Cemento, l’oro grigio

Il territorio: Una distruzione continua

Capannoni vuoti,  appartamenti vuoti (milioni!), seconde e terze case. E poi abitazioni abusive (soprattutto in Campania, Puglia, Calabria e Sicilia), spesso sanate con immorali condoni edilizi. L’edilizia selvaggia spacciata per «crescita economica» del Paese. Mentre si consuma il territorio italiano ad un ritmo impressionante, si deturpa irrimediabilmente uno dei più bei paesi del mondo e si prendono in giro gli italiani che vorrebbero essere onesti. Senza dimenticare che si costruisce senza considerare né il rischio sismico né quello idrogeologico. Come i quotidiani disastri sono lì a dimostrare. E allora spazio a «lacrime di coccodrillo», nuovi sprechi di denaro pubblico, nuove promesse…

Sempre più spesso, viaggiando in Italia, abbiamo la sensazione che le periferie delle città e dei grossi centri abitati si siano estese a tal punto, che talvolta diventa difficile capire dove finisce un agglomerato urbano e ne comincia un altro, se non grazie ai cartelli stradali. All’uscita da una qualunque città, l’immagine ormai più frequente non è quella suggestiva della campagna, ma quella di chilometri di costruzioni, per lo più capannoni (spesso vuoti), ma anche di interi agglomerati sorti nel giro di pochissimo tempo, dove fino a qualche anno prima c’erano prati e campi. Può capitare anche di vedere scheletri di case, la cui costruzione è iniziata e mai finita, oppure tronconi di strade, che portano a nulla, perché in corso d’esecuzione ci si è resi conto dei costi eccessivi che l’opera comportava. Si moltiplicano i centri commerciali (o i famosi outlet), i parchi di divertimento a tema, i parcheggi, le strade. Insomma si sta sempre più consumando il territorio. Al posto di prati e campi, il cemento, l’oro grigio che permette guadagni stratosferici ai costruttori ed ai politici, a scapito dell’ambiente, della qualità della vita e spesso della salute dei lavoratori dell’edilizia. Secondo il dossier di Legambiente «Un’altra casa?»(1), presentato il 15 luglio 2010, dal 1995 al 2009 sono state costruite in Italia 4 milioni di abitazioni, per un totale di 3 miliardi di metri cubi di edifici. Nel contempo, in Italia ci sono la bellezza di 5.320.288 case vuote!(2) Secondo il Movimento nazionale per lo stop al consumo di suolo(3) «non vi è angolo d’Italia, in cui non vi sia almeno un progetto a base di gettate di cemento, piani urbanistici e speculazioni edilizie, residenziali ed industriali, insediamenti commerciali e logistici, grandi opere autostradali e ferroviarie, porti ed aeroporti turistici, civili e militari».

NEL PAESE DELL’ABUSIVISMO E DEI CONDONI
In Italia, ci troviamo di fronte ad una vera e propria anomalia internazionale, a causa della mancanza di una politica per le aree urbane e per l’edilizia abitativa. Manca cioè un ministero dedicato a questi problemi, capace di monitorare e di fermare il consumo di suolo, fissando a livello nazionale un numero massimo di ettari di territorio trasformabili annualmente per usi urbani (ad esempio in Germania il limite massimo è di 10.950 ettari all’anno).
L’Italia è invece il Paese dei condoni edilizi, che inevitabilmente favoriscono l’abusivismo edilizio. Il primo condono del 1985, durante il governo Craxi, regolarizzò 230.000 abitazioni abusive, costruite nei due anni precedenti; il secondo del 1994, con il 1° governo Berlusconi, sanò 83.000 abitazioni abusive ed il terzo del 2004, con il 2° governo Berlusconi registrò 40.000 costruzioni abusive (con un incremento delle medesime, tra il 2001 ed il 2003 pari al 41%), mentre dell’introito previsto di 3,8 miliardi di euro non entrò nelle casse dello stato nemmeno un decimo. Sostanzialmente in due anni venne coperta di cemento illegale una superficie di 5,4 milioni di metri quadrati ed a fae maggiormente le spese furono le quattro regioni a tradizionale presenza mafiosa: la Campania, la Puglia, la Calabria e la Sicilia, dove è concentrato il 55% delle nuove case abusive. Il legame esistente tra i costruttori edili, la politica e la criminalità organizzata risale agli anni ’50 del secolo scorso.
Ne viene fatta una precisa descrizione nel libro «La colata»(4), dove si legge, ad esempio, che le associazioni criminali da sempre detengono il monopolio delle fabbriche di calcestruzzo, favorendo quindi le imprese edili peggiori ed obbligando spesso quelle, che lavorano onestamente a chiudere i battenti o ad emigrare. Leggiamo anche che nel 1995 Beardo Provenzano spedì un pizzino a  Luigi Ilardo, reggente di Cosa nostra per la provincia di Caltanisetta, in cui era evidente il suo interesse per la «cava di Riesi», che non era solo un impianto per la produzione del calcestruzzo; con questo termine, infatti, Provenzano indicava la Calcestruzzi S.p.A., azienda leader a livello internazionale, appartenente all’epoca al gruppo Ferruzzi di Raul Gardini ed oggi alla Italcementi Group. In Campania, invece è presente la camorra, con il clan dei casalesi, che, secondo le inchieste della procura di Napoli, sono legati niente meno che al sottosegretario all’Economia del quarto governo Berlusconi, cioè Nicola Cosentino, per il quale nel novembre del 2009 viene chiesto l’arresto per concorso in associazione mafiosa, arresto poi negato dalla Camera dei deputati.

RISCHIO SISMICO E RISCHIO IDROGEOLOGICO
Il rapporto di Legambiente rileva anche la pessima qualità dell’edilizia costruita negli ultimi 15 anni, come è stato purtroppo tragicamente dimostrato durante il terremoto dell’Aquila del 6 aprile 2009 dal crollo di costruzioni recenti come la Casa dello studente, e durante quello del Molise del 31 ottobre 2002, che colpì S. Giuliano di Puglia in provincia di Campobasso, dove crollò la scuola del paese, uccidendo 27 bambini ed una maestra. Purtroppo nel corso degli anni si è continuato a costruire, spesso abusivamente, senza tenere per nulla in conto la fragilità del territorio italiano. Il Centro studi del Consiglio nazionale dei geologi, in collaborazione con il Cresme ha condotto uno studio  sullo stato del territorio italiano, dal titolo Terra e sviluppo, decalogo della terra 20105, dove si legge che in Italia sono 6 milioni le persone, che vivono in zone ad alto rischio idrogeologico e 3 milioni quelle in zone ad alto rischio sismico. I cittadini, che vivono in zone a medio rischio, arrivano invece a 22 milioni. Il 10% del territorio italiano e l’89% dei comuni sono colpiti da elevata criticità idrogeologica, mentre l’elevato rischio sismico interessa quasi il 50% dell’intero territorio nazionale ed il 38% dei comuni. Inoltre, nel rapporto si legge che in Italia vi sono 1.260.000 edifici a rischio frane ed alluvioni; di questi 6.000 sono scuole e 531 sono ospedali. Della popolazione a rischio idrogeologico, il 19%, cioè oltre un milione di persone, vive in Campania, 825.000 in Emilia-Romagna ed oltre mezzo milione in ciascuna delle tre grandi regioni del Nord, cioè Piemonte, Lombardia e Veneto. Segue poi la Toscana. Il 40% dei cittadini vive invece in zone ad elevato rischio sismico e la maggior parte degli edifici residenziali è stata costruita prima dell’entrata in vigore della legge antisismica per le costruzioni del 1986. Tra le regioni a maggiore rischio sismico c’è la Sicilia, seguita dalla Calabria e dalla Toscana. Si calcola che lungo le superfici ad alto rischio sismico (come già detto, il 50% del territorio italiano) siano stati costruiti circa 6.300.000 edifici, di cui 28.000 scuole e 2.188 ospedali.
Secondo il rapporto di Legambiente, l’Italia, sulla carta, tutela il 47% del proprio territorio, ma nella pratica non vengono effettuati controlli. Ci troviamo pertanto di fronte alla totale inadeguatezza dei meccanismi di tutela sia dei beni paesaggistici, che degli aspetti idrogeologici, nonché dell’ambiente e della lotta all’inquinamento nelle aree urbane. Assistiamo ad una latitanza tanto del ministero delle Infrastrutture, che dovrebbe occuparsi delle questioni edilizie, quanto di quelli dell’Ambiente e dei Beni culturali; quest’ultimo dovrebbe occuparsi del danno provocato dall’edilizia selvaggia ad importantissimi siti archeologici(6).

CUBATURA DELLE MIE BRAME
Anziché limitare la costruzione di nuovi edifici, con ulteriore consumo del territorio, nel marzo 2009 venne proposto dal governo Berlusconi il cosiddetto «Piano casa», che aveva lo scopo di portare rimedio alla crisi economica, incentivando l’edilizia, grazie al permesso di ampliare la cubatura delle proprie abitazioni fino a 300 metri cubi (100 metri quadrati) e di elevare ogni fabbricato di 4 metri oltre il limite dettato dalle norme urbanistiche vigenti. Inoltre, secondo questo piano, sono possibili i cambi di destinazione d’uso; se si abbatte si può ricostruire più grande del 35% e non c’è più bisogno di alcuna concessione edilizia, per iniziare i lavori, ma basta produrre una segnalazione certificata d’inizio attività, che dovrebbe riguardare atti, autorizzazioni, permessi e nulla osta per eliminare ogni ostacolo o controllo per le imprese e perfino il silenzio assenso, nel caso di autorizzazioni paesaggistiche. In pratica tutte le procedure di controllo erano ridotte all’autocertificazione. Poiché le regioni rivendicarono la loro competenza in materia ed inoltre poiché nel mese di aprile 2009 si verificò il terremoto dell’Aquila, che riportò in discussione le norme antisismiche, questo decreto legge non vide la luce, così come concertato, ma venne data la possibilità ad ogni regione di legiferare sulla sua falsa riga, per cui quasi tutte le regioni vararono gli aumenti di cubatura, che, secondo i calcoli del Wwf, potrebbero portare ad un milione di stanze in più ed in qualche caso ad un effetto condono sotto mentite spoglie.

DANNI ALL’AMBIENTE E ALL’AGRICOLTURA
L’edilizia selvaggia rappresenta un gravissimo danno sia per l’ambiente, che per i beni paesaggistici e culturali. In particolare, per quanto riguarda l’ambiente, oltre a sottrarre superficie alla produzione agricola (si calcola che in 40 anni siano andati persi 5 milioni di ettari di terreni agricoli), la cementificazione dei suoli produce pesantissime conseguenze sull’ecosistema: difficoltà di ricarica delle falde acquifere, aumento dei deflussi superficiali (e quindi del rischio di alluvioni), contaminazione da inquinanti, maggiore conversione dell’energia solare in calore sensibile, diminuzione dell’evapotraspirazione (con aumento dell’«isola di calore»), asfissia del sottosuolo (cioè la conversione dell’ambiente ipogeo da aerobio ad anaerobio)(7). Quest’ultimo punto è particolarmente grave, se si pensa che il suolo impiega in media 100-200 anni, per formare un sottile strato di materiale organico stabilizzato da vegetali pionieri, ma ci vogliono circa 500 anni perché questo strato raggiunga lo spessore  di 2,5 centimetri, mentre per lo sviluppo di un suolo maturo è necessario un ulteriore millennio. È pertanto evidente che ricoprire con del cemento un suolo fertile comporta un danno irreversibile per millenni e, di conseguenza, la privazione, per le generazioni future, della base per il proprio sostentamento.

