I dubbi dell’isola «Ribelle»

Dopo Hong Kong, reportage dall’«altra» Cina

Separata dal 1949, l’isola di Taiwan (ex Formosa) è divisa tra nazionalisti (che guardano alla Cina) e democratici (che guardano agli Stati Uniti e all’Occidente). Con la vittoria elettorale dei primi, Taipei si è molto avvicinata a Pechino, come dimostra anche l’adesione ad un importante accordo di libero scambio (l’Ecfa). Eppure, anche se pochi taiwanesi parlano di «indipendenza» (termine tabù), ancora meno considerano l’opzione della «riunificazione» alla Cina continentale.

Taipei. Per avere un’idea di come i taiwanesi guardino alla storia cinese, basta farsi un giro al memoriale dedicato a Chang Kai-shek. Una struttura imponente, persa in mezzo ad una piazza immensa e deserta, cui fanno capolino alcuni taiwanesi impegnati a diffondere quanto di più proibito c’è per Pechino: il culto del Falun Gong, il gruppo religioso-filosofico fuorilegge in Cina dal 1999. Per i taiwanesi il memoriale è un simbolo: pur avendo perso la battaglia per la Cina (1949, leggere box), essi hanno trasformato quella sconfitta nell’annullamento (ancorché simbolico) degli storici rivali, i comunisti cinesi. Siamo a Taipei, circa tre ore di volo da Pechino (i viaggi diretti sono in vigore solo da tre anni; in precedenza, per andare dalla Cina a Taiwan, era necessario uscire dal paese, passare per Hong Kong e prendere un volo verso l’isola considerata ancora oggi ribelle da Pechino), ma la distanza sembra secolare.
Il Partito comunista cinese non è mai menzionato nel museo di storia nazionale, tra le macchine lussuose usate dal generale Chang Kai-shek e le foto in cui è ritratto insieme ai leader che riconobbero Taiwan. I cinesi chiacchierano e guardano stupiti i documenti e l’immensa statua di Chang Kai-shek, al termine delle tante scale che portano al monumento. Un altro mito che la Cina si appresta a fare crollare. Pechino, ormai, è sempre più vicina. La profonda recessione economica di Taiwan (ante-2010) pare essere risultata determinante per un cambiamento permanente dei rapporti tra l’isola «ribelle» e la Grande Cina, così vigorosa e imponente nella sua crescita economica.

SOLTANTO UN ACCORDO DI 
LIBERO SCAMBIO?
Per capire a che punto siano le relazioni tra Cina e Taiwan è necessario un breve excursus, che mostra nel recente accordo economico-commerciale tra i due paesi il nuovo ago della bilancia, il nuovo equilibrio. Con esso si sigilla la scelta della classe politica oggi al potere a Taiwan, i nazionalisti del Guomindang (leggere box), per un riavvicinamento nei confronti della Cina, a scapito dell’influenza storica degli Stati Uniti.
Solo nel 2009 – per la prima volta dal 1949 – i leader dei due paesi si sono incontrati a Pechino, a seguito di un anno vissuto pericolosamente. Prima di quella data a Taiwan erano al potere i democratici, schierati su posizioni indipendentiste. Nel 2008, con la vittoria del Guomindang, il partito nazionalista di Ma Ying-jeou, tutto è cambiato. La Cina ha subito approfittato della salita al potere dei nazionalisti, schierati su posizioni ad essa favorevoli, per dare inizio ad una nuova stagione nei rapporti tra i due paesi. Un avvicinamento confermato anche dalle recenti (novembre 2010) elezioni in cinque città che hanno dato – anche se di stretta misura – il via libera popolare alla scelta del Guomindang: la maggioranza della popolazione ha votato in favore di chi riteneva che l’avvicinamento alla ricca Cina fosse necessario.
Il 29 giugno 2010 era stato infatti firmato l’Economic Cooperation Framework Agreement (Ecfa), un accordo economico che abbassa le tariffe degli scambi commerciali tra i due paesi, con la conseguente creazione di un’area di libero scambio che ricorda molto da vicino le politiche cinesi già in precedenza attuate per le zone economiche speciali o per Hong Kong. L’Ecfa ha diviso la società civile taiwanese in due tronconi: i favorevoli e i contrari a Pechino.

