Dare per ricevere

Editoriale

Trattati da «re»! C’è un tempo dell’anno in cui quasi tutti gli adulti sono considerati dei «re», non perché si mostri loro più rispetto, ma perché sembra scontato che possano spendere da «re», come i Re Magi di evangelica memoria, o il Babbo Natale globalizzato dalla pubblicità. A Natale, anzi molto prima, tutti mirano alle tasche del «re»: spendi, compra, dai, regala, fatti il regalo, occasioni, offerte… una girandola inarrestabile e irresistibile: cassette della posta piene, pubblicità televisiva martellante, babbi natale e sculettanti «babbe» natale che ammiccano da cartelloni pubblicitari o avvolgono i mezzi pubblici.
In quest’orgia di sollecitazioni ecco che s’inserisce anche la voce dei poveri: gridata dalle grandi organizzazioni inteazionali che li contano a milioni, sfruttata da chi su di essi ci fa la cresta nascondendosi dietro a miriadi di sigle accattivanti, sussurrata da chi con i poveri davvero ci vive e li conosce per nome.
Noi di Missioni Consolata, con i nostri missionari e missionarie sul campo, vorremmo essere la voce di chi i poveri li conosce per nome, con i poveri vive e con essi condivide l’insicurezza, la paura, il pianto, il dramma della fame, l’abbruttimento dell’ignoranza, la violenza della guerra.
Il sogno di ogni missionario è quello di potersi dedicare completamente alla lode di Dio, all’annuncio della Parola, alla celebrazione della vita e della gioia di una comunità che cresce nella pace. La realtà è invece ben altra: ha a che fare ogni giorno con le sofferenze di chi è marginalizzato, discriminato, tagliato fuori da sanità ed educazione, sfruttato e sottopagato, costantemente malnutrito, violentato da guerre e ignorato. Lui, l’uomo della Parola e dell’Eucaristia, deve allora farsi mendicante in favore della gente che ama, dare voce a chi non ha voce, rompere amici e uomini di buona volontà che vivono in un mondo dove la povertà degli altri dà quasi fastidio perché percepita come una minaccia o una seccatura in più in questo contesto di crisi economica, di sfascio politico, di fine del sogno di poter vivere al di sopra dei propri mezzi.
È per amore dei poveri con cui abbiamo a che fare ogni giorno che come missionari continuiamo a bussare al vostro cuore e lo facciamo in modo particolare in questo tempo di Natale. Sono tempi di magra anche in Italia. Ma se soffriamo noi, i poveri soffrono ancora di più, perché il loro livello di vita era già allo stremo da tempo. Sicuramente oggi siamo tutti a corto di soldi, ma non dovremmo essere a corto di cuore. Condividere quando si ha il sovrappiù forse è facile (certo non per la «casta»!). Condividere quando si è in difficoltà, richiede grande amore. Un amore così è un segno di speranza, è una dichiarazione di fiducia, è attestare che l’Umanità non è morta.
Per questo Natale l’appello principale è quello della fame nel Coo d’Africa (vedi reportage a pag. 49-53), una situazione che non si corregge in pochi giorni: l’emergenza durerà almeno fino a febbraio 2012. Ma accanto a questo ci sono tutte le altre opere di ordinaria carità soprattutto nel campo della sanità e dell’educazione. A gennaio 2012 comincia il nuovo anno scolastico in tutta l’Africa e in diversi paesi dell’America Latina: rette scolastiche, divise, libri, materiale didattico, strutture di accoglienza, cibo per i collegi… le adozioni a distanza (sia tramite la nostra onlus/ong, che attraverso gruppi e onlus/ong che sostengono i Missionari della Consolata nel mondo) sono un aiuto essenziale per dare continuità ad un servizio educativo che ha bisogno di tempi lunghi.
«Date e vi sarà dato, una misura colma, abbondante…». Le parole di Gesù non sono vane. Se state pensando a come vivere il Natale, pianificando i regali da fare, le vacanze da far stare dentro i bilanci sempre più magri… non dimenticate i poveri. Vi ritoerà tutto con gli interessi. Grazie.

Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




Quando a marcia… segna il passo

Futuro sempre più incerto

La mossa con cui Pechino ha deciso di trasferire nella provincia dell’Hebei l’ex segretario del Partito comunista in Tibet potrebbe significare un cambio di priorità nella dirigenza cinese. Abbandonate le vette dell’Himalaya, il «mastino» Zhang Qingli, fautore di una linea d’intransigenza contro le aspirazioni autonomiste dei tibetani, che definì il Dalai Lama «un lupo con la veste monacale», dovrà ora amministrare la culla del cattolicesimo cinese.
È nell’Hebei, provincia settentrionale che circonda le municipalità di Pechino e Tianjin, che vive un quarto dei circa 12 milioni di cinesi fedeli alla Santa Romana Chiesa. Il nuovo incarico darà pertanto a Zhang un ruolo di primo piano nello scontro che negli ultimi mesi ha visto opposta la Repubblica popolare al Vaticano. «È un atto simbolico. Pechino ha il pieno controllo e la situazione è già di per sé molto dura. Nella provincia vescovi e sacerdoti della Chiesa sotterranea sono scomparsi o sono stati rinchiusi nei laogai, condannati ad anni di lavori forzati» afferma padre Beardo Cervellera, direttore dell’agenzia d’informazione missionaria Asia News.
Neppure le scomuniche hanno persuaso il vertice della Chiesa ufficiale cinese a desistere dalle tre ordinazioni episcopali senza mandato papale che negli ultimi dieci mesi hanno allargato il solco tra Pechino e Roma. Atti «in contrasto con la Chiesa universale», aveva commentato a luglio il direttore della sala stampa vaticana, padre Federico Lombardi.  
La divisione risale agli anni Cinquanta del secolo scorso, quando la Cina comunista e la Santa Sede ruppero le relazioni diplomatiche con l’espulsione del nunzio apostolico, Antonio Riberi, e con l’inizio della pratica delle ordinazioni autogestite durante il periodo maoista. Da allora i rapporti dello Stato cinese con i fedeli sono gestiti dall’Associazione patriottica dei cattolici cinesi (Ccpa), cui sono affiliati circa 5 milioni di fedeli secondo i dati foiti dalla stessa organizzazione, e dalla Conferenza episcopale della Chiesa cattolica, approvate dal governo. Entrambe riconoscono l’autorità spirituale del Papa, ma non il suo potere a nominare i vescovi. Ed entrambe sono opposte alla Chiesa clandestina che riconosce il primato di Roma.
Studiosi e analisti ritengono tuttavia che le pratiche della Chiesa ufficiale siano un rebus per gli stessi cattolici cinesi. In un editoriale intitolato La Chiesa non può servire due padroni, pubblicato sull’agenzia cattolica UCANews, il direttore del dipartimento degli Studi sul Cristianesimo dell’Accademia cinese delle Scienze Sociali, Ren Yanli, ha sottolineato alcune delle contraddizioni in seno alla pretesa autonomia da Roma. Ad esempio, dichiararsi «indipendente» e allo stesso tempo «in comunione con il successore di Pietro». L’articolo si apre con l’auspicio che i cattolici siano allo stesso tempo buoni cittadini, rispettosi delle leggi dello Stato e buoni cristiani fedeli ai dettami della Chiesa. Le ordinazioni irregolari, scrive lo studioso, rischiano tuttavia di danneggiare la tanto agognata «società armoniosa», propagandata dal presidente, Hu Jintao, e dal primo ministro, Wen Jiabao. Possono rientrare nel novero dei cosiddetti «incidenti di massa», le manifestazioni di un centinaio di seminaristi che tra novembre e dicembre dell’anno scorso protestarono davanti all’ufficio della Commissione per gli Affari etnici e religiosi proprio dell’Hebei, contro la nomina di un rappresentante del governo a vicerettore dell’istituto dove studiavano. «Nella scelta non sono coinvolti sacerdoti o vescovi», dissero allora i manifestanti contattati da Asia News, temendo che con la scelta dei funzionari i valori spirituali fossero messi in secondo piano rispetto alla politica. Alla fine la protesta ebbe la meglio e Tang Zhaojun fu rimosso dall’incarico.

Negli ultimi mesi il clima è andato però deteriorandosi. Restrizioni sono state imposte a missionari europei che da Hong Kong hanno cercato di entrare nella Repubblica popolare. Un viaggio finora senza grossi problemi, prima che la strada fosse sbarrata a padre Bruno Lepeu, superiore dei Mep (Missions Etrangères de Paris) nell’ex colonia britannica; così come a padre Franco Mella del Pime (Pontificio istituto per le missioni estere), 62 anni, un «pendolare» fra Hong Kong e il continente, cui a fine luglio funzionari dell’immigrazione a Shenzhen, nella provincia meridionale del Guangdong, hanno negato il visto per la prima volta in 20 anni.
Dalle colonne del Quotidiano del popolo, voce ufficiale del Partito comunista, invece è partita una dura reprimenda contro il Vaticano, in un pezzo di commento dal titolo Il Cattolicesimo si deve adattare alle condizioni locali. «Sebbene il potere temporale della Chiesa sia ora concentrato nei 44 chilometri quadrati della Città del Vaticano – si legge – esso continua a esercitare un’influenza sproporzionata rispetto alla sua piccola stazza. Nomina cardinali in altri paesi, i suoi preti più importanti all’estero godono dell’immunità diplomatica e possono interferire negli affari di stati sovrani». E ancora alla Chiesa è chiesto di «adattarsi e capire la potenza di una nazione come la Cina e le sue differenze culturali», per non correre il rischio di essere considerata più interessata a «mantenere il proprio potere temporale che a far fronte alle necessità spirituali dei suoi fedeli cinesi».
«Tutti tentativi per dividere i cattolici ufficiali e sotterranei, che negli anni, prima papa Giovanni Paolo II e poi Benedetto XVI, hanno contribuito a riavvicinare» ha commentato padre Cervellera. Un’unità simboleggiata dalla Giornata di preghiera per la Chiesa in Cina in coincidenza con la festa e il pellegrinaggio al santuario della Madonna di Sheshan, vicino a Shanghai, il 24 maggio. Una Giornata indetta dallo stesso Benedetto XVI nella sua lettera ai cattolici cinesi del 2007, cui il governo ha risposto aumentando le misure di sicurezza e le pattuglie attorno al santuario e impedendo anche a molti cattolici ufficiali di recarvisi in pellegrinaggio.

Un cablogramma del consolato statunitense a Chengdu, nel Sichuan, tra gli oltre 250mila documenti riservati della diplomazia Usa diffusi da WikiLeaks, dà un’idea di come operi la Chiesa ufficiale. Si descrive la situazione a Yibin, diocesi con 140 anni di storia e 40mila fedeli, all’epoca dell’invio del cablo presieduta dal vescovo Chen Shizhong, riconosciuto, si sottolinea, sia da Pechino che da Roma. L’interlocutore parla di un clima religioso «armonioso», in cui convivono cristiani, taoisti e buddisti. Lamenta tuttavia la mancanza di preti, molti dei quali costretti a gestire più di una parrocchia, ma enfatizza più volte la libertà di religione di cui dice gode la diocesi. Una cautela, commenta il diplomatico, che non si capisce bene se derivi da una reale convinzione o dalla presenza durante l’incontro di un funzionario dell’Ufficio locale per gli Affari esteri. Il documento continua con una serie di precisazioni che sembrano contraddire la totale libertà di cui sembrerebbero godere i fedeli. Prima di prendere i voti, chi vuole farsi prete deve infatti passare un esame pubblico. Inoltre il governo non permette che si istituiscano parrocchie troppo piccole perché, a detta della fonte, difficili da gestire e a rischio «disordini». Nel documento si accenna anche al sostegno economico del governo per la costruzione o la ristrutturazione della curia vescovile. Sottolineando inoltre un investimento di oltre 20 milioni di yuan (2 milioni di euro) dell’amministrazione provinciale del Sichuan, fatto tra il 2004 e il 2005 per la ristrutturazione del Sichuan’s Catholic Theological College, dove chiunque volesse seguire la vocazione deve studiare.
Altro cablo altra provincia. In un documento datato febbraio 2007, si parla del Guizhou, e in particolar modo di Guiyang. Qui, spiega la fonte, i fedeli alla Chiesa sotterranea sono pochi, mentre è obiettivo delle gerarchie ufficiali spingere all’unità tra i due gruppi senza fare troppe distinzioni. «Se veramente credono in Dio, speriamo nell’unità» spiega, e sottolinea di non essere a conoscenza di sacerdoti o credenti agli arresti, ma ammette ostacoli alla libertà di movimento. La sfida più difficile per la Chiesa è, secondo l’interlocutore, intercettare l’interesse dei più giovani. I fedeli sono per la maggior parte anziani e per avvicinare anche i ragazzi alla religione nella provincia sono state organizzate «letture di gruppo» (in cinese du shu hui) incentrate sugli insegnamenti della Bibbia.

Le stesse preoccupazioni per lo scarso interesse delle nuove generazioni emergono anche dalla conversazione con una suora che lamenta inoltre le difficoltà per la Chiesa nel recuperare terre e proprietà espropriate negli anni Sessanta e Settanta, durante la Rivoluzione Culturale. Dispute che spesso i governi locali risolvono con la forza e la coercizione, come nel caso di una suora cattolica e un sacerdote picchiati mentre cercavano di reclamare due proprietà un tempo appartenute alla Chiesa di Kungding, sempre nel Sichuan. Sebbene negli anni il governo centrale ha più volte rimarcato i diritti dei legittimi proprietari, l’Associazione patriottica e il ministero degli Affari Religiosi mettono ostacoli sulla strada di chi cerca di riottenerle.
Spostando l’attenzione a nordest, nel resoconto di una cena al consolato a Shanghai a Pasqua del 2009, le condizioni per i cattolici sono definite buone, sebbene sullo sfondo si staglino le difficili relazioni diplomatiche tra la Santa Sede e Pechino. Anche in questo caso la maggiore preoccupazione è formare una nuova leva di giovani religiosi, mentre l’età media dei più alti prelati supera gli ottanta. «È quindi fondamentale concentrarsi sull’educazione dei ragazzi -sottolinea un vescovo presente all’incontro -. Se la Chiesa non riuscirà a farsi capire da chi ha sei o sette anni, allora in futuro mancherà chi ritiene la fede più importante dei soldi».