IL TURISMO E PROLIFERAZIONE DEGLI «OUTLET»
La cementificazione selvaggia danneggia anche il turismo, altro settore trainante dell’economia italiana. Basti pensare alla moltiplicazione, in molte località di villeggiatura, delle seconde (o terze!) case, lasciate vuote per buona parte dell’anno, con la conseguente riduzione di queste località a veri e propri paesi fantasma. Capita infatti che la costruzione di nuove case nei paesi turistici faccia lievitare i prezzi, inducendo spesso i residenti con reddito modesto a spostarsi in zone economicamente più accessibili. Nel contempo, i centri turistici non riescono a realizzare lo stesso guadagno che otterrebbero con meno seconde case, ma qualche struttura alberghiera in più, capace di ospitare un maggiore numero di persone per tutto l’anno. Inoltre il danno, che viene prodotto dalla cementificazione, a livello paesaggistico è spesso incalcolabile. Eppure vengono proposti e, purtroppo, spesso approvati dei progetti sempre più devastanti, come quello che prevede la costruzione di un gigantesco residence con annesso parcheggio da 2.400 posti, più piscine coperte, centro benessere, centro congressi e negozi assortiti  niente meno che sulla Marmolada, nella frazione di Malga Ciapela. Oppure come quello che prevede la costruzione di un autodromo a Roma Eur. In Italia sono sempre più numerosi i progetti per nuovi stadi (richiesti da molte società della serie A del calcio), che naturalmente vengono accompagnati dagli immancabili centri commerciali ed aree residenziali limitrofe.
A proposito di centri commerciali, crescono come funghi gli outlet, giganteschi discount delle grandi firme, dove la gente si riversa in massa, dopo avere percorso chilometri d’autostrada ed essersi sottoposta talora a code estenuanti, per assicurarsi capi firmati in sconto. Il più grande d’Italia è quello di Serravalle, in provincia di Alessandria.
Gli outlet rappresentano veramente l’apoteosi della finzione, perché vengono spesso costruiti come dei finti paesi, con case finte, il cui unico scopo è quello di ospitare negozi dalle vetrine scintillanti. Il tutto naturalmente in linea con la filosofia oggi dilagante, per cui conta molto di più l’apparire che l’essere. Ovviamente la costruzione di questi non luoghi si porta via migliaia di ettari di terreno, anche in considerazione del fatto che devono essere corredati di parcheggi e serviti spesso da nuove strade.
I sostenitori dello «sviluppo» a suon di costruzioni normalmente accampano la tesi della creazione di nuovi posti di lavoro, ma appare evidente che i posti di lavoro creati dall’apertura dei cantieri sono a breve termine, spesso in nero e caratterizzati da una scarsissima tutela della salute, come dimostra l’elevatissimo numero di incidenti nei cantieri. L’edilizia è infatti al primo posto per il numero di morti sul lavoro. È invece sempre più evidente l’equazione tra cemento e potere, dimostrata dall’apparente ineluttabilità delle «Grandi opere», che trovano d’accordo tutti i partiti, al punto che si parla di «partito trasversale degli affari».
E NEL MONDO…
Quando parliamo di grandi opere, in Italia ci riferiamo soprattutto all’«alta velocità», al «Ponte sullo Stretto di Messina», al «progetto Mose» per Venezia oppure alla costruzione di nuovi tratti autostradali. Dando invece un rapido sguardo alla situazione mondiale, vediamo che tra le grandi opere ha un posto di primo piano la costruzione di gigantesche dighe, come quella delle «Tre Gole», inaugurata in Cina nel 2006, opera faraonica definita «La Grande Muraglia del terzo millennio», perché è una delle poche opere dell’uomo visibili dallo spazio. Questa diga sbarra il corso del fiume Yangtze e la sua costruzione ha comportato lo sfollamento di 1.200.000 persone. Sono attualmente numerosi i progetti di questo genere a livello mondiale. Basti ricordare quello della diga Gibe III in Etiopia, lungo il fiume Omo, oppure quello della diga di Belo Monte in Brasile, lungo il corso del fiume Xingu, in piena foresta amazzonica, i cui lavori di costruzione sono già partiti. In entrambi i casi si tratta di progetti devastanti a livello ambientale e sociale, poiché porteranno all’alterazione irreversibile di interi ecosistemi ed all’allontanamento delle popolazioni native, per le quali i fiumi rappresentano la principale fonte di sostentamento, così come la principale via di trasporto. Le comunità locali obbligate a spostarsi andranno ad aggravare il fenomeno dell’urbanizzazione, finendo nelle periferie delle grandi città ed aumentando il livelli di disoccupazione e di povertà.
Spesso dietro la costruzione delle grandi dighe mondiali ci sono imprese italiane, come la (chiacchieratissima) Impregilo per le dighe Chixoy (Guatemala), Katse (Lesotho) e Yacuretà sul fiume Paranà tra Argentina e Paraguay, oppure la Salini Costruttori, nel caso della Gibe III in Etiopia. La Impregilo è controllata dalla Igli Spa, appartenente alle famiglie Gavio, Benetton e Ligresti e, in Italia, è impegnata nella realizzazione dell’«alta velocità» e nel progetto del «Ponte sullo Stretto di Messina» Tra i finanziatori delle grandi dighe c’è sempre la Banca mondiale e, nel caso della Gibe III, il governo italiano, che ha in corso di valutazione il finanziamento. Come troppo spessp capita, la conclusione è amara: grandi affari per pochi e povertà garantita per molti. 

Rosanna Novara Topino

NOTE
1 – L’ottimo dossier di Legambiente è scaricabile, in formato PDF, dal sito: www.legambiente.it.
2 – Legambiente su dati Istat e ministero dell’Inteo.
3 – Si veda il sito del movimento: www.stopalconsumoditerritorio.it.
4 – Garibaldi, Massari, Preve, Salvaggiuolo, Sansa, La colata. Il partito del cemento che sta cancellando l’Italia e il suo futuro, Chiarelettere Editore, Milano 2010.
5 – Lo studio è scaricabile, in formato PDF, dal sito: www.consiglionazionalegeologi.it.
6 – Non si può dimenticare, ad esempio, la distruzione dei resti di una casa di epoca romana, rinvenuti in piazza Vittorio a Torino, durante gli scavi per costruire un parcheggio sotterraneo, che è stato portato a termine comunque prima delle Olimpiadi invernali di Torino, 2006.
7 – L’evaporazione dell’acqua da una qualsiasi superficie determina un abbassamento della temperatura della superficie stessa. Quindi, una copertura di cemento o asfalto  impedisce un’adeguata evapotraspirazione del terreno, determinando un aumento di calore. Il cemento inoltre impedisce una buona ossigenazione del terreno, per cui nel sottosuolo le specie vegetali ed animali aerobie (cioè che consumano ossigeno) sono destinate a soccombere. Progressivamente diminuirà quindi la materia organica presente nel sottosuolo, con un aumento del rischio di desertificazione.

Rosanna Novara Topino




Le «ricette» di Aminata

Senegal: incontro con la «sindachessa» di Louga

In Senegal, per una donna, è difficile avere accesso a cariche pubbliche. Le donne sono relegate ai lavori domestici. Ma il Corano non c’entra e occorre sensibilizzare entrambi i sessi sui diritti delle donne. È la battaglia di Aminata Ndiaye, già ministro, ora sindaco di Louga. Le sue battaglie vanno dalla lotta contro le mutilazioni genitali, alla democrazia partecipativa, al turismo come veicolo di sviluppo e di contrasto dell’emigrazione. L’abbiamo incontrata.

«Se si applicasse davvero quel che prescrive il Corano, la donna dovrebbe starsene tutto il giorno in panciolle, servita e riverita dal marito». Parola di Aminata Mbengue Ndiaye, senegalese. Già ministro della Donna e della Solidarietà nazionale ai tempi del governo di Abdou Diouf, Aminata è oggi presidente del movimento femminile del Partito socialista senegalese e «sindachessa» di Louga, nel Nord del paese. L’abbiamo incontrata in occasione del meeting internazionale «Turismo responsabile, lotta alla povertà e co-sviluppo» organizzato a Torino lo scorso ottobre (vedi box) allo scopo di promuovere il turismo responsabile come volano per la crescita economica e culturale dei paesi africani.
«In Senegal la donna è spesso costretta a prendere in mano le redini della famiglia e provvedere al mantenimento di tutti con il suo lavoro, complice anche l’elevata emigrazione maschile che costringe molti giovani a cercare lavoro all’estero» continua Aminata. Lei, che oggi ha 50 anni, è da sempre paladina dei diritti umani e delle donne: non a caso la prima legge africana contro le mutilazioni genitali fu varata proprio in Senegal, nel ’99, mentre Aminata Mbengue era Ministro della Donna e della Famiglia.
Tradizioni da cambiare
La carriera politica di questa «militante dello sviluppo», come lei stessa si definisce, è iniziata quand’era giovanissima, appena terminati gli studi all’École economique di Dakar: agente per lo sviluppo rurale, prima donna a capo di una sezione di formazione regionale, nel ’95 fu eletta sindaco di Louga, sua città natale, e nel ’98 direttrice del Segretariato di Stato. Dal marzo 2009 è stata riconfermata primo cittadino di Louga, mandato che ricoprirà fino al 2014. Qualcuno sussurra persino che potrebbe essere tra i papabili alle prossime elezioni presidenziali del 2012. Ma lei tiene i piedi per terra, e gli occhi puntati alle condizioni della stragrande maggioranza delle sue connazionali: «Nel nostro paese è molto difficile per le donne avere accesso alle cariche pubbliche, da loro ci si aspetta che accudiscano i figli e si occupino delle faccende domestiche». Un atteggiamento dovuto a tradizioni ataviche che relegano la donna in secondo piano. «Ma la religione non c’entra nulla» tiene a precisare Aminata Mbengue, «l’Islam esprime una posizione avanguardista di tutela delle donne; nel Corano ad esempio è scritto: se devi picchiare una donna, fallo con un filo di cotone! Il problema sono le interpretazioni fuorvianti che ne vengono date da parte di alcune etnie, favorevoli alla subordinazione della donna».
Da questo punto di vista si rende necessario «un duplice lavoro di sensibilizzazione, che renda le donne consapevoli dei propri diritti e faccia capire agli uomini, leader religiosi e politici, l’importanza di rispettarli». Un indubbio passo avanti è stata la legge votata in parlamento lo scorso 24 maggio, che ha sancito la parità di genere nelle liste elettorali. In Senegal – cosa da far invidia all’Italia e riprova, secondo Aminata, che l’Islam non pone veti all’emancipazione femminile – su 30 ministri, ben 10 sono donne.
mutilazioni: no grazie
«La nuova legge crea finalmente una situazione di equità politica e sociale, visto che le donne in Senegal rappresentano il 52% della popolazione, cioè la maggioranza» dice Aminata. La normativa dischiude loro nuove possibilità a tutti i livelli, dall’Assemblea nazionale fino alle casse rurali dei singoli municipi, con implicazioni non solo politiche ma anche economiche. Tuttavia «la legge da sola non basta, perché le donne non sono ancora abituate a parlare liberamente in pubblico, in presenza degli uomini, per esprimere le loro esigenze e i loro punti di vista. Quel che serve adesso è attivare percorsi di formazione perché le donne diventino più consapevoli delle proprie capacità ma anche più preparate e competenti, in modo da rendere davvero un buon servizio al loro paese».
Sull’importanza della formazione Aminata Mbengue Ndiaye si è sempre battuta, anche prima di diventare portavoce per l’Africa alla Conferenza mondiale delle donne tenutasi a Pechino nel ‘95, quando prese una netta posizione contro le mutilazioni genitali femminili. Da allora in questo ambito si sono fatti molti passi avanti, come l’introduzione della legge che punisce con la reclusione da 6 mesi a 5 anni chi compie queste pratiche invalidanti. Ma, anche qui, la legge da sola non basta. «Proprio perché si radicano nella cultura tradizionale e pre-islamica del Senegal, queste usanze risultano difficili da estirpare. Bisogna cambiare la mentalità delle persone, a cominciare dalle donne stesse, sia quelle che hanno subito le mutilazioni e a loro volta si tramandano la pratica di madre in figlia, sia le donne che la effettuano e per cui si devono creare occasioni di lavoro alternative». In quest’ottica, l’alfabetizzazione di ragazze e bambine sul tema dei diritti e la diffusione di maggiori conoscenze igienico-sanitarie sulle gravidanze e i parti, contribuiscono spesso all’abbandono delle vecchie pratiche, cui si rinuncia nel corso di elaborati rituali in cui si depongono simbolicamente a terra coltelli, forbici, ecc. Aminata si dice ottimista: «Oggi le mutilazioni sono molto diminuite, penso che la prossima generazione non le farà più».
Democrazia made in Louga
Ma la battaglia di Aminata Mbengue Ndiaye non riguarda solo i diritti delle donne. Perché «promuovere tali diritti rappresenta un vantaggio per tutta la società: le donne infatti sono più attente alle esigenze e al benessere non solo individuali, ma di tutta la famiglia e dell’intera collettività». Un modo di essere e di fare che si rispecchia perfettamente nello stile di governo della «sindachessa», ispirato alla «democrazia partecipativa» sul modello dei Forum sociali di Porto Alegre, cui Aminata del resto ha sempre preso parte e da cui ha tratto l’idea di creare nel proprio paese i primi bilanci partecipativi.
«Non ho mai creduto nei processi contorti della politica, ma non prendo nessuna decisione senza aver prima consultato la gente», ci spiega lei con semplicità. Così nel primo anno del suo attuale mandato ha creato undici Consigli di quartiere in modo da avvicinare la municipalità alla popolazione, direttamente interpellata per giungere poi a formulare insieme una diagnosi precisa delle varie necessità. Questo lavoro di consultazione ha coinvolto tutte le realtà della società civile nessuna esclusa, dalle donne ai giovani, dai portatori di handicap alle associazioni professionali, dai gruppi sportivi a quelli culturali, permettendo l’emergere delle priorità da affrontare nei diversi quartieri: la pulizia delle strade, l’elettrificazione di alcune zone, il sostegno all’imprenditorialità…
Raccogliendo le idee di tutti si è poi elaborata una Carta dei consigli di quartiere, in cui si sono definite le linee guida e le procedure secondo cui orientare gli interventi concreti. «Così facendo nessuno dirà che “il sindaco ha scelto” questa o quella priorità, ma che è stata la gente a decidere», spiega Aminata con una punta d’orgoglio.