I DEMOCRATICI:
NON CI FIDIAMO
Esistono ancora forti differenze, ma – come in un gioco di specchi – i taiwanesi si considerano più cinesi degli abitanti continentali. Usano ancora gli ideogrammi tradizionali, si dedicano molto più, almeno in apparenza, al culto dello spirito rispetto agli ipermaterialisti cinesi di oggi. «Noi non sputiamo e siamo educati», mi raccontano alcuni ragazzi che incontro in uno dei tanti night market della città. Sono cortesi, felici di poter chiacchierare con uno straniero e parlano un buon inglese. I taiwanesi mangiano quasi sempre fuori casa, dati i prezzi economici e la diffusione capillare dei mercati all’aperto tra fumi di tofu, salsicce e ogni genere culinario. Il piatto forte è una specie di cotoletta di pollo croccante, da avvolgere in un pezzo di carta e mangiare con le mani. Le file sono lunghissime e con la compagnia incontrata c’è tempo per scambiare più di una battuta. Scopro così che si tratta di attivisti del Democratic Progressive Party, l’opposizione taiwanese: volantinano e regalano pacchetti di fazzoletti di carta con in bella vista il volto di Tsai Ing-wen, la leader del partito.
Girano tra i vari mercati, quando li incontro sono in pausa, in attesa della bistecca di pollo: «Non siamo cinesi – specificano -. Ad esempio, non sputiamo, non abbiamo un partito unico e siamo democratici». Una volta terminato il pasto in piedi, mentre osserviamo la fiumana di gente muoversi in modo agitato tra i vari stand, li seguo nella loro attività militante: molte persone si fermano, discutono, altre scuotono la testa e affermano di essere a favore del Guomindang. La mia presenza sembra aizzare un poco gli animi, specie quando mi viene chiesto da dove arrivo e la risposta include la parola Cina. Molti infatti lasciano briglia sciolte alle peggiori nefandezze contro Pechino. In molti criticano il partito di governo, per criticare la Cina. Sono loro, i nazionalisti taiwanesi, ad avere operato per spingere l’isola sotto il controllo pechinese.
«I nazionalisti hanno venduto Taiwan alla Cina», affermano i ragazzi, che sono durissimi verso l’Ecfa: «È un modo come un altro per mettersi nelle mani della Cina e garantire ai ricchi taiwanesi i propri affari».
I giovani rappresentano la base, il corpo sociale del partito democratico. Shane Lee, invece, è professore della Chang Jung Christian University di Taipei. Il suo approccio è da intellettuale organico al partito democratico, molto attento alle parole senza evitare però stoccate dure e pungenti ai suoi avversari politici. È lui che prova a spiegarmi le ragioni del malcontento dei democratici rispetto alla nuova piega presa dalle relazioni tra Pechino e Taipei: «L’accordo non favorisce la nostra industria, la disoccupazione salirà e il gap tra i ricchi e i poveri aumenterà. I ricchi diventeranno sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Speriamo che in futuro il nostro governo cambi questo approccio di estrema dipendenza dalla Cina. Siamo preoccupati perché ormai conosciamo i cinesi: attraverso l’economia cercheranno di stringere intorno al nostro collo il nodo politico, finendo per farci perdere le conquiste democratiche della nostra storia. La nostra gente è molto preoccupata da questo avvicinamento. Del resto la Cina non è mai stata “gentile” con noi. Oggi però, secondo i sondaggi, la maggioranza dei taiwanesi è favorevole alle relazioni con la Cina sia per questioni economiche che militari. Taiwan è militarmente debole e vulnerabile ad eventuali attacchi missilistici di Pechino. Questo lo sanno tutti e tale aspetto rimane una delle principali preoccupazioni della popolazione».

