Diritti e tutela

Migliorare la salute matea e neonatale nel Sud del Mondo

I dati relativi alla salute matea e neonatale nel mondo rivelano una situazione di enorme disparità tra il Nord e il Sud del mondo: una donna in gravidanza nei paesi poveri corre un rischio 300 volte maggiore di morire a causa di complicazioni rispetto alla sua sorella dei paesi ricchi. Una donna muore ogni minuto per cause diverse soprattutto nelle due grandi aree del sottosviluppo sanitario: l’Africa subsahariana, in cui ha luogo la metà dei decessi matei annui, e l’Asia meridionale. È una situazione inevitabile o si può prevenire?

È trascorso oltre un ventennio da quando la comunità sanitaria globale nel 1987 si riunì sotto gli auspici dell’Iniziativa «Mateità sicura» per concentrarsi soprattutto sulla mortalità matea, i cui dati oggi, come allora, rivelano una realtà globale in cui rimane estremamente fragile lo stato della donna in ambito sanitario. D’altro canto il divario nel rischio di mortalità matea tra il mondo industrializzato e molti paesi del Sud, soprattutto quelli meno sviluppati, è spesso definito «il più ampio divario del mondo». In altri termini, come ribadito recentemente (2009) anche da UNIFEM, il Fondo delle Nazioni Unite contro le disparità di genere, una donna del Sud del mondo è almeno 300 volte più esposta al rischio di morire a causa di complicazioni dovute alla gravidanza o al parto di una donna che vive nel ricco Nord. Eppure ancora
nel 2000, quando vennero definiti gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio, oltre 600mila donne morivano ogni anno per complicazioni collegate alla gravidanza e al parto. Circa il 95% dei decessi matei avveniva nei paesi in via di sviluppo. Attualmente, secondo quanto riportato nel recente rapporto «La Condizione dell’infanzia nel mondo», redatto nel 2009 dall’UNICEF, il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia, ogni anno più di mezzo milione di donne muore per cause associate alla gravidanza e al parto e circa 4 milioni di neonati muoiono entro 28 giorni dalla nascita. Inoltre, milioni di donne che sopravvivono al parto subiscono lesioni, infezioni, malattie e disabilità, spesso con conseguenze che durano tutta la vita. Dati certamente allarmanti che misurano il polso attuale della salute globale per le categorie cosiddette fragili.

CAMBIARE SI PUÒ
Nel moderno contesto globale quindi una donna muore ogni minuto per cause in gran parte prevenibili, soprattutto nelle due grandi aree del sottosviluppo sanitario: l’Africa subsahariana, in cui ha luogo la metà dei decessi matei annui, e in Asia meridionale dove si stima un restante 35%, lasciando il mondo molto distante dal suo obiettivo di ridurre di tre quarti il tasso di mortalità matea tra il 1990 e il 2015 (il cosiddetto MDG 5, Traguardo A). Oltre ai decessi, però, disabilità, malattie, infezioni e lesioni inficiano permanentemente la salute di molte giovani donne, sebbene esistano soluzioni efficaci in termini di costi ed risultati. Si tratta di misure urgenti e radicali, di cui si fanno carico per lo più Ong e organismi inteazionali, nei pur delicati contesti sudmondisti. Dalla prevenzione sanitaria ai più complessi progetti di cooperazione, sarà possibile abbattere quel dato allarmante che stima ancora l’86% dei decessi neonatali come conseguenza diretta di patologie gravi (sepsi-polmonite, tetano e diarrea), asfissia e parto pretermine. Si stima inoltre che le patologie infettive rappresentino circa il 36% di tutti i decessi neonatali, causa principale di morte, soprattutto dopo la prima settimana. La modea ricerca applicata alla sanità sudmondista, ha dimostrato che circa l’80% delle morti legate alla gravidanza si potrebbero evitare se le donne avessero accesso ai servizi essenziali di prevenzione e assistenza sanitaria di base. L’adozione di pratiche igieniche durante il parto è fondamentale per prevenire le infezioni possibili in quel momento, ma ci sono altre complicazioni o malattie che devono essere riconosciute e trattate in tempo. Ugualmente le infezioni nei neonati devono essere riconosciute e trattate subito dopo il parto. Oltre il 40% dei decessi annuali di bambini sotto i cinque anni, l’equivalente di quasi 3,7 milioni di fanciulli, secondo le stime del-l’OMS, avviene nei primi 28 giorni di vita. Tre quarti di questi si verificano nei primi sette giorni di vita e anche la maggior parte di essi sono assolutamente prevenibili.

MODELLI VIRTUOSI
Questi decessi, pesantemente concentrati tra i gruppi di popolazione più svantaggiati all’interno dei paesi con poche risorse, riflettono una disuguaglianza sociale persistente e ingiusta che merita da tempo maggiore attenzione.
Va comunque ricordato che buona parte del lavoro di riduzione delle disuguaglianze va al di là delle possibilità del settore sanitario stesso. La causa di molte malattie non è la mancanza di antibiotici, ma di acqua pulita; le malattie cardiache non dipendono tanto dalla scarsità di unità coronariche, quanto dagli stili e dagli ambienti di vita. Di conseguenza, il settore sanitario deve attirare l’attenzione sulle «cause» alla radice delle disuguaglianze. Affidarsi troppo agli interventi medici è un modus vivendi troppo occidentale. Il modo migliore per aumentare l’aspettativa di vita e migliorare la qualità della stessa sarebbe, senza dubbio, l’adozione, da parte di ogni governo, di politiche e programmi per la salute e l’uguaglianza sanitaria. Ma non solo. I progressi del paese nel campo dello sviluppo umano, soprattutto nell’istruzione matea e infantile, sono stati una delle più grandi storie di successo sud-mondista dei degli ultimi decenni. Proprio dal popoloso subcontinente asiatico è possibile evincere alcuni modelli sanitari virtuosi che hanno invece cambiato, in alcuni stati e regioni, l’inarrestabile catena di morte generata da povertà e dalla crescita demografica.

IL CASO DELLO SRI LANKA
Quella dello Sri Lanka, accanto a quella del sistema sanitario dello stato indiano del Kerala, è la storia più recente di un successo pianificato. Un paese a basso reddito, martoriato da una lunga guerra civile e dalle conseguenze devastanti dello tsunami del 2004, è riuscito a risollevarsi da una drammatica situazione di deprivazione sanitaria. Il tasso di mortalità neonatale dello Sri Lanka è diminuito da 340 su 100mila nati vivi nel 1960, a 43 su 100mila nati vivi nel 2005 e, oggi, il 98% dei parti avvengono negli ospedali. I tassi di assistenza prenatale – almeno una visita – e di assistenza qualificata al parto raggiungono il 99%. Questi risultati hanno avuto effetti positivi anche sulla sopravvivenza infantile: il tasso di mortalità sotto i cinque anni è diminuito da 32 su 1.000 nati vivi nel 1990, a 21 su 1.000 nel 2007. Gli ultimi dati disponibili indicano che anche il tasso di mortalità neonatale si è ulteriormente ridotto a circa 8 su 100mila nati vivi nel 2004. Anche nel settore dell’istruzione di base, le prestazioni dello Sri Lanka sono state straordinarie. Secondo le più recenti stime inteazionali, il tasso netto di iscrizione elementare è pari a oltre il 97% sia per i maschi che per le femmine, mentre i tassi di alfabetismo tra i giovani di età tra 15 e 24 anni raggiungono il 97% tra i maschi ed il 98% tra le femmine. I dati amministrativi indicano che il tasso di completamento della scuola primaria è del 100%. Tenuto perciò conto della correlazione positiva tra istruzione e sopravvivenza matea e infantile, questi sono i risultati di investimenti sostenuti in tutti e tre i settori. La chiave degli straordinari miglioramenti nella salute matea compiuti dallo Sri Lanka è stata l’estensione di un pacchetto sinergico di servizi sanitari e sociali ai poveri. Il sistema sanitario del paese, che risale alla fine del XIX secolo, ha posto come obiettivo innanzitutto la foitura universale di un’assistenza migliorata, i servizi igienico-sanitari e la gestione delle malattie. Successivamente, ha aggiunto interventi specifici per migliorare la salute delle donne e dei bambini. Nel corso degli anni, i governi hanno adottato un approccio prudente che dava la priorità ai servizi di assistenza sanitari per le madri ed i poveri, utilizzando le risorse economiche e umane in maniera giudiziosa. I miglioramenti ottenuti nella salute delle donne sono sostenuti e rafforzati da misure volte all’empowerment sociale e politico delle donne mediante l’istruzione, l’occupazione e l’impegno sociale. Le radici culturali e il passato coloniale foiscono inoltre una prospettiva unica sull’evoluzione della salute matea nel paese. Si tratta di una tradizione secolare che affonda le sue radici nei testi medici dei secoli IX e X, mentre alcune pratiche affina-tesi durante il periodo coloniale hanno visto l’istituirsi di alcune importanti professioni mediche. Quella ostetrica, ad esempio, grazie al governo coloniale britannico ha registrato i decessi per gravidanza fin dai primi anni del secolo scorso, garantendo così la raccolta di una grande quantità di informazioni e di conoscenze.
Precise competenze obbligatorie hanno inoltre contribuito a professionalizzare le ostetriche, mentre la politica di «non cercare il colpevole (della eventuale morte del neonato) a tutti i costi» ha aiutato a svolgere inchieste su invalidità e morti matee. I risultati sono stati sensazionali: la mortalità matea si è dimezzata tra il 1947 e il 1950 e solo dieci anni dopo, le percentuali dei decessi si sono ulteriormente dimezzate.
Una volta messe a punto le strutture e le reti sanitarie, il miglioramento di organizzazione e gestione clinica ha consentito allo Sri Lanka di ridurre il tasso di mortalità neonatale e matea del 50% ogni 6-11 anni. Inoltre, il livello di alfabetismo delle donne è aumentato dal 44 al 71% in poco più di vent’anni. Anche i tassi di assistenza qualificata al parto presso le strutture ospedaliere sono aumentati. Le ostetriche da più di cinquant’anni hanno contribuito all’ampliamento dei servizi pubblici di pianificazione familiare, oltre ad avere svolto nella sanità pubblica il proprio ruolo di assistenti ai parti. Ciò dal momento che l’assistenza domiciliare è diminuita dal 9% nel 1970 ad appena l’1,5% nel 2010.

PROBLEMI DA RISOLVERE
Malgrado i progressi significativi rimangono ancora problemi da risolvere, per lo più amplificati dalle nuove dinamiche transfrontaliere della globalizzazione. Negli ultimi anni, ad esempio, il paese registra un’importante carenza di operatori sanitari, molti dei quali mi-grati nei paesi occidentali; secondo il World Health Statistics, nei primi dieci anni del nuovo Millennio, il paese, ha stimato appena 6 medici e 17 infermiere-ostetriche ogni 10mila abitanti. Tuttavia i servizi si sono deteriorati a causa del giro di vite alle risorse finanziarie, con una spesa sanitaria di circa il 3,5% del PIL nel 2010. E il problema della sicurezza alimentare, soprattutto se i prezzi inteazionali degli alimenti rimarranno elevati, rischierà di inficiare parte dei buoni risultati fin qui conseguiti in ambito sanitario. Il paese presenta ancora condizioni marcate di malnutrizione tra i neonati ed i bambini sotto i cinque anni. Secondo le recenti stime foite dall’UNICEF, più di 1 neonato su 5 nasce sottopeso ed il 23% dei bambini sotto i cinque anni sono moderatamente o gravemente sotto-peso. E il miglioramento dei livelli di allattamento esclusivo al seno per i bambini di età inferiore a sei mesi, rispetto a quello attuale del 53%, sarà vitale per mantenere i risultati ottenuti dallo Sri Lanka nella mortalità neonatale ed infantile.

LOTTA ALLA POVERTÀ: ESSENZIALE PER LA SALUTE
Ecco alcune strategie virtuose nate dalla consapevolezza di come le politiche sanitarie che non promuovano una lotta alla povertà e alla disparità economica, o che considerino la salute una merce, abbiano come corollario una «catastrofe». Ma come è stato possibile un risultato come quello dello Sri lanka in un mondo dove la politica non indirizza più l’economia, dove le logiche di mercato rappresentano il motore dell’azione politica e dove impera ancora la convinzione che un modello di sviluppo economico possa essere garantito solo dalla libera concorrenza? Imparare dunque da alcuni stati del Sud del mondo è una nuova opportunità per comprendere come sia possibile consolidare la salute di donne e bambini con costi almeno quattro volte inferiori a quelli attualmente affrontati nella nostra società. Equità, partecipazione degli individui e multisettorialità sono gli elementi di base di una ricetta dal valore indiscusso, applicabile a livello globale. Strategie solide, risorse adeguate e impegno politico, possono invece garantire un successo consolidato nel tempo. Un fatto su cui vi invito a riflettere.
(2. continua)

Massimo Ruggiero

Massimo Ruggiero




«Ti dico che sei malato»

Le multinazionali del farmaco (seconda ed ultima puntata)

La lobby delle case farmaceutiche ha mille facce. Dagli articoli pseudo-scientifici, alla sperimentazione su popolazioni dei paesi «poveri», alla modifica dei parametri di salute. Per arrivare alle campagne di vaccinazione inutili e dannose.
Occorre una maggior indipendenza dei medici ma anche un approccio più responsabile di tutti rispetto al consumo dei farmaci.