Ricette anti diaspora

Tra i temi caldi dell’agenda politica di Aminata ha un posto importante la lotta all’emigrazione clandestina. Un problema cui la «sindachessa» si è sensibilizzata nel corso del tempo e dei numerosi viaggi in Europa, dove ha potuto incontrare le associazioni dei migranti senegalesi e conoscere le loro reali condizioni di vita. «Per loro è dura, tutti vogliono tornare indietro, ma in Senegal queste cose non si sanno». Perciò, ancora una volta, il lavoro di sensibilizzazione e formazione è il primo passo da compiere. Non solo per informare i giovani intenzionati ad andarsene sui rischi e le difficoltà legate alla vita da clandestino, ma anche «perché, se proprio non vogliono rinunciare a partire, lo facciano almeno dopo aver studiato e acquisito titoli e competenze da poter spendere in modo proficuo sul mercato del lavoro occidentale».
Intanto, madame Ndiaye si impegna per creare concrete occasioni d’impiego nella sua città, così da contribuire ad arrestare quell’emorragia di braccia e cervelli ormai tristemente nota come «diaspora senegalese». In quest’ottica si colloca l’impegno della «sindachessa» a favore del turismo responsabile, che l’ha portata in Italia di recente (si veda anche MC dicembre 2009). «La prima volta che sono venuta nel vostro paese è stato 30 anni fa, quando viaggiavo in cerca di appoggio per i gruppi femminili del Senegal e ho conosciuto l’Ong Cisv di Torino» racconta. Oggi, insieme a Cisv e Fondazioni4Africa, cerca di promuovere il turismo responsabile a Louga, che rappresenta un centro culturale di primaria importanza in Senegal e ogni anno attrae migliaia di visitatori, soprattutto nel periodo tra Natale e capodanno in cui si svolge il Fesfop, Festival internazionale di folklore e percussioni. «Il turismo è importante perché promuove lo sviluppo, crea posti di lavoro e occasioni di reddito, anche per le donne, impegnate ad esempio nelle attività ricettive e artigianali.
Ma la cosa più importante per me è che contribuisce a ricostruire l’immagine dell’Africa agli occhi dell’Occidente» dice Aminata. «E forse la pratica del turismo responsabile permetterà agli occidentali di guardare con occhi diversi gli africani immigrati nei loro paesi: smettendo di vederli, come spesso accade, con fastidio, disprezzo o paura».

Stefania Garini

Stefania Garini




Fratel Cico e il suo camioncino

In Roraima tra siccità e piogge abondanti

Fratel Francesco Bruno detto Cico, classe 1946 da Pinerolo, è in Roraima da molti anni. Dalla missione di Camarà, ben a nord di Boa Vista verso i confini con la Guiana, ha mandato messaggi agli amici durante tutto il 2010. Ve ne presentiamo qui degli stralci che fotografano la vita missionaria dal vivo con straordinaria freschezza.

4 marzo 2010
Sono a Boa Vista da tre giorni per partecipare all’incontro di pastorale indigenista (con tutti i missionari che lavorano con gli indigeni) e oltre a star seduti tutto il giorno e sentire tante parole, non ci sono molte novità di rilievo.
Due sono i problemi preoccupanti. In primo luogo la siccità che perdura da parecchi mesi e certamente sarà la causa di fame in molti villaggi, visto persino molte piante da frutta molto resistenti alla siccità, sono morte. Se continua così ancora un mese, in molti villaggi non ci sarà nemmeno acqua per bere, altro che piantare e coltivare.
In secondo luogo c’è la campagna elettorale in pieno svolgimento (deputati, senatori) a livello statale e federale. Per facilitare la campagna elettorale non esiste nessun controllo su quelli che entrano nelle riserve indigene a caccia di voti o per altre finalità e con molte promesse, mentre continuano le pressioni, calunnie e controlli contro missionari e chiesa in genere.
Noi missionari, abbiamo esaminato e riflettuto circa il nostro lavoro di evangelizzazione con gli indigeni, e abbiamo deciso di fare un triennio di studio e formazione, sia tra di noi, sia con gli indigeni, anche per fare un piano in comune, tenendo presenti le differenze regionali, statali e federali (il Brasile è grande!), altrimenti si continua con iniziative locali e personali che finiscono quando cambia il missionario, e questo succede sovente, con relative perplessità e difficoltà per i catechisti e collaboratori e la gente in generale.
Intanto io continuo a visitare i villaggi e rimango di media due giorni per villaggio e piano, piano comincio a conoscere la geografia e la gente molto simpatica e cordiale, e cerco di ascoltare e poi rispondere alle loro molte richieste. Le strade non esistono, ma ci sono dei sentirneri praticabili e si può passare in qualsiasi posto (compresi pantani, laghi e torrenti) grazie alla siccità. Fino a quando non piove si va in giro, accompagnati da molta polvere e bel sole caldo. Potete immaginare il tipo di “strada” visto che per andare in un villaggio a circa 40 km, ho impiegato due ore con la moto da cross.
Sono pure stato in giro a visitare i laghi, i pochi che non si sono prosciugati, assieme a un tecnico per vedere le possibilità di allevare pesci e le prospettive sembrano buone. Il progetto serve sia per creare sicurezza alimentare, sia in un futuro ancor lontano, per avere fonti di sostentamento economico.
23 marzo 2010
Tanti Cordiali auguri di Buona Pasqua! Da ieri sono a Boa Vista per aggiustare il camioncino, fare commissioni e se va tutto bene, domani ritorno alla missione e soliti giri e visite nei villaggi. Non ci sono grandi novità, la siccità perdura, ma in qualche parte di Roraima comincia a piovere e speriamo che almeno per Pasqua piova, altrimenti saranno guai seri per la popolazione.
12 aprile 2010
Finalmente è caduta la pioggia, due volte per un ora e la speranza per la gente che abita quella regione, è ritornata. Gli agricoltori però devono aspettare qualche giorno per seminare o piantare, altrimenti gli insetti vari che nascono con la pioggia, mangiano tutte le pianticelle appena nate e si moltiplicano, mentre se nascono e non trovano niente da mangiare, non si sviluppano a milioni.
2 Maggio 2010
La siccità è finita e in cambio adesso abbiamo acqua e pantani nella strada e i viaggi sono diventati più difficili e per alcuni villaggi impossibili. Piove quasi tutti i giorni. Tutto è verde, eccetto le macchie rosso-marrone delle piante morte per la siccità.
Il camioncino continua a darmi problemi, ho dovuto cambiare il filo dell’acceleratore e sbloccare i cilindretti dei freni, che erano arrugginiti. Intanto ho fatto circa 2.000 km in un mese, per visitare i villaggi e per organizzare l’allevamento pesci.
Nella missione manca spesso l’acqua (per fortuna piove e abbiamo acqua piovana) e sono pure stato dove c’è la presa d’acqua in due sorgenti diverse e ci vuole circa un ora di cammino in dura salita tra buchi e enormi sassi. Ho pulito dalla sabbia e foglie i piccoli bacini delle prese e messo una protezione, ma l’acqua non è arrivata. Il motivo è che i tubi, mal connessi, non sopportano il peso e si rompono o staccano. Non ho misurato bene, ma penso che siano almeno 10 km di tubi di cui almeno 2 km scoperti e bruciacchiati dal fuoco, e per risolvere il problema si dovrà sostituirli con quelli di ferro, resistenti alla pressione e al fuoco.
Per l’allevamento pesci, abbiamo già messo due gabbie speciali per mettere un migliaio di pesci di qualità in ciascuna, e ne stiamo preparando altre tre, delle cinque che abbiamo trovato abbandonate e praticamente ricuperato con poche spese. La prossima settimana un tecnico che ha promesso i pesci gratis, li porterà nel lago, e i pesci rimarranno nelle gabbie fino a raggiungere una dimensione tale da potersi difendere dai predatori.
Ho partecipato ai “festeggiamenti e commemorazioni” per la liberazione della terra indigena, nel villaggio di Camarà, dove molti testimoni hanno raccontato le violenze subite e i vari passi per raggiungere il riconoscimento, da parte del governo e degli invasori, che la terra di questa regione era ed è degli abitanti indigeni da sempre.
18 maggio 2010
Sono appena arrivato a Boa Vista dalla missione, e sinceramente in vari momenti del viaggio, pensavo di non arrivare oggi a causa dei ponti rotti, allagamenti, traghetto precario e pantani vari. Con le piogge i disagi per i viaggi aumentano ogni giorno, ma nonostante questo, sono stato in 4 villaggi dove la gente ha partecipato attivamente alle riunioni e funzioni.
Nelle riunioni si è parlato dei problemi locali ed eventuali soluzioni, specialmente in campo religioso, sociale e anche economico. In campo politico si deve avere molta pazienza, perché la gente, stanca degli inganni dai vari politicanti di tuo, è allergica parlare di politica, anche di quella vera che riguarda il bene comune.
Acqua, energia elettrica e strade sono praticamente inesistenti, e poi occorre pensare e stimolare la gente ad allevare animali e bestiame e anche prodotti agricoli, visto che caccia e pesca sono due attività millenari in estinzione, ma la grande difficoltà e passare da cacciatori pescatori, a coltivatori e allevatori.
Non ci sono telefoni, TV, giornali e cose simili, ma io non ne sento la mancanza, e anche il vitto non è molto vario (riso, fagioli, carne o pesce) quando c’è e quando non c’è va bene lo stesso, cosi non ci sono problemi di cure dimagranti.
4 giugno 2010
Sono stato in Lethem, Guiana per un incontro tra missionari, catechisti e tre vescovi delle tre diocesi che confinano tra Venezuela, Brasile e Guiana. Circa 50 persone per tentare di fare un lavoro di evangelizzazione insieme.
Inutile dire che ha piovuto tutto il tempo, e forte.
18 giugno 2010
Sono appena arrivato (a Boa Vista, da dove posso collegrami all’internet) dopo un viaggio “allucinante” di 250 km con pioggia, pantani, allagamenti, torrenti in piena, ponti pericolanti, crateri e buche di varie dimensioni. Il fatto è che lunedì 14 ho tentato di passare su quello che restava di un ponte e sono rimasto bloccato e in bilico con una ruota sul vuoto. Ho faticato tutta la mattina per uscire, ma ce l’ho fatta solo grazie all’aiuto di p. Carlos (Alarcon che con p. Samuel Wachira e fratel Cico formano gruppo missionario di Camarà) che col suo camioncino ha letteralmente trascinato fuori il mio. Se cadeva nell’acqua potevo dire addio al mio vecchio e utile camioncino. Sono comunqeu riuscito a ripartire nel pomeriggio.
Chi mi ha visto appena arrivato, ha detto che ero sconvolto, stravolto e sfigurato. La tecnica impiegata per superare i pantani è questa: prima di passare con l’automezzo, scendo e, a piedi nudi, attraverso il pantano per sentire se il fondo è solido e se ci sono buchi o solchi profondi, e poi se è possibile passo, altrimenti cerco un’alternativa… che non sempre esiste. Purtroppo dalla strada principale (quella descritta prima) alla missione sono 19 km e ogni giorno aumentano i buchi e solchi, lasciati da altri mezzi pesanti, e lunedì mattina ho impiegato tutto il mattino nei vari sondaggi coi piedi, per percorrere i 19 km.
É pure caduto un tirante dello sterzo, ma per fortuna in un tratto di sabbia compatta e non in un pantano, così ho potuto rimettere il pezzo avariato in posizione (provvisoria) senza fare un bagno nella melma. Si è pure rotto un pezzo del motorino di avviamento (uno di quelli fissi che non dovrebbe mai rompersi) ed è già la terza volta di quest’anno che riparo il motorino di avviamento, sempre per motivi e guasti diversi.