Andrea Pira

Andrea Pira




Ritratti emblematici

MICHELE FU TIESHAN: antipapista

Nato nel dicembre del 1931, nel distretto di Qing Yuan (Hebei), entrato a 10 anni nel seminario minore di Xishiku, completata la formazione teologica nel seminario maggiore dell’arcidiocesi di Pechino (vicino alla tomba di Matteo Ricci, ora requisito dal governo per fae una scuola del Partito), Fu Tieshan fu ordinato prete nel 1956 e svolse il ministero sacerdotale nelle parrocchie di Beitang e Nantang. Dal 1963 al 1966 studiò e si laureò all’università Hong Qi (Bandiera Rossa), mentre doveva anche lavorare per guadagnarsi da vivere.
Ufficialmente insediato dalle autorità comuniste come vescovo di Pechino, fu consacrato senza l’approvazione papale il 21 dicembre 1979. Unico tra i vescovi cinesi della seconda metà del secolo scorso non passò mai in un carcere o in un campo di rieducazione; anzi, la sua vita fu un crescendo di cariche importanti ecclesiastiche e politiche: vicepresidente dell’Assemblea nazionale del popolo (parlamento cinese), vicepresidente e segretario generale del Consiglio del vescovi cinesi (una specie di conferenza episcopale, non riconosciuta da Roma), presidente dell’Associazione patriottica (organismo che controlla la Chiesa ufficiale). Una carriera caratterizzata da umiliante servilismo verso il regime: fu l’unico personaggio religioso a difendere alla televisione di stato il massacro di Piazza Tiananmen (1989); difese a spada tratta le repressioni in Cina; si associò alla campagna internazionale contro il movimento taoista-buddista Falun Gong (1999); durante il Millennium Summit (2000) a New York, vituperò aspramente il Dalai Lama e si scagliò contro i paesi che «col pretesto dei diritti umani» si intromettono nella «sovranità» di altre nazioni.
Non si riconciliò mai con Roma. Anzi, si segnalò come accanito antipapista, intralciando i tentativi di dialogo tra Pechino e Santa Sede: criticò aspramente Giovanni Paolo II per «aver osato» canonizzare 120 martiri cinesi e missionari stranieri, «strumenti del colonialismo» (2000); lo stesso anno imbastì un’ordinazione di vescovi senza il permesso della Santa Sede; alla cerimonia non vollero partecipare né fedeli, né seminaristi.
Colpito gravemente da tumore ai polmoni nel 2005, morì il 20 aprile 2007, dopo aver ricevuto l’unzione degli infermi e la visita del presidente Hu Jintao. Un comunicato ufficiale l’ha esaltato come «leader religioso patriottico, attivista sociale e grande amico del partito comunista cinese».
Gli è succeduto Giuseppe Li Shan, consacrato vescovo il 21 settembre 2007, all’età di 42 anni, con la previa approvazione pontificia.

Giuseppe Zen Ze-kiun: antidiplomatico

Nato a Shanghai il 13 gennaio 1932, da famiglia numerosa (10 figli) e profondamente cattolica, Giuseppe Zen Ze-kiun compì gli studi in una scuola gestita da religiosi durante l’occupazione giapponese. Nel 1948, per scappare dal potere dei maoisti, fuggì a Hong Kong per coltivare la sua vocazione sacerdotale. Entrato nella famiglia salesiana, dopo il noviziato fu mandato in Italia, dove ottenne la licenza in teologia e fu ordinato sacerdote a Torino nel 1961.
Conseguito il dottorato in filosofia all’Università salesiana di Roma (1964), rientrò a Hong Kong e si dedicò all’insegnamento nell’istituto salesiano e, nel 1971, iniziò a insegnare filosofia al seminario diocesano. Dal 1978 al 1983 fu superiore provinciale dei salesiani (provincia che include Cina, Hong Kong, Macau e Taiwan).
Approfittando delle graduali aperture e modeizzazioni in Cina, Zen riuscì a tornare a Shanghai e nel 1989 ottenne il permesso di insegnare nel seminario di Sheshan, dove mancava qualsiasi opera di riferimento fondamentale, perfino la Bibbia. Ovviamente si trattava di un seminario gestito dalla Chiesa patriottica, controllata dagli addetti all’Ufficio affari religiosi del regime. Tale esperienza gli costò non poche critiche e sospetti da chi vedeva in lui una sorta di arrendevole «collaborazionista» del regime, anche se visse sulla propria pelle tensioni, speranze e incognite di una Chiesa che provava a risorgere dalla grande persecuzione maoista. Grazie alla conoscenza diretta di quanto avveniva nella Cina continentale, il card. Zen potè battersi (e continua ancora) contro le manipolazioni politiche messe in atto dal regime, che da oltre dieci anni cerca di controllare la gente di Hong Kong, come fa già con i 12 milioni di cattolici presenti in Cina.
Nel 1996 fu nominato vescovo coadiutore di Hong Kong, con diritto di successione. Resse la diocesi dal 2002 al 2009. Nel concistoro del 24 marzo 2006 Benedetto XVI lo nominò cardinale, inserendolo nella Commissione vaticana sulla Cina.
Durante tutto il suo episcopato il card. Zen si è distinto per il suo coraggio nel denunciare le pretese del regime di Pechino e nel movimentare le masse in difesa dei diritti umani, della libertà politica e religiosa. La sua voce è diventata scomoda anche in seno alla Chiesa cattolica: egli critica la Segreteria di Stato vaticana per i suoi compromessi con le autorità cinesi, nel tentativo di riallacciare le relazioni diplomatiche. Significativo il titolo di un libro-intervista in cui racconta la sua vita: «Senza diplomazia».
Alcune personalità conservatrici all’interno della Chiesa cattolica pensano che le relazioni tra Pechino e Vaticano sarebbero più rilassate senza le prese di posizioni del card. Zen. Dal 2009 è vescovo emerito e gli è succeduto l’ausiliare mons. John Tong Hon.

GIUSEPPE ZhENG CHANG CHENG:
sovversivo

Nato nel 1912 in una povera famiglia di falegnami, entrato in seminario nel 1926 a Fuzhou, poi a Shanghai nel 1930 e infine al seminario Holy Spirit di Hong Kong, Giuseppe Zheng fu ordinato sacerdote il 27 gennaio 1937. Laureato in storia e letteratura cinese all’Università cattolica di Pechino, insegnò nel seminario di Fuzhou e, nel 1951, divenne amministratore della stessa diocesi.
Nello stesso anno si rifiutò di firmare le accuse contro il nunzio Riberi. Nel 1955, interrogato per 25 giorni, rifiutò di rinnegare la fede cristiana e l’obbedienza alla sede di Pietro: accusato di essere un sovversivo e di nascondere in chiesa i fucili per i controrivoluzionari, fu mandato nei campi di rieducazione, dove rimase per 28 anni e ottenne alcune conversioni grazie alla sua testimonianza.
Liberato nel 1983, si dedicò a ridare vita alla Chiesa: fu anche rettore del seminario dal 1988 al 1992. Il 24 gennaio 1991, all’età di 79 anni, fu insediato dalle autorità politiche alla guida della diocesi di Fuzhou. Ma subito, tramite intermediari di Hong Kong, cercò di mettersi in contatto con Roma per regolarizzare la sua posizione. Nei 16 anni di episcopato restaurò più di 30 chiese e costruì il santuario diocesano «Rosa Mistica», situato a 30 chilometri da Fuzhou, diventato meta di frequenti pellegrinaggi. Per le sue numerose opere di carità, fu insignito di un riconoscimento da parte delle autorità.
Ma a Fuzhou c’era anche un altro vescovo, Giovanni Yang, clandestino e in comunione con Roma. Tra le due comunità i rapporti erano pessimi; una buona parte dei preti della diocesi non lo riconobbero come loro vescovo; alcuni lo accusarono addirittura di infedeltà al papa e alla chiesa. Egli provò più volte la via della riconciliazione, disposto anche a farsi da parte se il vescovo clandestino fosse venuto allo scoperto e avesse assunto la guida della diocesi.
Tutta la vita spesa per Cristo, devotissimo della Madonna, negli ultimi anni fu colpito da cancro alla gola: offrì la sua vita per vedere la piena riconciliazione fra le due comunità cattoliche della diocesi. Ma non ebbe tale consolazione. In compenso ebbe da Roma importanti segni di riconoscimento della sua fedeltà: tramite il vescovo di Hong Kong ricevette l’anello vescovile e mediante il cardinale Ivan Dias, prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, la benedizione di Benedetto XVI. Si spense il 18 dicembre 2006, all’età di 94 anni.

GIUSEPPE WEI JINGYI: ecumenico

Vescovo clandestino di Qiqihar, (diocesi nell’estremo nord della Cina), Giuseppe Wei Jingyi era fra i quattro vescovi della Cina popolare invitati al Sinodo sull’Eucaristia nell’ottobre 2005. A tutti e quattro fu negato il permesso di lasciare la Cina per giungere a Roma, benché gli altri tre fossero ufficialmente riconosciuti dal governo di Pechino.
Era clandestino anche il suo predecessore, Paolo Guo Wenzhi, morto il 29 giugno 2006 all’età di 84 anni. Mons. Wei ne celebrò i funerali e lo seppellì in un luogo segreto, sfidando le autorità politiche, che gli avevano proibito di officiare le esequie e ordinato la cremazione. Altra sfida al regime fu la lettura in tutte le chiese di una lettera pastorale in cui spiegava come applicare le indicazioni espresse dal papa nella lettera inviata nel 2007 a tutti i cattolici cinesi. In essa mons. Wei espresse la volontà di riconciliarsi con alcuni sacerdoti della diocesi che gli avevano rifiutato obbedienza poiché lo ritenevano troppo cedevole al regime comunista; invitò pure tutti i fedeli a partecipare ai sacramenti amministrati da vescovi e sacerdoti ufficiali, purché in comunione con Roma. Inoltre, avviò un dialogo con la chiesa russo-ortodossa presente nella sua diocesi.
Ordinato a 48 anni, abita in un piccolo villaggio, il solo luogo dove le autorità politiche gli consentono di esercitare il suo ministero, insieme a una ventina di preti entusiasti e quasi tutti più giovani di lui. Tale situazione è specchio del vuoto di preti tra i 45 e i 70 anni di età, causato dalla rivoluzione culturale. L’enorme divario tra la generazione eroica di vescovi anziani che stanno scomparendo e i loro successori, tutti attorno ai 40 anni, costituisce un fenomeno senza eguali nella Chiesa mondiale.

ANTONIO LI DUAN: riconciliatore

Nato nel 1927, per 20 anni in campi di detenzione (1954-57, 1958-60, 1966-79), vescovo di Xian (Shaanxi) dal 1987 per volere delle autorità comuniste e tacitamente riconosciuto dal Vaticano, mons. Li non si sottomise mai all’Associazione patriottica, ma difese strenuamente la libertà della Chiesa: nel gennaio del 2000 si nascose per non prendere parte all’ordinazione di 5 nuovi vescovi non riconosciuti da Roma.
Personalità stimata da intellettuali e politici anche non cristiani, ricostruì e rivitalizzò la Chiesa di Xian dopo i disastri della Rivoluzione culturale e si adoperò per riconciliare la Chiesa ufficiale e quella sotterranea; amato dai cattolici di entrambi gli schieramenti, fu spesso soggetto a controlli e interrogatori.
Membro della Chiesa ufficiale, ma sostenitore e amico dei pontefici, si adoperò per la riconciliazione tra Cina e Vaticano, riallacciandone i rapporti diplomatici. Mons. Li fu verosimilmente il cardinale in pectore creato da Giovanni Paolo II nel 2003 e mai rivelato; fu uno dei quattro vescovi cinesi invitati dal papa al Sinodo sull’Eucaristia dell’ottobre 2005.
Da due anni malato di cancro al fegato, morì il 25 maggio 2006, all’età di 79 anni. La sua tomba è meta di pellegrinaggi, come quella di un santo.

GIUSEPPE XING WENZHI:
successore di Fan e Jin

Originario di Shan Dung, entrato nel seminario di Shanghai nel 1983, prete dal 1990, Giuseppe Xing Wenzhi è stato ordinato ausiliare di Shanghai il 28 giugno 2005, all’età di 42 anni: è il primo vescovo ad essere nominato congiuntamente e pubblicamente dal governo di Pechino e dalla Santa Sede. Sarà successore di due vescovi ultranovantenni e malati: Luigi Jin Luxian, vescovo ufficiale, e Giuseppe Fan Zhongliang, vescovo clandestino.
Entrambi gesuiti, stretti collaboratori di mons. Ignazio Gong Pinmei, furono arrestati assieme al loro vescovo nel 1955, mentre tutti e tre salivano al santuario mariano di Sheshan per giurare che non avrebbero mai tradito la loro fede. Liberati dopo più di 25 anni di prigione e campi di rieducazione, presero strade diverse: Jin optò per la Chiesa patriottica e nel 1985 fu creato vescovo ufficiale della diocesi di Shanghai senza il mandato apostolico; mentre Fan scelse la clandestinità e, lo stesso anno fu ordinato clandestinamente e riconosciuto da Roma come unico successore dell’irriducibile Gong Pinmei, rimasto in libertà vigilata e poi costretto all’esilio negli Stati Uniti.
Mons. Jin è riconosciuto dal governo e, ultimamente anche in comunione con Roma; mons. Fan è riconosciuto da Roma e appena «tollerato» da Pechino; entrambi ultra novantenni e gravemente malati (Fan è malato d’alzheimer): per il successore Xing non ci sono problemi né da Roma, né da Pechino.

