzera, la campagna denigratoria dello scorso settembre contro i frontalieri è stata disgustosa, pericolosa e totalmente ingiusta.
Come giustamente lei fa osservare, il processo di integrazione è un fatto molto lento e i pregiudizi sono duri a morire. Il razzismo (o il suo equivalente chiamato tribalismo in Africa) è un virus pericoloso e difficile da curare, che prospera quando si usano generalizzazioni, etichette e schedature invece di nomi e cognomi, quando si parla di masse, gruppi e categorie e non di persone. Ma prospera anche quando la cosiddetta sicurezza diventa il valore principale, perché in nome della stessa si creano gli «altri, i nemici» e invece di dialogare e cornoperare per costruire un mondo migliore, si costruiscono muri, difese, barriere …
Non pensa forse che il modo migliore per avere sicurezza per tutti sia quello di aiutare tutte le persone di buona volontà ad avere una vita decente con un lavoro dignitoso (e non da schiavi o sfruttati) e una  casa che non sia un tugurio sovraffollato, fatiscente, malsano e strapagato a chi lucra sulla povertà altrui? Questo vale per i rom o gli altri extracomunitari, ma vale anche per gli Italiani, e sono tanti, che in questa crisi si trovano senza lavoro, sfrattati e umiliati da un sistema politico ed economico che sembra non aver occhi né orecchie, e tantomeno cuore, per le fasce più deboli e per le famiglie.

Prendersela con le organizzazioni cattoliche e missionarie che danno voce ai Rom e a chi come loro, accusandole di parzialità e anti-italianismo, non è giusto, anche perché è provato che sono proprio queste stesse organizzazioni, Caritas in testa, che stanno dalla parte degli italiani che sono vittime della presente situazione: disoccupati, sfrattati, quelli con il problema non solo della quarta, ma anche della terza settimana. Tra l’altro non è certo zittendo queste organizzazioni che si risolve il problema, anzi.

DIALOGHI DI PACE
DALLA BRIANZA ALLE MARCHE, CUORI CHE
BATTONO PER LA PACE E LA SALVAGUARDIA DEL CREATO
Sembrava un’impresa folle: invitare i turisti in pieno agosto o gli operosi brianzoli in ottobre a dimenticare per una sera i rispettivi svaghi e impegni e predisporsi, invece, all’ascolto di un messaggio del Papa! Eppure proprio questo è avvenuto, in occasione della Giornata per la Salvaguardia del Creato 2010, per la quale la Chiesa italiana sollecitava la riflessione sullo stretto legame esistente fra il rispetto dell’ambiente naturale e la costruzione della pace fra popoli e persone.
Il tema è stato dettato da Benedetto XVI che vi ha dedicato il Messaggio della Giornata Mondiale per la Pace 2010 al tema «Se vuoi coltivare la pace, custodisci il creato».
Approfittando di questa non frequente concomitanza, e considerando che i temi della pace e della salvaguardia ambientale sono propri anche di chi non crede e di chi appartiene a religioni diverse da quella Cristiana Cattolica, si è diffusa oltre le aspettative degli organizzatori la riproposizione dei «Dialoghi di Pace 2010: lettura scenica del Messaggio del Papa» affidata ad attori-lettori le cui voci si incontrano, si incalzano e si accavallano come in un vero e proprio dialogo.
Ideata nella parrocchia Regina Pacis di Cusano Milanino, dove da alcuni anni va in scena in gennaio con crescente successo, l’iniziativa quest’anno è stata replicata anche a Fano, sulla riviera Adriatica, ad Oreno di Vimercate in apertura del tradizionale triduo dedicato a San Francesco, ed a Milano, nel quartiere Corvetto, come momento di riflessione nell’ambito della decennale Festa del Creato e contraltare positivo a cronache poco amiche di chi opera per il bene nella zona.
In tutte le occasioni, a sottolineare il valore civile e non solo religioso dell’iniziativa,c’era la presenza delle amministrazioni pubbliche (anche rappresentate da Sindaci in veste istituzionale) e, sempre, delle tante realtà del volontariato e dell’associazionismo locale e nazionale in ambito missionario e di salvaguardia ambientale (Gruppo Naturalistico della Brianza, Amici del Sidamo, Gruppi di acquisto solidale, AGe…).
È stato bello constatare come, in ogni luogo in cui è stata allestita, l’iniziativa si è arricchita con le specifiche ed originali capacità e sensibilità di chi ha scelto di farla propria: che si trattasse di concertisti affermati ed attori professionisti o di giovani di talento e filodrammatici per passione.
In tutti i casi, grande merito nel successo dell’iniziativa hanno avuto la musica, affidata a formazioni variabili (chitarre soliste, quintetto di fiati blues, trio multietnico di violini e chitarra), e la lettura di poesie dedicate alla natura ed alla relazione dell’uomo con essa e con la dimensione del soprannaturale cui rimanda scritte da dom Helder Camara, il vescovo brasiliano da alcuni definito il Gandhi cattolico o il San Francesco del Novecento. Intermezzi che hanno visualizzato e commentato con la forza espressiva dell’arte i passaggi più significativi di un’elevazione spirituale che si è rivelata tanto attraente per i non credenti quanto coinvolgente e significativa per chi crede… E che vale la pena riproporre anche altrove!
Già ci si prepara per l’edizione 2011 che, accanto al Messaggio del Papa (Libertà religiosa, via per la pace), prevede la lettura di testi di Oscar Romero. Chi volesse approfittare della documentazione che verrà predisposta non ha che da farsi avanti.
Giovanni Guzzi
Vimercate
http://www.parrocchiamilanino.it/scossa_on_line/in_vetrina/dialoghi_pace/dialoghi_pace.htm