Nonostante questo, il lavoro continua, ho visitato tre villaggi, per la preparazione al battesimo e alla prima comunione. Il metodo, oltre che parlare, richiede l’impiego di canti, dinamiche e giochi di prestigio, celebrazioni e, alla sera, proiezioni di filmati sulla Bibbia più cartoni animati.
29 agosto 2010
Le cose che abbondano in questi ultimi 5 mesi sono: pioggia, zanzare e moscerini vari, giorno e notte. Sto per perdere la pazienza per causa dei tre motivi di cui sopra e anche per la strada impraticabile. La gente semplice, forse abituata a questo, è sempre sorridente, e francamente l’ ammiro molto. Inutile dire che aspetto con ansia che smetta un po’ di piovere e che le strade siano meno popolate da pantani e acquitrini, e che si possa transitare senza traumi…
Anche i canditati (siamo in piena campagna elettorale) tentano di passare e visitare i villaggi in cerca di voti (anche se sarebbe proibito per loro entrare in aree indigene), ma nessuno, e dico nessuno, si muove per aggiustare la strada. Io sono l’unica eccezione: quando vedo pietroni e pietre, li carico sul camioncino e li scarico nei buchi della strada. sono solo gocce in un oceano e mi ci vorrebbe una pala meccanica e un camion ribaltabile… altro cha a mano. Abbiamo cancellato vari incontri e visite a causa della pioggia e della strada intransitabile.
Una buona notizia è che il gruppo di amici del Co.Ro. di Torino (Coordinamento Roraima), ha approvato e finanziato tre progetti per questa regione, uno è la sostituzione dei tubi dell’acquedotto del villaggio di Camarà e due per allevamento pesci e bestiame gestito dai catechisti della regione.
24 settembre 2010
Sono stato alcuni giorni alla sede della missione, dopo quasi due mesi passati altrove, per causa della strada intransitabile. Ho fatto circa 300 km per evitare pantani, torrenti e ponti pericolanti, ma sono arrivato. È inutile dire che il cortile era invaso dalle erbacce e foglie. Ho fatto un po’ di pulizia. Ho dovuto riparare il tosaerba e il generatore di corrente elettrica, e anche il piccolo mulino del villaggio, che non funzionavano bene e ci faceva tribolare.
Nel villaggio di Camarà, ho visitato la scuola, con relativi giochi di prestigio e animazione vocazionale, e abbiamo anche celebrato con la comunità e pregato. Soltanto l’ultimo giorno della permanenza nel villaggio è arrivata un po’ d’acqua dai rubinetti, ma io avevo messo tutti i recipienti che avevo sotto le grondaie, e siccome piove ancora molto, ne ho avuto a sufficienza per il bagno, per bere e fare il bucato.
Abbiamo già contrattato un camion per portare i tubi di ferro per l’acquedotto di Camarà e anche quelli di cemento per fare il pozzo a san Pedro, e l’autista mi ha assicurato che li porterà in ottobre se la strada sarà praticabile…
L’ allevamento pesci funziona bene, anche se ci si arriva al lago solo a piedi o a cavallo. Appena possibile, metteremo pesci nel secondo lago; intanto nel primo lago i pesci crescono bene. Alcuni catechisti passano giorni sul posto, per aiutare a mettere il mangime che purtroppo dobbiamo comprare, perché il raccolto cereali è in ritardo a causa pioggia eccessiva.
Sono stato in un villaggio, per dei battesimi con padre Carlos. Nello stesso villaggio ho pure aiutato a fare il recinto per un allevamento di pecore.
Ancora una notizia triste. È morto a causa di un fulmine, il figlio del cornordinatore dei catechisti. Il giovane era in visita da suo fratello, che abita in un altro villaggio. Ho ho saputo la notizia della disgrazia solo due giorni dopo, e pensare che ero passato là appena un’ora prima.
Nel villaggio di Sete Estrelas un temporale ha distrutto completamente la cappella, e della scuola è rimasto solo il tetto pericolate.
La strada più breve per raggiungere la missione, per quel che ho potuto osservare, è quasi praticabile e il livello medio dell’acqua è sceso di circa 40 centimetri, per cui dove prima erano 50 centimetri adesso sono solo 10. Nelle regione pianeggiante alcuni lunghi tratti sono ancora impraticabili, invasi da oltre un metro di acqua, e se ci sono, si prendono scorciatornie e o alternative, oppure si aspetta il tempo necessario per il defluire dell’acqua, con molta pazienza.
Intanto fino al 3 ottobre, continua la campagna elettorale, e poi ci vorrà magari fino a dicembre per i vari leaderes indigeni rimettersi dalle illusioni e risultati elettorali negativi, e tutto il resto passa in secondo piano.
31 ottobre 2010
Ottobre, mese missionario, l’ho trascorso quasi sempre in giro nei villaggi, per varie feste patronali, battesimi, un incontro di catechisti e per altri impegni vari. Tra questi c’è stata anche un assemblea diocesana per studiare il tema della campagna della frateità del 2011 sul tema: «Frateità e la vita nel pianeta Terra», più un incontro con i missionari che lavorano nelle comunità indigene. In alcune di queste attività, mi hanno aiutato padre Carlos Eduardo e Suor Alda Raffaella.
Si può anche affermare che gli ultimi sei mesi sono stati caratterizzati da piogge abbondanti, e ancora più abbondante propaganda elettorale, con relativa delusione visto che nessun candidato indigeno o dei poveri è stato eletto, solo i più grandi nemici degli indigeni. Oggi termina il secondo tuo di votazione, per il presidente della repubblica e per i governatori, che non hanno raggiunto la maggioranza il primo tuo al tre ottobre. La gente semplice, distratta dalle promesse elettorali e da comizi di tutti i tipi, anche nelle comunità indigene, dimentica letteralmente i suoi diritti e i suoi doveri e anche di coltivare e allevare.
Ho passato molti momenti felici con persone semplici, che raccontano tante cose interessanti della loro vita, tradizioni e modo di vedere il mondo e anche storie di popoli estinti ma che alcuni di loro hanno conosciuto.
21 novembre 2010
Si può davvero dire che quest’anno è stato caratterizzato e condizionato da due elementi: primo, la pioggia che continua ad ostacolare viaggi e programmi, e, secondo, la campagna elettorale con tantissime feste e riunioni organizzate dai candidati e loro leccapiedi per guadagnare voti. Un anno disastroso per gli indigeni. Nessuno dei  loro candidati ha ottenuto voti sufficienti per essere eletto, così per altri quattro anni si continuerà con la stessa musica. La sola cosa positiva è stata l’elezione della nuova Presidente, che ha vinto nonostante tutte le campagne di calunnie contro di lei, organizzate dai potenti che vorrebbero ritornare al governo e affossare il processo democratico in corso nel Brasile. Gli indigeni sono delusi, smarriti, confusi e divisi a causa del processo elettorale estremamente violento, disonesto e corrotto.
Per noi missionari, non è facile mantenere una posizione serena e aiutarli a disceere le cose veramente utili e importanti per la loro vita e per le loro comunità. Ci sono anche motivi di speranza, molti catechisti e alcuni leaderes sono veramente impegnati e vale la pena aiutarli e sostenerli nella loro difficile missione.
Adesso vi descrivo alcuni giorni, per avere un idea di come le cose «vanno e non vanno» da queste parti.
Lunedì 8/11 viaggio verso la missione di Camarà, in compagnia di suor Alda Raffaella, su una strada molto difficile, data la forte pioggia del sabato precedente. Il traghetto è guasto ma con l’ultimo viaggio prima di essere riparato, ci trasporta alla sponda opposta e continuiamo il viaggio.
Martedì prendo la moto e vado in un villaggio a circa 20 km per confermare che ci sarà un assemblea di catechisti e leaderes. è il solito viaggio tra pietre, sabbia, melma e acquitrini. Al pomeriggio passo in un altro villaggio per riparare il generatore di corrente che non funziona, e al primo bullone mi scappa la chiave e buco carne e unghia del pollice.
Mercoledì riparto con la moto e, dopo circa 20 km, mentre viaggio spensierato in quinta marcia per un sentirnero battuto da biciclette, prendo una buca, sbando e faccio un bel ruzzolone e, per fortuna, cado sullo zainetto pieno di chiavi e attrezzi e mi rompo una costola. Non vi dico la fatica per rialzare la moto e riprendere il viaggio. La sera, dopo 12 ore di viaggio e 180 km, sono di ritorno alla missione avendo consegnato l’invito ai catechisti e leaderes di oltre metà dei villaggi della regione invitandoli all’assemblea mensile che si terrà nel villaggio di san Francesco. Giovedì pomeriggio, col camioncino carico del materiale necessario per l’incontro, continuo il giro per consegnare gli inviti negli altri villaggi, sempre cambiando marcia e guidando con la mano sinistra, visto che il braccio destro è quasi inutilizzabile. A notte decido di dormire in un villaggio e riprendere il viaggio l’indomani. Verso mezzanotte inizia a piovere, cosi nel viaggio di ritorno alla missione, 80 km, tutto sotto la pioggia e nella melma, impiego due ore solo per fare gli ultimi 15 km completamente allagati.
Sabato preghiera con la comunità di Camarà per festeggiare la SS. Consolata e le suore della Consolata che compiono 100 anni dalla loro fondazione. Dopo pranzo il sonnellino è interrotto bruscamente da una chiamata urgente: il camion che sta portando i tubi per l’acquedotto di Camarà è rimasto impantanato. Non vi dico la tortura del viaggio con la mia costola incrinata. Risultato: i tubi sono sul posto e adesso occorre aspettare che la comunità di Camarà trovi il tempo per collocarli al loro posto, hanno molti lavori in programma e anch’io non ho molto tempo disponibile per questo lavoro. Penso proprio che fino al prossimo anno dovremo continuare a fare il bagno con un mezzo secchio d’acqua.
Domenica 14/11 andiamo in un altro villaggio per pregare e esporre il quadro della Consolata, e al pomeriggio riporto la suora Alda a casa sua in Normandia (quasi al confine con la Guiana).
Lunedì riparto alle 6,30 e passo con il camioncino a raccogliere i catechisti e leaderes nei punti prestabiliti. Rientro alle sei di sera, molti non si sono presentati con scuse varie, ma poi sono arrivati con altri mezzi di fortuna…
Martedì, il cornordinatore dei catechisti da inizio all’assemblea tra preghiere, canti e procede intensa  con relazioni di tutti i presenti, esame della campagna elettorale e discussioni varie sul cosa fare e come fare per il 2011. Tra il resto hanno confermato l’impegno per l’allevamento del bestiame e dei pesci, e anche ad aumentare le loro piantagioni e continuare gli incontri di studio e formazione e visite nei villaggi.
Mercoledì sera, dopo aver riportato alcuni catechisti ai loro villaggi, non riesco a dormire a causa di fitte dolorose al mio pollice che, dopo 10 giorni dalla ferita, ha fatto infezione. Così al mattino di giovedì, invece di ritornare alla missione, vado a Boa Vista per curarlo. Il venerdì passa tra commissioni varie, anche l’acquisto di una canoa per il progetto di allevamento dei pesci, e la riparazione del motorino di avviamento del camioncino. La sera, quando faccio un controllo per vedere se la spia dell’olio funziona, il motore si blocca. Oggi sabato, invece di partire, ho smontato il motore e trovato il difetto nella pompa dell’olio che devo sostituire assieme alle bronzine. Molto lavoro, ma danno limitato! Penso che martedì il camioncino sarà di nuovo in condizioni di affrontare viaggi lunghi in giro per i villaggi.
Le richieste sono tante e se non succedono altre cose storte, sarò in giro tutto il mese di dicembre e festeggerò il Natale in un villaggio tra la gente semplice e simpatica.