GIUSEPPE LIU XINHONG: illegittimo

Nel 2006 in Cina sono stati ordinati tre nuovi vescovi contro la volontà della Santa Sede, delle comunità locali e persino dei vescovi ordinati e ordinanti: uno di essi è Giuseppe Liu Xinhong consacrato il 3 maggio a Wuhu, nella provincia orientale dell’Anhui. Gli altri due sono: Giuseppe Ma Yinglin per la diocesi di Kunming (30 aprile) e Wang Renlei a Xuzhou (30 novembre). Due comunicati diramati dalla sala stampa Vaticana il 4 maggio e il 3 dicembre, hanno espresso «il dolore del Papa per questi atti che stravolgono un momento essenziale della vita ecclesiale», provocano «una grave ferita all’unità della Chiesa» e prevedono «severe sanzioni canoniche».
Mons. Liu ha chiesto l’approvazione di Roma, ma non l’ha ottenuta: era considerato l’uomo forte dell’Associazione patriottica, di cui fu vice presidente. La sanzione evocata è la scomunica latae sententiae, che scatta automaticamente qualora l’ordinazione sia stata data e ricevuta liberamente. Il Vaticano, però, ha implicitamente scusato gli autori dell’atto supponendo che l’abbiano compiuto sotto costrizione. Ma qualora l’Associazione patriottica organizzasse in futuro altre ordinazioni illegittime (Pechino avrebbe già pronti i suoi candidati) si prevede che la reazione di Roma sarà più dura. Esigerà dai nuovi vescovi illegittimamente ordinati di non esercitare il loro ministero.

Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Mani tese e pugni chiusi

Rapporti tra Santa sede e Cina

Negli ultimi 60 anni, i rapporti tra Santa Sede e Repubblica popolare cinese hanno avuto fasi varie e complesse: ai pronunciamenti critici vaticani verso il costituirsi della Chiesa patriottica, il regime ha risposto con le persecuzioni; ai momenti di mano tesa sono succeduti periodi di irrigidimento e tensione. Continua anche oggi l’altalena di aperture e incomprensioni, rispetto e ripicche, interrogativi e speranze, che rendono sempre più incomprensibile il mondo cinese e la sua politica.

La Chiesa cattolica in Cina era in piena fioritura quando scoppiò la rivoluzione comunista e nacque la Repubblica popolare (1949). Da soli tre anni Pio XII aveva costituito la gerarchia cattolica: circa 3,3 milioni di fedeli erano sparsi in 20 arcidiocesi, 79 diocesi, 38 prefetture apostoliche e una missione sui juris; dei 139 vescovi, 113 erano stranieri e 26 autoctoni, tra cui il card. Tian Gengxin; c’erano 2.700 preti locali e 6.475 missionari stranieri, 2.500 suore straniere e quasi 4 mila indigene. Mons. Antonio Riberi fu il primo a guidare la Nunziatura apostolica a Nanchino, istituita nel 1947.
Erano passati 10 anni da quando Propaganda Fide aveva riconosciuto degni di stima i «riti cinesi» (1939); i cattolici potevano finalmente sentirsi veri cristiani e pienamente cinesi. Non la pensavano allo stesso modo gli esponenti del nuovo regime; la Chiesa appariva loro come una minaccia per la rivoluzione e iniziarono subito a paralizzae l’attività, ricorrendo per 20 anni ai più svariati metodi di repressione: calunnie, intimidazioni, processi popolari, espulsioni, imprigionamento, lavori forzati e anche esecuzioni. E tutto questo a dispetto della conclamata libertà di culto per tutte le confessioni religiose, sancita dal Programma politico comune del 1949 e riaffermata nella Costituzione del 1954. Una vera libertà, secondo gli esponenti del regime, poteva darsi solo in una Chiesa senza legami con organizzazioni straniere e sottomessa al potere dello stato.

Caccia allo straniero
Fin da subito il nuovo regime tronca ogni relazione diplomatica con il Vaticano e lancia una campagna diffamatoria che dipinge i missionari come nemici del popolo e del nuovo corso cinese, chiede ai cittadini cattolici di cessare ogni relazione con «imperialisti» e «reazionari», espressamente indicati nel papa e missionari stranieri, nei sacerdoti e religiosi cinesi che non vogliono rompere con il Vaticano. Nel giro di tre anni i missionari stranieri scendono a 537, mentre da 200 a 300 preti cinesi risultano imprigionati. Al tempo stesso il governo lancia il movimento della «Triplice autonomia»: la Chiesa cinese ha il diritto di essere autonoma da Roma in materia finanziaria, amministrativa e apostolica (evangelizzazione). Al movimento aderisce subito, insieme a vari preti e suore e poche centinaia di fedeli, Li Wei-guang, vicario generale della diocesi di Nanchino. Per questo viene scomunicato nel 1952, ma il provvedimento sarà reso pubblico solo nel 1955, nella speranza di un ravvedimento. Mons. Riberi, nunzio apostolico in Cina, pubblica opuscoli e lettere per difendere la Chiesa dall’accusa di imperialismo, dare ai vescovi istruzioni sul governo delle diocesi e mettere in guardia sull’idea delle tre autonomie. Ma poiché la Santa Sede non riconosce la Repubblica popolare, mons. Riberi è considerato uno straniero qualsiasi, senza alcuna rappresentanza diplomatica; dichiarato «persona non grata», incarcerato (1951) e poi espulso dalla Cina, «con l’accusa di spionaggio e incitamento alla ribellione», il nunzio trasferisce la sede diplomatica a Hong Kong e poi a Taipei (Taiwan), capitale della Cina nazionalista.
Nel 1952 Pio XII invia una lettera apostolica (Cupimus imprimis) in cui esprime la sua ammirazione per il popolo cinese e la sua tristezza nel vedere che la Chiesa viene considerata nemica del popolo; il papa rassicura le autorità che vescovi, sacerdoti, religiosi e religiose in Cina cercano solo il bene della gente, mediante scuole, ospedali, ospizi, orfanotrofi.
Tutto inutile. L’anno seguente (1953) l’Ufficio affari religiosi in Cina raduna a Nanchino un gruppo di preti per un congresso (presieduto da Li Wei-guang da poco eletto «deputato cattolico» all’Assemblea nazionale) dove viene firmato un documento in cui si intende dare vita a un «movimento antimperialista per amare la patria e la Chiesa».
Nell’ottobre 1954, con l’enciclica Ad Sinarum gentem il papa loda i fedeli che perseverano nell’unità della fede, confuta le «tre autonomie» o altri principi simili, concludendo che la costituzione di una chiesa «nazionale» non sarebbe più «cattolica». 

Nasce la chiesa patriottica
Le autorità cinesi sono sempre più determinate nel portare la Chiesa sotto il controllo statale, moltiplicando persecuzioni e carcerazioni delle principali personalità cattoliche, sostituite da «rappresentanti del popolo» imposti dal governo; molti vescovi e preti entrano in clandestinità, ma una campagna su scala nazionale mobilita la popolazione per scoprire tali «controrivoluzionari».
Nel 1956-57, anno del «Movimento dei cento fiori», in due congressi a Pechino, 241 delegati di tutte le diocesi della Cina si costituiscono in «Associazione patriottica dei cattolici cinesi» (Apcc) approvata ufficialmente il 2 agosto 1957 e celebrata con solenni feste e riti religiosi, discorsi roboanti e attacchi al Vaticano, per dimostrare l’unanimità dei cattolici in tale evento storico. Ma a Roma arrivano notizie differenti: molti delegati sono stati costretti a partecipare e portati sotto scorta; i testi già redatti da dirigenti del partito non sono stati affatto votati all’unanimità.
Di fatto la reazione del regime contro i cattolici contrari è furibonda: la Chiesa cattolica apostolica romana viene ufficialmente bandita dalla Cina; diversi preti e vescovi vengono arrestati, altri si danno alla macchia.
L’Ufficio affari religiosi cerca di inserirsi sempre più nella vita della Chiesa, rivendicando il diritto e dovere di controllare la formazione nei seminari, le nomine dei sacerdoti, le elezioni «democratiche» dei vescovi, per sostituire quelli incarcerati, espulsi o morti. Nel 1958, ben 120 su 144 diocesi non hanno più la guida spirituale; si procede, quindi, all’ordinazione dei primi due vescovi, chiedendo telegraficamente a Roma il mandato papale, che viene rifiutato. Il 20 giugno dello stesso anno Pio XII pubblica l’enciclica Ad Apostolorum Principis, in cui critica duramente l’Associazione Patriottica, condanna le elezioni «democratiche» e relative ordinazioni, ricorda le sanzioni canoniche («la scomunica riservata in modo specialissimo alla sede apostolica») in cui incorrono ordinati e ordinanti. Al tempo stesso il papa si dimostra ben informato e denuncia i «metodi di violenza e di oppressione: propaganda tenace e rumorosa a mezzo stampa, congressi e convegni ai quali si è costretti a partecipare con lusinghe, minacce, inganni… corsi di indottrinamento a cui sono costretti sacerdoti, seminaristi, religiosi e religiose, fedeli di ogni età e ceto… umilianti sessioni di processi popolari, confessioni forzate di errori e crimini, campi di rieducazione ideologica» e altre forme di pressioni e torture fisiche e psicologiche.

Dal grande inverno al disgelo
Tra Associazione patriottica e Santa Sede il fossato si allarga sempre più: nel 1959 in un discorso ufficiale Giovanni XXIII parla di «funesto scisma» per la prima volta; ma sarà anche l’ultima. I vescovi esuli o espulsi dalla Cina spiegano come la situazione cinese sia molto complessa e scongiurano di evitare tale termine, anche se di fatto si è creata una situazione scismatica: da una parte la maggioranza dei cattolici cinesi e una cinquantina di vescovi fedeli a Roma; dall’altra i cattolici aderenti alla Chiesa patriottica, guidati da vescovi validamente ordinati prima del 1953 e altri illegittimi: il loro numero sale a 48 nel 1962.
Alle soglie del concilio Vaticano II si discute se invitare anche i vescovi legittimi che hanno consacrato altri vescovi senza mandato apostolico. Si interpellano 100 vescovi ordinari della Cina: alcuni chiedono che il concilio condanni apertamente il comunismo e i vescovi illegittimamente consacrati; altri si mostrano più flessibili e, specie i vescovi esuli cinesi, richiamano a una maggiore informazione e mettono in guardia da condanne troppo severe. Alla fine del Concilio si registra una crescente comprensione e simpatia per la Chiesa cinese e inizia una nuova fase di atteggiamenti verso i paesi comunisti.
In Cina, però, nel 1966 esplode la «rivoluzione culturale»: per 10 anni le «guardie rosse» scatenano la persecuzione religiosa più intensa e intollerante mai sperimentata in Cina; distruggono tutto ciò che ha attinenza al sacro; reprimono le organizzazioni di ogni fede e credo, compresa l’Associazione patriottica: anche i vescovi «patriotti» sono attaccati, diffidati dall’esercizio del loro ministero, processati e incarcerati. Unica chiesa che rimane aperta in tutta la Cina è la cattedrale di Nan Tang a Pechino, a uso degli stranieri.
Con la morte di Mao e l’arresto della «banda dei quattro» (1976) finisce la rivoluzione culturale; il nuovo leader Deng Xiaoping, con svolta epocale, apre il popolo cinese al mondo esterno, offrendo ai cittadini nuovi spazi di libertà. È l’inizio del disgelo verso le religioni: vescovi patriottici possono tornare alle loro diocesi; fedeli, sacerdoti e vescovi della chiesa clandestina sono scarcerati, alcuni riabilitati, altri in libertà vigilata; tra i vescovi, liberati dopo decenni di lavori forzati, i più famosi sono Ignazio Kung Pinmei di Shanghai, Domenico Tang Yiming di Guangzhou, Giuseppe Fan Xueyan di Baoding (vedi riquadro a pag. 33).
Il clima di tolleranza religiosa degli anni ‘80 permette di riaprire chiese, seminari, istituti di formazione, case religiose; lentamente la liturgia viene rinnovata in linea con la Chiesa universale; in una decina d’anni vengono ordinati circa 200 nuovi preti. Vescovi, preti, religiosi di paesi stranieri ottengono il permesso (o sono invitati) di visitare la Cina. Particolare interesse suscita la visita dei cardinali Roger Etchegaray, arcivescovo di Marsiglia, e Franz Köning, arcivescovo di Vienna e presidente del segretariato per i non credenti, su invito dell’Associazione del popolo cinese e per l’amicizia con lo straniero.
Nel 1981 il prefetto di Propaganda Fide concede ai vescovi cinesi «legittimi e fedeli alla Santa Sede» «facoltà specialissime», compresa quella di ordinare vescovi, se necessario anche senza previa intesa con Roma. Nel giro di una decina di anni una cinquantina di vescovi vengono consacrati segretamente. Alcuni abusi di tali «facoltà» acuiscono la contrapposizione tra cattolici «ufficiali» e «clandestini», irritando il governo e causando confusione anche in Vaticano. 