Gli sforzi per incrementare i guadagni delle industrie farmaceutiche non si limitano solo a quanto descritto (si veda MC marzo 2011, prima puntata), già di per sé molto discutibile. Le strategie messe in atto da quella che risulta essere una vera e propria lobby del farmaco sono molteplici e decisamente illecite. Si va dai metodi più innocui, come la promozione di congressi e giornate dedicate alle varie patologie (comprese quelle che fino a qualche anno fa non erano considerate malattie come la menopausa, l’osternoporosi, l’incontinenza o la stipsi), fino a quelli un po’ più subdoli, come inviti a ristoranti prestigiosi e regali di vario tipo per i medici prescrittori dei loro farmaci. Peggio ancora, queste industrie riescono a pilotare le pubblicazioni su alcune riviste scientifiche, spesso al soldo di «Big Pharma» (la lobby farmaceutica), in modo da influenzare i medici nelle loro scelte. In pratica esse assoldano degli autori sconosciuti (i quali fanno spesso capo ad agenzie di marketing) per redigere articoli, che magnificano le qualità dei loro prodotti e mettono in cattiva luce, senza peraltro valide prove scientifiche, i prodotti concorrenti. Oppure mitigano i rischi, che l’assunzione del farmaco pubblicizzato può comportare, o ancora promuovono farmaci non adeguatamente testati. Tali articoli vengono poi sottoposti alla firma di un luminare medico, che non ha partecipato ad alcuna ricerca sul farmaco in questione, ma è disposto a sottoscrivere l’articolo, per avere una pubblicazione in più nel suo curriculum. In tal modo l’articolo acquisisce credibilità, viene pubblicato su una rivista scientifica e quindi utilizzato per pubblicizzare il proprio farmaco presso i medici curanti, che purtroppo non sempre cercano le prove scientifiche di quanto viene pubblicato.
Al fine di contrastare questa pratica, dannosa per la vera informazione scientifica, ma soprattutto per i pazienti, si è costituito un gruppo di operatori sanitari, denominato «No grazie, pago io», con omonimo sito internet, impegnato a far sì che la propaganda farmaceutica non guidi la pratica clinica.

Cavie (umane) africane
Ciò che fa veramente inorridire, però, è il comportamento delle multinazionali dei farmaci nei paesi in via di sviluppo, per quanto riguarda le sperimentazioni delle nuove molecole. Purtroppo in questi stati abbondano le persone malate e senza diritti, da sottoporre a test improponibili in Occidente. Si moltiplicano infatti le testimonianze su test clinici, che non rispettano i diritti umani più elementari, pur di arrivare a tempo di record alla commercializzazione di un prodotto. I paesi dove si è maggiormente spostata la sperimentazione delle industrie del farmaco sono quelli africani, oltre a quelli dell’Europa dell’Est e dell’America Latina.
Basta ricordare, ad esempio, quanto avvenne nel 1996 nell’ospedale di Kano in Nigeria. Nel paese africano, quell’anno vi fu un’epidemia di meningite, che uccise 15.800 persone. La Pfizer decise di sperimentare in quell’ospedale un suo nuovo antibiotico, il Trovan, senza alcun controllo da parte della Food and Drug Administration (Fda), l’ente statunitense che dà il via libera ai farmaci, ma che non ha praticamente voce in capitolo sugli esperimenti effettuati fuori dagli Stati Uniti.
Secondo la testimonianza dei medici dell’Ong Medici senza frontiere, che operavano nello stesso ospedale e curavano i malati con un vecchio, ma efficace antibiotico, il cloramfenicolo, i ricercatori della multinazionale assoldarono 200 bambini malati, somministrando il Trovan a 99 di loro ed un antibiotico già rodato di controllo (il cefotriaxone) agli altri 101.
La sperimentazione partì male e proseguì peggio, perché venne intrapresa senza il consenso scritto (obbligatorio) dei genitori, adducendo come scusa che si trattava di persone analfabete. Inoltre la prova venne condotta solo per 6 settimane, mentre negli Stati Uniti le autorità richiedono un anno di lavoro, per convalidare un nuovo farmaco.
Infine, il fatto più grave, la terapia a base del nuovo antibiotico venne mantenuta per molti giorni, senza una apprezzabile risposta da parte dei pazienti. Risultato: morirono 11 bambini e ci furono numerosi casi d’infezione, che causarono sordità, paralisi, lesioni cerebrali e cecità. A seguito di questa sperimentazione, le autorità statunitensi permisero la commercializzazione del Trovan solo per gli adulti, a causa dei frequenti danni al fegato e di alcune morti osservate anche nei paesi occidentali.
In Europa questo farmaco venne tolto dal commercio.

Scrupoli addio
La vicenda della sperimentazione del Trovan ha dimostrato che lo spostamento della ricerca farmacologica nei paesi poveri porta con sé molto spesso soprusi, scorrettezze e cattiva qualità degli studi. In queste zone ci sono più malati, quindi più cavie. Per sperimentare un nuovo farmaco, prima di metterlo in commercio, servono circa 4.000 persone. Poiché ogni giorno di ritardo, per il lancio di un nuovo farmaco, costa negli Stati Uniti 1,3 milioni di dollari alla ditta produttrice, si capisce la fretta di effettuare la sperimentazione e quindi di reclutare cavie umane nel più breve tempo possibile. Ecco quindi il vantaggio di spostare la sperimentazione nei paesi del Sud del mondo.
Non sono poi da sottovalutare i costi della sperimentazione. Secondo fonti industriali, un esperimento complesso costa alla casa farmaceutica circa 10.000 dollari per paziente nell’Europa occidentale, 3.000 dollari in Russia e meno della metà in Africa. Inoltre, parallelamente ai flagelli della malaria e della tubercolosi, l’Aids sta preparando l’Africa ad essere il laboratorio ideale per le sperimentazioni senza scrupoli.
In molte circostanze, le multinazionali dei farmaci hanno dimostrato di avere a cuore solo il loro profitto e non la salute pubblica, inducendo le associazioni mediche a modificare le linee guida e i parametri, che determinano lo stato di salute o di malattia (ad esempio abbassando progressivamente il livello dei valori normali della glicemia, della colesterolemia e della pressione arteriosa). Per cui chi, fino al giorno prima, era considerata una persona in salute, in base agli esami di laboratorio, improvvisamente si è ritrovato malato e quindi indotto ad assumere farmaci per lo più inutili, ma sicuramente non scevri di effetti collaterali. Un semplice modo per allargare il giro d’affari.

Attenti al vaccino
Spesso, inoltre, il potere di queste multinazionali è tale da convincere i politici a promuovere iniziative a livello nazionale, come le vaccinazioni di massa. Un tipico esempio del genere è rappresentato dalla vaccinazione gratuita per le ragazze adolescenti fino a 12 anni contro il carcinoma del collo dell’utero, correlato con l’infezione da «papilloma virus umano» o Hpv. Da 3 anni in Italia viene condotta la campagna vaccinale contro l’Hpv e il relativo vaccino viene somministrato dal Servizio sanitario nazionale (Ssn) gratuitamente alle ragazze fino a 12 anni e a prezzo agevolato fino a 25 anni. La campagna pubblicitaria per la vaccinazione, con tanto di spot televisivi, giornate dedicate, convegni e articoli sui principali quotidiani e settimanali è stata martellante e spregiudicata, arrivando a generare sensi di colpa nei genitori contrari. Al pubblico sono però stati accuratamente nascosti alcuni dettagli della vaccinazione e cioè: 1) esistono circa un centinaio di ceppi Hpv, di cui circa 15 sono oncogeni ad alto rischio, cioè capaci di indurre tumori, ma i vaccini usati (il Gardasil della Merck Sharp & Dohme e il Cervarix della GlaxoSmithKline) sono diretti rispettivamente solo contro 4 e 2 di questi ceppi, lasciando tutti gli altri liberi di agire; 2) è gratuita solo la prima vaccinazione, ma quelle che dovranno essere eseguite a distanza di 5 anni sono a pagamento (più di 500 euro); 3) le sperimentazioni sul vaccino si sono svolte nell’arco di 5 anni, ma il tumore della cervice uterina impiega tra i 10 ed i 20 anni a svilupparsi, quindi, in effetti, non c’è stato il tempo di verificare che il vaccino funzioni veramente; 4) sono stati tenuti nascosti gli effetti avversi del vaccino, che in alcuni sfortunati casi ha provocato la morte in giovani ragazze, fino a quel momento in buona salute, e inoltre ha provocato alcune reazioni particolarmente gravi di ipersensibilità, come l’anafilassi, la sindrome di Guillan-Barrè, la mielite trasversa, la pancreatite ed episodi di tromboembolia (vedi il gruppo creato dall’autrice su Facebook «Le nostre figlie non sono cavie da esperimento»).
Vale quindi la pena di fare alcune considerazioni. Innanzitutto sarebbe auspicabile una maggiore indipendenza dei medici dalle pressioni esercitate dalle industrie del farmaco e una loro volontà di ricercare informazioni scientifiche frutto di ricerche indipendenti e non sovvenzionate dalle stesse industrie. In secondo luogo dovremmo noi stessi cambiare il nostro atteggiamento, per quanto riguarda l’uso dei farmaci, utilizzandoli quando sono effettivamente necessari, senza cadere in questa nuova forma di consumismo. Andrebbe sempre ricordato che il medico migliore non è colui, che prescrive i farmaci che vogliamo, ma quello che sa consigliarci per il meglio, dicendoci qual è il momento giusto per smettere di assumerli. Eviteremmo in tal modo di fare del male a noi stessi, dal momento che non possiamo essere certi di non andare incontro ad effetti collaterali e nel contempo non alimenteremmo un giro d’affari spregiudicato.     

Rosanna Novara Topino


Farmaci via Inteet

Da qualche anno sta diventando sempre più fiorente un nuovo mercato: quello dei farmaci via internet. Una recente indagine dal titolo «Fake medicines: a global issue» (Farmaci contraffatti: un problema globale), presentata dal gruppo socialdemocratico al Parlamento europeo ha evidenziato un aumento delle vendite di farmaci, molto spesso contraffatti, in rete. Sono infatti sempre più frequenti i siti di sedicenti farmacie on line, che esibiscono falsi sigilli di approvazione, che imitano ad esempio quello della FDA (Food and Drug Administration) o quello di PharmacyChecker, un vero sito certificatore. Per essere più convincenti, alcune farmacie on line dichiarano di avere una sede e dei magazzini, di cui riportano una foto ed i relativi indirizzi, ma una semplice indagine con Google Maps rivela facilmente l’infondatezza di tali dichiarazioni. Secondo l’indagine, il mercato dei farmaci taroccati è cresciuto del 400% dal 2005 ed inoltre sono più di 100.000 ogni anno i decessi causati dai questi farmaci. Sempre secondo questa inchiesta, il 62% dei farmaci venduti on line è contraffatto, il 95,6% delle farmacie on line è illegale, nel 94% dei siti web l’identità del farmacista non è verificabile ed oltre il 90% delle farmacie on line vende senza ricetta medicinali soggetti invece a prescrizione. In Europa almeno una persona su 5 ha già acquistato farmaci on line e gli Stati europei dove il commercio di farmaci in rete è più fiorente sono Germania ed Italia. Secondo un’altra indagine dell’AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco), la disinformazione su questo argomento, nel nostro Paese, è pressoché totale. Il 40% della popolazione, ad esempio, non sa che la vendita di farmaci on line è illegale e pensa che si possano vendere liberamente i farmaci, che non necessitano di prescrizione, il 41% non sa nulla dell’argomento e solo uno sparuto 19% è consapevole dell’illegalità di questo commercio. Inoltre il 33% degli italiani pensa che l’acquisto dei farmaci in rete sia un fatto positivo e vantaggioso. Il fenomeno dell’acquisto on line dei farmaci è particolarmente preoccupante, quando gli acquirenti sono dei minori, che spesso acquistano farmaci anoressizzanti o dopanti, in totale anonimato e senza alcuna prescrizione. In generale, l’acquisto di farmaci on line espone a gravi pericoli. I farmaci contraffatti possono essere suddivisi in 4 categorie: prodotti che contengono gli stessi principi attivi (ottenuti legalmente o illegalmente) dei farmaci originali e gli stessi eccipienti, nella giusta quantità; prodotti, che contengono le stesse componenti, ma non nella giusta quantità; prodotti, che contengono principi non attivi o altre sostanze in sé non nocive; prodotti, che non presentano gli stessi principi attivi dei farmaci originali o che contengono addirittura sostanze nocive. Inoltre i farmaci venduti on line possono risultare pericolosi per difetti del confezionamento o per una cattiva conservazione durante il loro immagazzinamento o trasporto.
Secondo l’OMS, il 7% di tutti i farmaci venduti al mondo è contraffatto, con punte del 30% in Brasile e del 60% in alcuni Stati africani. Il valore di questo commercio è stimato intorno ai 10 miliardi di euro. Gli antibiotici sono la categoria di farmaci più contraffatta, rappresentando circa il 45% del totale di questi farmaci, ma ci sono anche i falsi contraccettivi, i falsi antimalarici ed i falsi vaccini. In Europa ed in Nord America il fenomeno della vendita dei farmaci contraffatti è in forte aumento. In questo caso, i farmaci più venduti sono quelli «life-style», come Viagra, Cialis, Levitra, ma anche gli antidepressivi ed i farmaci per le patologie cardiovascolari e respiratorie.

Rosanna Novara Topino

Alla ricerca della pillola magica

Si definiscono farmaci inutili, per i quali non è dimostrata l’efficacia, oppure che sono efficaci per la cura di una determinata patologia, ma vengono spesso prescritti per altre indicazioni. Sostanzialmente possono essere ritenuti inutili tutti quei farmaci, per cui non esiste un rapporto beneficio-rischio favorevole.
Possiamo classificare i farmaci inutili in 3 categorie.
1) La prima è quella dei farmaci, per cui non esistono evidenze scientifiche circa la loro reale capacità di migliorare la qualità della vita, o la sua durata, o di diminuire i sintomi patologici. Tra questi abbiamo una pletora di farmaci di uso comune, tra cui  epatoprotettori, vasodilatatori, ricostituenti, immunomodulanti, farmaci per aiutare la memoria, farmaci anti-invecchiamento, integratori alimentari. Spesso chi fa ricorso a questi farmaci, cerca di risolvere in tal modo dei problemi, che nulla hanno a che vedere con una patologia. Basta pensare all’inutilità dei farmaci per la memoria consigliati per migliorare il rendimento scolastico, quando è chiaro che le cause di un cattivo risultato scolastico non sono certo risolvibili con un farmaco (specialmente quando tra le cause vi sono la carenza d’affetto, la disattenzione dei genitori o l’incapacità di certi insegnanti).
2) Alla seconda categoria appartengono i farmaci utilizzati per contrastare le cattive abitudini di vita. Ad esempio, i fumatori fanno spesso uso di farmaci per contrastare mal di gola , tosse, catarro, bronchite, quando è evidente che l’irritazione delle vie respiratorie è causata, in questo caso, dal fumo di tabacco e quindi basterebbe smettere di fumare. A questa categoria appartengono anche i farmaci contro l’obesità, di cui molte persone potrebbero fare tranquillamente a meno con una dieta appropriata ed una maggiore attività motoria.
3) Alla terza categoria appartengono i farmaci utilizzati in modo improprio. Tutti i farmaci hanno infatti precise indicazioni terapeutiche stabilite sulla base di sperimentazioni e regolate dalle autorità di controllo. Pertanto, il loro utilizzo per altre patologie non è opportuno, come nel caso degli antiulcerosi, spesso utilizzati per migliorare la digestione, o contro l’acidità di stomaco o per contrastare l’effetto di altri farmaci. Anche gli ansiolitici come le benzodiazepine e gli antidepressivi possono rientrare in questa categoria, perché spesso prescritti in modo del tutto inappropriato, per tenere tranquilli anziani. Tra l’altro sempre più spesso si fa ricorso a farmaci psicotropi, per tenere a bada i bambini un po’ agitati, senza cercare di approfondire il motivo dei loro disturbi comportamentali. Infine si possono ascrivere a questa categoria gli antibiotici, utilizzati impropriamente nel corso di patologie di origine virale, come l’influenza, quando è certo che tali farmaci non hanno alcuna efficacia contro i virus.
Purtroppo, complici le multinazionali dei farmaci con l’enorme mole di pubblicità per i loro prodotti, la nostra sta diventando una società medicalizzata e farmacocentrica, in cui milioni di persone pensano che esista una pillola magica per tutti i loro problemi e non si rendono conto, in tal modo, di esporsi ad inutili rischi legati ad un esagerato consumo di farmaci.