Francesco Bruno

Francesco Bruno




Vocazione e privilegio

Sfide, attese, speranze

Due documenti finali, il Messaggio al popolo di Dio e le 44 Proposizioni, contengono i temi cruciali dibattuti al Sinodo: rinnovamento, comunione, ecumenismo, dialogo interreligioso, migrazione, pace… insieme alle attese e alle speranze di fronte alle sfide intee ed estee alle Chiese del Medio Oriente.

Eredi di civiltà prestigiose, fiere del proprio passato anche precristiano, le Chiese mediorientali costituiscono una grande ricchezza per la loro varietà. Ognuna ha mantenuto la propria identità, nonostante difficoltà e persecuzioni subite in due millenni di storia, che le ha viste ridursi progressivamente a esigue minoranze, sperdute nell’oceano islamico. Preoccupate di conservare la propria identità culturale e cultuale, si sono chiuse a riccio, impoverendosi spiritualmente, scivolando nel confessionalismo, nazionalismo o divisioni intee e diventando socialmente irrilevanti.
Con il frazionamento politico del Medio Oriente seguito alle due guerre mondiali e la nascita di nuovi stati nazionali segnati da nuovi confini, i cristiani si sono ritrovati ancora più dislocati, isolati, profughi, e spesso usati come capri espiatori per le sconfitte delle popolazioni islamiche, perché accomunati ai cristiani occidentali. La situazione attuale è più drammatica che mai: tensioni, violenze e guerre insanguinano vari paesi del Medio Oriente. Ma proprio la drammaticità del momento è uno stimolo a una maggiore coesione e comunione. Le varie chiese hanno sempre più capito che la loro forza e la loro sopravvivenza sta nell’unità.
rinnovamento e Identità missionaria
«Il primo scopo del Sinodo è di ordine pastorale» scrivono i vescovi nel loro Messaggio al popolo di Dio, a conclusione del Sinodo per il Medio Oriente. Priorità sottolineata già dai documenti preparatori del Sinodo, per «confermare e rafforzare i cristiani nella loro identità mediante la Parola di Dio e i sacramenti» (Instrumentum laboris 3).
«I nostri fedeli hanno grande sete della Parola di Dio e non trovandola da noi, vanno spesso a dissetarsi altrove… Abbiamo bisogno che la Parola di Dio sia il fondamento di qualsiasi educazione e formazione nelle nostre famiglie, chiese, scuole, soprattutto nella nostra condizione di minoranze in società a maggioranza non cristiana»; così la prima relazione degli interventi sinodali letta dal card. Antonios Naguib, patriarca di Alessandria dei Copti.
«Abbiamo testi datati secoli che non riescono più a parlare all’uomo di oggi – spiega mons. Louis Sako -. I nostri riti devono aiutare a pregare e non essere degli show. I fedeli vogliono capire e la pastorale deve essere modulata per i giovani, per i bambini, gli adulti, con linguaggi adeguati».
Catechesi e liturgia, formazione del clero e di operatori pastorali, cura della famiglia e preparazione matrimoniale, educazione dei bambini e attenzione ai giovani, promozione della donna e sua valorizzazione nella chiesa e nella società… sono temi risuonato spesso nell’aula sinodale e poi confluiti nei paragrafi delle Proposizioni e del Messaggio al popolo di Dio. 
Tale rinnovamento passa attraverso la riscoperta della propria identità missionaria. «In Oriente è nata la prima comunità cristiana; di là partirono gli apostoli per evangelizzare il mondo intero, là i primi martiri hanno irrorato di sangue la Chiesa nascente… dalle nostre Chiese partirono… i missionari verso l’estremo Oriente e verso l’Occidente portando la luce di Cristo. Noi ne siamo gli eredi e dobbiamo continuare a trasmettere il loro messaggio alle generazioni future» (Messaggio 2).
COMUNIONE E TESTIMONIANZA
Per riaccendere la tensione missionaria e testimoniare ai fedeli delle altre religioni i valori evangelici occorre essere «un cuor solo e un’anima sola». «Oggi siamo di fronte a numerose sfide. La prima viene da noi stessi e dalle nostre Chiese. Ciò che Cristo ci domanda è di accettare la nostra fede e di viverla in ogni ambito della vita. Ciò che egli domanda alle nostre Chiese è di rafforzare la comunione all’interno di ciascuna Chiesa sui iuris e tra le Chiese cattoliche di diversa tradizione… La seconda sfida viene dall’esterno, dalle condizioni politiche e dalla sicurezza nei nostri Paesi e dal pluralismo religioso» (Messaggio 3.1-2) e non si può affrontare da soli.
«Siamo sulla stessa strada – affermano i vescovi rivolgendosi alle chiese sorelle, ortodosse ed evangeliche locali -. Le nostre sfide sono le stesse e il nostro avvenire è lo stesso. Vogliamo portare insieme la testimonianza di discepoli di Cristo. Soltanto con la nostra unità possiamo compiere la missione che Dio ha affidato a tutti, malgrado la diversità delle nostre chiese» (Messaggio 7).
«In Oriente, saremo cristiani uniti o non saremo affatto», scrivevano i patriarchi in una lettera pastorale del 1991. Come dire: se si vive, si vive insieme; se si muore, si muore insieme. La comunione nella carità tra le Chiese è l’asse attorno a cui possono essere abbordate tutte le altre questioni e da cui dipendono la soluzione dei problemi e delle sfide, senza affatto minimizzarle.
Dialogo interreligioso
Nel presentare esigenze e proposte pastorali, i padri sinodali non hanno potuto evitare valutazioni di stampo politico, ricordando la complessa situazione sociale e denunciando senza sconti le condizioni di violenze e ingiustizie in cui vivono i cristiani. Hanno condannato l’occupazione israeliana nei Territori palestinesi, sottolineando al tempo stesso la «sofferenza e insicurezza in cui vivono i cittadini d’Israele»; hanno stigmatizzato qualsiasi estremismo o terrorismo, antisemitismo e antigiudaismo; hanno invitato a distinguere tra religione e politica e a non strumentalizzare il discorso religioso, tanto meno a usare la Bibbia per scopi politici (chiara allusione a chi, in Israele, si serve di suggestioni scritturistiche per giustificare nuovi insediamenti nella West Bank); hanno richiamato al rispetto della sovranità del Libano, fino a definire apertamente «guerra assassina» quella in Iraq, che ha causato «sofferenze cruente» per il popolo iracheno e uccisioni, espulsioni, dispersione dei cristiani.
Al di là di queste e altre denunce, i padri sinodali hanno ribadito l’impegno del dialogo con ebrei e musulmani come unica via percorribile per raggiungere una soluzione credibile ai conflitti in corso nel Medio Oriente. Le Proposizioni 40-42 in modo particolare dettano le linee del dialogo. Cristiani e interlocutori sono invitati «alla purificazione della memoria, al perdono reciproco del passato e alla ricerca di un avvenire comune migliore»; a cercare «nella vita di ogni giorno l’accettazione mutua malgrado le differenze» e ad operare «per edificare una società nuova, dove il pluralismo religioso è rispettato e dove il fanatismo e l’estremismo saranno esclusi».
«Le iniziative di dialogo e di cooperazione con gli ebrei sono da incoraggiarsi per approfondire i valori umani e religiosi, la libertà, la giustizia, la pace e la frateità. La lettura dell’Antico Testamento e l’approfondimento delle tradizioni del giudaismo aiutano a conoscere meglio la religione ebraica». Il richiamo alla lettura dell’Antico Testamento non è una pia esortazione, ma un chiaro monito per ricordare, a quei cristiani che rifiutano di leggerlo perché si parla di Israele, che le radici ebraiche sono fondamentali per la fede cristiana.
Riportando le parole del papa pronunciate a Colonia nel 2005, si ribadisce che «il dialogo interreligioso e interculturale tra cristiani e musulmani… è una necessità vitale, da cui dipende in gran parte il nostro avvenire… I cristiani del Medio Oriente sono chiamati a continuare il fecondo dialogo di vita con i musulmani» (42). Scuole, cliniche, ospedali e altre opere sociali e umanitarie, di cui usufruiscono in maggioranza i musulmani, sono la testimonianza più concreta del «dialogo della vita»; ma non è facile, come afferma il patriarca Naguib nella Relazione pronunciata il primo giorno del Sinodo: «A partire dagli anni ‘70 constatiamo l’avanzata dell’islam politico, che comprende diverse correnti religiose. Esso colpisce la situazione dei cristiani, soprattutto nel mondo arabo; vuole imporre un modello di vita islamico a tutti i cittadini, a volte con la violenza; costituisce dunque una minaccia per tutti, e noi dobbiamo, insieme, affrontare queste correnti estremiste».
libertà di coscienza
«Nel Medio Oriente i cristiani condividono con i musulmani la stessa vita e lo stesso destino. Edificano insieme la società. È importante promuovere la nozione di cittadinanza, la dignità della persona umana, l’uguaglianza dei diritti e dei doveri e la libertà religiosa comprensiva della libertà di culto e della libertà di coscienza» (42). Queste espressioni sono la sintesi delle riflessioni tenute in aula sui concetti di «laicità positiva» e «piena cittadinanza», due locuzioni per spiegare la distinzione tra il religioso e il politico, evitando il termine «laicità», parola sconosciuta in arabo fino all’800, tradotta con ‘almaniyyah (secolarizzazione), concetto che per i musulmani equivale ad ateismo.
I musulmani dicono che l’islam è tollerante. Per secoli cristiani ed ebrei sono stati «tollerati» e «protetti» (dhimmi) nell’impero musulmano: protezione pagata con tasse, sottomissione, discriminazione come cittadini di serie B. I cristiani oggi non chiedono di essere tollerati o ben trattati, ma di essere riconosciuti come cittadini, con gli stessi diritti, punto e basta!
Base di tutti i diritti è la libertà religiosa totale: i padri sinodali chiedono agli stati mediorientali non solo la libertà di culto, ma reclamano anche la libertà di coscienza, cioè il diritto uguale per tutti di cambiare religione e il diritto di testimoniare e proclamare apertamente la propria fede.
L’annuncio del vangelo è un obbligo per i cristiani, come per i musulmani annunciare l’islam. Ma in quasi tutti i paesi, anche in quelli che si definiscono «laici» (come Turchia e Tunisia) lo stato mette a disposizione tutti i mezzi la propaganda islamica, mentre ai cristiani è proibito proclamare apertamente la propria fede, col rischio di essere accusati di fare proselitismo. Chi si converte al cristianesimo rischia il rifiuto della società e perfino l’uccisione. In tutti i paesi arabi, eccetto il Libano, il convertito non ha pace.
Di fronte a questa situazione, alcuni padri sinodali hanno rimarcato l’aspetto intollerante e di chiusura dell’islam, citando i versetti coranici del caso. Anzi, padre Raymond Moussalli, vicario generale di Babilonia dei Caldei in Giordania, ha denunciato l’esistenza di «una deliberata campagna per cacciare i cristiani. Ci sono piani satanici dei gruppi fondamentalisti estremisti contro i cristiani non solo in Iraq, ma in tutto il Medio Oriente».
La maggioranza dei vescovi, tuttavia, ha insistito sull’esistenza di un islam tollerante e moderato e di molti musulmani desiderosi di vivere in pace con i cristiani.
Due leader musulmani moderati sono stati invitati a parlare all’assemblea sinodale, lo shiita ayatollah Mohaghegh Ahmadabadi e l’imam sunnita Al-Sammak. Sono stati ascoltati con attenzione, convenendo che teologi del genere devono essere aiutati per influire sulla base dei loro credenti. Qualcuno non ha nascosto il proprio scetticismo: «Se riuscissero a convincere i loro seguaci che i cristiani non sono kaffir, “infedeli”, sarebbe già un grosso risultato, un inizio, un primo segnale di cambiamento». «Ogni giorno i cristiani si sentono dire dagli altoparlanti, televisione, giornali, che sono infedeli e per questo vengono trattati come cittadini di seconda serie» aggiunge mons. Thomas Meram, vescovo caldeo di Urmia, in Iran.
Privilegio scomodo
Guerre, estremismi, persecuzioni, povertà… sono le principali cause della fuga dei cristiani dal Medio Oriente: il rischio di uno spopolamento di cristiani si prospetta più reale che ipotetico, se la situazione non cambierà radicalmente. Tale fuga non è solo una perdita per la Chiesa universale, ma anche un impoverimento, anzi «una catastrofe per l’islam di tutto il mondo» afferma Muhammad al-Sammak, consigliere politico del Mufti della Repubblica del Libano, invitato a parlare ai padri sinodali (vedi riquadro). Sono soprattutto cristiani laureati e professionisti a lasciare il propio paese perché, come capita nei territori palestinesi, non vedono un futuro per realizzare le loro qualità professionali.
Per consolidare la presenza dei cristiani in Medio Oriente, i padri sinodali esortano le loro Chiese a creare «un ufficio o una commissione per lo studio del fenomeno migratorio e le sue motivazioni per trovare i mezzi di contrastarlo» e a promuovere «progetti di sviluppo per limitare il fenomeno migratorio» (10). Soprattutto i cristiani sono scongiurati affinché non vendano le loro proprietà: «Visto che l’attaccamento alla terra natale è un elemento essenziale dell’identità di persone e popoli e uno spazio di libertà, esortiamo i nostri fedeli e comunità ecclesiali a non cedere alla tentazione di vendere le loro proprietà immobiliari. Per aiutare i cristiani a conservare le loro terre o acquisie di nuove, in situazioni economiche difficili, proponiamo ad esempio la creazione di progetti che si facciano carico di farle fruttificare per permettere ai proprietari di restare dignitosamente nei loro paesi. Questo sforzo deve accompagnarsi a una profonda riflessione sul senso della presenza e vocazione cristiana nel Medio Oriente» (6).
Vocazione e missione sottolineate anche dal Santo Padre nell’omelia di apertura del Sinodo: «I cristiani sono chiamati a ravvivare la coscienza di essere pietre vive della Chiesa in Medio Oriente, presso i Luoghi santi della nostra salvezza»; una vocazione da «vivere con gioia», considerata lungo i secoli «un grande privilegio». Una vocazione scomoda; bisogna vederla «dall’alto», come esorta il papa, dalla prospettiva di Dio che guida la storia: restare in questa regione non è una fatalità, ma fa parte del piano divino; è una missione d’amore: far scoprire alle popolazioni locali la bellezza del vangelo di Cristo, messaggio straordinario per salvare la vita dell’essere umano e liberarlo da ogni paura. Non è questione di proselitismo, ma un fatto di giustizia: anche i musulmani hanno diritto a conoscere il vangelo, come i cristiani hanno diritto a conoscere il Corano.
Essere cristiani oggi nei paesi del Medio Oriente richiede grande fede e molto coraggio. I padri sinodali lo ricordano senza illusioni: «Pur denunciando come ogni uomo la persecuzione e la violenza, il cristiano ricorda che essere cristiano comporta la condivisione della Croce di Cristo. Il discepolo non è più del Maestro (cf. Mt 10, 24). Il cristiano si ricorda la beatitudine dei perseguitati a causa della giustizia che avranno in eredità il Regno (cf. Mt 5,10)» (5).
APPELLO INTERNAZIONALE
«La persecuzione tuttavia deve destare la coscienza dei cristiani nel mondo a una più grande solidarietà – continua la Proposizione 5 -. Essa deve suscitare parimenti l’impegno a reclamare e a sostenere il diritto internazionale e il rispetto di tutte le persone e di tutti i popoli. Occorrerà attirare l’attenzione del mondo intero sulla situazione drammatica di certe comunità cristiane nel Medio Oriente, le quali soffrono ogni tipo di difficoltà, giungendo talvolta fino al martirio».
A nome dei loro fedeli e di tutti i cittadini mediorientali, i padri sinodali hanno concluso il Messaggio al popolo di Dio con un appello alla «comunità internazionale, in particolare l’Onu, perché lavori sinceramente a una soluzione di pace giusta e definitiva nella regione, e questo attraverso l’applicazione delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, e attraverso l’adozione delle misure giuridiche necessarie per mettere fine all’occupazione dei differenti territori arabi. Il popolo palestinese potrà così avere una patria indipendente e sovrana e vivervi nella dignità e nella stabilità. Lo stato d’Israele potrà godere pace e sicurezza all’interno delle frontiere inteazionalmente riconosciute. La città santa di Gerusalemme potrà trovare lo statuto giusto che rispetterà il suo carattere particolare, la sua santità, il suo patrimonio religioso per ciascuna delle tre religioni ebraica, cristiana e musulmana… L’Iraq potrà mettere fine alle conseguenze della guerra assassina e ristabilire la sicurezza che proteggerà tutti i suoi cittadini con tutte le loro componenti sociali, religiose e nazionali. Il Libano potrà godere della sua sovranità su tutto il territorio, fortificare l’unità nazionale e continuare la vocazione a essere il modello della convivenza tra cristiani e musulmani, attraverso il dialogo delle culture e delle religioni e la promozione delle libertà pubbliche».
Il Messaggio riconferma la condanna contro ogni forma di «violenza e terrorismo, qualsiasi estremismo religioso, ogni forma di razzismo, antisemitismo, anticristianesimo e islamofobia». In seno all’Onu c’è un giusto allarme per l’aumento dell’islamofobia, è ora che ci si preoccupi anche della crescente cristianofobia.

Benedetto Bellesi

     PER SAPERNE DI PIU’

• Cattolici di rito orientale e Chiesa latina in Medio Oriente, Pier Giorgio Gianazza, EDB 2010.
• Breve storia  delle chiese cattoliche orientali, in Medio Oriente, Alberto Elli, ETS, Milano 2010
• Cristiani a Gerusalemme, duemila anni di coraggio, Lawrence M.F. Sudbury, EMI 2010.
• Dalla terra dei due fiumi Iraq-Iran, cristiani tra l’integralismo e la guerra, Francesco Strazzari, EDB 2010.
• Nella terra di Dio, Vincent Nagle missionario a Gerusalemme, Vincent Nagle – Lorenzo Fazzini, Edizioni Lindau 2010.
• Popoli e chiese dell’Oriente cristiano, a cura di Aldo Ferrari, Edizioni Lvoro 2008.
• Nella terra di Dio, Vincent Nagle missionario a Gerusalemme, Vincent Nagle – Lorenzo Fazzini, Edizioni Lindau 2010.
• Gerusalemme città della speranza, Leslaw Daniel Chrupcala, Edizioni Terra Santa 2009.