POESIA
Gentilissimo Padre, le scrivo perché questa povera vecchia maestra è venuta a conoscenza che una sua ex allieva presta il suo lavoro da anni in Mozambico. I genitori di Chiara, che è nata nel 1978, mi hanno donato degli appunti di viaggio scritti dal papà.
Tra questi ho trovato una poesia di Chiara che ho fatto leggere anche ai miei nipotini.
Questa sua presenza tra mamme e bambini è a prevenzione dalle malattie che più colpiscono il continente africano; mi ha resa orgogliosa e grata a Dio di questa ex alunna.
La invio a Lei che ringrazio per tutto il bene che fate anche attraverso la vostra rivista che ci giunge sempre preziosa!
In fede con Gesù, per Gesù, in Gesù, la mia più grande riconoscenza.
Maria G. Sansone
 Milano
Ecco la poesia di Chiara.
«…c’è un mondo là fuori
che grida in silenzio
le sue ragioni di essere!
Questo mondo
che noi teniamo
ben lontano
dalle nostre vite,
vorrei che un giorno
potesse parlare.
Ho il cuore aperto
dalla gentilezza
di questa gente,
dalla loro dolcezza,
dalla loro frustrazione.
Cerco di contenere
l’emozione
che mi sta travolgendo
come un fiume in piena.
Devo farcela,
non ho il diritto
di mostrare
il mio stato d’animo;
non posso permettermi
di perdere
neanche una lacrima;
ma continuo a tenere
i bambini per mano,
a sorridere
ai loro grandi occhi neri…
Chiara Gargano
Moma, Mozambico