Rosanna Novara Topino

Rosanna Novara Topino




Non c’è solo il Pil

Il Pil è un indice inadeguato del benessere di un paese. Per questo altri
misuratori (spesso proposti dalla società civile) si fanno strada.

Non se ne parla molto, ma autorevoli istituzioni come la Commissione europea, l’Ocse, l’Istat e altrettanto autorevoli economisti, capeggiati da tre Premi Nobel (Amartya Sen, Jean Paul Fitoussi e Joseph Stiglitz)  riconoscono che il Pil (Prodotto interno lordo) è un indice insufficiente per rendere conto dello stato economico e sociale di un paese.
La semplice misura della produzione di beni e servizi non considera, infatti, fattori che sono cruciali per il progresso di una nazione: il livello di istruzione, lo stato di salute, l’accesso alle conoscenze informatiche, l’apporto delle donne, la valorizzazione del patrimonio ambientale, la distribuzione della ricchezza.

Non che il tema sia recente, basti ricordare che già nel 1968 Robert Kennedy  pronunciava un memorabile discorso in cui affermava che «Il Pil misura tutto eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta». Negli anni Novanta, ad andare oltre il Pil, ci ha provato l’Undp, il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo, con il suo Indice di Sviluppo Umano (Hdi): non solo reddito pro capite, ma aspettativa di vita e indice di istruzione. I Rapporti annuali dell’Undp hanno finalmente chiarito che lo sviluppo non coincide con la crescita economica, ma riguarda altri aspetti della vita umana:  la convivenza pacifica, l’accesso ai beni e ai servizi, la partecipazione democratica, l’equità nelle opportunità.
L’Undp per primo ha lanciato l’allarme sull’aumento della disuguaglianza che accompagna la crescita economica senza regole e la globalizzazione senza diritti, chiedendo agli stati di non preoccuparsi solo dell’incremento della ricchezza ma anche della sua distribuzione; e ancora, grazie all’Undp è, per così dire, tornato di moda l’indice Gini che misura la concentrazione della ricchezza e che ha preso il nome del suo ideatore Corrado Gini, un giurista con il pallino della statistica che 1927 fondò in Italia l’Istat.

Anche la comunità non governativa ha detto la sua sull’argomento, il Social Watch, una rete di oltre 200 Ong di 50 nazioni dal 1996 pubblica un Rapporto annuale in cui classifica i paesi in base a due indici: il Gei  e il Bci. Il Gei, (Gender Equity Index), misura quanto le donne vengono istruite, quando sono rappresentate nelle istituzioni pubbliche e quanto partecipano alle attività economiche; il Bci (Basic Capability Index), indice di capacità di base definisce la povertà non solo in termini di reddito, ma considera altri fattori come la percentuale di bambini che riceve un’istruzione elementare, la sopravvivenza fino a 5 anni di età, il numero di nascite assistite da personale qualificato.
Sempre la società civile ha messo a punto gli indici ambientali: come l’impronta ecologica o l’Esi (Enviromental Sustainability Index) che misura la sostenibilità di un’economia in base alla sua capacità di risparmiare risorse energetiche e idriche, riciclare i rifiuti e salvaguardare la biodiversità.
In Italia, un gruppo di ricercatori legati alla campagna Sbilanciamoci da una decina d’anni utilizza il Quars, l’indicatore sintetico della qualità regionale dello sviluppo che mostra come le regioni più sviluppate non sono necessariamente le più ricche se – per contro – hanno un tasso di inquinamento elevato e i loro cittadini si ammalano più degli altri.
Nell’agosto del 2009, la Commissione europea ha diramato una Comunicazione intitolata «Non solo Pil,  misurare il progresso in un mondo in cambiamento» con la quale ha messo in guardia i paesi membri dall’utilizzo del Pil come unico indicatore: «Esistono validi motivi, dice la comunicazione, per completare il Pil con statistiche che riprendano gli altri aspetti economici, sociali e ambientali dai quali dipende fortemente il benessere dei cittadini», per questo entro il 2013 i paesi membri dell’Unione dovranno presentare una contabilità economico-ambientale.
Il clima di ripensamento del modello economico, seguito alla crisi del settembre 2008, ha favorito il dibattito e l’attenzione del mondo politico ed economico su questo tema, basti pensare che all’impegno profuso dal presidente francese Sarkozy che ha promosso e finanziato il gruppo degli economisti guidato da Stiglitz.
Oggi siamo in una fase di normalizzazione: i governi pensano alle elezioni e gli economisti abbandonano il terreno faticoso dell’innovazione. Il processo per andare oltre il Pil rischia di interrompersi. Per fortuna, c’è chi non si da per vinto e continua a ricercare, esplorare, proporre.
Come il presidente dell’Istat Enrico Giovannini che ha il pallino dei nuovi indicatori e ne sfoa in continuazione, aiutandoci a capire cosa succede davvero nel nostro paese sotto il profilo del  benessere reale, delle opportunità,   della   condizione
giovanile.

Sabina Siniscalchi




Vivere per Cristo e per lui morire

Un altro martire cristiano in un paese senza pace

Shahbaz Bhatti, 42 anni, era il ministro per le minoranze religiose in Pakistan, cattolico e unico non musulmano nel governo. È stato assassinato dai talebani a Islamabad, il 2 marzo 2011, colpito da 25 proiettili.
Chi era
Shahbaz Bhatti, il ministro ucciso dai talebani pakistani, nacque il 9 settembre 1968, in una famiglia cristiana originaria del villaggio cattolico di Kushpur, un villaggio fondato dai frati Domenicani in cui «Bhatti ricevette una formazione spirituale molto solida». Nel villaggio la convivenza con i fedeli musulmani (che lì sono in minoranza) è ancora «in perfetta armonia, all’insegna del dialogo di vita, e quell’esempio Bhatti lo portò con sé come modello in tutta la sua esperienza di impegno sociale e politico» – come ricordò l’Arcivescovo di Islamabad, Mons. Anthony Rufin, durante il suo funerale.
Suo padre Jacob, servì a lungo nell’esercito, poi si impegnò nel campo dell’istruzione, insegnando per molti anni, e fu presidente del consiglio delle Chiese di Kushpur. Nell’autunno del 2010 fu ospitalizzato a Islamabad, dove peggiorò dopo la notizia dell’assassinio del governatore del Punjab, Salman Taseer, il 4 gennaio 2011; morì il 10 dello stesso mese. L’importanza di Jacob Bhatti nella vita del figlio è stata grande. Una testimonianza apparsa sui giornali pakistani al momento della morte lo descriveva così: «Era un uomo coraggioso ed era la principale fonte di forza per suo figlio. Lo incoraggiava e lo aiutava a affrontare le situazioni più rischiose e precarie».
Shahbaz Bhatti dopo aver completato i suoi studi intraprese la carriera politica nel Pakistan People’s Party, il partito più riformatore del Paese. Molto rapidamente si impose all’attenzione dei quadri dirigenti del partito, e in particolare di Benazir Bhutto, con cui lavorò a stretto contatto fino al momento dell’assassinio della leader carismatica pakistana. Shahbaz era sul convoglio insieme alla Bhutto al momento dell’attentato e riportò solo ferite leggere.
Bhatti ebbe sempre un’attenzione particolare per la situazione dei gruppi più discriminati del Paese. Era presidente dell’Apma (All Pakistan Minorities Alliance), un’organizzazione rappresentativa delle comunità emarginate e delle minoranze religiose (non musulmane) del Pakistan, che tuttora opera su vari fronti in sostegno dei bisognosi, dei poveri, dei perseguitati. Del motivo del suo impegno egli diceva semplicemente: «Voglio solo un posto ai piedi di Gesù. Voglio che la mia vita, il mio carattere, le mie azioni parlino per me e dicano che sto seguendo Gesù Cristo».

(adattato da AsiaNews)

Il suo «testamento»
«Il mio nome è Shahbaz Bhatti. Sono nato in una famiglia cattolica. Mio padre, insegnante in pensione, e mia madre, casalinga, mi hanno educato secondo i valori cristiani e gli insegnamenti della Bibbia, che hanno influenzato la mia infanzia. Fin da bambino ero solito andare in chiesa e trovare profonda ispirazione negli insegnamenti, nel sacrificio, e nella crocifissione di Gesù. Fu l’amore di Gesù che mi indusse ad offrire i miei servizi alla Chiesa. Le spaventose condizioni in cui versavano i cristiani del Pakistan mi sconvolsero. Ricordo un Venerdì Santo quando avevo solo tredici anni: ascoltai un sermone sul sacrificio di Gesù per la nostra redenzione e per la salvezza del mondo. E pensai di corrispondere a quel suo amore donando amore ai nostri fratelli e sorelle, ponendomi al servizio dei cristiani, specialmente dei poveri, dei bisognosi e dei perseguitati che vivono in questo paese islamico.
Mi è stato richiesto di porre fine alla mia battaglia, ma io ho sempre rifiutato, persino a rischio della mia stessa vita. La mia risposta è sempre stata la stessa. Non voglio popolarità, non voglio posizioni di potere. Voglio solo un posto ai piedi di Gesù. Voglio che la mia vita, il mio carattere, le mie azioni parlino per me e dicano che sto seguendo Gesù Cristo. Tale desiderio è così forte in me che mi considererei privilegiato qualora — in questo mio battagliero sforzo di aiutare i bisognosi, i poveri, i cristiani perseguitati del Pakistan — Gesù volesse accettare il sacrificio della mia vita. Voglio vivere per Cristo e per Lui voglio morire. Non provo alcuna paura in questo Paese. Molte volte gli estremisti hanno desiderato uccidermi, imprigionarmi; mi hanno minacciato, perseguitato e hanno terrorizzato la mia famiglia. Io dico che, fino al mio ultimo respiro, continuerò a servire Gesù e questa povera, sofferente umanità, i cristiani, i bisognosi, i poveri. Credo che i cristiani del mondo, che hanno teso la mano ai musulmani colpiti dalla tragedia del terremoto del 2005, abbiano costruito dei ponti di solidarietà, d’amore, di comprensione, di cooperazione e di tolleranza tra le due religioni. Se tali sforzi continueranno sono convinto che riusciremo a vincere i cuori e le menti degli estremisti. Ciò produrrà un cambiamento in positivo: le genti non si odieranno, non uccideranno nel nome della religione, ma si ameranno le une le altre, porteranno armonia, coltiveranno la pace e la comprensione in questa regione. Credo che i bisognosi, i poveri, gli orfani, qualunque sia la loro religione, vadano considerati innanzitutto come esseri umani. Penso che quelle persone siano parte del mio corpo in Cristo, che siano la parte perseguitata e bisognosa del corpo di Cristo. Se noi portiamo a termine questa missione, allora ci saremo guadagnati un posto ai piedi di Gesù ed io potrò guardarlo senza provare vergogna».

(da www.consolata.org)
A cura di Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




Caleidoscopio africano

Uno sguardo sugli abitanti del corno d’Africa

Il Coo d’Africa è popolato da 73 milioni di abitanti che parlano 188 idiomi diversi e sono raggruppati in 4 famiglie linguistiche: un mosaico affascinante per la diversità di usi, costumi e culture, testimonianze di una ricchezza umana inestimabile e di una civiltà antica ricca e raffinata, come quella aksumita.