Benedetto Bellesi




Viva la differenza!

Diversità, divisioni e ritorni all’Unità

«Il Medio Oriente ha visto sempre, dai tempi di Gesù fino ad oggi, nonostante vicende spesso difficili e tormentate, la continuità della presenza dei cristiani. In quelle terre, l’unica Chiesa di Cristo si esprime nella varietà di tradizioni liturgiche, spirituali, culturali e disciplinari delle 6 venerande Chiese orientali cattoliche sui iuris, come pure nella Tradizione latina» (Benedetto XVI, Omelia di apertura del Sinodo).

arlando di «Chiesa cattolica», noi occidentali pensiamo al singolare, alla comunità dei credenti sparsi in tutto il mondo. I cristiani mediorientali, invece, pensano al plurale, alle differenti «chiese cattoliche» che riconoscono il primato ministeriale del papa di Roma, ma hanno caratteristiche dottrinali, liturgiche e giuridiche proprie. Vengono dette anche «Chiese particolari» o «Chiese sui juris», cioè con diritto proprio, tecnicamente espresso nel Codice dei canoni delle chiese orientali.
Le Chiese sui juris sono 23, in maggioranza appartenenti ai Paesi dell’Europa centro-orientale; quelle orientali coinvolte direttamente nel Sinodo sono sei: chiesa greco-melchita, chiesa siriaca, chiesa maronita, chiesa caldea, chiesa copta, chiesa armena. Per ragioni storiche in Medio Oriente si è strutturata anche una presenza della chiesa occidentale latina. Queste chiese spesso si definiscono e si distinguono in base al «rito»: termine che non indica semplicemente azioni e gesti sacramentali, ma tutto un patrimonio teologico, liturgico, spirituale, disciplinare, culturale, artistico e storico, con cui ogni Chiesa esprime la propria fede (vedi riquadro).
Tale ricchezza e molteplicità è incomprensibile se non si tiene presente l’evoluzione storica, con cui esse si sono distinte nel corso del primo millennio cristiano dalle Chiese greca e latina.
Al principio la diversità
La diversità è iniziata al momento della nascita, il giorno di Pentecoste. Fra i tremila battezzati c’erano «giudei osservanti di ogni nazione sotto il cielo», differenti per cultura e lingua: parti, medi, elamìti, abitanti della Mesopotamia, Giudea, Cappadòcia, Ponto, Asia, Frìgia, Panfìlia, Egitto, Libia, romani, cretesi e arabi (cfr At 2,8-11).
Dalla città santa apostoli e discepoli di Cristo portarono la Buona Notizia ai popoli delle regioni affacciate sul Mediterraneo, dall’Egitto, evangelizzato da san Marco, alla Persia e ad altri popoli oltre i confini orientali dell’Impero romano per opera dell’apostolo Tommaso. Non per nulla le chiese del Medio Oriente sono orgogliose di essere chiese apostoliche.
La predicazione degli apostoli diede origine a comunità composte da cristiani-giudei e cristiani-pagani, uniti nell’unica fede in Cristo, ma distinte nella pluralità di modi d’intenderla e di esprimerla. La pluriformità aumentò dopo l’età apostolica, con la crescita e organizzazione delle comunità cristiane attorno ai vescovi, successori degli apostoli, e nelle città più importanti in campo politico e culturale. 
Mentre in Occidente c’era solo Roma, come città di profonda cultura, in Oriente, ben prima del cristianesimo, c’erano centri importantissimi come Alessandria, Edessa, Gerusalemme, Antiochia. Alle più importanti Chiese di origine apostolica fu riconosciuta particolare autorità, cinque in particolare, chiamate patriarcati (Roma, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme), che si affermarono come centri di espansione missionaria e punti di riferimento attorno ai quali fu organizzata la chiesa universale, all’interno dell’impero romano e al di là dei suoi confini, come in Armenia, Persia, Mesopotamia, Etiopia, India.
E così, mentre in Occidente unificazione e uniformità erano un fatto scontato, in Oriente si svilupparono sei varietà di tradizioni liturgiche, culturali, spirituali, disciplinari e teologiche. Dogmaticamente c’era unità, teologicamente c’era una grande ricchezza e varietà di posizioni. Nell’esegesi e interpretazione della Bibbia, per esempio, fecero scuola due grandi correnti: quella di Alessandria, più allegorica e mistica, con Origene già alla fine del II secolo; e quella di Antiochia, più grammaticale e letterale.
unità strappata
Per quattro secoli unità e pluriformità crebbero assieme, fino ai tempi delle grandi controversie cristologiche. L’evoluzione della fede cristiana fu accompagnata fin dagli inizi dall’incalzare di movimenti ereticali, riguardanti soprattutto la figura di Cristo e il mistero della sua incarnazione. Tali controversie teologiche mettevano a rischio anche la pace e l’unità sociale, per cui l’imperatore stesso si fece promotore di concili ecumenici, convocando i vescovi per risolvere le controversie.
I decreti dei primi due concili, di Nicea (325) e di Costantinopoli (381), che definirono rispettivamente la divinità di Gesù e dello Spirito Santo (da cui il credo niceno-costantinopolitano), furono accettati da tutte le chiese. Non così quelli dei concili di Efeso (431) e Calcedonia (451). A Efeso fu condannato il nestorianesimo, dottrina che sosteneva l’immutabilità di Dio e l’unione apparente tra natura divina e umana di Cristo, rifiutando a Maria l’appellativo di «Madre di Dio» (Theotókos), attribuendole semplicemente il titolo di Christotókos, genitrice della sola persona del Cristo-uomo. Questo concilio non fu accettato dalle chiese in Persia: nasceva così la chiesa assira, impropriamente chiamata nestoriana, e sostenuta dall’impero persiano in funzione anti-bizantina.
A Calcedonia fu stabilito che in Cristo esistono due nature dopo l’incarnazione in una sola persona, condannando così la dottrina di Eutiche, che affermava in Cristo la sola natura divina (monofisismo), nella quale la natura umana si fonde come una goccia d’acqua nel mare. Il rifiuto di tale concilio diede origine a chiese nazionali: chiesa egiziana o copta con la sua filiazione etiopica ed eritrea, chiesa siriaca giacobita e chiesa armena. In passato queste chiese venivano chiamate «monofisite»; oggi si definiscono «ortodosse orientali antiche», per distinguersi da quelle calcedoniane chiamate globalmente «chiesa ortodossa orientale» (o bizantina).
La chiesa bizantina rimase in comunione con la chiesa di Roma (o latina) fino al 1054, quando, dopo un progressivo e reciproco estraniamento, per motivi più politici che teologici, si consumò il grande scisma d’Oriente tra le chiese di Bisanzio e di Roma, trascinando nella rottura anche le chiese dell’Europa orientale, dando origine a una ventina di Chiese ortodosse autocefale e indipendenti.
Ritoo all’ovile
Per ricucire gli strappi furono organizzati vari concili ecumenici, con risultati non sempre incoraggianti. In alcuni casi, il fatto che alle radici delle scissioni ci fossero ragioni politiche e culturali più che dogmatiche ha favorito il ritorno spontaneo alla comunione con Roma di alcuni settori delle chiese orientali. In molti paesi dell’Oriente, poi, l’invio di missionari riuscì a creare piccole comunità favorevoli all’unità con Roma. Nacquero così le «chiese cattoliche orientali», dette in passato anche chiese «Uniate», termine non più in uso per il suo senso dispregiativo in ambito ortodosso.
Nelle chiese ortodosse, infatti, la presenza di missionari cattolici fu sentita come fumo negli occhi, la loro attività come proselitismo e i cristiani tornati alla comunione con Roma furono oggetto di disprezzo e talora anche di persecuzione. E le polemiche non sono ancora finite.
In ambito cattolico non mancarono le diffidenze nei riguardi dell’opera di riunificazione e i tentativi di latinizzare le nuove comunità, intendendo la restaurazione della comunione ecclesiale come ritorno all’«ovile» di Pietro. Di fatto i cattolici orientali rimasero sotto la giurisdizione della congregazione de Propaganda fide fino al 1917, quando fu resa autonoma la Congregazione per le Chiese Orientali.
Con il decreto Orientalium Ecclesiarum, il Concilio Vaticano II riconosce ufficialmente l’uguaglianza delle Chiese cattoliche orientali con quella latina, le invita a riscoprire le loro autentiche tradizioni e afferma la loro speciale vocazione nel promuovere le relazioni ecumeniche con gli Ortodossi. La loro vita ecclesiastica è regolata in base al Codice di canoni delle Chiese orientali, promulgato da Giovanni Paolo II nel 1990 ed entrato in vigore il 1° ottobre dell’anno seguente. Secondo il nuovo Codice esse sono suddivise in quattro categorie: Chiese patriarcali (Caldea, Armena, Copta, Siriaca, Maronita, Melchita), Arcivescovili maggiori (Ucraina, Romena, Siromalabarese, Siromalankarese), Metropolitane sui juris (Etiopica, Ruteniana americana, Slovacca), Chiese sui juris (Albanese, Bielorussa, Bulgara, Croata, Greca, Italo-albanese, Macedone, Ungherese, Russa).
Pericoloso contarsi
La regione che nell’uso comune viene indicata con l’espressione Medio Oriente abbraccia ben 16 paesi, che vanno dall’Egitto all’Iran, passando per Israele e Territori Palestinesi, Giordania, Libano, Cipro, Turchia, Siria, Iraq e Paesi del Golfo Persico (Arabia Saudita, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Oman, Qatar, Yemen) e copre una superficie di oltre 7 milioni di kmq, con una popolazione di circa 370 milioni di abitanti, in grande maggioranza musulmani; in questo oceano islamico il numero dei cristiani delle differenti confessioni (ortodossa, cattolica, protestante) oscilla tra i 13 e i 16 milioni. Si tratta quindi di una minoranza, 3-4% circa dell’intera popolazione mediorientale, distribuita in maniera molto dissimile da paese a paese, da un meno 1% in Iran al circa 40% in Libano.
I cattolici del Medio Oriente coinvolti nel Sinodo contano circa 4-5 milioni di fedeli: una minoranza nella minoranza. Essi appartengono a sette chiese di tradizione o rito differenti: i sei Patriarcati orientali, a cui si aggiunge, per ragioni storiche, il patriarcato di Gerusalemme dei latini, di tradizione e rito latino (vedi riquadro).
Per varie ragioni, il numero dei cristiani mediorientali (cattolici compresi) è soggetto a variabilità e indeterminazione. Nei censimenti ufficiali di diversi stati (Libano, Siria, Iraq), non viene rilevata l’appartenenza religiosa e le stime ufficiose proposte sono spesso adattate e manipolate per mostrare rapporti di maggioranza o minoranza rilevanti nella vita sociale e politica del paese. In società fortemente tribali come nel Medio Oriente, il clan o la comunità vale e conta in proporzione del numero dei suoi membri. Per questo in Libano, per esempio, da molti decenni non si tiene un censimento, per paura che la disparità demografica tra i vari gruppi religiosi possa compromettere l’equilibrio sociale e politico sempre in bilico. Istruttivo è pure il caso dell’Egitto: secondo il governo, i cristiani copti sarebbero 6 milioni, mentre la Chiesa copta ne conta 12 milioni.
Ma anche i dati foiti dalle stesse chiese locali non sono sempre affidabili, sia per mancanza di censimenti scientifici, sia perché vengono gonfiati per motivi apologetici o per richiedere diritti e privilegi, sia perché vengono ridotti al minimo per evitare di assumere oneri e responsabilità.
La varietà e indeterminatezza statistiche sono dovute anche all’emigrazione (o fuga) dei cristiani, ortodossi e cattolici, dalle zone di presenza storica in Medio Oriente, specie dai paesi in preda a guerre, violenze e intolleranze religiose, in cui si paventa la loro totale scomparsa.
Il fenomeno non è nuovo: nella prima metà del secolo scorso, lo sterminio degli armeni e poi la cacciata dei greci dalla Turchia, ad esempio, furono di proporzioni colossali. Oggi, però, esso sta aumentando, fino a produrre un esito inatteso: molte diocesi create nella diaspora dagli emigranti dal Medio Oriente sono più ricche e popolose delle chiese madri. I cristiani armeni, ad esempio, sono da decenni più numerosi nella diaspora che nella terra d’origine, mentre i maroniti libanesi hanno diocesi di emigrati negli Stati Uniti, Canada, Messico, Brasile, Argentina, Australia. Le «statistiche» ufficiose calcolano che 12 milioni di cristiani, di diverse confessioni, risiedono nei territori patriarcali, mentre più di 7 milioni sono nella diaspora.
una chiesa pellegrina
Negli ultimi decenni un fenomeno nuovo sembra tamponare l’emorragia: flussi migratori stanno vacendo lievitare la presenza cristiana proprio in quelle regioni che fino a oggi appaiono le più impermeabili al cristianesimo, come i paesi del Golfo.
Il boom petrolifero, la costruzione di infrastrutture, gli investimenti in edilizia hanno richiamato in Arabia Saudita e nel resto della penisola arabica oltre 13 milioni di lavoratori migranti, provenienti dall’estremo oriente (indiani, filippini, singalesi, vietnamiti…), dall’Africa (etiopi, sudanesi…), dal Sud America, nonché dai vicini Libano, Siria, Iraq, Palestina. Il fenomeno è in continuo aumento.
Tra questi migranti, circa tre milioni sono cattolici. In Arabia Saudita, su una popolazione di 28,5 milioni di abitanti (8 milioni di immigrati) i cattolici sarebbero quasi due milioni. Negli Emirati Arabi dove gli immigrati superano ormai la popolazione locale (sei milioni), i cristiani sarebbero un milione, metà dei quali cattolici. Analoghe proporzioni si riscontrano in Barhein, Oman, Qatar, Kuwait.
È vero che non si tratta di autoctoni convertiti, ma di semplici lavoratori che puntano a guadagnare abbastanza per poi ritornare nei paesi di origine, di comunità instabili per natura, di una «chiesa pellegrina», come si esprimono i padri sinodali, ma non per questo priva di semi di speranze, capaci di modificare gli scenari religiosi del futuro, nonostante le difficoltà e le limitazioni con cui si scontra la pratica della fede delle comunità cristiane e cattoliche.
Il paese più repressivo è ancora l’Arabia Saudita, teocratica e influenzata dal wahabismo; gli altri paesi del Golfo sembrano lasciare maggiori spazi alla libertà religiosa; negli Emirati sono sorte alcune parrocchie; nel Qatar è stata costruita una chiesa capace di accogliere fino a 5 mila fedeli.
nuova pentecoste
Un nuovo e significativo fenomeno interessa il cristianesimo del Medio Oriente: la chiesa giudeo-cristiana, scomparsa dopo i primi secoli, sta rinascendo oggi in Israele, grazie soprattutto all’immigrazione dai paesi dell’Est Europa. I cristiani di lingua ebraica non sono molti, ma è già un segno incoraggiante (vedi riquadro).
I padri sinodali hanno parlato di «nuova Pentecoste», non solo per lo Spirito Santo che li ha animati, ma anche per la varietà di lingue, popoli e culture che sono la ricchezza dell’unica Chiesa di Cristo. I popoli menzionati in quell’evento profetico ci sono tutti… e di più: cristiani autoctoni di antica origine, risalenti ai primi secoli del cristianesimo (ebrei, arabi o arabofoni, turchi, iraniani, greci…), e cristiani delle ultime generazioni di tutti i continenti, di ogni colore e razza.

Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Luoghi santi visti dall’«alto»

Presentazione Dossier

«Il dato principale di questo sinodo – afferma il segretario generale mons. Nikola Eterovic – è il fatto che il sinodo ci sia stato. Non era scontato!». A lanciare l’idea di convocare un sinodo sulla situazione delle minoranze cristiane mediorientali fu l’arcivescovo caldeo di Kirkuk, mons. Louis Sako, nel gennaio 2009, durante la visita ad limina dei vescovi dell’Iraq. Il Papa rispose subito che era una buona idea: durante il pellegrinaggio in Terra Santa (8-15 maggio 2009) accolse la petizione firmata da vescovi e patriarchi e il 19 settembre 2009 indisse ufficialmente l’assise sinodale, annunciandone anche il tema: La Chiesa cattolica nel Medio Oriente: comunione e testimonianza. “La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuore solo e un’anima sola” (At 4.32).
L’iter preparatorio si svolse in tempo da record. Formato subito il consiglio presinodale (7 patriarchi, 2 presidenti di conferenze episcopali, 4 capi di dicasteri vaticani), in tre incontri di due giorni ciascuno fu redatto il testo dei Lineamenta e le relative domande. Fu pubblicato l’8 dicembre 2009 in 4 lingue (arabo, francese, inglese e italiano) e inviato alle chiese in Oriente e nella diaspora; furono raccolte le risposte nell’aprile 2010 e integrate nell’Instrumentum laboris, testo base per la discussione sinodale, reso pubblico dal Papa nel corso della sua visita apostolica a Cipro nel mese di giugno 2010.
Tempo-record anche nell’esecuzione. La più breve assemblea mai celebrata finora: solo 14 giorni, dal 10 al 24 ottobre 2010, a differenza dei precedenti durati almeno tre settimane.
Inoltre, nei sinodi tenuti nel passato, su temi riguardanti la chiesa universale o uno specifico continente, la maggioranza dei vescovi appartenevano alla chiesa occidentale e la presenza degli orientali era definita «minoranza qualificata». Quello attuale riguarda, per la prima volta, questa «minoranza», disseminata in un territorio che possiamo definire «transcontinentale», che abbraccia 16 paesi, dall’Egitto all’Iran, ma soprattutto riunisce, oltre alla chiesa latina, altre 6 chiese cattoliche, ciascuna con un patriarca o vescovo leader, i cui fedeli sono presenti nei paesi mediorientali solo in parte: buona parte i essi vivono nella diaspora in Europa, nelle Americhe e in Australia.

Un sinodo ben diverso da quelli continentali del passato anche per le cifre. I partecipanti a questa assise sono stati circa 330: 173 padri sinodali, di cui 159 ex officio e 17 di nomina pontificia, 36 esperti e 34 uditori, 13 «delegati fratei» di altre confessioni cristiane, numerosi assistenti, traduttori e personale tecnico impegnati nei servizi richiesti dallo svolgimento del sinodo.
Vi sono state 14 congregazioni generali, con 125 interventi di padri sinodali di 5 minuti ciascuno, più 5 consegnati per iscritto e oltre 100 interventi liberi. Sono stati ascoltati anche 12 delegati fratei, un rappresentante ebreo e due musulmani, un sunnita e uno sciita. Più articolati sono stati gli interventi nei cosiddetti «circoli minori», gruppi di lavoro divisi nelle quattro lingue ufficiali del sinodo: arabo, inglese, francese, italiano.
A parte i numeri, l’importanza dell’Assemblea speciale per il Medio Oriente vanta altri primati. La maggioranza dei partecipanti erano di cultura e lingua araba e lo hanno dimostrato nei loro interventi in aula (primo ed unico sinodo dove l’arabo è stato, insieme al francese, la lingua franca dei vescovi), come nelle pause e momenti liberi, conversazioni e discussioni fuori dell’aula sinodale. Tutto questo ha ricordato che «l’arabo è una lingua cristiana e che “arabo” non si identifica con musulmano» afferma l’islamologo gesuita Samir Khalil Samir.
Inoltre questo è stato il primo sinodo realmente «ecumenico», perché ha coinvolto i leader delle principali comunità ecclesiali attive nell’area mediorientale e perché i problemi trattati e le decisioni prese non interessavano solo i cattolici, ma riguardavano anche le sorti delle Chiese ortodosse. Anzi, questo Sinodo, forse più degli altri, è stato importante per la Chiesa universale.

I cristiani del Medio Oriente sono una minoranza esigua nel grande oceano dell’islamismo. I cattolici sono una minoranza della minoranza. Per questo forse sono poco conosciuti o addirittura dimenticati. Eppure non è azzardato affermare che il Medio Oriente è una sorta di «concentrato» dei problemi della Chiesa universale. Già nei documenti preparatori, Lineamenta e Instrumentum laboris, sono messe sul tappeto questioni ecclesiologiche (giurisdizione tra patriarcati, Chiese e riti diversi), interreligiose (i rapporti con le fedi abramitiche) e socio-politiche (diritti delle minoranze e conflitti).
Nell’attuale situazione di globalizzazione, molti degli interrogativi e delle sfide delle chiese mediorientali sono comuni anche all’Occidente: come dialogare con il mondo islamico? Come superare l’integralismo religioso? Come sconfiggere il terrorismo? Come frenare l’emorragia dell’emigrazione? Come costruire pace e sicurezza per i popoli afflitti da endemiche tensioni e conflitti? Le risposte che i padri sinodali suggeriscono servono non solo alle popolazioni del Medio Oriente, ma vanno a vantaggio anche del mondo occidentale.
Portando alla ribalta la pluralità di cultura e tradizioni dei cristiani del Medio Oriente, la loro resistenza nella fede in una storia millenaria segnata da ostilità e persecuzioni, il sinodo offre alla Chiesa universale un esempio su cui specchiarsi. Al tempo stesso l’assemblea sinodale ha usato ogni mezzo per renderla consapevole della vita, difficoltà e sofferenze, ma pure della vocazione unica e del futuro dei cristiani in Medio Oriente, al fine di promuovere una maggiore solidarietà con questi fedeli e le rispettive Chiese.

Cosa sarebbe un Medio Oriente senza cristiani? Non è una domanda retorica: la fuga dei cristiani dai paesi di origine continua e sembra inarrestabile di fronte al crescere della situazione d’instabilità generale e del clima d’insicurezza che regnano ormai da vari anni nell’area. L’allarme è risuonato spesso nell’aula sinodale: la culla del cristianesimo rischia di rimanere senza cristiani. Tale perdita non danneggerebbe solo le regioni interessate, ma impoverirebbe tutta la Chiesa, privandola della memoria e del vero senso della fede, delle radici e del destino finale della vita cristiana.
Dall’Egitto, terra di Mosè, alla Turchia, terra delle prime comunità cristiane, si estende una regione a cui dobbiamo guardare con fede, afferma il papa nell’omelia di apertura del sinodo: «Dio la vede da una prospettiva diversa, si direbbe “dall’alto”: è la terra di Abramo, di Isacco e di Giacobbe; la terra dell’esodo e del ritorno dall’esilio; la terra del tempio e dei profeti; la terra in cui il Figlio Unigenito è nato da Maria, è vissuto, è morto ed è risorto; la culla della Chiesa, costituita per portare il Vangelo di Cristo sino ai confini del mondo. E noi pure, come credenti, guardiamo al Medio Oriente con questo sguardo, nella prospettiva della storia della salvezza… Guardare quella parte del mondo nella prospettiva di Dio significa riconoscere in essa la “culla” di un disegno universale di salvezza nell’amore, un mistero di comunione che si attua nella libertà e perciò chiede agli uomini una risposta».
I luoghi santi non costituiscono una preoccupazione tra le tante, ma una priorità per la Chiesa cattolica e per i cristiani. Essi non solo racchiudono la culla della nostra fede, ma contengono il simbolo del nostro destino e dell’intera umanità. «Chiedete pace per Gerusalemme, perché tutti là siamo nati» (cfr Sal 87). «Sion, altura stupenda, gloria di tutta la terra» (Sal 48,3), è «il monte santo», «la casa di tutti i popoli», luogo in cui sono convocati «insieme tutti i popoli e nazioni» (cfr Is 25,6; 43,9; 56,7). Tale convocazione conserva intatto tutto il suo fascino: l’intera umanità guarda a quella città santa, avvertendo di avere con essa profondi legami. Per un misterioso disegno divino, quando ci sarà «pace nelle sue mura», ci sarà pace per tutti i popoli.

Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Cana (18) Ecco il santuario della santa alleanza

Il racconto delle nozze di Cana (18)

