Giovanni Paolo l’Africano

Papa Wojtyla e il Continente Nero

Papa Wojtyla ha dedicato all’Africa una grandissima e appassionata attenzione, tanto che il cardinale senegalese Hyacinthe Thiandoum (1921-2004) lo ha definito: «Giovanni Paolo l’Africano». L’appellativo è ripreso da mons. Giovanni Tonucci in questo articolo, scritto per la nostra rivista The Seed, quando era nunzio apostolico per il Kenya e firmato con lo pseudonimo di Mzee Mwenda (l’amato, in kemeru).

I libri di storia parlano di personaggi importanti definiti con titoli corrispondenti alle loro imprese o al modo con cui le hanno realizzate. Ai tempi di Roma uno fu chiamato il «Temporeggiatore» perché era calmo e prudente nel prendere le decisioni; un altro il «Censore» perché criticava la condotta altrui; il generale che conquistò l’Emilia fu detto «l’Emiliano» e un altro generale che vinse un’importante battaglia in Nord Africa, nell’attuale Tunisia, fu soprannominato «l’Africano».
Quest’ultimo titolo mi è venuto in mente riflettendo sulla morte di papa Giovanni Paolo II; egli ha visitato tante volte l’Africa e ha impresso la sua impronta nella chiesa di questo continente: ha aumentato il numero di vescovi e diocesi, così pure quello di cardinali africani; ha incoraggiato l’intera Chiesa africana a ricercare una specifica identità africana.
Naturalmente ogni tipo di definizione è limitata e limitante. Chiamando Giovanni Paolo II «l’Africano» non si intende negare l’importanza del ruolo da lui giocato per la Chiesa nell’America latina o in qualsiasi altro continente o subcontinente. Ma fermiamoci su questo appellativo e guardiamo a papa Wojtyla da una prospettiva africana senza togliere niente alle altre. Lo chiamiamo «Santo Padre» e l’amore di un padre non è limitato dal numero dei figli che condividono tale amore. Anzi, in questo modo esso è aumentato e fatto anche più forte.
Una considerazione mi viene da fare quando studio le statistiche: in 27 anni di pontificato Giovanni Paolo II ha visitato tutti i continenti e moltissime nazioni; ma il primato spetta all’Africa, con 42 stati visitati, cinque dei quali due volte e, altri due, tre volte. Voglio ricordare che Nairobi lo ha accolto tre volte.
In una delle mie prime udienze in Vaticano, dissi al Papa che avevamo fatto alcune riparazioni nella sua casa, la residenza della nunziatura, perché fosse più adatta per riceverlo; e che quindi sarebbe potuto tornare per riposarvi qualche giorno se avesse voluto. Egli sorrise e sollevò lo sguardo come per dire: «Mi piacerebbe, ma solo Dio sa se sarà possibile».
Durante i primi anni del suo pontificato ero a Roma e ricordo bene ciò che avvenne quando toò da un viaggio africano: insieme al piccolo gruppo che lo accompagnava, il Papa si recò nella basilica di San Pietro per pregare sulla tomba del primo apostolo. Tutti gli altri sembravano stanchi ed esausti, lui invece era pieno di energia, il volto abbronzato dal sole africano, ringiovanito come se fosse ritornato da un periodo di riposo.

La realtà è che egli si trovò a suo agio in Africa e con gli africani. Lo si poteva sentire e capire ogni volta che il Papa parlava agli africani o parlava dell’Africa; in essa trovava alcuni dei grandi valori che gli stavano più a cuore: egli seppe capire i valori della cultura e delle tradizioni africane e vedervi la loro apertura al vangelo e riconoscervi l’amore per la vita. «Queste tradizioni – disse nella sua omelia per l’inaugurazione del Sinodo per l’Africa – sono ancora l’eredità della maggioranza degli abitanti dell’Africa. Sono tradizioni aperte al vangelo, aperte alla verità»; e più avanti: «I figli e le figlie dell’Africa amano la vita».
Questo rispetto sincero per le tradizioni locali era tipico di Giovanni Paolo II e può essere apprezzato a pieno se pensiamo alla sue radici culturali. Era nato e cresciuto in Polonia, in tempi veramente difficili per il suo paese; costretto a fronteggiare le sfide lanciate in molti modi dalle più crudeli e più inumane dittature sperimentate nel secolo scorso: nazismo e comunismo; entrambe imbevute della cultura dell’oppressione e della morte. Proprio perché fedele alle sue radici polacche, papa Wojtyla riuscì a diventare il pastore universale della chiesa universale, totalmente dedicato a proclamare un vangelo universale di salvezza.
Molti cercano di sottolineare il fatto che egli era di nazionalità polacca, come se questo elemento fosse un limite alla sua personalità. Egli era veramente polacco, ma tale aspetto non costituiva un motivo di chiusura ad altre esperienze; anzi, la sua nazionalità fu uno strumento che lo rese capace di aprirsi a differenti culture e tradizioni. L’orgoglio per le sue radici lo fece capace di capire l’importanza vitale delle radici di altre tradizioni.
Proprio questo egli voleva vedere in Africa: apertura all’universalità, ma a partire dalle radici profonde delle secolari tradizioni religiose, che egli giudicò in modo positivo, riconoscendo in esse il «seme della parola di Dio», come afferma il Concilio Vaticano II. E ciò che gli piaceva dell’Africa era «l’amore per la vita», che egli sperimentò in tantissime manifestazioni di gioia e di rispetto, nell’entusiasmo e nell’accoglienza espressi in modo così lontano dall’«egoismo dei ricchi»; un egoismo contagioso, che potrebbe portare l’Africa ad accettare e favorire pratiche ostili alla vita.

Un concetto questo ribadito spesso e riportato anche nella lettera apostolica Ecclesia in Africa: «Io vi lancio una sfida oggi, una sfida che consiste nel rigettare un modo di vivere che non corrisponde al meglio delle vostre tradizioni locali e della fede cristiana. Molte persone in Africa guardano al di là dell’Africa, verso la cosiddetta “libertà del modo di vivere moderno”. Oggi io vi raccomando caldamente di guardare in voi stessi. Guardate alle ricchezze delle vostre tradizioni, guardate alla fede che abbiamo celebrato in questa assemblea. Là voi troverete la vera libertà, là troverete il Cristo che vi condurrà alla verità» (48).
Verso la fine della sua omelia per l’apertura del Sinodo, il Papa concluse con questa esortazione: «Africa, giornisci nel Signore». Nell’omelia per la chiusura del Sinodo egli menzionò ancora «la gioia del popolo di Dio, che porta freschezza così vivace in ogni celebrazione liturgica», e finì con questa acclamazione: «Africa, l’eterno Padre ti ama; Cristo ti ama! Rimani in questo amore».
Come non riconoscere lo spirito africano in queste frasi? Bisogna essere orgogliosi di essere figli e figlie di questa generosa madre, il continente africano. So che lo siete e so che insieme a voi il Santo Padre è stato orgoglioso e felice di essere «Giovanni Paolo l’Africano».

Mzee Mwenda

Mzee Mwenda