Viaggio tra le popolazioni del Coo
Tra gli storici, inviati e giornalisti noi preferiamo l’uomo all’antica, che si avvicina all’Africa con timore reverenziale. Ci scontriamo con il giornalista che percorre l’Africa sorvolandola in aeroplano o osservandola da una vettura lanciata ad alta velocità, per poi pubblicare affrettate impressioni per altrettanto superficiali lettori: noi stiamo con chi predilige viaggiare da solo, a dorso di mulo o meglio a piedi, inoltrandosi in sentirneri non riportati dalle carte, scalando picchi arditi, affrontando le paludi, trascorrendo lungo tempo a contatto con le popolazioni per studiae i comportamenti, la storia, gli usi e i costumi. Diamo la nostra stima a chi cerca di leggere profondamente negli uomini e nella natura, a chi mette per iscritto ciò che ha elaborato, solleticato nel suo inconscio da stimoli veri, onesti, reali.
Solo così il visitatore del Coo potrà cogliere e poi riferire la vera realtà di ciò che rappresenta ancora oggi quella parte d’Africa nelle sue peculiari varietà climatiche, geografiche ed etnografiche. In particolare, solo così il nostro uomo riuscirà a farsi un’idea esatta dei rapporti interumani che esistono fra le numerose etnie che popolano quei luoghi e sarà in grado di distinguere la popolazione abissina, dominante, fra tutte le altre che non sono mai riuscite ad emergere; avrà la capacità di comprendere i tanti aspetti della religiosità professata nel Coo, tanto singolare quanto può esserlo un credo che si è espanso in un territorio vasto tre volte l’Italia, dove la tolleranza religiosa è un fatto reale che può destare solo tanta meraviglia.
È un mondo molto distante da quello europeo, fortunatamente e, almeno per ora, volutamente mantenuto ancorato alle proprie tradizioni. Unico neo, ma immenso, è la guerra, da ritenersi ormai endemica, che purtroppo colpisce la natura e le popolazioni e assorbe linfa vitale dai magri bilanci statali anche nei brevi periodi di tregua.
Il nostro ideale e solitario viaggiatore dovrà necessariamente avere un’unica preoccupazione: evitare le zone minate che interessano vaste aree del Coo. Non esistono mappe indicative, non esistono cartelli di segnalazione; è indispensabile chiedere lumi agli abitanti, che conoscono bene le zone anche perché ciascuno di loro, disgraziatamente, vi ha avuto un familiare ferito o ucciso. Se saprà comportarsi correttamente, lo straniero troverà, nelle genti del Coo, ospitalità e tutto quell’aiuto che può servire a un viandante, indipendentemente dal colore della pelle o dalla sua nazionalità.
Chi sono gli abitanti dell’Acrocoro, o meglio, chi vive nel Coo? Non si può parlare delle popolazioni che occupano l’Acrocoro senza ricordare quelle che vivono nel medio e bassopiano. Ci vuole un po’ di pazienza perché l’elenco è lungo e la superficie del Coo è tanto vasta.
quattro classi linguistiche
Si sostiene che solo in Etiopia vivono 178 popolazioni diverse: differenti per colore, lingua e costumi; in tutto raggiungono 60 milioni di individui; in Eritrea, abitata da 3 milioni di persone, ci sono 8 etnie ben distinte fra loro, alle quali vanno aggiunti i rashaida, che non sono autoctoni ma beduini arabi stabilitisi sulla costa eritrea nel 1869 con la migrazione di alcune centinaia di individui; la Somalia è popolata da 10 milioni di somali e da alcune centinaia di migliaia di bantu, presenti nel Giuba e nel basso Scebeli, introdotti nel Coo nel XIX secolo come schiavi dall’Africa centrale; 4 milioni di somali poi abitano l’Ogaden etiopico, il meridione della Repubblica di Gibuti, alcune zone della Dancalia etiopica e del Kenya orientale, territori che confinano tutti con l’Etiopia.
In conclusione il Coo è popolato da circa 73 milioni di abitanti che parlano 188 lingue diverse.
Ma non è finita! All’interno di ognuna di queste popolazioni, infatti, si possono trovare differenze di colore: gli afar, ad esempio, abitano la Dancalia e l’arcipelago delle Dahlac e si dividono, secondo una loro classificazione, in adomarà, assamarà e tatamarà, cioè uomini bianchi, uomini rossi e uomini neri, caratteristica derivante probabilmente dai diversi periodi nei quali si sono mescolate popolazioni negre locali con immigrazioni camitiche e poi semitiche.
Va ricordato che con il termine «semita» (da Sem, figlio di Noè) vengono indicate genti diverse, ma discendenti da antenati linguistici comuni. Il dibattito sull’esatto significato di «semita» è ancora aperto ma vi è un largo consenso nell’accettare che, da un punto di vista linguistico, il termine si riferisce oggi ad ebrei, arabi e alle genti che parlano le lingue tigrina, amarica e aramaica. La forma negativa del termine antisemita è invece usata nell’accezione di «anti-ebreo».
Il termine «camita» proviene da Cam, altro figlio di Noè. Cam, fra i suoi tanti figli, ebbe anche Cus e Put, dalla pelle di colore scuro; da loro deriverebbe anche il termine «cuscita», che in gergo significa «camita orientale».
L’Acrocoro è abitato in parte da individui di caagione molto chiara e da altri il cui colore della pelle è molto scuro. Tali variazioni possono ritrovarsi anche nello stesso ambito familiare. I tratti somatici degli individui possono variare drasticamente per la continua mescolanza delle genti, ma mentre è facile riconoscere l’eritreo, che presenta in genere un bel viso dai tratti marcati, o il somalo che ostenta invece lineamenti molto più dolci, non sempre è agevole distinguere un amara da un oromo o da un guraghe. E spesso non sono d’aiuto neppure gli usi e i costumi, perché esistono degli amara mussulmani e degli oromo cristiani.
In generale il Coo è quindi caratterizzato dalla eterogeneità delle sue genti, ma non è nostro compito elencare le caratteristiche fisiche o culturali delle varie popolazioni. Ci limiteremo ad elencare la loro classificazione e indicare i territori che attualmente occupano. Gli studiosi suddividono le popolazioni del Coo su base linguistica in quanto questo è l’unico criterio oggettivo per raggruppare tanti popoli con idiomi e costumi differenti (vedi riquadro pag. 64).
Tigrè o Tigrai?
Sidamo o Sidama?
Prima di procedere è necessario chiarire alcune incertezze che si riscontrano sui nomi delle popolazioni, anche da parte di eminenti studiosi.
Gli amara rappresentano la popolazione dominante dell’Acrocoro e abitano il cuore dell’Etiopia. Di statura alta, hanno in genere la pelle abbastanza chiara e lineamenti simili a quelli europei. I loro sorrisi sono belli e mostrano dentature bianche e perfette. Fieri della loro genealogia, hanno sempre un portamento altezzoso e trattano ancora oggi con sufficienza tutte le altre popolazioni.
Amara furono la maggior parte dei re e imperatori dell’Etiopia. Erano eccellenti guerrieri e spesso organizzavano spedizioni militari nel basso Omo e nella  regione dei laghi della Rift Walley con l’unico scopo di razziare bestiame e catturare i giovani migliori per fae degli schiavi.
Nelle loro passate conquiste, hanno spesso modificato i nomi delle popolazioni sottomesse, sostituendoli con termini dal significato dispregiativo, o addirittura con un nome che indicava  lo stato di schiavitù. Ad esempio, la provincia più settentrionale dell’Etiopia, che oggi fa parte della Federazione Etiopica, si chiama Tigrai. Molti studiosi continuano a chiamarla Tigrè (che è il nome con cui gli amara chiamano i tigrini) non sapendo che tigrè in amarico significa «sotto il mio piede», cioè «servo». Tigrè è anche il nome di una popolazione dell’Eritrea settentrionale, nella cui struttura sociale i tigrè (servi) sono governati da un’aristocrazia di capi detti sciumaghillè (anziani).
Un altro esempio ce lo foiscono i nara dell’Eritrea che sono meglio noti come baria, un antico termine aksumita che significa schiavo.
I somali poi, chiamavano gli oromo galo, che in senso dispregiativo vuole dire non mussulmano. Nell’antica lingua gheez il termine galla significa «schiavo» e gli amara hanno approfittato di questa somiglianza per chiamare galla gli oromo.
Gli uolaita sono stati chiamati uolamo, che deriva da uoi lam, la cui traduzione letterale è «oh! una mucca». Un ulteriore esempio di questo sarcasmo lo si ritrova nella provincia del Beghemedìr, regione di Gondar: Beghemedìr significa «terra di pecore». Dai beni-shangùl della regione di Asossa, vicino al confine sudanese, gli amara hanno derivato il nome scianchilla, o sciangalla, col significato di «negro», e lo hanno assegnato ai gumùz, abitanti lungo il confine sudanese e nel Uollega occidentale.
L’usanza di sbeffeggiare i vinti, indicandoli con nomi offensivi, era diffusa anche fra altre popolazioni del Coo. Gli oromo hanno chiamato giangerò, «scimmione», gli iama che abitano la valle dell’Omo, mentre gli agnuaa di Gambella sono chiamati iambo, «schiavo».
I caffini chiamano surma, «negro», le tribù ciai, tirma, zilmamo e altre nei dintorni di Maji.
A tal proposito una menzione  particolare merita il nome sidama. In lingua oromo (seconda lingua etiopica dopo l’amarico) sidama significa «straniero», termine riservato dagli oromo agli amara confinanti, con i quali spesso combattevano ferocemente.
I viaggiatori europei del XIX secolo, dopo aver attraversato le terre degli oromo, giunsero nel Caffa, all’altezza del medio corso dell’Omo, e constatarono che queste popolazioni non oromo erano chiamate sidama, e con tale nome continuarono a chiamarle. Oggi queste popolazioni sidama sono comprese nel gruppo omotico (vedi riquadro). Va precisato che una popolazione del gruppo cuscitico di nome sidamo, che abitava un tempo tutto l’altipiano del Bale, è stata spinta dagli oromo verso ovest e oggi abita una piccola regione a sud del lago Auassa.
Per complicare la confusione dei nomi, l’Amministrazione etiopica chiama sidama i sidamo, mentre chiama Sidamo tutta la provincia compresa fra i laghi della Rift Valley a ovest, e il corso del Ghennale (poi Giuba) a est, regione abitata prevalentemente da oromo.
Per ultimo citiamo gli abitanti di Harar, che molti continuano a chiamare aderè: chiamare gli abitanti di Harar aderè, anziché harari, è come chiamare galla un oromo, cioè è un insulto.
Dopo la conquista di Harar (1887), Menelik assegnò al cugino Maconnèn il governatorato di Harar e chiamò aderè, che significa «protetti», gli abitanti di Harar, che erano i discendenti di un’antica colonia aksumita e parlavano l’harari, una lingua derivata dal gheez. Oggi gli abitanti di Harar vogliono essere chiamati harari.
Come si sono formate
le popolazioni del Coo?
È interessante vedere come si sono formate queste popolazioni, che indicheremo complessivamente col nome biblico di «etiopici», ad eccezione dei rashaida che, come abbiamo detto, sono arabi, e dei bantu della Somalia, che sono i discendenti degli schiavi negri razziati dagli arabi nell’Africa equatoriale.
Sembra che la prima migrazione di popolazioni verso l’Africa si sia verificata alcune decine di migliaia di anni fa: genti negre si sono spostate dall’Asia all’Africa attraverso l’istmo di Suez; tale migrazione si è svolta molto lentamente, durando secoli se non addirittura millenni.
Queste popolazioni si diressero verso sud lungo il Nilo, costeggiarono a occidente il massiccio etiopico e si sparsero nell’Africa centro-meridionale dando origine al gruppo bantu. La retroguardia di questa migrazione si stabilì più a nord, nel Sahara centrale, insediandosi in parte anche sull’altipiano etiopico e dando origine ai nilo-sahariani: masai, nuba, dinka, scilluk, nara, cunama, gumùz e altre popolazioni oggi stanziate nell’ovest dell’Etiopia e in Kenya.
Successivamente si ebbe, a diverse ondate, sempre dall’Asia, una migrazione di genti dalla pelle più chiara, i camiti, che si divise in due rami: camiti settentrionali (berberi, egizi), e camiti orientali, detti anche cusciti, da Cush, nome biblico dell’Etiopia; parte di questi ultimi occupò l’altipiano etiopico: gli agau (pronuncia agò) a nord del Nilo Azzurro, i sidama a sud, oggi facenti parte del gruppo omotico; un’altra parte si stanziò a oriente del massiccio, lungo le coste del Mar Rosso e del Golfo di Aden, dando origine agli afar, agli oromo e ai somali.
La coda dei cusciti si fermò nel Sudan orientale, dando origine ai begia e ai beni-amer. Il colorito della pelle, oggi tendente al nero, indica che dopo il loro insediamento nell’Acrocoro ci furono ibridazioni con popolazioni negre.
Nel 1° millennio a.C. si ebbe una migrazione di popolazioni sudarabe, di pelle chiara, che avevano raggiunto un grado di civiltà elevatissimo, con un’agricoltura molto sviluppata, eserciti potenti, corti fastose e un sistema di scrittura. I minei e i sabei attraversarono il Mar Rosso, si attestarono sull’Acrocoro e fondarono, su un substrato di genti agau, il regno di Aksum. I sudarabi sono stati, nel corso dei secoli, assorbiti etnicamente dagli agau di pelle più scura; ma imposero la loro superiore cultura, dando vita al gruppo di popolazioni semitiche. Anche in questo caso la colorazione molto scura della pelle indica una mescolanza con popolazioni negre preesistenti, la frangia orientale dei nilo-sahariani.
Una successiva influenza araba si esercitò dopo l’avvento dell’islam, e interessò non solo la costa del Coo, ma gran parte dell’Africa, soprattutto sotto l’aspetto linguistico e religioso.
assetto geografico attuale
L’attuale assetto geografico delle popolazioni del Coo, dopo le importanti migrazioni che stabilirono gli insediamenti originari, ebbe inizio con l’espansione del regno di Aksum, che arrivò ad estendersi dalla Nubia fino ai confini della Somalia.
Nel VII secolo, dopo la conquista araba dell’Egitto, venuti a mancare i traffici importanti fra Egitto e Oriente, Aksum decadde rapidamente; tentò di risollevarsi, ma nel X secolo, quando era quasi ritornato all’apice della sua potenza, fu distrutto dalle orde sanguinarie di Essato, o Gudit, una regina agau che portò morte e distruzione nel regno e uccise 400 principi aksumiti, relegati, secondo un’antica tradizione, sull’amba di Debra Damo.
Le popolazioni minori del gruppo semitico, gli argobba, gli harari e i guraghe (originari dalla regione di Gura in Eritrea) sono discendenti di antiche colonie militari aksumite. Dalle distruzioni di Essato si salvò un solo principe, che si rifugiò nel sud del paese e diede origine alla stirpe degli amara, che ebbero il loro natale nell’alta valle del Bascillò nell’Uollo.
I somali vengono alla storia per la prima volta a partire dal 1536, quando Ahmed Gragn, sultano di Harar, invase l’Etiopia con un esercito di dancali e di somali, distrusse chiese e monasteri, bruciò tutti i testi antichi e depredò l’Etiopia di tutti i suoi tesori. I somali, una piccola tribù dislocata fra Harar e Giggiga, si espansero successivamente verso est e verso sud, scacciando dalla Somalia gli abitanti negri e oromo ed arrivarono, come si è già detto, fino al Kenya orientale. Sono quindi un’unica popolazione con un’unica lingua e molti dialetti.
Gli oromo, che stanziavano nella Somalia orientale e nell’Etiopia meridionale, spinti dalla pressione somala, si diressero a est nel Kenya orientale e a nord in Etiopia, dove si sparsero in gran parte del paese. Dialetti diversi oromo sono parlati nel Uollo, negli Arussi, nel Caffa, nello Scioa, nel Tigrai meridionale.