Extra comunitari
Cari Missionari,
a proposito della domanda «Veneto il più duro?» e alla lettera pubblicata sul numero di settembre u.s. che mi è appena arrivato, posso dire che a Modena da circa 8-10  mesi siamo letteralmente «invasi» da extracomunitari che vengono da Verona. Sono aumentati da 3-5 ogni mattina a 8-15, quasi tutti nigeriani, di cui almeno il 50% da Benin City. Ho inserito un deviatore e staccato il campanello, ma loro mi aspettano alla porta).
Insisto che si rivolgano alle parrocchie di residenza perché, non essendo in grado di aiutare tutti, solo le Caritas parrocchiali possono conoscere le reali condizioni di bisogno e disagio di ciascuno di loro. La risposta è che purtroppo dalle parrocchie arriva pochissimo perché (anche qui) sono già da tempo impegnate nell’aiuto delle famiglie e dei «poveri consolidati», modenesi o comunque italiani. Così suonano al campanello dei singoli cittadini perché almeno non vengono cacciati in malo modo né viene chiamato il 112, come invece succede a Verona (così dicono, ma forse a Verona sono invasi da quelli che scappano di Modena!). Certo che se non si arriva «a lavorare meno, ma a lavorare tutti», la situazione non può che peggiorare.
Saluti.
Romano Ognibene
Modena

Dal Brasile
Caro amico!
Sono figlio di emigrati italiani che vivono nel sud del Brasile… scusa i molti errori del mio “maccaronico” italiano, ma credo mi capirai. Lavoro da molti anni in campagna e ho chiesto a una cugina per scrivere questa mia.
Ho conosciuto la vostra bella rivista con un  sacerdote. Mi piace molto leggere e anche scrivere per attaccare legami con la bella Italia, che ancora non ho mai visto. Qui come lì, si piantano vigneti, si fa vino… Sono solo e la solitudine non è facile. Ho già 60 anni e mi passo il tempo a piantare ortaggi, fiori, camminare, leggere, sentire musica e anche dipingere… vede, tengo nel sangue l’Italia.
Vorrei avere degli amici/che in Italia e altri paesi. Vi prego di pubblicare la mia lettera. Si!! Sono pensionato e ho molto tempo anche per aiutare nella chiesa, nella liturgia e catechesi. Mi puoi fare questo piacere? Aspetto di ricevere diverse lettere, mi piace anche tramite lettera conoscere altri paesi…
Vi ringrazio molto. Tanti saluti da un vostro fratello lontano.
Ivano Dal Magro
Brasile
Se qualcuno vuole mettersi in contatto con Ivano, ce lo faccia sapere e foiamo l’indirizzo.

Biodegradabile
Fate felice Madre Terra e i suoi abitanti, avvolgete la vostra bella rivista in materiale biodegradabile o lasciatela… nuda. Qualcuno lo fa già. Saluti da
Isa Monaca
(via email)
Vorrei poterle dire che esaudiremo il suo desiderio immediatamente. Davvero. Ma non è così. Per ora usiamo plastica riciclabile. Se un giorno ci saranno disponibili confezioni biodegradabili per spedizioni postali, le useremo certamente. Quanto al mandare la rivista «nuda» … non è questione di pudore, ma forse non ha mai visto con quanta sollecita premura e garbo le poste trattano le riviste.

Il mio Pakistan
Ciao Paolo (Moiola, ndr),
complimenti, hai fatto un grande lavoro. In Italia per  prima volta qualcuno ha dedicato un intero servizio al «mio Pakistan» (vedi MC 12/2010, pp.49-56). La mia intervista è bellissima. Sarebbe stato meglio scrivere «matrimonio combinato forzato» invece di matrimonio combinato. Il matrimonio combinato è fulcro della società mentre il matrimonio combinato «forzato» sta ostacolando la vita dei giovani pakistani in occidente. Grazie.
Ejaz Ahmad
(via email)

Well done!
Caro P. Ugo,
complimenti. Hai veramente ricavato un articolo coi fiocchi dai miei pensieri scornordinati, un lavoro ben fatto, molto professionale e una bella grafica (vedi MC 11/2010 pp. 10-16). è stato un piacere incontrate te e gli altri missionari della Consolata. L’espereinza mi ha davvero arricchito. In Cristo
Michael van Heerden
 dal Sudafrica (via email)

NOSTRA MADRE TERRA
Da mesi ero preoccupato per l’assenza dalla rivista MC della rubrica in oggetto. Ora con dispiacere e tristezza ho scoperto su MC la probabile causa di tale vuoto. Esprimo la mia condoglianza alla famiglia del dottor Roberto. Spero che tale apprezzata rubrica possa continuare come prima con la dottoressa Rosanna.
Cordialmente.
Sergio Brovelli
(via email)
Come promesso e può vedere in questo stesso numero, «Nostra Madre Terra» è tornata ad avere il suo spazio nella rivista grazie alla dedizione e competenza della dottoressa Rosanna.