I NAZIONALISTI:
È SOLTANTO ECONOMIA
Sun Yang-ming è un ex giornalista, vice presidente del Cross-Strait Interflow Prospect Foundation, un think tank che esamina le relazioni tra Cina e Taiwan. La sua è la posizione di chi ha lavorato all’accordo e di chi, più in generale, è favorevole a Pechino: «L’Ecfa è importante per entrambi, ma ognuno ha le proprie interpretazioni. Pechino crede che questo sia il momento per andare verso un’intensificazione dei rapporti con Taiwan: per i cinesi, l’Ecfa è soltanto il primo passo dei molti che hanno in mente. Noi diciamo un’altra cosa: vediamo come esso funziona, come la gente reagirà, se, soprattutto, sarà utile a risollevere la nostra economia. Noi non possiamo andare veloci quanto la Cina. La nostra parola d’ordine è stabilità. Anche perché, ora come ora, la posizione del nostro presidente è debole: Ma Ying-Jeou paga la crisi e l’Ecfa è una prima risposta».
C’è da chiedersi, specie per uno come Sun Yang-ming, molto vicino ai teorici statunitensi, cosa pensano gli Stati Uniti dell’accordo economico: «Gli americani – dice ridendo – sono estasiati dall’Ecfa! Erano terrorizzati dai leaders del Partito democratico e dai loro continui balletti e sparate mediatiche contro la Cina. Per loro era un problema. Comunque, anche con gli Usa noi siamo stati chiari: l’Ecfa non è un passo verso la riunificazione politica. Siamo stati onesti e abbiamo specificato tutto quanto vogliamo fare». È la verità? «Sinceramente: una eventuale unificazione politica non è un’opzione valida in questo momento dal nostro punto di vista. Alla popolazione di Taiwan ormai non interessa più essere indipendente o essere considerata cinese: vuole soltanto vivere in pace e in una situazione economica tranquilla. Vuole controllare il proprio portafoglio e sentirlo pieno. La gente di Taiwan del resto non può essere spinta ad una unificazione quando per cinquant’anni abbiamo detto peste e coa dei cinesi. Sarebbe assurdo».

Simone Pieranni

ACCORDI ED AMBIGUITÀ

IL MONDO OLTRE LO STRETTO

Gli interessi economici sembrano aver sopito le polemiche tra la Cina del continente e la Cina di Taiwan. Tuttavia, Pechino considera Taipei sempre una «provincia ribelle». E non vedrebbe di buon occhio un ritorno al governo del paese del Partito democratico in caso di vittoria nelle elezioni presidenziali del 2012.