Alberto Vascon  e Nicky Di Paolo

Alberto Vascon e Nicky Di Paolo




Rischio o ricchezza?

Dialogo tra le religioni

«Siamo nell’era della globalizzazione. Le religioni e i credenti non possono più ignorarsi a vicenda. L’attualità dimostra ogni giorno quanto peso abbiano i rischi dei conflitti religiosi. Per evitarli, per liberarci dei nostri pregiudizi, è assolutamente necessario dialogare» (rabbino Rivon Krygier).

In un’intervista pubblicata sul settimanale cattolico «Paris Notre-Dame», il rabbino Rivon Krygier, responsabile della comunità Adath Shalom (Assemblea della Pace), ha chiaramente indicato l’importanza e la necessità del dialogo tra le religioni: «Siamo nell’era della globalizzazione. Le religioni e i credenti non possono più ignorarsi a vicenda. L’attualità dimostra ogni giorno quanto peso abbiano i rischi dei conflitti religiosi. Per evitarli, per liberarci dei nostri pregiudizi, è assolutamente necessario dialogare. Credo inoltre – ha continuato – che tutti noi siamo consapevoli che esiste una certa relatività della verità. Non si tratta d’indifferentismo o di relativismo. Diciamo semplicemente che in ogni religione esistono autentici valori spirituali e che possiamo arricchirci con la spiritualità dell’altro proprio grazie al dialogo. La spiritualità degli altri credenti ci aiuta a comprendere la nostra religione e a costruire insieme quella frateità universale insita nel progetto stesso delle nostre rispettive religioni».
Oggi le librerie traboccano di libri e riviste sulle religioni, tanto da indurci a parlare di rivincita del sacro. Anzi, si può dire che non si può comprendere il mondo senza le religioni. Le religioni però fanno anche paura, perché vengono percepite come un pericolo. È il paradosso che stiamo vivendo. Fondamentalismo, fanatismo, terrorismo sono spesso associati a una forma pervertita di islam e ora anche di induismo, come dimostra l’uccisione di cristiani nell’Orissa, uno Stato dell’India. Naturalmente non si tratta del vero islam o del vero induismo praticato dalla maggioranza dei suoi seguaci. Le religioni – lo sappiamo bene dalla storia – sono capaci di bene o di male. Possono predicare la pace o la guerra. Va comunque precisato che non sono le religioni e il loro messaggio che provocano e scatenano la violenza o la guerra, bensì i loro seguaci e la cattiva interpretazione che essi danno del messaggio originale contenuto nelle religioni.
cristiani:
dialoganti per natura
Nel dialogo tra le religioni i cristiani, per la natura stessa del messaggio evangelico, sono direttamente implicati. Il nostro Dio è infatti un Dio che dialoga con le tre persone della Trinità e dialoga con gli uomini mediante la venuta tra noi di suo figlio, Cristo Gesù, fatto uomo come noi e per noi. Pietro negli Atti ricorda che «Dio non fa eccezioni di persone e che ogni nazione che lo teme e pratichi la giustizia trova accoglienza presso di Lui» (10, 35). Gli fa eco il Concilio Vaticano II nel preambolo del decreto Nostra Aetate: «Gli uomini attendono dalle varie religioni la risposta agli enigmi nascosti della condizione umana, che ieri, come oggi, turbano profondamente il cuore umano».
I cristiani perciò non possono disinteressarsi degli altri credenti, di qualsiasi religione essi siano. Per i cristiani il dialogo si fonda su un Dio trino e unico, rivelato agli uomini come un Dio che dialoga con la Trinità e con gli uomini. Ogni cristiano è perciò invitato a imitare questo dialogo di comunione e di amore. Paolo lo ricorda bene nella prima lettera a Timoteo: «Dio vuole che tutti gli uomini siano salvi e giungano alla conoscenza della verità». A questo scopo egli ha inviato il Figlio unigenito Gesù come «l’unico mediatore tra Dio e gli uomini» (2, 4-5). Ecco perché Gesù occupa un posto unico nella storia religiosa. Egli è più di un saggio, è più di un profeta. Nella sua stessa persona egli è «vero Dio e vero uomo». È unico poiché è il Figlio di Dio e perché è vissuto in un luogo e in un’epoca specifica, condividendo la nostra condizione umana.
COME VIVERE IL DIALOGO?
Se il dialogo interreligioso fa parte del messaggio di Gesù e della fede del cristiano, che cosa si deve fare per viverlo giorno per giorno? Vi è dialogo quando persone o gruppi di persone in disaccordo fra loro su un determinato argomento che ritengono essenziale tentano di dirimerlo con dimostrazioni, prove e ragioni, invece di usare la violenza, la derisione, lo scherno e il disprezzo.
Il dialogo religioso consiste allora nel promuovere tutte le possibili relazioni positive con persone e comunità «allo scopo – come spiega Dialogo e annuncio, documento pubblicato il 19.10.1991 dal “Consiglio Pontificio per il dialogo interreligioso” – di imparare a conoscersi e ad arricchirsi vicendevolmente, pur obbedendo alla verità e rispettando la libertà di ciascuno» (n. 9). Ciò significa che il dialogo interreligioso inizia sempre dal rispetto dell’altro, della sua persona, delle sue convinzioni, della sua formazione, della sua cultura. Il dialogo vissuto in questo modo diviene anche occasione per approfondire le nostre convinzioni umane e religiose, per rivedere le nostre idee preconcette e spogliarci dei nostri pregiudizi inveterati.
DAL CUORE
La fede religiosa è vissuta soprattutto nelle profondità del proprio cuore. Ce lo insegna la Sacra Scrittura: «JHVH parla al cuore» di Israele (Os 2, 16), Gesù è «mite e umile di cuore» (Mt 11, 29), Maria «conserva nel suo cuore quanto ha visto e udito» (Lc 2, 19.51). Il cuore è una delle parole più importanti tra quelle che definiscono l’uomo biblico, immagine e somiglianza di Dio. E poiché gli uomini sono stati creati liberi di cercare Dio, essi sono liberi di sceglierlo o non sceglierlo. Lo afferma l’enciclica Redemptoris missio di Giovanni Paolo II quando «sottolinea che il dialogo interreligioso non è la conseguenza di una strategia o di un interesse, ma un’attività che ha le sue motivazioni, le sue esigenze e la sua propria dignità. Esso è richiesto dal rispetto che occorre avere verso tutto quello che lo Spirito ha operato nell’uomo». Grazie al dialogo la Chiesa intende scoprire «i semi del Verbo, le scintille di quella verità che illumina tutti gli uomini», semi e scintille che si trovano nelle persone e nelle diverse tradizioni religiose dell’umanità.
QUATTRO “DIALOGHI”
Questo dialogo si attua secondo quattro modalità. In primo luogo il «dialogo della vita», imparando a condividere le giornie e le sofferenze dell’esistenza umana con i membri di altre religioni. In secondo luogo il «dialogo delle opere», collaborando con gli altri a favore delle necessità fondamentali per la vita: cibo, pace, salute, ecc. La terza modalità di dialogo, quello «teologico», spesso riservato a specialisti, ci fa comprendere meglio la nostra eredità religiosa e ci permette di approfondire le Scritture delle altre religioni. Infine, il «dialogo tra differenti spiritualità» ci fa condividere le ricchezze che nascono dalla preghiera e dalla contemplazione di Dio.
UTOPIA?
Non è, questa, una visione semplicemente utopica, immaginaria, impossibile. Esistono uomini e nazioni che considerano il rispetto delle religioni come un valore essenziale per la pace nel mondo, per le proprie popolazioni e per tutta l’umanità. Benedetto XVI ha, per esempio, lodato l’apertura del popolo mongolo verso le altre religioni, definendolo un modello per l’intera umanità. Nel ricevere le credenziali del nuovo ambasciatore presso la Santa Sede (venerdì 29 maggio 2009), ha ricordato che l’attuale costituzione della Mongolia riconosce la libertà religiosa come «un diritto fondamentale», nonostante il regime comunista sia rimasto in carica per quasi 70 anni, fino al 1990, e la popolazione mongola di circa 3 milioni di abitanti sia per lo più composta di buddisti tibetani. Questa convivenza religiosa si può far risalire a Gengis Khan (1162-1227), il capo leggendario di tutti i mongoli, che estese il suo dominio fino a Pechino, al Tibet e al Turkestan invitando in Mongolia musulmani, cristiani e buddisti.
«Le persone che praticano la tolleranza religiosa – ha ricordato il papa – hanno il dovere di condividere la saggezza di questo principio con l’umanità intera, cosicché tutti gli uomini e tutte le donne possano percepire la bellezza della coesistenza pacifica e abbiano il coraggio di edificare una società rispettosa della dignità umana».
FRUTTI BUONI
Questa coesistenza è certo un bene per tutti gli uomini e tutte le nazioni. Alcune di esse, come quelle dell’Europa, l’hanno raggiunta dopo anni di guerre di religione o di laicismo esasperato; altre oggi sono un modello interessante di dialogo interreligioso, come per esempio la Bosnia-Erzegovina, dove, dopo un conflitto e una campagna di «pulizia etnica», convivono croati cattolici (17,3%), serbi ortodossi (13,3%) e musulmani bosniaci (49,2%). Nella sola Sarajevo, la capitale, coabitano musulmani, croati, serbi e una nutrita comunità di rom.
Gli accordi inteazionali degli anni Novanta hanno contribuito al progresso di questo paese dell’ex-Jugoslavia, introducendo nei loro ordinamenti una visione giuridica e religiosa ispirata ai principi della dignità della persona umana, che ha superato quella nazionalistica, parziale e strumentale. Segno che il dialogo è sempre possibile, anche in situazioni difficili e per alcuni aspetti ancora instabili.
Visitando la Terra Santa, la Palestina e la Turchia, il papa Benedetto XVI ha voluto incontrare i leader musulmani. Ha fatto lo stesso con gli esponenti della religione ebraica per favorire il dialogo interreligioso. Anche durante il suo ultimo viaggio in Africa (marzo 2009) ai rappresentanti musulmani del Camerun ha detto con evidente convinzione che «la ragione rifiuta ogni violenza religiosa». Egli sa che il futuro dell’umanità dipende dai nostri sforzi in questa direzione.
Qual è ora il nostro
compito?
Il cardinale Jean Louis Tauran, presidente del Pontificio Consiglio per il dialogo tra le religioni, in un suo intervento a Malta, lo ha riassunto nei seguenti tre punti. Prima di tutto avere idee chiare sul contenuto della propria religione. L’ignoranza e l’ambiguità non permettono il dialogo. Ognuno di noi deve possedere una chiara identità e conoscenza di quello di cui e su cui vuole dialogare.
In secondo luogo è importante vivere seguendo le proprie convinzioni. Si deve essere dei credenti credibili. Nel dialogo interreligioso ci viene sempre chiesto «chi è il tuo Dio e come vivi la tua fede?». Questo tipo di dialogo avviene non tra le religioni, ma sempre tra credenti. Infine, non si deve aver paura di dire la verità circa la propria fede. Facendo così, il credente è onesto verso se stesso e verso gli altri. Non si può barare per arrivare a una facile conciliazione. Nello stesso tempo il messaggio religioso non è da conservare in una scatola chiusa. Lo si deve comunicare e testimoniare con coraggio.
Dialogo è dono
Dialogare è sempre una ricchezza e una grazia, un dono che viene da Dio. Tutti siamo chiamati a collaborare in diversa maniera con coloro che si sforzano di assicurare il rispetto della dignità della persona e dei suoi diritti fondamentali. Senza dubbio esistono anche dei rischi. Uno è quello del sincretismo, ma rimane un rischio relativo, nel senso che ogni credente che dialoga è portato ad approfondire la propria fede per rendersene ragione. Una grazia è invece la convinzione di poter dialogare, così come dialoga Dio con noi. Tutte le religioni possono aiutarci a raggiungere una migliore conoscenza della nostra identità cristiana. Nel documento Dialogo e annuncio, già citato, ci viene ricordato che «la pienezza della verità ricevuta in Gesù Cristo non dà al cristiano la garanzia di aver pienamente assimilato quella verità… Attraverso il dialogo i cristiani possono essere condotti ad accettare che la comprensione della loro fede debba essere purificata» (n. 49). E questo «per essere sempre pronti – come dice Pietro nella sua prima lettera – a spiegare meglio e a rendere ragione della speranza che è in noi». Tutti siamo cercatori di Dio e tutti possiamo aiutarci vicendevolmente a conoscerlo e amarlo.