Relazioni altalenanti
Nonostante le loro aperture, partito e governo non allentano il controllo sugli affari religiosi: la nuova Costituzione del 1982 sottolinea il diritto di credere o non credere, ma un comma dell’articolo 36 ribadisce che «nessuna realtà religiosa in Cina può essere controllata dall’estero».
Nel 1985 la Congregazione per la dottrina della fede riconosce la piena validità dell’ordinazione dei vescovi illecitamente consacrati e dei sacramenti da loro amministrati. Molti di essi chiedono e ottengono di ritornare alla comunione con la Santa Sede. Ma la pratica della «doppia fedeltà», al regime di Pechino e alla Sede di Pietro, non è accettata da tutti i membri della Chiesa sotterranea, la quale in un documento del 1987 taccia di peccatore chi riceve i sacramenti dai preti patriottici. Tale ambiguità contagia anche il Vaticano: un documento di Propaganda fide afferma che la validità dei sacramenti amministrati da preti ordinati da vescovi illegittimi è solo «presunta», per cui va evitata ogni communio in sacris, con vescovi e clero dell’Associazione patriottica.
Confusione e ambiguità regnano anche a livello di governo cinese, che nel 1988 fa circolare voci di una imminente apertura al dialogo con il Vaticano per allacciare relazioni diplomatiche tra Roma e Pechino; per preparare la grande svolta, nel mese di dicembre vengono convocati a Pechino 22 vescovi ufficili; pochi giorni dopo, Partito comunista e Consiglio di Stato emanano direttive segrete per eliminare una volta per sempre la Chiesa clandestina e intensificare la formazione ideologica del clero e dei fedeli. 
Nel 1989, anno degli studenti di piazza Tienanmen, un gruppetto di vescovi, sacerdoti e laici della Chiesa clandestina decidono di costituire una Conferenza episcopale esplicitamente fedele al papa: buona parte dei promotori finisce in prigione; l’iniziativa, dichiarata «inopportuna» ancora prima di nascere, non riceve l’approvazione dal Vaticano, anche per non esasperare la contrapposizione.
Intanto a coloro che da Roma seguono la «questione cinese» appare sempre più chiaro che la stragrande maggioranza di vescovi, preti e seminaristi della Chiesa patriottica conserva intatta la fedeltà al depositum fidei. Anche «l’autarchia», salvo rari casi, non è affatto seguita e nelle strutture ecclesiali create dal governo molti sono i vescovi «legittimati», in piena comunione con Roma.
Continuano tuttavia i sospetti tra l’apparato burocratico cinese, allarmato da tale evoluzione, e il Vaticano, preoccupato del «pieno allineamento dei cattolici sulla politica del Partito». Nei sacri palazzi affiora l’ipotesi di passare a una linea più dura, chiamando i vescovi a dichiarare la propria fedeltà al Papa e a rompere la sudditanza all’Associazione patriottica, a dimettersi dal Collegio episcopale patriottico; da più parti, invece, si chiede più «flessibilità», tra cui mons. Feando Filoni, espressamente incaricato di seguire da Hong Kong le vicende della Chiesa in Cina: «Nello sforzo di ricostruire passo dopo passo le relazioni tra la Chiesa cinese e quella universale, bisogna compiere gesti di accoglienza più che di separazione».
Nel 1993, in un summit tenuto in Vaticano si stabilisce che d’ora in poi ogni elezione episcopale, sia nella chiesa patriottica che in quella clandestina, per essere considerata legittima dovrà ricevere l’assenso previo della Sede apostolica; le facoltà speciali concesse nel 1981 vengono di fatto sospese. Sarà questa disposizione a segnare d’ora in poi gli alti e bassi nelle relazioni tra Vaticano e Pechino.
Nel 1996 il cardinale Claudio Celli incontra alcuni rappresentanti del governo cinese, nel tentativo di sbloccare la situazione della chiesa in Cina e di riprendere le relazioni diplomatiche. Il papa Giovanni Paolo II, per ricordare il 70° anniversario dell’istituzione della gerarchia in Cina e l’ordinazione dei primi sei vescovi cinesi invia un messaggio alla Chiesa che è in Cina, rivolgendo un forte appello alla riconciliazione di tutti, pastori e fedeli, esprimendo tutta la sua fiducia e simpatia verso la Cina e verso i cattolici cinesi, insieme al desiderio di poterli incontrare personalmente.
Il papa invita personalmente al Sinodo episcopale per l’Asia, il vescovo di Wanxian, mons. Matthias Duan Yinming, e il suo ausiliare, mons. Joseph Xu Zhixuan, entrambi appartenenti all’Associazione patriottica, ma stimati e ritenuti legittimi anche dai cattolici della clandestinità (mons. Duan fu ordinato nel 1949 prima della rottura e passò all’Associazione patriottica nel 1957).
In una lettera in latino, letta all’apertura del Sinodo, mons. Duan si rammarica di non poter partecipare «per motivi politici». Espressione eloquente per dire che la sua assenza non è dovuta a motivi dottrinali, ma all’opposizione di Pechino.
Le relazioni diplomatiche sono ancora lontane dalla normalizzazione, anche perché la Santa Sede è uno dei 25 stati che riconosce la legittimità della Repubblica di Cina di Taiwan e non quella della Repubblica popolare cinese. Ma dopo la sostituzione all’Onu dei rappresentanti della Cina di Taiwan con quelli della Repubblica popolare (1971), il Vaticano ha smesso di parlare di due Cine, ha degradato i nunzi per la Cina a semplici «incaricati d’affari» e ha espresso la disponibilità a stabilire la nunziatura a Pechino qualora il governo cinese lo permetta. Ma la sua sede resta sempre a Taipei: la Cina rifiuta ogni normalizzazione di rapporti diplomatici finché il Vaticano non rompe formalmente le relazioni con l’isola.
Il problema più spinoso, però, è quello della nomina dei vescovi. Negli ultimi anni del pontificato di Giovanni Paolo II, alcune ordinazioni di nuovi vescovi vengono celebrate con la convergenza sia del governo di Pechino che della Santa Sede. L’evento non viene enfatizzato, ma è una svolta epocale.

Passato che non vuol passare
In pratica i rapporti «ufficiosi» fra Cina e Vaticano non si sono mai interrotti completamente, anche se continuano sempre altalenanti. Nel gennaio 2000 cinque vescovi vengono ordinati senza il consenso del papa. Lo stesso anno però il card. Etchegaray va a Pechino per partecipare a un simposio su «Religioni e pace» e ha contatti con personaggi della Chiesa patriottica; al suo ritorno, il 25 settembre, afferma alla radio Vaticana che in Cina esiste una sola Chiesa cattolica e che le frontiere tra patriottici e clandestini stanno diventando sempre più porose. Il primo ottobre, festa della Repubblica popolare, vengono canonizzati 120 martiri cinesi, vittime della rivoluzione dei boxers (nazionalisti) nel 1900: Pechino reagisce in modo furente, addirittura accusando alcuni dei nuovi santi di «crimini enormi».
Nel 2004 giungono a Roma notizie di arresti di alcuni vescovi e preti della chiesa sotterranea; il Vaticano protesta, ma il dialogo continua: altri tre vescovi vengono consacrati, eletti secondo le procedure legali cinesi e approvati dalla Santa Sede. Papa Benedetto XVI invita al Sinodo dei vescovi del 2005 alcuni prelati cinesi (tra cui uno eletto secondo le procedure legali cinesi) ma il governo impedisce la loro partecipazione.  Nel 2006 il vescovo emerito di Hong Kong, mons. Giuseppe Zen, è nominato cardinale, nomina per nulla digerita da Pechino. Due vescovi della chiesa patriottica sono ordinati senza il gradimento della Santa Sede; uno di essi è Giuseppe Ma Yinglin, vescovo di Kunming: la sua elezione, avvenuta «sotto pressioni, minacce e, sembra, anche inganni», «distruggerà la fiducia reciproca fra Santa Sede e Pechino» predice il card. Zen.
Dopo un incontro in Vaticano con i vescovi di Hong Kong, Macao e Taiwan, nel gennaio 2007, un comunicato ufficiale afferma che in Cina «oggi la quasi totalità dei vescovi e sacerdoti è in comunione con il Sommo Pontefice», vanificando così l’opera dell’Associazione patriottica nella costruzione di una chiesa staccata da Roma. Sono meno di una dozzina i vescovi cinesi che continuano a nutrire avversione viscerale contro Roma. Il comunicato ribadisce «la volontà di proseguire il cammino di un dialogo rispettoso e costruttivo con le autorità governative, per superare le incomprensioni del passato. Si auspica, inoltre, di pervenire a una normalizzazione dei rapporti ai vari livelli, al fine di consentire la pacifica e fruttuosa vita della fede nella Chiesa e di lavorare insieme per il bene del popolo cinese e per la pace nel mondo». Le stesse idee, pochi mesi dopo, vengono espresse nella storica lettera che il papa Benedetto XVI invia al clero e al popolo cinese.
Il governo risponde con un silenzio imbarazzato, mentre l’Associazione patriottica impedisce la diffusione della lettera in varie province. Ma il dialogo continua: altri 7 vescovi vengono consacrati con l’approvazione sia del governo che della Santa Sede. Per Pechino è ormai una necessità se vuole controllare la Chiesa: i vescovi illegittimi non sono più rispettati né seguiti da moltissimi fedeli.

Cambio di strategia
Qualora si giungesse a regolari e stabili rapporti diplomatici, questi sarebbero gestiti direttamente dal governo e un rappresentante del papa; così il ruolo del Consiglio dei vescovi cattolici (una specie di conferenza episcopale non riconosciuta dalla Santa Sede) duventerebbe marginale e i grandi interessi e privilegi dell’Associazione patriottica sarebbero a richio. Per questo molti remano contro e boicottano le relazioni sino-vaticane, come è avvenuto alla fine del 2010, con la celebrazione dell’Ottava Assemblea dei rappresentanti dei cattolici cinesi, preceduta da un’ordinazione episcopale senza mandato pontificio. L’Assemblea elegge i leader dei due organismi, molti dei quali illegittimi, tra cui il presidente del Consiglio dei vescovi Giuseppe Ma Yinglin, vescovo ufficile che Roma non intende legittimare, perché ritenuto persona ambiziosa e piena di livore contro il Vaticano. A manovrare il tutto ci pensa il vecchio Liu Bainian, vicesegretario «onorario» dell’Associazione patriottica, soprannominato «il papa della Cina» per la sua pretesa di guidare tutta la Chiesa cinese. 
Ma più laceranti sono le ultime ordinazioni episcopali senza mandato apostolico, tre in nove mesi: Giuseppe Guo Jincai vescovo di Chengde, Hebei (20 novembre 2010), Paolo Lei Shiyin vescovo di Leshan (29 giugno 2011) e Joseph Huang Binzhuang vescovo di Shantou (14 luglio 2011). Per tutte e tre le ordinazioni il Vaticano ha fatto sentire la sua ferma reazione, denunciando la «grave violazione della disciplina cattolica e della libertà religiosa e di coscienza» e ricordando le sanzioni canoniche (canone 1382 del Codice di Diritto Canonico), prima tra tutte la scomunica automatica (latae sententiae) per ordinati e ordinanti. «Ciascuno di loro conosce in cuor suo il grado del personale coinvolgimento e la retta coscienza indicherà a ognuno se è incorso in una pena latae sententiae» afferma il comunicato seguito all’ordinazione di Guo Jincai, riconoscendo attenuanti per i vescovi consacranti, quasi sempre costretti con la forza e le minacce. Dalla scomunica non hanno scampo gli altri due vescovi: Lei Shiyin «era stato informato da tempo» della contrarietà vaticana alla sua nomina «a causa di motivi comprovati e molto gravi», tra cui due figli; pure Huang Binzhuang era stato avvertito più volte che la sua ordinazione non era autorizzata, anche perché nella diocesi di Shantou c’era già mons. Zhuang Jianjian, ordinato clandestinamente nel 2005 e mai riconosciuto da Pechino.
A quasi 50 anni dall’ultima pubblica scomunica, le due comminate di recente sono per tutti una sorpresa. Dalla Cina si attribuisce tale cambiamento di strategia al card. Giuseppe Zen Ze-kiun, vescovo emerito di Hong Kong, che non ha peli sulla lingua; ne è un esempio l’appello da lui rivolto al presidente Hu Jintao e al premier Wen Jiabao, per chiedere loro di fermare i «funzionari canaglia» e la «feccia della chiesa» dal procedere all’ordinazione illecita del vescovo di Shantou. «All’arroganza dei burocrati politici e religiosi della chiesa patriottica non si risponde con carezze, ma con pesci in faccia, come fanno loro» afferma il presule, criticando la diplomazia vaticana fatta di troppi compromessi. Funzionerà?

Benedetto Bellesi




Amare la patria, amare la chiesa

Premessa

Iniziata con l’espulsione di tutti i missionari stranieri, continuata con la costrizione dei cattolici a formare una chiesa nazionale e con la persecuzione di quelli rimasti fedeli al papa, la storia della Chiesa cattolica in Cina negli ultimi 60 anni è stata segnata dal martirio. All’insegna dello slogan «aiguo; aijiao» (amare la patria o amare la chiesa) i cattolici erano costretti a scegliere: aderire alla Chiesa ufficiale o patriottica oppure entrare in clandestinità per rimanere fedeli alla Chiesa di Roma. Tale storia non è ancora finita, anche se negli ultimi decenni sono avvenuti molti cambiamenti sostanziali nei rapporti tra Cina popolare e Santa Sede.
Il comunismo capitalistico attuale non è più il comunismo di Mao; il Vaticano non è più considerato un «imperialista, nemico della rivoluzione», anche se certi cliché propagandistici sono ancora forti, soprattutto tra gli amministratori più periferici e di vecchio stampo. Nonostante le tante aperture e modeizzazioni del regime negli ultimi decenni, la Cina segna il passo in fatto di diritti umani, di libertà religiosa e di coscienza. Arresti e vessazioni contro clero e fedeli cattolici continuano in vari luoghi e occasioni.
Anche il Vaticano è passato dalla scomunica del comunismo alla Ostpolitik e sta tentando tutte le vie possibili per riallacciare le relazioni diplomatiche con Pechino, fino a chiedere perdono di eventuali errori storici e del colonialismo, come ha fatto Giovanni Paolo II. Ma neppure a Roma mancano contrasti e resistenze tra i fautori del dialogo e i sostenitori della linea dura contro il regime cinese e i suoi emissari.