Per i taiwanesi oltre lo Stretto c’è la Cina o il Continente? La rettificazione dei nomi è una delle chiavi di volta del pensiero confuciano. In accordo con lo zhengming (teoria confuciana dei nomi, ndr), per raggiungere le finalità proprie alla posizione e agli obblighi sociali di ciascuno, i nomi devono essere corrispondenti all’oggetto cui si riferiscono.
Negli ultimi tempi il dibattito politico a Taiwan è ruotato attorno ai due termini: Cina e continente. Merito del presidente Ma Ying-jeou che ha sollevato il problema a colloquio con i parlamentari del Guomindang, il Partito nazionalista, tornato al governo tre anni fa, dopo otto anni in cui aveva dovuto cedere la guida dell’isola al Partito progressista democratico (Pdp), schierato su posizioni indipendentiste. Per oltre cinquant’anni, ossia da quando le truppe nazionaliste di Chang Kai-shek furono sconfitte nella guerra civile dai comunisti guidati da Mao Zedong e dovettero riparare a Formosa, entrambe le sponde dello Stretto si sono considerate la sola e unica Cina.
Qualcosa è cambiato con l’inizio del nuovo secolo. Negli anni di governo del Pdp, tra il 2000 e il 2008, gli abitanti dell’isola avevano iniziato a considerare il proprio Paese qualcosa di diverso dalla Repubblica popolare. Era semplicemente Taiwan. Mentre sull’altra sponda, superato il braccio di mare che li divide dagli ingombranti cugini, c’è la Cina. Dopo aver riportato i nazionalisti al governo, il presidente Ma ha avviato un percorso di riavvicinamento con il governo cinese, suggellato lo scorso giugno dalla firma di un accordo di cooperazione economica che ha segnato il punto più alto delle relazioni tra Pechino e Taipei dal 1949. «È un momento decisivo per lo sviluppo di un dialogo a lungo termine  –  disse Chiang Pin-kung, capo della delegazione di Taipei -, dobbiamo cogliere l’opportunità di lavorare insieme e fidarci reciprocamente». L’accordo, conosciuto come Economic Cooperation Framework Agreement o semplicemente Ecfa, prevede che Pechino abbassi le tariffe d’importazione su 539 prodotti taiwanesi. L’isola farà lo stesso per 267 prodotti cinesi. Nel 2008, primo anno dall’apertura delle frontiere ai turisti cinesi, in oltre 2 milioni hanno visitato l’isola. E quest’anno, i visitatori cinesi a Taiwan, 1,2 milioni, dovrebbero superare i giapponesi. Senza contare gli oltre 2.000 studenti che, attraversato lo Stretto, saranno ammessi quest’anno nelle università taiwanesi.
Eventi e problemi
È in questo contesto che si colloca il discorso tenuto a febbraio 2011 dal presidente. Un ritorno al cosiddetto «Consenso del 1992», un testo stilato dai due governi – ma mai messo in atto –, che stabilisce i parametri comuni per l’interpretazione del concetto di unica Cina.
In pratica ognuna delle due parti lo utilizza a proprio piacimento, entrambe riconoscendosi come la vera Cina. Per Pechino l’isola continua a essere una «provincia ribelle», mentre per Taipei – erede della Repubblica fondata nel 1912 al crollo del secolare Celeste impero –  al di là dei 180 chilometri di Stretto c’è il Continente. La presa di posizione del presidente sembra sostenuta dai sondaggi. Secondo una ricerca del Global Views Monthly, pubblicata a fine gennaio 2011, il 54,8 per cento dei taiwanesi è propenso a mantenere lo status quo. E a fronte di un 27,7 per cento che aspira alla definitiva indipendenza, soltanto il 7,1 per cento vede nel proprio futuro una riunificazione politica con la Repubblica popolare.
I risvolti diplomatici di questa ambiguità sono emersi all’inizio dell’anno, quando Taipei ha richiamato i propri rappresentanti nelle Filippine, colpevoli di aver estradato a Pechino 14 cittadini taiwanesi accusati di frode. Nel 1975 il dittatore filippino Ferdinand Marcos firmò un accordo con l’allora primo ministro cinese, Zhou Enlai, con cui riconosceva l’esistenza di una sola Cina, di cui Taiwan era una parte inscindibile. Pur tra le legittime preoccupazioni del governo taiwanese per la sorte dei propri connazionali (accusati di essersi appropriati di oltre 20 milioni di dollari), Manila non ha potuto non rispettare l’accordo di estradizione firmato con Pechino nel 2001 ed entrato in vigore cinque anni dopo. Ricorda infine uno scenario da Guerra fredda l’arresto, quattro mesi fa, del generale Lo Hsien-che, con l’accusa di aver passato per anni segreti militari alla Repubblica popolare e condannato per questo all’ergastolo a fine maggio. Per il ministero della Difesa di Taipei si tratta del più grave caso di spionaggio negli ultimi 50 anni e, secondo quanto riferito dall’agenzia missionaria Asia News, potrebbero essere coinvolte almeno altre 10 spie.
Così come ricordano vecchi rancori le accuse mosse contro alcuni quotidiani, i cui articoli sul Continente sono considerati forme di propaganda pro cinese, finanziata da Pechino, in spregio a una vecchia legge che vieta di fare pubblicità alle aziende o ai prodotti made in China.
Le presidenziali del 2012
Tutto questo avviene mentre l’isola inizia a prepararsi per le presidenziali di gennaio 2012. La presidentessa del Pdp, Tsai Ing-wen, si è aggiudicata il sondaggio telefonico commissionato dai democratici per la scelta del proprio candidato, superando di un punto percentuale l’ex primo ministro, Su Tseng-chang: 42,5 per cento contro 41,5 per cento il risultato finale della rilevazione. Prima donna a correre per la poltrona presidenziale, è per gli elettori una mediazione tra le posizioni indipendentiste intransigenti di parte dei democratici e la politica di riavvicinamento con la Cina continentale del Gmd. È considerata una moderata, esponente dell’ala pragmatica del partito, decisa a non interrompere bruscamente i nuovi rapporti economici con Pechino. Questo sebbene negli anni Novanta sia stata tra le ispiratrici della «teoria dei due Stati», propugnata dall’ex presidente Lee Teng-hui, e della proposta di cambiare il nome ufficiale di Formosa da «Repubblica di Cina» a «Repubblica di Taiwan».
Tuttavia l’appartenenza al Pdp è tutt’altro che una garanzia per la dirigenza cinese. «È una persona mite, ma resta comunque una separatista, sebbene moderata. I rapporti tra le due sponde dello Stretto potrebbero subire un’inversione di rotta», ha sottolineato Wang Jianmin, ricercatore dell’Accademia cinese per le scienze sociali. Tsai non ha intenzione di rinnegare quanto fatto negli ultimi tre anni dal suo rivale, ma è decisa a trattare la Cina come un qualsiasi altro partner economico e soprattutto con il sostegno dell’«Organizzazione mondiale del commercio» che, al momento, il governo di Taipei ha preferito lasciare fuori dai rapporti con Pechino.
Gli scambi con la Cina hanno spinto l’economia dell’isola a un tasso di crescita che, nel 2010, ha toccato l’11 per cento, il più veloce degli ultimi 23 anni. E a marzo le esportazioni verso il continente hanno superato i 2,5 miliardi di euro. Vinto il primo round, Tsai dovrà ora cercare di tenere unito il suo stesso partito. Dal suo sfidante alle primarie ci si attende un impegno a favore della vincitrice. Su è però in rotta con uno dei principali sponsor politici di Tsai all’interno del Pdp, quel Frank Hsieh battuto due anni fa alle presidenziali da Ma Ying-jeou. Nei sondaggi, tra l’attuale capo di Stato e la sua sfidante è al momento testa a testa. Tuttavia, Ma può contare su un precedente propizio: la sconfitta di Tsai nella corsa a sindaco di Taipei lo scorso anno, quando a vincere fu il candidato dei nazionalisti.