Giampietro Casiraghi

Gianpietro Casiraghi




Un’attività di rapina

Amazzonia: una diversa prospettiva (1a parte)

È comune pensare all’Amazzonia a partire da due immagini:
• la prima è quella di una natura esuberante, fatta di foreste, alberi giganteschi, animali selvaggi, grandi ricchezze minerarie, fiumi immensi, grande riserva d’acqua dolce, polmone verde della Terra;
• la seconda immagine è quella di una terra abitata da popolazioni primitive incapaci di profittare delle ricchezze che la natura offre loro e insediate in aree immense ampiamente sottoutilizzate.
Questo per noi occidentali; per gli indigeni dell’Amazzonia, Yanomami, Macuxí, Ingarikó, Patamona, Taurepang, Wapixana, Waimirí-Atroarí, Wai-Wai e altri, la foresta è il loro mondo, la loro casa, la loro terra ancestrale, la terra dei loro avi. La terra è la vita, la madre che da sempre fornisce loro tutto il necessario per vivere. è il luogo dove c’è tutto: la cacciagione, le piante, i fiumi e l’acqua, le montagne e loro stessi.
Sorvolando l’Europa si vede chiaramente come gli occidentali, cioè gli europei, hanno risolto la dicotomia predetta: praticamente non c’è più foresta; solo qua e là si possono vedere macchie di alberi spontanei che ancora resistono, ma sono sempre meno e sempre meno estese. È la soluzione che ha permesso agli europei di alimentare e di fornire di una massa enorme di beni le popolazioni locali che, nei secoli, sono cresciute talmente da doversi poi spostare in altri continenti, ove hanno esportato la loro cultura di sfruttamento delle risorse naturali fino ad annullare, in certe zone, la possibilità di sopravvivenza delle stesse.
Il nuovo eldorado
Questa cultura sta aggredendo ora anche la foresta Amazzonica; da quando essa è diventata il «Nuovo Eldorado» che richiama avidi latifondisti locali o stranieri o grandi multinazionali – che vedono la foresta amazzonica come un posto di frontiera da sfruttare sul piano economico e politico –, così come povera gente che arriva dal sertão semidesertico del Nordeste (Maranhão, Piauí, Ceará, Rio Grande do Norte, Paraíba, Peambuco, Alagoas, Sergipe, Bahia) per cercare un’alternativa alla loro miseria, per trovare oro o comunque uno spazio vergine da occupare e colonizzare per dare sostentamento a sé e alla propria famiglia.
È l’eterna situazione che si crea quando si ha un’enorme discrepanza fra le risorse naturali presenti in un territorio e la popolazione che ci vive. Così è stato dopo la scoperta dell’America e poi dell’Australia, continenti che presentavano un rapporto fra popolazione indigena e risorse naturali infimo rispetto allo stesso rapporto presente in Europa, ma così era stato anche al tempo delle migrazioni delle popolazioni indoeuropee dall’Asia verso l’Europa. Quando gli squilibri nei valori di questo rapporto sono rilevanti e del segno predetto, si crea un movimento di popolazione da dove essa è sovrabbondante verso dove è scarsa. La differenza è che oggi c’è anche la possibilità di mobilitare e trasferire ingenti capitali artificiali che permettono una rapida utilizzazione delle risorse naturali fisse.
strade e Immigrazione
La forte immigrazione dei nordestini (ma anche dei cariocas, paulistas e gauchos del Sud) nella zona amazzonica è recente e si può dire che sia stata favorita dalla costruzione, negli Anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, di strade quali la rete transamazzonica, comprendente la Belem-Brasilia, la Cuiabá-Porto Velho-Perù, la Porto Velho-Manaus-Bõa Vista-Venezuela/Guyana, la Porto Velho-Imperatriz, la Cuiabá-Santarem, la Macapá-Bõa Vista-Colombia. Lo scopo della costruzione di tali strade era d’integrare il territorio amazzonico al resto del paese, permettendo lo sfruttamento delle ingenti risorse minerarie e vegetali in esso presenti nonché, assorbendo la popolazione eccedente del Nordeste, di alleggerire le tensioni economiche e sociali presenti in quest’ultima regione.
Gran parte di esse, per mancanza di manutenzione, ora non sono più utilizzate, se non per tratti limitati, ma la loro costruzione e quella di altre strade ha aperto delle brecce nella foresta che hanno creato le premesse per l’accelerazione dello sfruttamento delle risorse naturali e dell’introduzione di coltivazioni intensive (acacia mangium, riso e soia soprattutto) e dell’allevamento del bestiame.
fazendeiros
L’occupazione delle terre amazzoniche da parte dei bianchi iniziò nella seconda metà dell’Ottocento, con l’introduzione di attività agropastorali, come strategia per garantire la sicurezza militare della regione assicurando in essa la presenza di brasiliani (contro possibili invasori da fuori). I coloni immigrati (fazendeiros) ottennero via via dai governatori dello Stato dell’Amazzonia diritti di proprietà su terre di incontestabile occupazione indigena. Le leggi statali ampliarono l’estensione del territorio destinato all’occupazione privata, riducendo a esigue fasce di terra la parte riconosciuta agli indios.
Questo avvenne in uno stato di «convivenza pacifica» tra bianchi e indios, ma costituì un’effettiva espropriazione delle terre indigene da parte dei fazendeiros. Attraverso un sistema di relazioni di dipendenza, che andavano dal rapporto padrino-compare alla cessione di donne indigene ai padroni come domestiche e di bambini per farli educare nella fazenda alla cultura e ai modi dei bianchi, i fazendeiros stabilirono un meccanismo efficace di dominio e occupazione delle terre. Con questa strategia, gli indios si ritrovarono ben presto senza terre, con le loro case comunitarie (maloca, per usare un termine di origine guaraní alquanto diffuso) e i loro campi circondati dal bestiame dei padroni.
A partire dagli anni Settanta del secolo scorso, gli agricoltori bianchi cominciarono a recintare le aree che dichiararono di loro proprietà e a registrarle nell’attesa di una regolamentazione, impedendo così agli indios anche l’accesso ai fiumi, ai laghi e alle riserve di selvaggina, e accusandoli di invadere le loro proprietà.
garimpeiros
Parallelamente si ebbe un’intensificazione delle immigrazioni di cercatori di oro e diamanti (garimpeiros). Le prime immigrazioni di garimpeiros risalgono agli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso, ma la scoperta di importanti giacimenti minerari (oro, diamanti, cassiterite, bauxite, uranio ecc.) avvenne negli anni Ottanta: la «corsa all’oro» in Amazzonia esplose alla fine di quel decennio, quando migliaia di brasiliani di altre regioni ingrossarono le fila dei garimpeiros, che arrivarono in cerca di rapidi guadagni con la complicità delle forze politiche locali e federali. Gli invasori erano in gran parte senza alternative, cosicché il processo divenne irreversibile.
attività di rapina
L’estrazione di minerali è per sua natura un’attività di rapina nei confronti dell’ambiente (prende senza dar niente in cambio se non danni) e degli indios e della loro cultura, perché rapina è anche l’appropriazione delle terre a uso privato e l’attività di supposta acculturazione (forzata) degli indigeni. Allontanati dalla loro maloca e dalla loro cultura per essere inseriti in scuole e inteati, e acquisite le regole sociali di tipo occidentale, pochi ritornano nuovamente alle maloca stesse. La maggior parte resta nelle città, lavorando per i bianchi; anzi, coloro che tornano ai villaggi indigeni lo fanno per convincere i parenti a lasciare il luogo natale per trasferirsi in città, agendo negativamente nei confronti della cultura indigena.
Indigeni espulsi dalle loro terre o richiamati dalla città con il miraggio di nuovi modelli di vita, garimpeiros che non hanno fatto fortuna e disperati dell’assetato Nordeste, attirati dalla prospettiva di trovare fecondi raccolti nell’umido clima amazzonico o dalla propaganda politica (in periodo elettorale promette lotti di terra a chi decida di stabilirsi nella regione e assicuri un voto, per poi abbandonare gli immigrati al loro destino), si riversano in città, ove non trovano né accoglienza né appoggi e spesso alla fine sono costretti a vivere sotto teloni di plastica in uno dei diversi quartieri periferici delle poche città presenti.
città, tomba delle illusioni
Gli abitanti delle città sono quadruplicati nel corso degli anni Novanta, ma le possibilità di lavoro stabile sono rimaste contenute. A parte il miraggio del «funzionariato pubblico» presso le strutture del Goveo o della Prefettura, ciò che è accessibile è una varietà di lavori temporanei, soprattutto informali, che permettono la sopravvivenza, ma non offrono garanzie di sicurezza e stabilità economica.
La situazione di precarietà può trovare una spiegazione nel difficile adattamento degli indios che arrivano in città. Essi non conoscono i meccanismi del mercato del lavoro e generalmente non si relazionano con i bianchi – se non nella forma di rapporti di sudditanza – ma solamente con altri indios, parenti o amici. Questa situazione non caratterizza solamente chi è arrivato da poco in città, ma anche chi pur con molti anni di permanenza non riesce comunque a trovare le condizioni per lavori migliori e più stabili.
Così la maggioranza degli indios cittadini difficilmente ha un luogo di lavoro fisso o un contratto; essi prestano servizi temporanei, con un salario giornaliero o settimanale; sono i primi a essere licenziati in caso di difficoltà economica dell’impresa per cui lavorano e non sono per nulla tutelati dalla legge sul lavoro; fanno lavori quali il becchino, lo scaricatore di camion, il muratore e l’aiutante muratore, il guardiano notturno, il manovale. Le donne sono le più sfruttate, per lo più occupate quali domestiche e lavandaie.
non solo indios
Questa situazione vale per gli indios che hanno lasciato la foresta, ma anche per i contadini – quasi mai di professione, spesso privi di esperienza o attitudine al lavoro agricolo e abbandonati al loro destino in insediamenti improvvisati in mezzo alla foresta – i quali non hanno retto alla vita dura nella foresta e si sono riversati verso la città, e anche per i garimpeiros che non hanno fatto fortuna. Contadini e garimpeiros che devono vivere in situazioni di vita del tutto sconosciute: la foresta, il clima, le distanze enormi, l’isolamento, l’estrema difficoltà di qualsiasi contatto con il resto del Paese.
Sono tutti vittime dell’esclusione sociale, della mancanza dei servizi che dovrebbero essere foiti dalle amministrazioni pubbliche o dalla società civile come scuole e servizi sociali e sanitari. Invece le strutture sanitarie sono scarse e inadeguate, l’offerta educativa è insufficiente e non esistono servizi di orientamento e inserimento nel lavoro.
boom della coca
Per questi (contadini e garimpeiros, in special modo) si è aperta, in diverse zone della foresta amazzonica, una nuova via, quella della coltura della pianta della coca per ottenee la pasta. Il boom della coca è la conseguenza evidente del crollo delle illusioni dei coloni: non si fa nessuna fatica a convincerli che, con poco sforzo, in poco tempo e con grande abbondanza, si può accumulare denaro coltivando la coca. In effetti la coltivazione della coca è quella che si presenta, nella foresta amazzonica, come la più redditizia: secondo le diverse fonti, la rendita della coca risulta da cinque a dieci volte superiore a quella del caucciù; da dieci a venti volte superiore a quella del cacao. Più redditizia è ovviamente l’attività di chi dispone di piccoli laboratori per produrre la pasta di coca partendo dalle foglie della pianta. Ugualmente ben pagata, rispetto ai salari correnti, è l’attività dei raspachines, manodopera errante che passa di finca (campo – piantagione) in finca per la raccolta delle foglie di coca.
In realtà si tratta di stime di redditività comparata che si fermano al solo calcolo economico, al calcolo della redditività lorda, che non tiene conto delle forti diseconomie (costi economici e metaeconomici individuali, oltre che sociali) derivanti dall’illegalità, dallo stato di violenza e disordine sociale e famigliare che la narcoproduzione e il narcotraffico comportano.
Che poi – come si sente dire, con evidente confusione sul concetto di «bene» – la produzione della coca possa essere valutata, a livello macro-economico, come fatto positivo, poiché attiva reddito e occupazione, è fatto assai criticabile, in quanto confonde la promessa di benessere – reddito e occupazione – con la realtà del benessere – disponibilità di beni atti a migliorare la qualità della vita della popolazione (… e naturalmente questo non vale solo per la coca e la cocaina, ma anche per molti altri prodotti, che gonfiano i valori del PIL, ma non quelli del benessere anche solo materiale).
boom boomerang
Il boom della coca richiama alla mente precedenti bonanza (imprese altamente redditizie e relativamente facili, ma di breve durata, ndr.), quali quelle del caucciù, della china, delle pelli degli animali, del legno pregiato ricavato dalla deforestazione, del riso, del granoturco, della soia. Tutte hanno il comune denominatore dello sfruttamento irrazionale della foresta e delle terre in generale, a causa dell’ignoranza dei contadini in merito alle tecniche agricole e zootecniche appropriate al contesto locale. Molti contadini continuano a praticare la tecnica del «taglia e brucia», che danneggia gravemente l’ambiente locale, distruggendo le risorse forestali e favorendo l’erosione dei suoli fino a provocare veri e propri fenomeni di desertificazione. I terreni sono coltivati fino a esaurimento – senza conoscere tecniche appropriate e andando anche incontro a perdite economiche – e successivamente rivenduti ai latifondisti come pascolo, e i piccoli coloni sono sempre alla ricerca di nuove terre nella foresta.
(1 – continua)

Daniele Ciravegna

Daniele Ciravegna




Squali senza pinne

Rientro dei pescatori e crisi del mercato ittico

In Senegal la pesca occupa più di 600 mila persone, di cui 400 mila impegnate nella pesca tradizionale; ma la quantità di pesce è diminuita dell’80% rispetto a dieci anni fa. La crisi è iniziata quando pescherecci europei e asiatici hanno avuto licenza di depredare le acque africane, con sistemi che mettono a rischio la riproduzione ittica.

Il giorno prima di lasciare il Senegal, la mattina, Rosalie mi guida in un giro nel porto di Dakar, il più importante dell’Africa dell’Ovest. Accanto a enormi navi cariche di container in attesa di essere sdoganati, tante piroghe di legno e relitti che ancora escono in mare per la pesca. Coloratissime, slanciate nella loro lunghezza, le piroghe sono in grado di stare in mare per settimane di pesca. Sembrano esili e quasi traballanti, eppure con quelle barchette, mi assicura Rosalie, i pescatori senegalesi si spingono fino nelle acque della Guinea Bissau. Ne vedo arrivare una che sembra scivoli sulle onde e sia sempre in procinto di ribaltarsi: un movimento precario che per i pescatori è normale, ma non per me.
Più tardi, spinta dalla curiosità, chiederò a un pescatore di fare un giro nella sua piroga; ma non usciamo nemmeno dal porto che il mio stomaco in ebollizione e il mio colorito verde costringe il gentile pescatore a fare subito marcia indietro.
I pescherecci, anche quelli più grandi, non hanno sistemi di conservazione del pesce. Caricano le stive di ghiaccio riuscendo a conservare il pesce anche per una settimana. Non cerco nemmeno di spiegarmi come facciano; ormai ho la consapevolezza che quello che per noi sembra impossibile per loro è la normalità.
Incontro il signor Antonio, un armatore italiano in Senegal da quasi 20 anni, pur non parlando una parola di wolof né di francese. È Rosalie che si occupa di tutto per lui. Egli mi racconta come il mercato ittico in Senegal fosse diverso fino a qualche anno fa: «Qui si pescano tonnellate di pesce perché l’oceano è ricco di plancton. Una volta bastava calare le reti e in poco tempo si riempivano. Riempivamo container di pesce e li spedivamo in Italia. Da quando l’Unione europea ha fatto certi accordi bilaterali con il Senegal, la pesca non è più un settore redditizio, poiché barche da tutta l’Europa possono pescare liberamente al largo delle coste senegalesi».
«In cambio del permesso di pesca in acque africane, l’Unione europea offre cifre irrisorie, almeno a parer mio – continua il signor Antonio -. Due anni fa, il Marocco è stato il primo a contestare questa politica europea. Ora anche il Senegal chiede che i negoziati con Bruxelles tengano conto dell’impatto che la pesca tradizionale ha sulla gente, dato che coinvolge direttamente almeno 80 mila senegalesi e indirettamente altri 500 mila. Troppa gente rischia la rovina a causa delle modee pratiche industriali di pesca, ma l’Unione europea sembra preoccuparsi solo di riconfermare la possibilità di pescare in acque senegalesi. Inoltre, la sospensione dell’accordo tra Ue e Marocco non ha fatto altro che aumentare la pressione sulle risorse ittiche senegalesi. L’economia legata alla pesca tradizionale è in forte crisi. Cresce la disoccupazione tra i giovani e i meno giovani che erano già impegnati in questo settore. L’Ue insiste su pratiche di pesca dannose per i fondali: la “pesca pelagica”, cioè quella effettuata con reti lunghe anche un paio di chilometri, che raschiano i fondali e aggrediscono tanti tipi di pesci, impedendone la riproduzione, la pesca “da traino” e la pesca del tonno, tutte tecniche notevolmente invasive per i pesci».