Più delle persecuzioni estee, a preoccupare il Vaticano è la persistente lacerazione all’interno dei cattolici cinesi. Nonostante tutto, dal punto di vista dottrinale la Chiesa in Cina rimane un’unica Chiesa: fede, tradizione, liturgia sono rimaste intatte in ambo le parti. Propaganda ufficiale a parte, i fedeli non sentono più l’alternativa tra l’amore per la patria e per la Chiesa e il papa, ma vogliono partecipare alla vita e modeizzazione del paese come tutti gli altri cinesi, senza rinunciae alla comunione con il successore di Pietro.
A livello di unità vissuta, invece, le ferite tra cattolici ufficiali e clandestini sono ancora aperte, rancori e risentimenti sono molto vivi, nonostante gli appelli al perdono e alla riconciliazione. In più di cinquanta occasioni Giovanni Paolo II ha espresso pubblicamente il suo affetto nei confronti dei cattolici cinesi. Benedetto XVI il 27 maggio 2007 ha inviato una lettera ampia, precisa e affettuosa, in cui manifesta la sua stima per tutto il popolo cinese e incoraggia i cattolici a perseverare nella fede e a percorrere la strada evangelica della riconciliazione.
Punctum dolens da oltre 60 anni e ostacolo più ingombrante nel cammino dell’unità ecclesiale e della normalizzazione dei rapporti tra Roma e Pechino, inoltre, rimane il problema delle nomine e ordinazioni episcopali, alle quali il Vaticano non può rinunciare, poiché nella teologia cattolica fanno parte della natura della Chiesa, e Pechino non vuole rinunciare, poiché sono uno strumento essenziale per mantenere il controllo sociale sulle attività ecclesiali.
Da alcuni anni si sono avute varie ordinazioni episcopali concordate tra Pechino e Santa Sede. Da parte cinese non si tratta di una «conversione» dei quadri del partito, ma di mero opportunismo: il governo ha constatato che i vescovi eletti e ordinati senza il mandato apostolico rimangono isolati e non hanno autorevolezza sui fedeli, che disertano le chiese da loro guidate e si rifiutano di ricevere i sacramenti dalle loro mani. Molti nuovi vescovi, all’inizio e alla fine della loro consacrazione, ci tengono a sventolare in pubblico la lettera di nomina papale.

Da novembre 2010, purtroppo, sono riprese le ordinazioni di vescovi senza mandato papale, con grande delusione e proteste vaticane, allargando il fossato di ignoranza e diffidenza reciproca e rendendo più ardua la strada del dialogo, di cui entrambi gli interlocutori sentono stringente bisogno.
Per superare tale fossato ed entrare nella Cina, bisogna passare per la porta del cuore e dell’amicizia. La Cina di oggi è diventata «poco comunista», ma continua ad essere «molto cinese», come era quattro secoli fa, ai tempi di Matteo Ricci (1552-1610), il grande missionario gesuita entrato nella corte imperiale grazie al suo delizioso «Trattato sull’amicizia».

Benedetto Bellesi 

Benedetto Bellesi




Cari missionari

Lettere

Non si gioca con le parole
Solo adesso ho letto il numero di maggio-giugno 2010 di Missioni Consolata. Sono rimasto sbalordito leggendo, all’interno dell’articolo «Mexico, lindo y querido» di Paolo Pagliai, a pag.33, questa frase: «…sono le donne che lottano… per i propri diritti sessuali e riproduttivi; sono gli omosessuali che a Città del Messico conquistano, metro a metro, il riconoscimento di una società storicamente maschilista e omofoba». Il riconoscimento dei diritti degli omosessuali è un discorso complesso, perché nessuno di noi nega i diritti di queste persone, però il tono usato non è certo quello di chi considera comunque l’omosessualità un disordine. Per il resto, l’espressione «diritti sessuali e riproduttivi» è un eufemismo, tra l’altro ipocrita perché abilmente mascherato, per definire il diritto all’interruzione di gravidanza. Se io fossi a favore dell’aborto, non leggerei certo Missioni Consolata, leggerei l’Unità o La Repubblica e sono convinto che la stragrande maggioranza dei lettori della rivista la pensi come me. Ma, al di là delle nostre opinioni, che cosa ne penserebbe il canonico Allamano? Si aggioerebbe anche lui oggi, riconoscendo l’esistenza di questi fantomatici diritti civili, o riterrebbe ancora, contro ogni relativismo e aggioamento ideologico, che la vita umana nel grembo materno è sacra e che comunque non si gioca sulle parole, ingannando i lettori?
Franco E. Malaspina
Milano, 3/9/2011
Chiediamo scusa per la lunga frase che non abbiamo vagliato a sufficienza e usa termini che sembrano approvare pratiche certamente non accettate da una rivista come la nostra. Grazie per la sua segnalazione.

Padre Piero Moruzzi – 25° della morte
La piccola comunità parrocchiale di Antognano (Lugagnano Val D’Arda, Piacenza) con l’Amministratore Parrocchiale Don Angelo Ferrari, domenica 21/08/2011 ha ricordato il 25° anniversario dell’improvvisa scomparsa del suo parrocchiano p. Piero Moruzzi, missionario della Consolata, avvenuta il 24/08/1986 a South Horr (allora diocesi di Marsabit, Kenya) alla giovane età di 51 anni.
La cerimonia, iniziata con la visita al cimitero, è proseguita con la Messa presieduta da Mons. Giuseppe Illica, vicario generale, nella piccola chiesa di Antognano tanto cara a p. Piero perché lì è stato battezzato, ha ricevuto tutti i sacramenti compresa l’ordinazione sacerdotale, avvenuta il 2/12/1964 e lì è stato riportato dall’Africa per l’ultimo saluto terreno. Alla cerimonia oltre ai famigliari di Padre Piero ed ai parrocchiani, erano presenti tanti amici ed alcuni sacerdoti compagni di studio nel seminario vescovile di Bedonia. Una presenza particolare è stata quella del gesuita p. Sauro De Luca (da Gallarate) che ha ricordato p. Piero come il suo più grande amico. Padre Sauro, a conclusione della cerimonia, ha raccontato la sua lunga collaborazione con p. Piero, che ha portato, oltre a concreti aiuti alimentari alla gente della missione di p. Piero ed a tantissimi giovani per proseguire gli studi e per sistemarsi nel lavoro, alla costruzione di alcuni villaggi: due per i senzatetto di Laisamis e a Logologo ed i villaggi degli anziani ed i ciechi di South Horr.
Padre Sauro ha poi raccontato il toccante episodio che ha dato inizio alla loro profonda amicizia. Una sera, stanco per il lungo viaggio sulle strade polverose e deserte del Marsabit, arrivò, sul tardi, alla missione di p. Piero e lì ricevette cordiale ospitalità. Nel colloquio serale p. Piero continuava a parlare della drammatica situazione del villaggio visitato quel giorno, dove aveva incontrato solo morte e disperazione a causa della siccità. P. Pietro era particolarmente triste perché non aveva mezzi per aiutare quella gente.
P. Sauro, che ritoò poi molte volte in Kenya, ha testimoniato che la gente tra cui P. Piero era vissuto ed aveva lavorato, lo ricordava come «il Padre dal cuore grande» ed i confratelli ripetevano che pensare a Padre «Moru» era pensare alla bontà, all’amicizia ed all’accoglienza.
La funzione religiosa si è conclusa con lo scoprimento di una lapide commemorativa all’interno del piccolo tempio parrocchiale.
Con le offerte raccolte, la comunità parrocchiale di Antognano ha voluto continuare, per il 3° anno consecutivo, a sostenere con le adozioni a distanza  il centro dei Missionari della Consolata a Runogone (Kenya). Molto apprezzata è stata l’esposizione di foto che ricordavano la consacrazione sacerdotale di p. Piero, la sua attività missionaria nel Marsabit e i bimbi sostenuti con le adozioni a distanza.
Aldo Lombardelli
 Piacenza, 1/9/2011




Etiopia, Gambo: agricoltura e sanità

Cooperando

Si è concluso il progetto promosso da Missioni Consolata Onlus in sostegno agli agricoltori di Gambo (Etiopia), finanziato dalla Regione Piemonte nell’ambito del Programma di sicurezza alimentare e lotta alla povertà in Africa Sub – sahariana (anno 2009). Grazie al progetto, che ha visto anche la partecipazione di LVIA, ong di Cuneo, 96 agricoltori  di Gambo hanno potuto seminare e raccogliere grano e rifornire la mensa del Gambo Rural Hospital.

Montagne coperte di grandi alberi verdi e campi dalla terra scura e umida: il paesaggio, quasi alpino, che si osserva arrivando a Gambo, nell’Etiopia sudorientale, è quantomeno insolito per chi si aspetta il panorama africano classico, fatto di acacie dalle radici che lottano fra le crepe della terra ocra per bere avidamente le poche gocce d’acqua che il calore soffocante non si è ancora portato via. In uno scenario come questo non ci si aspetta di trovare scarsità di cibo e problemi di malnutrizione come quelli che stanno mettendo a rischio la vita di oltre dieci milioni di persone in tutta l’Africa orientale a causa della devastante ondata di siccità che ha colpito la regione nel corso dell’estate. «Qualcuno la chiama green drought, siccità verde, o green famine, carestia verde», dice suor Laura, missionaria della Consolata che lavora a Gambo, «ma, al di là dei termini tecnici, il risultato è evidente: tutto è verde e rigoglioso, ma i raccolti vanno perduti perché la pioggia è caduta al momento sbagliato».

Gambo Rural Hospital
Gambo è un villaggio di circa duemila abitanti a 2.200 metri sul livello del mare, nella regione dell’Arsi a quaranta chilometri da Shashemane; si è sviluppato intorno alla missione e al suo ospedale e la sua popolazione è profondamente legata alla vita del Gambo Rural Hospital, che serve tutta la zona circostante foendo assistenza sanitaria a decine di migliaia di persone. «La missione nasce negli anni Venti con i padri cappuccini, che negli anni Sessanta costruiscono il dispensario per la cura dei lebbrosi», spiega Fratel Francisco Reyes, missionario della Consolata, medico e direttore dell’ospedale. «Il Gambo Rural Hospital nasce dunque come lebbrosario ed è a partire dagli anni Settanta, quando i missionari della Consolata subentrano ai cappuccini, che si sviluppa come ospedale generale». Oggi conta 145 posti letto, ospedalizza circa quattromila pazienti e offre servizio di ambulatorio per circa cinquantamila persone all’anno. Ha una mateità, due sale operatorie, un centro nutrizionale, una farmacia, un laboratorio e realizza programmi di diagnosi e cura della lebbra, della tubercolosi e dell’HIV/Aids in quanto centro-sentinella nell’ambito del programma nazionale etiope di sorveglianza della diffusione del virus.
La popolazione di Gambo è attivamente coinvolta nella vita dell’ospedale: il personale è quasi tutto composto da abitanti del villaggio che prestano servizio sia nell’assistenza sanitaria sia nella manutenzione e nel funzionamento ordinario dell’ospedale come tecnici, operai, cuochi, elettricisti, idraulici, personale amministrativo. «Un legame così profondo fra villaggio e ospedale rischia di creare dipendenza», spiega padre Renzo Meneghini, che si occupa dell’amministrazione della missione. «Per questo, fin da subito noi missionari ci siamo sforzati per evitare il mero assistenzialismo e far sì che la gente di Gambo partecipi e collabori attivamente e responsabilmente alle attività della missione e dell’ospedale che foiscono loro assistenza sanitaria e istruzione».

Sostegno agli agricoltori
È in questo contesto di collaborazione e partecipazione che si inserisce il progetto finanziato dalla Regione Piemonte dal titolo Sostegno agli agricoltori di Gambo, Etiopia, per la coltivazione di frumento per consumo domestico e foitura all’ospedale di Gambo.
L’obiettivo del progetto era doppio: da un lato, mettere gli agricoltori di Gambo in condizione di seminare e raccogliere grano per provvedere al fabbisogno delle proprie famiglie; dall’altro lato, ottenere una riduzione dei costi di gestione dell’ospedale ricevendo dai contadini parte del loro raccolto grazie al quale rifornire la mensa dell’ospedale, che serve circa duecento pasti al giorno.
Nelle fasi preliminari, il progetto ha dovuto tenere in considerazione una serie di difficoltà che la popolazione di Gambo sperimenta a causa dell’isolamento del villaggio.
Innanzitutto, il reperimento delle sementi. Se è vero che ci sono iniziative del governo etiope per distribuire i semi nei villaggi attraverso le autorità locali e a pagamento, il villaggio di Gambo non ha finora beneficiato di questo intervento. Il centro di distribuzione delle sementi più vicino si trova a venti chilometri dal villaggio ed è raggiungibile solo con molta difficoltà attraverso una strada sterrata sulla quale circolano trasporti collettivi privati che funzionano però solo in modo intermittente e occasionale. Spesso, per raggiungere i villaggi circostanti, è necessario muoversi a cavallo e la maggior parte del trasporto di merci avviene a dorso d’asino: per questo, procurarsi un quintale di sementi può essere, per un agricoltore, molto costoso ed estremamente disagevole.
La seconda difficoltà è la mancanza di liquidità per l’acquisto delle sementi.