Andrea Pira

La situazione religiosa

Diversi da Pechino

A Taiwan la religione è libera. Il culto più praticato è il buddismo, anche se il taoismo è la religione, la seconda, che ha più templi sull’isola (circa 18mila). Il 4,5 % della popolazione è cristiana: protestanti con circa 3mila chiese e cattolici con circa 298 mila membri e oltre 1.000 chiese. A Taiwan, inoltre, sono presenti molte sette e culti minori, come il Falun Gong, religione vietata in Cina che ha trovato molti adepti sull’isola ribelle, dove può essere praticata liberamente.

Il Falun Gong è un sistema di pratiche e credenze fondato recentemente, nel 1992, ad opera di Li Hongzi. Si tratta di un movimento spirituale, considerato come una setta dal Partito comunista cinese, che ha finito per avere grande diffusione in Cina negli anni ‘90. Secondo dati ufficiali cinesi nel 1998 sarebbero stati oltre 70 milioni i praticanti del Falun Gong, un mix tra spiritualismo qigong e grande enfasi alla morale. Dopo essere stati bollati come una setta, molti praticanti del Falun Gong a fine anni ‘90 diedero vita a numerose proteste pacifiche. A Pechino 10 mila persone contestarono il governo a causa del trattamento subito dai media proprio a Zhongnanhai, quartier generale dei leader cinesi. Da quel momento il Falun Gong è considerato illegale in Cina.

Andrea Pira




La vergogna della fame

La povertà, il sottosviluppo e quindi la fame sono spesso il risultato di atteggiamenti egoistici che partendo dal cuore dell’uomo si manifestano nel suo agire sociale, negli scambi economici, nelle condizioni di mercato, nel mancato accesso al cibo e si traducono nella negazione del diritto primario di ogni persona a nutrirsi e quindi ad essere libera dalla fame. Come possiamo tacere il fatto che anche il cibo è diventato oggetto di speculazioni o è legato agli andamenti di un mercato finanziario che, privo di regole certe e povero di principi morali, appare ancorato al solo obiettivo del profitto? L’alimentazione è una condizione che tocca il fondamentale diritto alla vita. Garantirla significa anche agire direttamente e senza indugio su quei fattori che nel settore agricolo gravano in modo negativo sulla capacità di lavorazione, sui meccanismi della distribuzione e sul mercato internazionale. E questo, pur in presenza di una produzione alimentare globale che, secondo la FAO e autorevoli esperti, è in grado di sfamare la popolazione mondiale.