Libertà religiosa, via per la pace

Ai lettori

«Libertà religiosa, via per la pace», questo è il tema della giornata mondiale della pace di quest’anno. Un tema molto caldo, visto che generalmente si considerano le religioni una delle ragioni aggravanti dei conflitti odiei. I più informati si limitano ad accusare i vari fondamentalismi (tutte le religioni ne hanno, anche il cristianesimo); i più arrabbiati se la prendono con le religioni in sé, ogni religione. Intanto la libertà religiosa è minacciata ovunque nel mondo.
Nel nostro Paese c’è confusione sull’argomento e coesistono bellissime esperienze di tolleranza accanto a pregiudizi e preclusioni che combattono, a suon di decreti, regolamenti e dichiarazioni di piazza, le legittime aspirazioni dei non cristiani ad avere un luogo di culto dignitoso.
Quando i fondamentalisti islamici evocano le crociate come scusa per terrorizzare e uccidere cristiani, tradiscono la loro religione e il loro Dio tanto quanto i cristiani che si oppongono alle moschee in nome della cultura occidentale «cristiana». In tutti i casi si disonora Dio, il Misericordioso e il Padre di tutti, proprio quando si è convinti di difenderlo. Dio non ha bisogno di essere difeso, ma amato. E Dio si ama comportandosi da Dio, cioè amando gli altri, come insegna Gesù.
è vero, a livello d’istinto, l’idea di avere una moschea o un tempio nel mio paesello natio mi mette a disagio: la sento come una violazione della storia e della memoria. Ma se invece comincio ad usare la testa e il cuore, non la pancia, allora riesco a chiedermi in quale Dio credo davvero. Impedendo ad altri di pregare a modo loro sto davvero lodando e amando il Dio di Gesù Cristo o, invece, sto solo obbedendo alle mie paure e difendendo una realtà (cultura) che non c’è più? Impedendo agli «altri» di esercitare uno dei loro diritti fondamentali, quello di esprimere liberamente e pubblicamente la propria fede (noi missionari viviamo di questo diritto!), non aiuto certo a creare un ambiente di pace, anzi dò motivi agli «altri» per essere arrabbiati e frustrati. Con questo non stò dicendo di dare le nostre chiese per farle diventare luoghi di culto di altre religioni … (ma questo è un argomento che va ben oltre un editoriale!).
Forse quel che non voglio capire è che la mia religione non è messa in pericolo dalle religioni «altre», ma dal mio stesso stile di vita imbevuto di consumismo. Un consumismo – non cristiano – così invadente e totalizzante da regolare ogni momento della mia vita con un controllo così capillare che nessuna religione è mai riuscita ad esercitare (nonostante i miti dell’inquisizione!). Certo non è un controllo poliziesco, anzi è molto soft, persuasivo, spesso cercato e voluto anche dall’individuo-vittima, ma avvolge ogni minuto della vita usando i mezzi più disparati: sport, musica, arte, vacanze, centri commerciali omnicomprensivi (= nuove cattedrali del consumismo), pubblicità, pressione sociale, televisione, radio, internet, telefonini, tempo libero, moda, viaggi … Non un minuto per sé!

Vogliamo la pace? Garantiamo alle persone la vera libertà religiosa, la libertà di esprimere la propria fede in Dio. La vera ricerca di Dio porta alla verità e la verità rende liberi.
Nella verità di Dio possiamo allora guardare al 2011 con speranza e ottimismo. Tanti auguri per il nuovo anno. La pazienza di Dio ci dà ancora tempo per imparare a vivere da uomini e fratelli. Non buttiamo via questa splendida possibilità. Pace a tutti.

Gigi Anataloni

Gigi Anataloni