Pagare in natura
Un sistema, quindi, basato sulla restituzione di parte del raccolto a titolo di rimborso delle sementi e del fertilizzante ricevuto, era il solo che potesse mettere i coltivatori in grado di prendere parte al progetto e, nel contempo, di contribuire a ridurre i costi che l’ospedale deve affrontare per l’alimentazione dei pazienti.
Si è proceduto all’acquisto e alla distribuzione di sementi e fertilizzante utilizzando per il trasporto sedici asini. Le fluttuazioni del costo dei semi sono state favorevoli nel periodo dell’intervento e questo ha permesso di servire non 78 agricoltori, come il progetto originale prevedeva, ma 96, di cui un terzo sono donne. «Le difficoltà sono state diverse», spiega Fratel Francisco Reyes, responsabile del progetto, «e alcuni contadini hanno chiesto proroghe per la restituzione del grano poiché in alcuni casi le piogge hanno rovinato il raccolto. Alcuni purtroppo non sono riusciti a restituire il quintale di grano ricevuto. Tuttavia, il progetto può dirsi concluso: gli agricoltori che vi hanno preso parte hanno infatti ottenuto ca. 18 quintali di grano per ogni quintale seminato e, oltre ad aver contribuito a sostenere la mensa dell’ospedale, potranno garantire la sicurezza alimentare della propria famiglia per l’anno in corso».

Bilancio e prospettive
Il progetto prevedeva la collaborazione con LVIA – Associazione internazionale volontari laici, una ong di Cuneo che vanta un’esperienza quarantennale nella cooperazione allo sviluppo con presenze in undici Paesi africani e ha vaste competenze per quanto riguarda l’ambito agricolo in particolare.
Dalla visita a Gambo effettuata dall’agronomo incaricato da LVIA, il dottor Ayele Gebreamlak, sono emersi alcuni aspetti sui quali sarà necessario concentrarsi in futuro per rendere l’iniziativa più sostenibile e efficace.
In primo luogo, si legge nel rapporto finale, occorrerà valutare l’opportunità di utilizzare sementi differenti da quelle utilizzate nel progetto (che non possono essere ripiantate per più di un raccolto o due) per poter garantire una dotazione costante di sementi per le attività future.
Inoltre, per raggiungere la sostenibilità dell’iniziativa, occorre prendere in considerazione l’ipotesi di ripensae la struttura in modo da renderla un vero e proprio intervento di microcredito che coinvolga in modo più mirato le organizzazioni locali (in particolare gli iddirs, gruppi di solidarietà spontanei che rappresentano la principale forma associativa autoctona in Etiopia). A questo proposito, LVIA ha condiviso con MCO l’esperienza maturata in progetti agricoli realizzati presso i kebele (la più piccola unità amministrativa del sistema etiope) di Halaba, Shashego e Lemo, che si trovano in un’area non lontana da Gambo e ne rispecchiano perciò alcune caratteristiche.
Al di là del progetto specifico, vale la pena di sottolineare che il cornordinamento e la collaborazione fra partner inteazionali e locali per la realizzazione di interventi sostenibili e coerenti si rivela di un’importanza cruciale in zone come l’Africa orientale, dove l’esigenza di promuovere la sicurezza alimentare delle popolazioni locali si fa ancora più urgente alla luce delle emergenze legate alle ondate di siccità come quella che nel corso del 2011 ha privato milioni di persone di acqua e cibo.

Chiara Giovetti

Chiara Giovetti




Per un goccio di troppo

Viaggio nel mondo dell’alcol (prima puntata)

Una pubblicità suadente e patinata spinge per il consumo di alcolici. Nella rete rimangono impigliate persone
sempre più giovani. Oggi si comincia a bere già alle scuole medie.
Anche per questo, gli eventi correlati al consumo di alcol – incidenti stradali, aggressioni, violenze sessuali – sono in costante aumento.

A guardare le immagini che ci vengono continuamente proposte dalla pubblicità, dalla televisione e dal cinema, bere fa status, rende più affascinanti, più allegri, più inseriti. Quindi, l’abitudine a bere non solo è socialmente più accettata rispetto al passato, ma addirittura esaltata, anche quando essa si tramuta in eccesso. Ma qual è il risvolto della medaglia? Sempre più spesso i telegiornali ci parlano di incidenti stradali (le cosiddette «stragi del sabato sera»), ma anche di violenze alla persona, e, novità degli ultimi anni, di ricorsi al pronto soccorso di giovani, che – alla ricerca dello «sballo» – si ritrovano intossicati dall’alcol, dopo una serata in discoteca.
Il problema sta proprio nel drastico abbassamento dell’età del consumo, che spesso inizia già nelle scuole medie.
A prescindere dal fatto che l’alcol è tossico ad ogni età, i dati (leggere box) risultano particolarmente allarmanti per la popolazione giovanile. Bisogna infatti considerare che il cervello umano completa la sua maturazione tra i 20 ed i 21 anni. Durante il processo di maturazione, i neuroni sono particolarmente sensibili e la loro fisiologia può venire alterata e deviata da forti stimoli estei, quali sono quelli apportati da alcol e droghe. Sia l’alcol che le droghe sono sostanze psicoattive, stupefacenti, capaci di interferire – anche a basse dosi -con il processo di maturazione cerebrale. Durante tale processo, si consolidano le relazioni tra neuroni (sinapsi) e la persona sviluppa sempre più la sua personalità e la sua capacità di ragionamento. È evidente che un cervello in maturazione bombardato da sostanze psicoattive non potrà avere un normale sviluppo fisiologico e subirà facilmente delle deviazioni dalla sua naturale evoluzione. Tutto ciò comporta un’alterata percezione del proprio essere e del mondo esterno, che si traduce in una distorsione cognitiva, la quale può permanere per moltissimo tempo, se non per tutta la vita, condizionando il comportamento della persona.

ALCOL e GUIDA
Per quanto riguarda i danni sociali provocati dall’alcol sui giovani non ci sono molte informazioni, tuttavia sappiamo che il 6% degli studenti tra i 15-16 anni ha dichiarato di essere stato coinvolto in risse ed il 4% di avere avuto rapporti sessuali non protetti, a causa del consumo di alcol. Quest’ultimo, inoltre, è certamente all’origine della crescente mortalità giovanile per incidente stradale: in più del 40% dei sinistri e del 46% di morti d’età compresa tra i 15-24 anni. Se pensiamo che gli incidenti stradali sono la prima causa di morte tra i giovani, è chiaro il pericolo rappresentato dall’abuso giovanile di alcol. Nel 2005, in Italia, sono morti per incidente stradale 1.490 giovani, pari al 27,5% del totale dei decessi e 97.718 sono stati feriti (31,1% del totale). Sempre nel 2005 l’ebbrezza alcolica è stata la causa del 70% degli incidenti dovuti ad uno stato psicofisico alterato del conducente, mentre le infrazioni accertate dalla Polizia stradale nel 2006, per guida in stato di ebbrezza sono state 24.803. Secondo il XVII rapporto Aci-Censis del 2010, per i giovani di 18-29 anni, la guida sotto l’influsso di alcol e/o di droghe rappresenta il problema principale (61,6%), più dell’eccesso di velocità (57%). Il 47,1% dei giovani intervistati ha ammesso di mettersi alla guida, senza preoccuparsi di avere bevuto, in quanto «non è un bevitore abituale». Inoltre, da questa indagine è emerso che il 3,4% dei giovani, contro lo 0,7% di chi ha più di 30 anni, non si preoccupa di limitare il consumo di alcolici prima di mettersi alla guida di un veicolo.

L’ALCOLEMIA
Come tutte le sostanze psicoattive, anche l’alcol influenza la capacità di attenzione, di concentrazione ed i tempi di reazione agli stimoli. Esiste una stretta correlazione, dimostrata da numerosi studi epidemiologici, tra la concentrazione ematica dell’alcol (alcolemia o BAC) e gli effetti tossici e comportamentali, che si traducono in disabilità seguita molto spesso da sinistri. Il rischio d’incidente stradale aumenta in modo esponenziale, all’aumentare dell’alcolemia. Posto pari ad 1 il rischio d’incidente in condizioni di sobrietà, tale rischio diventa 11 volte superiore con un’alcolemia compresa tra 0,5-0,9 g/l. Gli effetti dell’alcol interessano particolarmente il campo visivo, i tempi di reazione, la capacità di concentrazione e la capacità di giudizio. Il campo visivo è lo spazio fisico, che l’individuo percepisce e normalmente  corrisponde ad un’angolazione di circa 180°. Dopo l’assunzione di bevande alcoliche, si ha una riduzione della visione laterale (visione a tunnel) e una ridotta capacità di adattamento alla visione nottua. L’alcol inoltre rende difficoltosa la cornordinazione dei movimenti ed aumenta i tempi di reazione, per cui i movimenti e gli ostacoli sono percepiti con notevole ritardo. Per di più, l’alcol determina uno stato di benessere, di sicurezza e di euforia che porta a sopravvalutare le proprie capacità e ad affrontare rischi, che in condizioni di sobrietà non si sarebbero mai corsi. Oltre a tutto questo, l’alcol riduce la vigilanza ed induce sonnolenza. Un altro fattore che, associato al consumo di alcol, aumenta il rischio d’incidente stradale è l’età: il rischio d’incidenti stradali gravi dovuti all’alcol è più alto nei giovani, che negli adulti, forse anche perché meno esperti sia nel bere, che nel guidare. Con un’alcolemia elevata, ad esempio 1 g/l, automobilisti di 35-54 anni hanno un rischio d’incidente stradale 3-4 volte più elevato di un conducente sobrio, quelli di 25-34 anni hanno un rischio 6-7 volte superiore, mentre quelli di 18-24 anni hanno un rischio 15 volte superiore al normale.

ALCOL e LAVORO
Un altro tipo d’incidente, che può essere correlato al consumo di alcol, è l’incidente sul lavoro. Ogni anno infatti vengono denunciati dall’Inail circa 940.000 infortuni sul lavoro e di questi una percentuale oscillante tra il 4% e il 20% è riconducibile all’alcol, cioè 37.000-188.000 incidenti sul lavoro in Italia, ogni anno sono alcol-correlati. In ambito lavorativo, il consumo di alcolici provoca un notevole aumento dei rischi. Con un’alcolemia di 0,5 g/l (il valore soglia, raggiunto il quale è proibito guidare), il rischio d’incidente sul lavoro è doppio, ad 1 g/l è 6 volte superiore alla norma, con 2 g/l è 30 volte superiore. A causa del consumo di alcol aumenta non solo il rischio di infortuni sul lavoro, ma anche di malattia, in quanto si determina un potenziamento degli effetti dell’esposizione professionale a certi agenti chimici (solventi in particolare) e neurotossici (piombo), a danno del fegato e del sistema nervoso centrale. Questo comporta che le assenze dal lavoro dei consumatori di alcolici sono mediamente 3-4 volte superiori rispetto a quelle degli altri lavoratori. L’alcolismo inoltre può essere causa della perdita del posto di lavoro per licenziamento (l’alcolismo risulta la causa del 40% dei cambiamenti dei posti di lavoro). L’uso di alcol si associa anche a gravi incidenti domestici.

ALCOL e VIOLENZA
Un altro aspetto, che va preso seriamente in considerazione è quello del legame tra consumo di alcolici e violenza interpersonale. Secondo i dati foiti dall’Oms, ogni anno in Europa (il continente con il maggiore consumo di alcolici) si hanno circa 73.000 morti e 2.000.000 di ricoveri conseguenti ad atti di violenza. Di questi, il 40% sarebbe riconducibile al consumo di alcol. Negli Stati Uniti, le statistiche indicano che l’86% dei casi di omicidio, il 37% delle aggressioni ed il 60% delle violenze sessuali sono alcol-correlati. In Europa, inoltre, si stima che tra i 4,7 e 9,1 milioni di bambini vivano in famiglie con problemi di alcolismo e che il 16% dei minori subisca abusi ed incuria. Anche l’aumento del numero delle separazioni e dei divorzi tra coniugi può essere correlato, sia pure (ovviamente) in modo non esclusivo, all’abitudine di bere alcolici in modo eccessivo.
(fine prima puntata)

Rosanna Novara Topino

Rosanna Novara Topino




Tu vuoi fare l’italiano

Inchiesta: le nuove povertà / 1

Crisi e disoccupazione stanno colpendo anchemigliaia di immigrati. Aumentano gli stratagemmi dei datori di lavoro per risparmiare qualche soldo. Intanto qualcuno cerca di occuparsi di loro. Storie dall’ufficio migranti.

Ogni anno, 300 mila immigrati, provenienti soprattutto dall’America Latina e dall’Europa dell’Est, arrivano in Italia, in aereo o in autobus, con un visto turistico, o con la semplice carta d’identità, per costruirsi nel nostro paese una nuova vita.
Molti di loro sono zii, fratelli, figli o genitori che lasciano la patria per ricongiungersi ai loro cari, che li hanno preceduti in Italia e da cui sono, a volte, separati da anni. I nuovi arrivati coprono tutta la gamma delle età, dai neonati di pochi mesi ai nonni ultrasessantenni.
Oggi l’Italia ospita circa cinque milioni di immigrati in regola con i documenti di soggiorno. Oltre un quinto di loro proviene dalla Romania. Otto anni fa, gli immigrati in Italia erano un milione e mezzo.
In Piemonte, gli stranieri sono circa 400 mila, di cui circa 126 mila vivono a Torino.