Papa Benedetto XVI
udienza alla Fao, 1 luglio 2011

Verso metà giugno ho cominciato a ricevere notizie della grave situazione di fame in Kenya, soprattutto nel Nord, dove anche nella «mia» Maralal (è stata la prima missione per me) la gente muore letteralmente di fame a causa di un lunghissimo periodo di siccità. So cosa vogliano dire siccità e fame: ero là nel 1992 quando sconvolsero la vita della gente e nella missione distribuivamo razioni a oltre 2000 persone ogni settimana e acqua ogni giorno a più di 700 famiglie. In quel frangente molto bestiame morì, ma non le persone. Ora, 20 anni dopo, la siccità ha colpito ancora e non solo muore il bestiame, ma con esso le persone, senza che ci siano scorte sufficienti, senza un efficace piano di aiuti, con il prezzo del cibo alle stelle e le solite speculazioni sulla pelle della gente. Questo mentre il Kenya (ma non è l’unico paese africano a farlo!) continua ad esportare fiori verso l’Europa (20% del mercato), latte (anche in Italia), verdura fresca per i supermercati londinesi e granaglie – svuotando le sue riserve – verso altri paesi africani che pagano meglio.
Per contro, viaggiando nella nostra bella Italia si nota facilmente come le aree incolte siano in aumento. Chi è troppo piccolo per l’agricoltura non coltiva più, chi è grande riceve invece sussidi per non coltivare oppure, invece di produrre per cibo, produce per il ben più redditizio mercato della cosiddetta bio-energia, che di «bio» (vita) ha davvero poco.
Poi sento da amici panettieri dell’esorbitante quantità di pane che sono costretti a buttare ogni giorno perché non «fresco di giornata», e dello spreco delle mense aziendali, scolastiche e pubbliche che non possono riciclare il cibo inutilizzato, e dei ristoranti e supermercati che buttano via quantità industriali di prodotti ancora perfettamente commestibili a causa di date di scadenza iperprotettive, spesso più utili alle tasche dei produttori che alla salute dei consumatori. Senza poi dimenticare le tonnellate di prodotti (dal latte alle arance) mandati bellamente al macero per non abbassare i prezzi di mercato, ed i magazzini nazionali e comunitari che hanno riserve di cibo ben inferiori a quanto previsto dalla legge e dal buonsenso perché costa troppo gestirle.
E c’è di peggio: il cibo è diventato preda della speculazione in borsa, con investitori senza scrupolo e senza controllo che ne fanno salire artificialmente il prezzo. E allora si capisce il perché delle «rivolte del pane», della rabbia dei poveri, delle morti per fame. Quale povero, guadagnando due dollari al giorno (se li guadagna!), può permettersi di pagae uno per un solo chilo di farina? E la farina da sola non basta, ci vogliono acqua pulita, carbone, olio, verdura, frutta, carne, sale, zucchero… che diventano lussi impossibili. Quante persone può saziare un chilo di farina, se le sazia?
È semplicemente un’oscenità che dopo tanto parlare, tanti dispendiosi ed enfatici summit a tutti i livelli per debellare la povertà entro il 2015, continuino a morire di fame uomini e donne in molte parti del pianeta. È il fallimento della politica che invece di servire il bene comune si è arresa alla logica del profitto, del più forte e di chi, ancor oggi, continua a pensare che una minoranza ricca abbia il diritto di accaparrarsi tutto, perché il mondo è fatto di dominatori e dominati, padroni e schiavi, benestanti e poveracci, di chi elargisce il lavoro e di chi deve ringraziare di avere il privilegio di lavorare anche se sottopagato, precario, sfruttato e perennemente indebitato.
Qualcuno certo dirà: «Non sono discorsi da missionari questi! Questo è fare politica!»
Forse, però vada a dirlo ai tanti missionari, missionarie e volontari che sul fronte della fame, della guerra, della povertà devono seppellire i morti…

di Gigi Anataloni

Gigi Anataloni