Osservo i pescatori che passano da una barca all’altra parlando e interrogando. Rosalie mi dice che cercano lavoro, per una settimana piuttosto che per un giorno. L’immagine del rientro di centinaia di piroghe dall’oceano, con le donne ansiose sulla riva che aspettano i mariti e i figli, sarà la foto del Senegal che mi porterò dietro.
Arriviamo quando il sole non è più così alto. Iniziamo lo zig zag tra decine e decine di piroghe. Bambini le svuotano dall’acqua accumulata, come pescatori esperti. A destra e a sinistra sedute sulla sabbia, le donne chiacchierano mentre puliscono il pesce e lo preparano per i vari mercati. Una moltitudine di colori impressiona l’esposimetro della mia macchina fotografica che non sa più cosa mettere a fuoco. Bimbetti seguono le mamme intente nella trattativa. Schiere di donne ordinate come in una perfetta fila militare, aspettano i mariti a riva, pronte per scappare a vendere il pesce.
Rosalie mi spiega che la vendita del pesce spetta alle donne. Gli uomini si «limitano» a pescarlo. Saranno le mani esperte e veloci delle donne a sistemarlo esteticamente e a venderlo, seguendo le logiche di un marketing senegalese.
Nelle reti tantissimi piccoli squali sono rimasti impigliati; i pescatori ne tirano fuori a decine e decine dalle reti e li buttano sulla sabbia. Osservandoli per bene, si nota che moltissimi non hanno più le pinne. Sono stati i pescatori cinesi a catturarli, mutilarli, per le loro famose zuppe di «pinne di squalo», e a ributtarli in mare, condannandoli a una morte certa.  
Io sembro una bambina all’acquario. Non ho mai visto così tante specie di pesci. Enormi, colorati e dalle espressioni più strane. Anche i cetacei sono tanti, così pure i molluschi racchiusi in bellissime conchiglie.

Per salutarci, Paco decide di mostrarci come anche gli uomini senegalesi sappiano cucinare. Sarà che l’ho talmente punzecchiato con la storia del turismo sessuale, delle donne che a parer mio, non suo, sono ancora troppo sottomesse, che vuole lasciarmi un ricordo indimenticabile del Senegal e della sua gente. E da che mondo è mondo, come si può sfuggire al piacere della gola? Prenderà del pesce al mercato e ci preparerà dei piatti tipici senegalesi. Dopo un paio di ore di lavoro, è fatta. E il risultato sono piatti squisiti che ci lasceranno la voglia di tornare in Senegal.

Romina Remigio

Romina Remigio




Occhi di bimbi da sognare

Dakar: visita alla pouponniere

«Al servizio della vita in una delle sue forme più amabili, l’accoglienza e l’accompagnamento dei neonati, la Pouponnière delle Francescane Missionarie di Maria si presenta quale risposta a diversi appelli, giunti da famiglie o istituzioni civili del paese. Essa manifesta la stima rivolta all’essere umano sin dalle prime tappe della sua esistenza (Giovanni Paolo II, 22 febbraio 1992).

Arrivo alla Pouponnière dopo aver attraversato gran parte della Medina, il quartiere musulmano di Dakar. Il nostro taxi gira e rigira tra i vicoli stretti e saturi di gente. Sembra di essere in un labirinto, con strade e case tutte uguali, come le persone. Donne coperte fino ai piedi e uomini con il loro tipico babou. Nonostante siano passate le tre pomeridiane il caldo è ancora intenso; l’umidità non ha mai smesso di soffocare i miei polmoni, per non dire dell’effetto sui miei capelli, così increspati che mi sembra di avere un cespuglio in testa.
Il muezzin chiama alla preghiera. Il nostro tassista continua a sostenere di conoscere la strada, ma non facciamo altro che girare e rigirare, immergendoci sempre più nel cuore della Medina. Sono stanca. Stiamo viaggiando dalla mattina presto. Scopro tanti occhi che mi fissano. Sono convinta che non avranno mai visto una bianca con dei capelli così sconvolti in testa! O mi fissano perché le donne senegalesi amano le parrucche! Sembra che non abbiano folte criniere. I miei occhi fotografano ogni angolo, ogni sguardo e ogni attività di questo non troppo agitato quartiere.
C’è tanta gente, ma i movimenti sono lenti. Uomini seduti sotto ombrelloni giocano a dama. Un chiacchiericcio di sottofondo riempie l’aria. Ovunque gruppi che discutono e leggono il corano. Le donne vendono frutta, pesce e chincaglierie varie, sempre chiacchierando. Cerco di immergermi nei loro pensieri e discorsi, pur non capendone la lingua. Si racconteranno della preoccupazione per il futuro dei figli, dei mariti sempre più pesanti nel loro religioso maschilismo.
Inevitabilmente mi tornano alla mente le parole di amici che mi spiegavano come la religione stia diventando incompatibile con la società attuale. Propone e impone comportamenti retrò per un paese che cerca quotidianamente di metabolizzare la globalizzazione.
Dakar è la metafora della schizofrenia del Senegal. Una grande città dove confusione e modeità, povertà e ostentazione, integralismo religioso e comportamenti estrosi si fondono, cercando una dimensione di equilibrio. Ma ho imparato che il concetto di equilibrio ha un significato semantico diverso per gli africani rispetto al mio.

un nido tutto speciale
Finalmente arriviamo davanti al grande cancello della Pouponnière. Ci accoglie un uomo intento a dissetare i fiori e le piante di un giardino arso dal sole e da una temperatura proibitiva anche per una pianta. Operai al lavoro continuano nella costruzione di un’altra casa per gli ospiti. Il compound è grande, ma si nota come gli edifici siano stati aggiunti nel corso degli anni.
La Pouponnière è stata fondata il 5 agosto 1955 dalle suore Francescane Missionarie di Maria e tuttora gestita da loro, sebbene aiutate da una dozzina di mame africane e dipendenti vari. È una sorta di orfanotrofio perché accoglie bambini orfani, abbandonati e malati; vi si respira un clima di calore e affetto.
La Pouponnière è stata creata come struttura parallela agli ospedali per quei servizi che gli stessi ospedali, già sovraccarichi di lavoro, non riuscivano a svolgere. Tra le problematiche maggiori: bambini denutriti o malnutriti che devono seguire per mesi una determinata alimentazione, neonati le cui mamme sono morte di parto e neonati abbandonati perché figli illegittimi o nati fuori dal matrimonio, figli di genitori di etnie diverse e bambini abbandonati per le vie della città.
Dal 1955 a oggi la Pouponnière ha accolto 4.150 bambini, da zero a 12 mesi: 3.496 di essi erano orfani e/o casi sociali, 550 sono stati adottati o stanno seguendo le procedure di adozione e solo 104 non ce l’hanno fatta. Attualmente i bambini sono 87 da zero a 12 mesi. Al secondo piano ci sono i bambini più piccoli da zero a 4 mesi. Attraverso i corridoi ordinati, con lettini, culle, scaffali carichi di vestitini e peluches mandati da ogni parte del mondo.
Mi accolgono mame senegalesi intente nella pulizia degli spazi e dei bambini. Grandi occhi neri spuntano dalle culle. Mi sorridono e tutti vogliono saltarmi in braccio. Osservo le donne correre da una culla all’altra. Nelle stanze vicine c’è quella del bagnetto. Una decina di bambini vengono lavati, profumati e vestiti. Sembra una catena di montaggio! Mani che disinfettano, girano, toccano, premono quei corpicini per accertarsi che vada tutto bene.
Molti bimbi vengono da situazioni davvero estreme. Tanti sono visibilmente denutriti e hanno bisogno di cure continue, sono piccolissimi.

bisognosi di coccole
Nel giro di un quarto d’ora mi ritrovo a dondolare con il mio piede destro, un bimbo urlante in un ovetto, un altro in braccio che mi si aggrappa al collo e un altro che gattonando sta lottando per alzarsi in piedi avvinghiato a un ginocchio. Vedendomi in panne, mi viene incontro una donna; per lei è una situazione normale: le donne africane riescono ad allevare sei, sette bambini insieme. Le vedo gestire una stanza di bambini con movimenti continui ma rilassati. Uno viene dondolato mentre l’altro vuole venire in braccio; nel mentre c’è quello che morde il vicino, il quale inizia a piangere; allora bisogna spostarlo, quello che inizia a gattonare titubante sembra geloso e si aggrappa alle gambe. Se inizia a piangere uno, partono tutti come allarmi impazziti.
Dopo mezz’ora le ragazze se la ridono, guardandomi seduta su una sedia con l’aria sconfortata. Me ne fanno scivolare in braccio uno così piccolo che quasi ho paura a tenerlo. Sembra un bambolotto. Si vedono solo gli occhi grandi e nerissimi, che mi fissano terrorizzati. È indeciso se piangere davanti a questa bianca dai tanti capelli o rilassarsi perché comunque è in braccio. Forse avverte la paura delle mie braccia, allora da solo si posiziona come meglio crede e si rigira senza mai staccarmi gli occhi di dosso.
Verrò a sapere poi dalla suora che quel bimbo ha appena una settimana ed è stato abbandonato davanti al cancello della Pouponnière; la madre, secondo voci di quartiere, era una ragazzina molto giovane di Gorèe, l’isola di fronte a Dakar. È denutrito e spaventato. Marì mi dice che all’inizio non voleva nemmeno mangiare, piangeva tutto il giorno; poi, piano piano, sono riuscite a tranquillizzarlo. Nella sua tutina troppo lunga sembra ancora più piccolo. Si stende, sbadiglia, mantenendo sempre gli occhi incollati ai miei.
Altri bambini si avvicinano perché sono abituati a vedere volontari che vengono per brevi periodi e che li coccolano esageratamente. Ma non si può fare diversamente. Le stesse mame li sbaciucchiano, li accarezzano! E io giro per la stanza con questo fagottino, che mi si è così raggomitolato stringendosi al collo, che quasi trattengo il respiro per paura di svegliarlo. E quando meno me l’aspetto, si sveglia, si gira ancora traballante e mi fa un sorriso che mi scioglie. Inevitabilmente mi chiedo cosa debba aver provato la mamma ad abbandonarlo. Sarà stata una sua scelta oppure è stata obbligata! E la vita, il futuro di questo piccino come sarà?
Entro nella stanza dei giochi: su un enorme materassino mi trovo davanti a una scena simile alle cartoline di Anne Geddes: una decina di bambini messi in cerchio dormono l’uno accanto all’altro.
impossibili istantanee  
Al secondo piano della Pouponnière invece ci accolgono bambini dai sei ai dodici mesi che gattonano a più non posso. Stessa struttura: lungo i corridoi con culle a destra e a sinistra e i piccoli che si arrampicano e alzano le braccia cercando la mia attenzione.
Entro nella stanza dei giochi. C’è un enorme materassino come al primo piano; qui, però, i bambini non dormono, ma sfrecciano gattonando a una velocità pazzesca. Mi tolgo le scarpe e assisto a una maratona di quattro bimbi che mi corrono incontro quasi scavalcando gli altri pur di arrivare per primi ai miei piedi.
Sul materassino c’è chi dorme, chi infila le dita negli occhi dell’altro, chi si trascina per rubare il pupazzo al vicino: uno spettacolo! Sono tutti curiosi di toccare da vicino quello strano giocattolo che ho al collo: la macchina fotografica. In un baleno me ne trovo uno sulle ginocchia, un altro si aggrappa alle gambe; stendendo il braccio in altezza, cerco di allontanare la macchina fotografica dalle loro vivacissime mani, più veloci anche degli occhi. Sono letteralmente assaltata da questi bellissimi bambini che tra enormi sorrisi, baci e morsi cercano di convincermi a prenderli in braccio, per riuscire nell’intento di toccare il mio giocattolo.
Quando penso che si siano arresi, inizio a fare le foto, piegandomi per meglio sistemare l’inquadratura e subito me ne corrono incontro dieci come cagnolini che nel giro di dieci secondi, alitano, leccano, baciano, toccano me e l’obiettivo, ormai oscurato da così tanto «affetto».
Pur di fermarli per qualche minuto, faccio vedere loro dal monitor della macchina le foto già scattate, provocando un coro di grandi sorrisi, come se capissero le facce curiose delle foto. Hanno solo otto, nove, dieci mesi, ma sembrano bimbi di un paio di anni.

adozioni inteazionali
Qui alla Pouponnière permettono le adozioni inteazionali. Ma prima di affidare un bimbo ad altri, cercano parenti vicini o lontani che se ne possano occupare. Non tutti sono orfani o abbandonati; molti sono semplicemente nella struttura per ristabilirsi da casi di denutrizione o malnutrizione e dopo un anno, quando i bambini stanno bene, vengono reinseriti nelle proprie famiglie.
Mi spiega una suora che il loro fine principale, come quello degli assistenti sociali, è di aiutare i genitori e i bambini in difficoltà, cercando di non sradicarli dalla loro realtà familiare, neppure nei casi di crisi. Infatti i bambini mantengono i contatti con la famiglia che può visitarli di solito la domenica pomeriggio. Anche una volta reintrodotti in famiglia, la Pouponnière continua a sostenere i bambini fino ai due anni, attraverso razioni mensili di cibo e latte.
Nella Pouponnière c’è una casa riservata agli ospiti e ai numerosi volontari. Molte camere sono riservate alle coppie sposate che vengono a Dakar per adottare un bimbo.
Il Senegal non ha ancora ratificato la Convenzione dell’Aia (29-5-1993) sulla tutela dei minori e la cooperazione in materia di adozioni inteazionali. Ma è dotato di una legge intea che disciplina la materia attraverso il Codice di famiglia e il Codice di nazionalità; le condizioni per concedere un bambino in adozione sono alquanto rigorose: una di esse richiede ai genitori adottivi la permanenza di almeno tre settimane in Senegal, non solo per conoscere il bimbo da adottivo, ma anche la cultura e tradizioni del paese.