Un ufficio per i migranti
A Torino l’Ufficio pastorale migranti (Upm) della diocesi si occupa delle persone immigrate, non importa se arrivate ieri o trent’anni fa. Ogni giorno, decine di persone attendono con pazienza di essere ricevute dagli operatori per chiedere assistenza nel rinnovo dei permessi di soggiorno, nell’ottenimento della cittadinanza italiana e, soprattutto, nel cercare un lavoro.
I migranti vengono da decine di paesi diversi, ma la maggioranza è originaria di quattro stati che si sono evidentemente legati a questa città: Romania, Marocco, Nigeria e Perù.
Nonostante le tante preoccupazioni, la grande maggioranza degli utenti dell’ufficio migranti sono persone rispettose e cordiali, pronte al sorriso. L’invito a prendere una bibita a casa loro, o addirittura a un pranzo non è un evento raro. Alcuni, quando tornano da un viaggio nel loro paese, portano un dono: una bottiglia di vino romeno, una camicia africana. Altri, quando ricevono il nuovo permesso di soggiorno o ottengono la cittadinanza, non mancano di far pervenire all’ufficio uno o più vassoi di dolci.
Certo, tra gli immigrati che si rivolgono all’Upm, capita ogni tanto anche qualche testa calda.

A «caccia» di un lavoro
La prima preoccupazione per un immigrato è riuscire ad ottenere il permesso di soggiorno, una volta ottenutolo, comincia la ricerca di un lavoro.
Oggi, la crisi ha indotto aziende e famiglie a pensarci due volte prima di assumere un nuovo dipendente. Alcune aziende, invece di stipulare contratti di assunzione per i nuovi lavoratori, utilizzano il sistema dei voucher, introdotto dalla legge Biagi nel 2003. Si tratta di buoni che vengono acquistati presso l’Inps e usati come mezzo di pagamento di prestazioni lavorative. In generale, il lavoratore riceve un voucher del valore di 10 euro per ora lavorativa. Un quarto dell’importo viene devoluto all’Inps come contributo previdenziale. Il vantaggio per l’azienda è che non deve stipulare con il lavoratore un contratto, dati tutti gli oneri che questo comporta.
Nonostante l’economia traballante, a Torino ci sono ancora aziende che si rivolgono all’Upm per chiedere candidati ad un impiego, ad esempio: profumerie, negozi di articoli di lusso, di indumenti di marca; alberghi, ristoranti, locali pubblici; piccole e medie industrie; cornoperative sociali che gestiscono mense, reception, servizi di pulizie; famiglie, che necessitano di personale domestico: badanti, colf, baby sitter.
Ma sulle decine di immigrati che quotidianamente chiedono un lavoro all’ufficio, solo quattro o cinque ogni mese, trovano un impiego. 
Quello che «tira» di più è il lavoro domestico presso famiglie con un anziano in casa bisognoso di assistenza più o meno continua, per cui viene richiesta una «badante convivente», cioè che viva nella casa della persona da assistere.

Squali e pesciolini
Alcuni direttori del personale non sembrano molto contenti dei neodiplomati delle scuole secondarie. Quando un commercialista torinese ci ha chiesto di procurargli un assistente, abbiamo pensato di aver finalmente trovato un impiego a un giovane africano, laureando presso l’Università in «Borsa, Assicurazione e Banche», un corso di laurea specialistico. I nostri pensieri sono stati subito fugati quando abbiamo constatato che il candidato non era in grado di scrivere una semplicissima registrazione contabile e nemmeno sapeva distinguere tra un conto patrimoniale ed un conto di reddito.
I giovani che escono dalle scuole professionali, con tre o cinque anni di formazione in mestieri come saldatore, addetto alle macchine utensili, elettricista, veiciatore ecc. sono invece molto apprezzati da fabbriche ed officine.
L’offerta di lavoro è oggi molto elevata, così le aziende cercano di ottenere quante più facilitazioni possibili quando devono assumere un candidato: tirocini formativi, contributi all’assunzione, sgravi fiscali previsti per chi assume disoccupati pluriennali, contratti d’apprendistato, ecc.
Una di queste è la «borsa lavoro». Si tratta di uno stage della durata di tre o sei mesi, durante il quale il tirocinante riceve un compenso mensile da un ente finanziatore (per esempio il Comune o una fondazione), che peraltro la legge italiana non prevede in forma obbligatoria. Il «borsista» non è considerato un lavoratore, ma uno studente in formazione e non comporta per l’azienda alcun costo. La borsa lavoro è di norma utilizzata per facilitare, nell’ambito di determinati progetti, l’assunzione di disoccupati in condizioni di particolare svantaggio: età elevata, bassa professionalità. Nella realtà, l’assunzione del borsista da parte dell’azienda al termine della borsa lavoro, non è  un evento frequente, soprattutto quando si tratta di supermercati, alberghi, cornoperative edili, sempre a caccia di manodopera a costo zero.
Altre aziende ospitano con regolarità tirocinanti provenienti da scuole professionali, che concludono la formazione con uno stage di uno o due mesi. Ma si guardano bene dall’assumere nuovo personale, sapendo di poter contare sulla manodopera gratuita foita dagli stagisti.
A volte, le ditte chiedono al tirocinante di svolgere straordinari (vietati dalla legge) non sempre retribuiti o di lavorare in località fuori dalla provincia (altra pratica vietata). In altri casi, i tirocinanti sono considerati una sorta di lavoratori di seconda categoria e non vengono nemmeno provvisti di indumenti e calzature di sicurezza. Capita che cornoperative sociali chiedono al lavoratore un notevole numero di ore di lavoro non retribuito, cioè a titolo di volontariato.
Infine, ci sono aziende (tra cui piccole e medie industrie manifatturiere) che si dimostrano più positive e assumono i borsisti che abbiano dato buona prova. Si tratta di imprese con responsabili un po’ «all’antica», ossia non tanto interessati alle facilitazioni delle borse lavoro, quanto piuttosto all’inserimento di lavoratori affidabili, seri ed onesti, con la prospettiva di farli rimanere in azienda per anni e sui quali investire risorse. Purtroppo, molto più frequenti, sono imprenditori che non si fanno scrupolo a considerare i lavoratori come animali da lavoro, sostituibili alla prima occasione di risparmiare qualche soldo.
Certo che alle volte anche i lavoratori ce la mettono tutta per rimanere disoccupati. Una ragazza marocchina, ex borsista, dopo pochi mesi di lavoro come commessa in un negozio di scarpe di lusso, ha pensato bene di dimettersi per andare nel meridione, perché un parente le aveva assicurato che c’era del lavoro. Il lavoro in effetti c’era, ma è durato appena poche settimane, trascorse le quali la «nostra» è tornata a Torino con le pive nel sacco e nuovamente a spasso.

«No parlo italiano»
Il primo problema che l’immigrato in cerca d’occupazione deve risolvere è la conoscenza della nostra lingua. In passato quando c’era più richiesta di lavoro non qualificato, il parlare o meno l’italiano non era tanto importante, ma oggi la situazione è cambiata radicalmente.
Chi vuole lavorare deve parlare e capire bene l’italiano. Questo vale per chi deve accudire ad una vecchietta, magari mezza sorda e abituata al dialetto d’origine e per chi deve lavorare come addetto mensa o alle pulizie in un ospedale. Infatti, eventuali errori dovuti a incomprensioni delle istruzioni, possono avere serie conseguenze, sia per la vecchietta, sia per la cornoperativa, che può vedersi arrivare anche multe da 500 euro per una pulizia male eseguita.
Purtroppo non pochi immigrati utenti dell’Upm hanno difficoltà ad esprimersi in italiano.
Chi soffre di più questo problema, secondo la nostra esperienza, sono le persone di origine bengalese, ma anche i nigeriani. Tra i marocchini, sono le donne a presentare delle difficoltà nella conoscenza dell’italiano, anche perché a volte hanno trascorso la vita in casa e sempre tra connazionali, fino a che, improvvisamente, le difficoltà economiche della famiglia le obbligano a catapultarsi nel mercato del lavoro.
Il secondo problema per molti immigrati è costituito dalla formazione scolastica bassa o inesistente e dall’esperienza professionale di basso profilo.
Mentre le scuole professionali della Romania sono generalmente apprezzate dai datori di lavoro italiani, lo stesso non può dirsi per le scuole di altri paesi. Molti immigrati arrivano con un diploma di scuola secondaria a indirizzo generale in tasca, in realtà è molto se sanno leggere e scrivere con una certa proprietà la lingua del loro paese.
Quanto all’esperienza professionale, troppi immigrati hanno fatto per tutta la vita i braccianti, i manovali, gli addetti alle pulizie e tutta una serie di «aiuto-qualcosa» che non sono mai sfociati in una professionalità completa: aiuto-magazziniere, aiuto-cuoco, aiuto-decoratore, aiuto-elettricista. Il terzo problema è dato dal modo di comportarsi durante i colloqui di selezione per un posto di lavoro.
Capita che utenti dell’Upm abbiano rifiutato offerte di lavoro, perché il tratto di strada da Torino a Rivoli «è troppo lungo e fa freddo», o  «devo ritirare gli esiti degli esami» o «devo finire di mangiare».
Altri candidati ad un lavoro di badante o di cameriere in albergo, portano con sé l’amico, da proporre come aiutante o sostituto nei fine settimana, o cercano di trattare su condizioni di lavoro già definite, provocando lo sconcerto e l’irritazione del datore di lavoro.

Disoccupazione e povertà
Per un disoccupato che riesce a rimediare il tanto sospirato posto di lavoro, migliaia d’altri continuano raminghi per le strade, facendo il giro delle agenzie interinali e delle fabbriche, sempre più scoraggiati e sfiduciati.
È una situazione difficile da accettare per chi è in Italia da anni ed è abituato da una vita a lavorare e mantenere la famiglia e che ha sempre insegnato ai figli ad andare a scuola, a rispettare la legge, a «diventare bravi come gli italiani».
A volte, incalzati dalle bollette, dalle ingiunzioni di pagamento che si ammucchiano sul tavolo, i coniugi si fanno prendere dalla rabbia, magari si accusano a vicenda di non essere capaci di trovare un lavoro, finché uno dei due, ormai avvilito non abbandona il cosiddetto tetto coniugale.
È quello che è successo ad una giovane mamma marocchina, che a 24 anni, pur avendo avuto quattro gemellini in un colpo solo è rimasta incinta di un quinto figlio dopo poco tempo.
Altre volte, il capo famiglia, ormai disperato, cade nel vortice della depressione, fino ad arrivare ad atti di violenza. Intanto la moglie deve fare il giro delle parrocchie e degli uffici pubblici, a caccia di un lavoro, di un sussidio, di un minimo segno di speranza cui aggrapparsi, tenendo sempre in mente che tre bambini piccoli aspettano di mangiare qualcosa e di poter andare a scuola con dignità. E spesso in questi casi di disperazione, l’uomo si fa maligno, accusa parroci ed operatori sociali di «aiutare solo i negri» di «odiare gli albanesi».
In altre famiglie, la fede aiuta i coniugi a mantenere la speranza e la pace.
Molti immigrati, ormai ridotti in miseria da lunghi anni di disoccupazione, ogni tanto sognano di fare rientro in Patria. Di fronte alla crisi, non poche famiglie di immigrati, romeni e nordafricani in particolare, devono dividersi. In genere, bambini e anziani tornano al loro paese, mentre gli adulti rimangono in Italia, in cerca di un qualsiasi lavoro, in attesa di tempi migliori.
Non è facile immaginare il trauma che deve colpire un bambino di cinque anni, che si vede rimandare in Moldavia dalla mamma trentenne, per facilitarle la ricerca di un lavoro presso una famiglia italiana come badante fissa.

Assistere i disoccupati
I servizi sociali non sempre riescono a svolgere al meglio le loro funzioni. Oltre che la drammatica diminuzione di risorse, devono fronteggiare l’incrollabile diffidenza che molte famiglie di immigrati nutrono nei loro confronti. Questo nasce dal timore che, venendo a conoscenza di famiglie in miseria, i servizi sociali segnalino la cosa al tribunale, chiedendo che i minori presenti in famiglia vengano affidati ad altri o chiusi in istituto.
Gli enti pubblici, le fondazioni, le organizzazioni assistenziali religiose o meno riescono ancora ad aiutare i poveri, con alimenti, vestiario, medicinali, piccole somme per pagare bollette urgenti (luce e gas) e quando possibile anche borse lavoro, ma anche qui le risorse sono in diminuzione.
Le comunità etniche aiutano come possono gli immigrati, con del cibo, l’offerta di un alloggio, almeno per risolvere un’emergenza, raccogliendo fondi per una famiglia in difficoltà.
In alcune comunità di immigrati, si stanno muovendo dei passi, per fare attività di volontariato a favore di famiglie italiane e straniere. Può trattarsi di servire nelle mense per i poveri, come nelle iniziative di doposcuola per i bambini.
Lavorando a contatto con gli immigrati si ha sovente riscontro della loro grande fede religiosa. Capita, per esempio, di ascoltare giovani donne nigeriane, che quando viaggiano in treno parlano ad alta voce (come loro costume). Si direbbe che stiano chiacchierando al telefonino, invece stanno elevando inni di ringraziamento a Gesù. Altre giovani in sala d’aspetto, invece di leggere riviste di pettegolezzi tirano fuori un libretto consunto, che poi si rivela essere un Vangelo. In certe chiese è comune vedere giovani africani, grandi e grossi, inginocchiarsi per raccogliersi in preghiera, prima che inizi la Messa. Così come ci sono musulmani che ci ricordano nelle loro preghiere e ci chiedono di essere a loro volta ricordati nelle nostre preghiere di cristiani. Sono persone che vivono ogni giorno difficoltà e preoccupazioni, ma perseverano nella loro fede, in modo del tutto naturale, senza troppo rumore.

Paolo Deriu

Paolo Deriu




Olocausto Africa

La prima grande fame del ventunesimo secolo

Catastrofe umanitaria. È quello che si sta consumando in 5 paesi del Coo d’Africa. Oltre 12 milioni di persone sono interessate, mentre 390.000 bambini sono a grave rischio di morte per fame. Eppure siamo nel XXI secolo. Ma a noi (europei) interessano i Suv, gli
i-phone e, ovviamente, il calcio. E ci sentiamo tranquilli regalando un euro con l’sms.
L’ennesima crisi africana ha cause ben precise. La siccità è solo il detonatore di una geopolitica omicida durata oltre 20 anni.

«La crisi globale del cibo e dell’acqua è arrivata alla capanna di Safia: lei non può più comperare farina, riso, fagioli, latte in polvere. I prezzi sono cresciuti enormemente. La terra dei campi per piccole o grandi coltivazioni è spaccata, arida, polverosa. Safia non riesce più a trovare un po’ d’acqua da bere o per cucinare. La siccità ha devastato il gregge delle sue capre, ha scomposto quello delle pecore dei suoi vicini, ha distrutto la forza delle mandrie di mucche e cammelli delle tribù limitrofe. È il caos». Chi parla è padre Franco Cellana, superiore dei missionari della Consolata in Kenya. Si riferisce alla grave crisi alimentare che sta colpendo intere regioni dell’Africa dell’Est.
Safia è un emblema di quello che sta succedendo ad oltre 12 milioni e mezzo di persone in cinque paesi: Kenya (3,7 milioni), Etiopia (4,8), Somalia (3,7) e Gibuti (165.000). Ma anche in Eritrea, sebbene il regime dittatoriale di Afeworki continui a negare. Una crisi epocale, che le Nazioni Unite hanno classificato in alcune regioni del centro Sud della Somalia con un nome tragico: carestia. La memoria storica riporta indietro agli anni 1984-85 quando una crisi analoga colpì Etiopia e Sud Sudan, causando la morte «per fame» di centinaia di migliaia di persone. E poi successivamente alla fine degli anni ’90.
I dati dell’Unicef (agenzia delle Nazioni Unite per l’infanzia) parlano di 1,85 milioni di bambini coinvolti di cui 780.000 sono malnutriti e la metà soffre di «malnutrizione acuta». Ovvero fame.
«Nella Somalia che è la più colpita, i vecchi cercano di combattere la fame con un liquido masticato da un ramo spinoso chiamato jerrin mentre anche i loro bambini vagano per la savana in cerca di arbusti liquorosi per vincere gli stimoli della fame» continua padre Cellana.
Ma oggi esistono i «sistemi di allerta precoce», ovvero complessi algoritmi che sintetizzano dati climatici (piogge), prezzi del cibo, produzione agricola e hanno il compito di mettere in preallarme governi, organizzazioni inteazionali e agenzie umanitarie. Avvisaglie di una possibile crisi erano infatti già state segnalate ad ottobre 2010. In seguito, una cattiva stagione delle piogge ad aprile 2011 ha contribuito al disastro. Le Nazioni Unite parlano di una siccità tra le più acute degli ultimi decenni.
Così in primavera è iniziato l’esodo di popolazioni dalle zone più colpite, ovvero dal centro e Sud della Somalia. La gente abbandona i propri villaggi alla ricerca di cibo e acqua. Fuga verso Mogadiscio, la capitale della Somalia, dove è più facile accedere agli aiuti umanitari e fuga verso i campi profughi nel Sud Est dell’Etiopia e Nord Est del Kenya. L’Alto Commissariato per i rifugiati (Unhcr) stima un afflusso di 1.500 persone al giorno nei tre campi di Dadaab (Kenya), che ha portato la popolazione dai 90.000 previsti dalle strutture agli oltre 440.000 facendone il complesso di rifugiati più grande del pianeta.
Il tutto nell’indifferenza totale del mondo. Fino a quando Papa Benedetto XVI ha lanciato un appello per le popolazioni colpite, all’Angelus di domenica 17 luglio. Anche le Nazioni Unite si sono mosse, decretando, tre giorni dopo, lo stato di carestia. Finalmente la crisi ha guadagnato le prime pagine dei maggiori quotidiani del mondo e la Fao ha convocato una riunione straordinaria il 25 luglio, che si è conclusa con una richiesta di fondi per rispondere all’«emergenza umanitaria».

Le cause
Ma le cause della fame non sono solo climatiche.
Innanzitutto in Somalia, dopo la crisi politica del 1991 e la caduta del regime di Mohamed Siad Barre, non c’è più stato un governo stabile, che avesse il controllo dell’intero territorio nazionale. Il paese è caduto prima nelle mani dei «signori della guerra», poi delle «corti islamiche», infine di Al Shabaab, una costellazione di gruppi estremisti legati ad Al Qaeda. A questi si oppone il governo federale di transizione (Tfg), con sede a Mogadiscio, appoggiato dalla Comunità internazionale e da una missione dei peacekeeping dell’Unione Africana, Amisom (composta da circa 9.000 militari ugandesi e burundesi).
La guerra civile, che in Somalia va avanti da 20 anni, e l’assenza di uno stato ha negato qualsiasi possibilità di politiche agricole e di protezioni contro eventi climatici catastrofici, come la siccità.
In secondo luogo la crisi globale dei prezzi alimentari ha colpito ancora più duramente nel Coo d’Africa, dove la produzione agricola resta dipendente dai fenomeni atmosferici. I prezzi del cibo sui mercati locali sono aumentati notevolmente e la gente non è più in grado di comprare la farina e gli altri alimenti di base.
Marco Bertotto, direttore di Agire (consorzio di undici Ong italiane attive sul fronte delle emergenze umanitarie) è critico su come questa crisi sia stata raccontata dai media: «L’immagine che è passata è stata di una ennesima crisi in Africa, con i bambini che muoiono di fame e per la quale non si può fare nulla. Senza raccontare la serie di fattori che hanno portato a questo che non è un disastro naturale».
La situazione ha infatti origini molto più complesse: «La crisi ha una componente naturale legata ai cambiamenti climatici, ovvero aspetti dipendenti dai cicli delle piogge,  poi ci sono i problemi di restrizione della mobilità delle persone a causa della guerra, di anni di politiche agricole sbagliate e sfruttamento del territorio scorretto. Ad esempio l’assenza di investimenti in campo agricolo o investimenti mal gestiti, favorendo le monoculture estensive con finalità di esportazione piuttosto che appoggiando le comunità locali». E conclude: «L’emergenza in Africa orientale è stata provocata dall’uomo e non è ineluttabile».

La risposta del mondo
La macchina umanitaria si è quindi messa in moto a luglio.
Le Nazioni Unite hanno chiesto circa 2,4 miliardi di dollari per fronteggiare la crisi. Bertotto fa i conti: «Finora solo il 58% è stato promesso, neanche stanziato. Poi manca oltre un miliardo. C’è quindi un problema di inadeguatezza delle risorse per far fronte a questa emergenza.
Nel corso del mese di agosto c’è stato un aumento della capacità di risposta delle agenzie umanitarie, dovuto al fatto che alcune cose si sono mosse, i soldi sono iniziati ad arrivare e in parte è aumentato l’accesso in Somalia. Questo ha permesso non tanto di migliorare la situazione ma di impedie il peggioramento, perché sul terreno la situazione è critica».
Secondo Bertotto il «picco» della crisi dovrebbe ancora arrivare, in quanto la carestia si sta estendendo ad altre zone.
«Il contesto di intervento delle agenzie umanitarie è molto difficile, soprattutto in Somalia. Ci sono fasce di popolazione che non hanno ricevuto gli aiuti e che realisticamente non li riceveranno mai, perché ci sono zone dove è impossibile arrivare a causa della guerra. Anche le Ong italiane, pur avendo costruito negli anni un rapporto con operatori locali che consente loro una buona presenza, hanno difficoltà». La sicurezza, a causa della guerra, è limitata, mentre in alcuni casi, soprattutto all’inizio della crisi, gli Al Shabaab hanno impedito l’intervento delle agenzie umanitarie, accusandole di strumentalizzare la carestia.
«Nei gruppi Al Shabaab si trovano insieme elementi ideologizzati da correnti islamiche estremiste e fazioni di origine clanica insoddisfatti della situazione attuale» dice monsignor Giorgio Bertin, vescovo di Gibuti e amministratore apostolico della Somalia (già nostro ospite su MC marzo 2010).
E continua: «Sì, è vero che hanno posto ostacoli a diverse agenzie umanitarie e dell’Onu, però hanno anche lasciato che organizzazioni come il Cicr (Comitato internazionale della croce rossa, ndr) e altre, soprattutto di origine musulmana, agissero nei territori da loro controllati».
Parlando di cosa succede sul terreno: «La situazione nel centro Sud Somalia rimane molto grave a causa dell’insicurezza e della siccità che ha provocato la carestia. Coloro che possono continuano a cercare di sopravvivere rifugiandosi in Kenya o nel Sud Ovest dell’Etiopia, ma anche in altre zone del cosiddetto Ogaden (Etiopia dell’Est, ndr). Almeno centomila sono arrivati nella zona di Mogadiscio in quanto accessibile al mare e ora quasi tutta sotto controllo del governo di transizione».
Anche la Caritas Italiana sta intervenendo per portare soccorsi, e ha messo a disposizione 700 mila euro (nel momento in cui si scrive la raccolta dei fondi è in atto) attraverso le Caritas nazionali. Continua mons. Bertin: «La Caritas agisce nei campi di rifugiati del Kenya e dell’Etiopia. In Somalia interviene per interposta persona, ma non posso precisare né dove né come per ragioni di sicurezza dei nostri partner locali».
«La situazione sta peggiorando perché ci si rende sempre più conto dell’estendersi del territorio colpito dalla siccità – racconta Paolo Beccegato, responsabile dell’area internazionale di Caritas Italiana -. Va sottolineato peraltro che l’insicurezza rende ancora più precaria la situazione della popolazione, invogliandola ad andare a rifugiarsi da qualche parte. Ciò nonostante, piccoli interventi in varie località sono ancora possibili, grazie a organizzazioni locali che godono la fiducia della Caritas Somalia, che Caritas Italiana sostiene. Non solo, ma ci sono concrete possibilità che questi interventi aumentino, limitando così l’esodo della gente».

La tattica di Al Shabaab
Gli Al Shabaab con una mossa unilaterale si erano ritirati da Mogadiscio il 6 agosto scorso. Ma questa, celebrata come una vittoria dal Tfg, non è altro che una mossa tattica. E gli scontri sono continuati, tant’è che a inizio settembre un conflitto a fuoco tra governativi, Amisom e non precisate «milizie armate» ha causato 15 morti e oltre 20 feriti gravi. Sul campo è caduto anche un cameraman malese, Noramfaizul Mohd Nor. Questo ha causato il ritiro di tutti i 54 operatori umanitari della Malesia.
La diplomazia arranca e domenica 4 settembre, sempre a Mogadiscio, è iniziata la conferenza consultativa, sotto l’egida delle Nazioni Unite, per definire il futuro del governo transitorio. Oltre al Tfg si sono riuniti per tre giorni i responsabili della regione auto proclamata autonoma dello Puntland e di altri territori semi autonomi. È stato pure firmato un documento politico che dovrebbe portare a una nuova Costituzione e ad elezioni nell’agosto 2012. Ma né il Somaliland (Nord della Somalia) auto proclamatosi indipendente nel 1991, né gli Al Shabaab sono rappresentati. Difficile, in questo modo, trovare soluzioni condivise da tutti.

La «carestia» si estende
Intanto le Nazioni Unite allargano sempre più la zona somala definita sotto «carestia», che sul campo significa un aumento delle persone soggette a rischio di morte per fame e pandemie. Colera, morbillo, malaria si diffondono quando il fisico è debole perché sotto alimentato.
A migliaia, intere famiglie anche con bimbi piccoli, tentano il viaggio della disperazione per raggiungere i campi profughi, già affollati da centinaia di migliaia di persone. Dichiarando anche la zona di Bay (sotto controllo degli Al Shabaab) in stato di carestia, sono ormai 6 le regioni somale più colpite e altre 750 mila persone sono a rischio.
«Tutti gli anni, ciclicamente – sostiene Marilena Bertini, presidente dell’Ong Comitato di collaborazione medica (Ccm), da tempo impegnata nell’area – si registrano situazioni drammatiche per la salute e la sopravvivenza delle persone legate ai conflitti in atto, alla povertà e alle condizioni climatiche che stanno peggiorando. I bisogni d’intervento sono strutturali e richiedono azioni di lungo periodo. Da sempre il Ccm è a fianco di queste popolazioni e anche in questo momento particolarmente drammatico vogliamo farci portavoce dell’ingiustizia che vivono». Ancora una volta, chi conosce bene la zona, è cosciente che la siccità ha solo fatto precipitare una situazione mantenuta al limite a causa di decenni di interventi e politiche «umane» errate.
Monsignor Bertin sintetizza così le sfide di oggi e di domani: «Le prospettive immediate sono quelle di salvare le vite. Per il futuro bisognerà lavorare di più per la pace e la ricostruzione dello stato».

Marco Bello

Marco Bello