sogno realizzato
Mentre mi preparo un caffè nella cucina in comune, entrano Pedro e Maria salutando gentilissimi; mi basta guardare i loro occhi raggianti per capire: Maria mi dice subito che hanno realizzato il loro sogno; dopo aver fatto tutta la trafila per l’adozione, sono stati finalmente chiamati e da una settimana sono in Senegal. C’è una bambina per loro! Si parlano amorevolmente e si abbracciano continuamente. Hanno 34 anni lui e 32 lei. Stanno insieme da sempre, da quando avevano dodici anni, praticamente sono cresciuti insieme. Sono di un paesino vicino Malaga, in Spagna.
Dico loro che sono una fotogiornalista, interessata alla loro storia e che vorrei raccontarla. Loro sono così felici che non hanno remore a rispondere alle mie domande.
Preparo tre tazzine di caffè e inizio delicatamente ad affrontare l’argomento. Dall’inizio alla fine della nostra chiacchierata essi si terranno per mano, sorridendosi e sostenendosi continuamente anche nei momenti più delicati. Maria ha avuto da giovanissima un tumore da cui è uscita bene, nonostante mesi e mesi di chemioterapia. Ma la conseguenza finale è stata il non poter avere figli. Pedro mi racconta che hanno girato tutta la Spagna, provato vari interventi e anche l’inseminazione artificiale, ma sembra che l’utero di Maria non riesca ad accogliere un bambino.
«Sono stati mesi e anni duri. Tristi! Tutti i nostri amici si facevano una famiglia – racconta Pedro -. Nella nostra cittadina un matrimonio senza bambini non è un matrimonio. Non è vita. Gli anni passavano e la depressione aumentava. Abbiamo scoperto che Maria non riusciva a concepire perché aveva un problema alle ovaie, sembrava una ciste, invece era un tumore. Subito la paura di non poter avere bambini. Eravamo troppo giovani. Ci siamo sposati a vent’anni, perché ci sembrava di perdere tempo. Io volevo diventare padre. Insegnare a mio figlio a pescare, a giocare a calcio o se fosse stata una bimba, farla diventare la principessa di casa. Maria aveva ventidue anni quando l’abbiamo scoperto. Una volta operata ci avevano detto che non era stato toccato l’utero e che, seppure con difficoltà, sarebbe stato possibile avere un bambino. Invece non è stato così. Quanti medici, visite, ospedali, tentativi e, soprattutto, preghiere, ma nostro figlio non è arrivato. Siamo una famiglia di tradizione molto credente e devo assolutamente dire che l’unica cosa che ci ha tenuti insieme e che non ci ha mai fatto perdere la speranza è stata la fede. Sono momenti così difficili che non fai altro che domandarti perché! Perché a me? Perché a noi? Ci siamo fatti seguire dal nostro parroco, un carissimo amico, ma abbiamo seguito anche sedute di psicologi. Alla fine dopo un viaggio in Africa, in una missione, ci siamo detti: perché non aiutare uno di questi straordinari bimbi che potrebbe darci la serenità e la felicità che sogniamo? Una missionaria ci aveva parlato del Senegal e della Pouponnière e, poiché non siamo poi tanto lontani, siamo venuti a informarci».
«Quando siamo entrati in quella stanza – continua Maria – e abbiamo visto così tanti angioletti che ci chiedevano solo di essere felici, è bastato guardarci per convincerci che nostro figlio era lì. Sarebbe stato uno di loro. E così abbiamo iniziato subito tutte le pratiche di adozione e finalmente dopo un anno e mezzo ci hanno chiamato dicendoci di venire per conoscere la nostra bambina. Ha quattro mesi. È stata portata qui dalla polizia, dicendo di averla trovata dietro un albergo. Forse è figlia di qualche ragazza che lavora lì. Quello che ci importa è che sta bene ed è serena. Poi è bellissima!».
Maria interrompe il racconto perché è l’ora in cui possono andare a prendere la bambina. La chiameranno Angela. Quando rientrerò dal mio giro per Dakar, li troverò fuori in terrazzo assorti nell’osservare Angela che si gode tutto il loro affetto. Mi basta guardarli per capire davvero cosa sia la felicità.

Romina Remigio

Romina Remigio




Turismo «irresponsabile»

Un primato non invidiabile

Da alcuni anni il Senegal è diventato la meta preferita del turismo sessuale femminile: nel paese africano è in continuo aumento il numero di donne europee e americane che scelgono di «divertirsi» con prestanti «accompagnatori» del posto.

Il sermone sulla bontà del muridismo fatto dal «grande marabut» di Touba ha soddisfatto varie mie curiosità, ma non ha fugato affatto alcune mie perplessità sulla società islamica in generale e su quella senegalese in particolare. Mi domando soprattutto come sia ancora possibile tollerare certe pratiche barbare come l’infibulazione, il matrimonio di bambine con vecchi e altre tradizioni che negano i diritti basilari della donna, destinata ad assolvere quattro compiti: servire e assecondare il marito, mettere al mondo e crescere i figli seguendo i dettami del marito.
Ancora più intrigante è il fatto che di fronte all’indottrinamento islamico di massa (non me ne vogliano i musulmani senegalesi), in una realtà così chiusa in se stessa, si possa concepire un turismo sessuale sfrenato come quello che si registra in Senegal!
La situazione del Senegal mi richiama alla mente quella dell’Iran, paese ogni giorno alla ribalta di giornali e telegiornali di tutto il mondo per la negazione dei diritti umani, violenze, soprusi e rigidità di ogni genere; eppure è uno dei paesi dove c’è il più alto tasso di ricostruzione dell’imene, di chirurgia plastica in generale, per non parlare della libertà sessuale, sperimentata solo nelle feste private, di nascosto dai pasdaran, i guardiani del popolo.
Sono convinta che le imposizioni dell’integralismo islamico, che vuole regolare ogni aspetto e comportamento della vita delle persone, non può che portare a realtà schizofreniche. Con ciò non voglio generalizzare: ho amiche di entrambi i paesi, i cui genitori non le hanno sottoposte a certi obblighi o violenze, ma ho potuto constatare quanto sia complicato per esse vivere in tali ambienti.
Ho sperimentato di persona come in Senegal sia impossibile per una donna bianca e sola, girare senza essere soffocata da continue richieste. Nell’Africa occidentale, a differenza che in Africa orientale, ho dovuto sempre trovare qualche persona che girasse insieme a me, non tanto perché fosse pericoloso stare da sola, ma semplicemente perché è impossibile fare il proprio lavoro. Girare per un mercato significa incontrare nugoli di ragazzi che vogliono venderti di tutto, e questo è normale, ma insistono e insistono, ti chiamano, ti bloccano, ti tirano, ti seguono per ore e ore, lamentandosi con esasperante logorrea.
Cerco di giustificare tale comportamento con l’errata concezione del bianco che si sono costruita, come colui che ha sempre tutto o che comunque possiede più di loro; sembra inutile tentare di convincerli del contrario. D’altronde ragazzi che nascono in una società dove devono sempre ubbidire a qualcuno senza se e senza ma, indottrinati da imam o marabut del proprio villaggio, che ascoltano i racconti di senegalesi emigrati e ritornati «ricchi» ai loro occhi, e magari all’età di 18-20 anni si ritrovano a Saly come «accompagnatori» di denarose donne bianche, più e meno vecchie, è normale che ci vedano solo in un certo modo.

Sono stata una settimana a Saly, la più famosa delle stazioni balneari del Senegal. Ho affittato un alloggio sulla spiaggia, proprio per capire come mai il Senegal, tra i paesi dell’Africa nera, sia la meta preferita del turismo sessuale soprattutto delle donne.
Un tipo di turismo ormai presente in varie località dell’Africa. Ne avevo già avuto sentore a Zanzibar alcuni anni fa, dove mi ero recata per godermi un po’ di mare, dopo sei mesi intensi di missione. Nell’albergo in cui alloggiavo, lavorava un ragazzo di nome Robert, che ogni giorno, in maniera molto garbata, mi chiedeva se volessi le fragole, se volessi fare un giro per i vicoli di Zanzibar. All’inizio scambiai la sua estrema cortesia con la gentilezza tipica dei tanzaniani, anche se mi chiedevo come mai, ai tropici, con l’abbondanza di frutta locale, avesse voluto offrirmi proprio le fragole.
Dopo qualche giorno, a colazione, assorta nel contemplare l’oceano, notai una signora americana, mia vicina di stanza, mano nella mano con un giovanissimo tanzaniano: riflettendo su quel particolare, cominciai a rivalutare gli atteggiamenti di Robert. Il Tanzania è così discreto su queste cose che mi sembrava troppo strano. Ma alla fine invitai Robert a sedersi al mio tavolo per fargli delle domande. E lui, imbarazzato, iniziò a rivelarmi che era venuto da Njombe a Zanzibar per lavorare, che l’albergo offriva ai clienti, compreso nel prezzo, anche un particolare extra, ossia un compagno o compagna. Ecco le fragole, mi dissi! Robert non sapeva più come farmi comprendere che lui era lì a mia disposizione e non riusciva a capire come mai una giovane ragazza bianca fosse venuta lì solo per il mare e per il sole. Dalla mia accettazione o meno dipendeva parte del suo stipendio, poiché gli albergatori, convinti che gli inservienti arrotondassero con le turiste, li pagavano pochissimo.  

In Senegal invece quest’attività è molto meno riservata, per non dire spesso ai limiti del ridicolo. A Saly, ogni albergo o spiaggia privata ha una schiera di bagnini che non aspettano altro che arrivi la prima anziana. Paco mi racconta come tantissimi ragazzi siano sposati con delle nonne bianche.
Una mattina scendo in spiaggia sotto casa e mi ritrovo accerchiata da una decina di anziane signore, che con i libri sotto braccio e audacissimi bikini, non danno affatto l’impressione di essere lì per abbronzarsi. Nel giro di pochi minuti ecco l’assalto di frotte di giovani senegalesi altissimi, i corpi cosparsi di olio che evidenzia i loro fisici scultorei.
Cerco di trattenermi dal ridere quando vedo la mia vicina di camera, abbronzatissima e in topless, 60 anni passati da un pezzo, rossetto vermiglio sui denti più che sulle labbra, andare incontro a suo marito, un diciottenne, baciandolo appassionatamente. Una scena davvero imbarazzante.
Altrettanto comico è vedere i ragazzi discutere tra loro per conquistare l’ambita preda. Come trattenersi dal ridere quando li ascolti lanciarsi in frasi del tipo: «Ma che bella pelle; come sei carina; che begli occhi… » e magari la donna ha gli occhiali da sole? E tutto questo indirizzato ad anziane che cercano in tutti modi di vestirsi e muoversi come ragazzine.
La sera, passeggiando per la lunga spiaggia, è un continuo susseguirsi di ragazzi che si avvicinano per chiedermi se voglio compagnia, mentre osservo tante coppie di «nonne e nipoti», mano nella mano.
Parlando seriamente con Paco, vengo a scoprire come la realtà del turismo sessuale sia tutt’altro che comica, soprattutto per i danni che esso provoca nelle nuove generazioni. «Ci si può sposare con donne senegalesi, farsi una famiglia; ma anziché lavorare, ci si fa mantenere da donne che vengono in Senegal a divertirsi per qualche mese e, con un po’ di fortuna, ci si fa mantenere tutto l’anno».
Paco mi racconta che anche lui è stato sposato con una donna svizzera che aveva l’età di sua madre. Si erano conosciuti quando lui era molto giovane. E per qualche anno è stato il suo giocattolo, da usare come e quanto lei voleva. Alla fine la convivenza era diventata impossibile e Paco l’ha lasciata. Lei ha iniziato a tormentarlo, minacciando di suicidarsi, finché Paco è riuscito farle conoscere un suo amico.
La sera facciamo un giro anche per i vari locali di ritrovo e posso constatare come ce ne siano davvero per tutti: locali per omosessuali, locali per uomini in cerca di donne e per donne in cerca di uomini. Osservo quelli che potrebbero essere miei nonni e nonne. E tanti italiani. La chiamano trasgressione semplice. Con pochi dollari fai quello che vuoi. Fuori dai locali molti ragazzini, non avendo soldi per entrare, cercano di imitare i loro «modelli», provando a sedurre chiunque passi.
Generazioni di ragazzi e ragazze crescono seguendo questi modelli come dei valori. «Il Senegal non era così. Non c’è nemmeno voglia di sacrificio, di lavoro – mi spiega Rosalie -. Il pensiero dominante è farsi mantenere da parenti all’estero o da donne e uomini bianchi. Certo, non siamo tutti così, ma credimi, le percentuali sono diventate altissime, soprattutto nelle grandi città. Questa concezione del gigolo senegalese poi, non fa che rafforzare il potere dell’uomo in generale».

Non voglio concludere questa mia esperienza descrivendo solo realtà negative: il Senegal, come l’Africa in generale, è sinonimo di luce, musica, arte, spiagge, isole bellissime, gente cordiale. Tale genere di turismo non è affatto da generalizzare. Sono innumerevoli le organizzazioni e le inziative che promuovono il turismo responsabile in molte parti del Senegal. Iniziative che, unite a politiche e campagne del governo riescono a promuovere lo sviluppo del paese e ad arginare certi drammi come la diffusione dell’aids, diventato una pandemia in altri stati africani.
L’economia progredisce. Grazie alla creazione di infrastrutture, banche inteazionali, autostrada… il Senegal continua ad attirare molti investitori: con l’augurio che non siano tutti cinesi.

Romina Remigio

Romina Remigio