Iniziamo in modo sistematico l’analisi del testo, cercando di assaporare parola per parola, facendole risuonare nel contesto immediato, ma specialmente in quello più ampio dell’intera Scrittura e tradizione giudaica. Gli Ebrei, quando scrivono la Bibbia, sono soliti oare con coroncine ogni singola lettera dell’alfabeto, quasi per sottolineare che non solo ogni parola, ma anche ogni singola consonante (in ebraico non esistono le vocali) è venerata come una «regina». Questo senso di rispetto per le parole è dovuto alla loro funzione: sono il mezzo con cui si esprime «la Parola» di Dio. In ebraico il termine «Davàr» ha un doppio significato, quasi opposto: «Parola e Fatto». Quando Dio parla, agisce e la sua azione è un evento, come avviene nella creazione (cf Gen 1, 6-7.9-11.14-15.24.29-30).  
Gli Ebrei ritengono che le lettere del loro alfabeto sono state create al crepuscolo tra il sesto giorno della creazione e l’inizio del primo sabato e Dio stesso le ha conservate gelosamente in vista dell’alleanza del monte Sinai, dove con esse avrebbe scritto sulla pietra le lettere di fuoco della Toràh (cf Ger 23,29; Mishnàh, Pirqè Avòt-Detti dei Padri, V,6; Talmùd Babilonese, Sanhedrin 34a). Il lettore non si meravigli se saremo pignoli, gustando e assaporando quasi ogni parola: questo sarà il segno del nostro rispetto per il Lògos incarnato, ma anche il nostro modo di «stare sulla Parola» (cf Gv 8,31) che diventa Parola studiata, meditata e pregata, adempiendo il sacrificio perfetto, come rilevano i saggi di Israele:
«Chi si dedica allo studio della Toràh, ovunque nel mondo (anche fuori Gerusalemme), sono considerati da Me (il Signore) come se bruciassero offerte al mio Nome» (Rabbì Samuel bar Nahman a nome di R. Yonathan). «Chi dedica la notte allo studio della Toràh è considerato dalla Scrittura come se avesse partecipato al sacrificio del Tempio» (R. Yohanan). Un altro rabbi, anonimo, commenta: «Senza il Tempio [= in diasporà?], come puoi ottenere l’espiazione dei peccati? Studia le parole della Toràh che sono paragonate ai sacrifici e così otterrai l’espiazione dei peccati per te» (Urbach, Les Sages d’Israël, 627-628; 950, nota 402).
Chi si accosta alla Parola di Dio deve essere predisposto a mangiarla come dice il profeta:
«“Figlio dell’uomo, mangia ciò che ti sta davanti, mangia questo rotolo, poi va’ e parla alla casa d’Israele”. 2Io aprii la bocca ed egli mi fece mangiare quel rotolo, 3dicendomi: “Figlio dell’uomo, nutri il tuo ventre e riempi le tue viscere con questo rotolo che ti porgo”. Io lo mangiai: fu per la mia bocca dolce come il miele. 4Poi egli mi disse: “Figlio dell’uomo, va’, rècati alla casa d’Israele e riferisci loro le mie parole”» (Ez 3,2-4).
Togliamoci i sandali dai piedi del nostro cuore (cf Es 3,5) ed entriamo nel santuario della parola del vangelo, e lasciamoci invadere e pervadere dal significato nascosto che l’evangelista ha tenuto in serbo per noi. Tralasciamo dell’espressione «terzo giorno», già abbondantemente esaminato nelle puntate precedenti (cf, p. es., MC 7/8 (2010) 25-26).
Gv 2,1b: «Uno sposalizio» – 1
Il termine «sposalizio», in greco «gàmos» al singolare, in Gv è usato solo 2 volte e solo nel racconto di Cana; si usa anche al plurale «gàmoi – nozze». In tutto il NT, oltre Gv 2, il termine è usato 7 volte al singolare (cf Mt 22,8.10.11.12; Eb 13,4; Ap 19,7.9) e 9 al plurale (cf Mt 22,2.3.4.9.10; Lc 14,8; 12,36; 16,18[2x]). Nell’AT si trova 15 volte al singolare e 3 al plurale.
Il termine «sposalizio – gàmos» nel racconto di Cana è ripetuto due volte: «Uno sposalizio avvenne…» (Gv 2,1,1); «fu chiamato anche Gesù e i suoi discepoli allo sposalizio» (Gv 2,2); le ricorrenze sarebbero però tre se si considera la variante del codice sinaitico (sec. IV): «Vino non (ne) avevano, perché era-stato-completamente-terminato il vino dello sposalizio» (Gv 2,3).
Questa insistenza «ostinata» non ha senso nel contesto generale del racconto per dire che c’era solo un matrimonio; ma acquisterebbe un significato straordinariamente forte se il riferimento fosse di natura teologica, con lo scopo di mettere in solenne evidenza il tema della nuzialità, che tra le esperienze umane è l’unica categoria che può descrivere la relazione tra Dio/Sposo e Israele/sposa e che Dio stesso ha assunto come espressione della sua relazione con Israele. La letteratura profetica è abbondantissima al riguardo (cf Os 2,16-25; Is 50,1; 54,48; 62,4-5; Ger 2,1-2; 3,1-13; Ez 16, ecc.).
Di per sé, sposalizio sarebbe un termine banale, se non fosse che Gv, nel testo greco, lo colloca in posizione centrale tra l’indicazione di tempo (terzo giorno) e di luogo (Cana di Galilea), quasi a volerlo mettere in evidenza tra tempo e spazio, due cornordinate che convergono verso «uno sposalizio»: «E il terzo giorno uno sposalizio divenne/accadde (ci fu) in Cana di Galilea» (Gv 2,1). La forma al singolare usata potrebbe significare che si tratti di un fatto proprio «singolare» per la sua unicità: in tutto il quarto vangelo non lo incontreremo più. È un evento unico e assoluto, sia nella vita di Gesù (e questo dovrà pur dire qualcosa!) sia nel vangelo (l’autore lo sottolinea).
La festa di nozze quindi ha un’importanza che supera il significato di un semplice matrimonio tra una ragazza e un ragazzo: esso piuttosto è il veicolo per un significato profondo e unico che l’evangelista vuole farci scoprire. Compito dell’esegesi è trovare questo qualcosa di più profondo, irripetibile.
Al tempo stesso dobbiamo collegare lo sposalizio unico e irripetibile di Gv 2,1 con la  prima conclusione del racconto (cf Gv 2,11), dove Giovanni stesso dice che questo fatto, ovvio per un verso e unico per l’altro, costituisce «il principio dei segni» e quindi indica qualcosa che si rinnova, come frutto di una sorgente zampillante. Se c’è un «principio», deve esserci anche una conseguenza logica di continuità, come un fiume che ha il suo «principio» nella sorgente di montagna e il suo naturale sbocco nel mare. Il «principio» non ha una valenza cronologico-temporale, ma si attesta sul fondamento dell’esistenza. Si tratta di un evento talmente unico e «singolare» che «accade» sovente. In altre parole: il significato che l’evangelista ci conduce a scoprire ha un valore permanente; lo sposalizio di cui parla non è un semplice matrimonio, ma un evento che determina una svolta decisiva, origine a sua volta degli avvenimenti della storia che si rinnova.
Il matrimonio è solo un espediente per parlare del senso nascosto di cui esso è un simbolo perché la realtà del racconto riguarda la persona stessa di Gesù, la sua natura e missione. Con il racconto di uno sposalizio reale, assunto a simbolo della nuova rivelazione che il Lògos compie per sempre, l’evangelista fa teologia per dire «chi è Gesù». Ci troviamo di fronte ad una cristologia alta.
È evidente che Gv fa riferimento allo sposalizio unico e irripetibile avvenuto nell’alleanza tra Dio e il suo popolo, Israele, celebrata in forma solenne sul Sinai e dopo più volte compromessa. È l’alleanza l’ambito che spiega perché Gesù fa irruzione «nel terzo giorno» in cui confluiscono due versanti: il versante della storia passata «già» accaduta (monte Sinai) e quella che «ancora» deve avvenire (terzo giorno della risurrezione, monte Gòlgota).
a) Tra due monti, il Sinai e il Gòlgota, un solo Nome
Lo sposalizio di Cana sta tra questi due vertici che si materializzano in due monti, Sinai e Gòlgota, per unirli tra loro in un rapporto non di causa-effetto, ma di compimento: il Sinai è la rivelazione di Dio, anticipo assoluto della manifestazione della gloria che nella crocifissione e risurrezione troverà il suo culmine e massimo splendore.
Il legame tra il Sinai/alleanza e il Gòlgota/risurrezione non è una ipotesi, perché è lo stesso Gv che lo pone in maniera forte e indiscussa. Nella narrazione della cattura di Gesù nell’orto del Getsèmani, facendo attenzione al testo greco, scopriamo sfumature di altissimo valore che purtroppo le traduzioni, compresa l’ultima della Cei (2008), non colgono, ma alle quali l’evangelista dà enorme importanza. Leggiamo il testo nell’ultima versione Cei:
«2Anche Giuda, il traditore, conosceva quel luogo, perché Gesù spesso si era trovato là con i suoi discepoli.  3Giuda dunque vi andò, dopo aver preso un gruppo di soldati e alcune guardie foite dai capi dei sacerdoti e dai farisei, con lantee, fiaccole e armi. 4Gesù allora, sapendo tutto quello che doveva accadergli, si fece innanzi e disse loro: “Chi cercate?”. 5Risposero: “Gesù, il Nazareno”. Disse loro Gesù: “Sono io!”. Vi era con loro anche Giuda, il traditore. 6Appena disse loro “Sono io”, indietreggiarono e caddero a terra. 7Domandò loro di nuovo: “Chi cercate?”. Risposero: “Gesù, il Nazareno”. 8Gesù replicò: “Vi ho detto: sono io”» (Gv 18,2-8).
Per tre volte l’evangelista riporta l’espressione «Sono io!» e in Gv una parola o un senso ripetuto due volte contiene in sé un significato nascosto e più profondo; ripetuta tre volte deve essere un richiamo per un senso ancora più profondo.
L’espressione non è solo una risposta di identità come dire: «Eccomi qua!». Il testo greco suona esattamente così: «Egô eimì» (Gv 18,5.6.8) che non può essere tradotto semplicemente con «Sono io», che banalizza la risposta: il testo greco, che raramente usa il pronome personale con i verbi, pone «prima» il pronome e solo dopo il «verbo». L’uso del pronome di prima persona singolare, «Egô», si spiega con l’intenzione di volere mettere una forte enfasi sull’espressione e quindi nella traduzione il pronome deve precedere il verbo. In altre parole bisogna mantenere la costruzione del greco. Il traduttore accorto deve rendere la pregnanza e intensità dell’espressione «Io-Sono!», che richiama la visione di Mosè ai piedi del monte Sinai, quando contemplò lo spettacolo del roveto ardente.
Alla domanda: «Chi cercate?», soldati e guardie rispondono che essi cercano l’uomo di Nàzaret, cioè uno come loro, anzi un sovversivo che da fastidio al potere religioso e politico. Nella risposta, invece, Gesù non dice: «Eccomi qua! Sono io!», ma si presenta con le stesse parole con cui nella Bibbia greca della Lxx, Yhwh presenta se stesso a Mosè nel roveto ardente: «Egô eimì», che correttamente deve essere tradotto con «Io-Sono», è il nome greco di Dio che traduce quello ebraico «’ehyèh». Lo ammette in nota la stessa Bibbia-Cei (2008): «Tre volte Gesù risponde Sono io, espressione in cui risuona l’eco del nome divino (cfr. Es 3,14; cfr. Gv 8,24)».
Se il riferimento è dunque alla prima manifestazione di Dio ai piedi del Sinai, allora bisogna tradurlo con lo stesso criterio e stesso modo e cioè: «Io-Sono» che è il nome proprio di Dio, il sigillo con cui Mosè deve presentarsi al popolo schiavo in Egitto: «Così dirai agli Israeliti: “Io-Sono mi ha mandato a voi”» (Es 3,14).
b) In ginocchio davanti a Gesù come davanti a Yhwh
Un altro elemento ci aiuta in questa prospettiva; quando Mosè si avvicina troppo al monte per vedere il roveto che brucia senza consumarsi, è interdetto da Dio che si svela: «E disse: “Io-Sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe”. Mosè allora si coprì il volto, perché aveva paura di guardare verso Dio» (Es 3,6). Mosè si copre il volto (nota della Bibbia-Cei spiega come sottolineatura della «trascendenza di Dio») e cade in ginocchio, perché quel nome «Io-Sono!» è carico della trascendenza e Presenza/Shekinàh di Dio, davanti alla quale bisogna coprirsi il volto, perché chi vede il volto di Dio muore.
Nel Getsèmani avviene la stessa esperienza: soldati ed emissari dei sacerdoti (potere religioso e politico) hanno la rivelazione del Dio di Mosè nell’uomo Gesù di Nàzaret. Appena i soldati e le guardie sentono pronunciare il Nome santo, «Egô eimì – Yhwh», hanno coscienza di non trovarsi più davanti all’uomo di Nàzaret, ma di fronte al Dio del Sinai e per questo «indietreggiarono e caddero a terra» (Gv 18,6), come Mosè che deve nascondere il volto, abbassandosi fino a terra davanti a Yhwh.
Nella cattura di Gesù ci troviamo davanti a una professione di fede: soldati e guardie del tempio vanno ad arrestare Gesù e incontrano il Dio di Mosè.
Se Gesù ha parlato in aramaico deve avere detto: «’anàh denàh» che significa «Io (sono) questo»; ma poiché Giovanni sottolinea la reazione dei soldati identica a quella di Mosè, con ogni probabilità Gesù ha detto in ebraico solo il pronome «’anokî», letteralmente «Io/io(sono)»; ma se consideriamo che la forma è quella «piena», enfatica e solenne, è facile propendere che l’intenzione dell’evangelista è chiara: vuole porre Gesù, l’uomo di Nàzaret sullo stesso piano del Dio Yhwh dell’Esodo. Il testo che noi possediamo però è in greco, per cui il raffronto deve essere fatto tra il testo greco del vangelo e quello greco della Bibbia della Lxx che i primi cristiani usavano come loro Scrittura.
In questo ampio contesto che dà respiro a tutta la Scrittura, comprendiamo che non si possono più leggere i singoli episodi dei vangeli chiusi in se stessi, ma è necessario respirarli nell’ampio mare della rivelazione scritta presa nel suo insieme perché esprime un solo obiettivo, una sola promessa, una sola alleanza.
Per Gv lo sposalizio di Cana è il raccordo, quasi la cerniera che unisce l’AT con il NT, il ponte gettato dal Sinai fino al Calvario: la rivelazione di YHWH sul Sinai si compie e si consuma definitivamente sul Gòlgota, dove l’impotenza suprema del Figlio fa da specchio all’onnipotenza cosmica del Dio del Sinai. Tra i due monti che iniziano e completano l’alleanza nuziale, vi è la cittadina di Cana che offre il simbolo povero di uno sposalizio come «segnale» dell’intera storia della salvezza, o meglio della storia che si fa realmente salvezza.
Resta però anche vero il fatto che tutto parte da un  matrimonio reale tra un uomo e una donna, sebbene anonimi, e uno sposalizio in Palestina è occasione di festa per il villaggio. Ad esso è invitata la madre di Gesù. Forse Gesù è di passaggio e, come era usanza, partecipa alla festa. È probabile che sia un fatto vero, perché il matrimonio è un evento civile comune nella Palestina di Gesù e non ha alcuna valenza religiosa, anche nello svolgimento, perché tutto avviene tra la casa della sposa e la casa dello sposo. Nessun richiamo alla religione e nessun simbolo religioso è visibile in un contratto di matrimonio.
Partendo da un fatto o da un racconto, l’evangelista costruisce non la teologia del «matrimonio cristiano» che, come abbiamo già detto altre volte, è totalmente assente dal suo orizzonte, ma impone una teologia cristologica: Gesù è Yhwh che nuovamente riprende le fila dell’alleanza nuziale per portarla a compimento come aveva annunciato il profeta Geremia: «Ecco verranno giorni nei quali con la casa d’Israele e con la casa di Giuda concluderò una alleanza nuova» (Ger 31,31). Attraverso un fatto banale l’autore ci conduce in profondità a scoprire la personalità di Gesù che ha appena presentato come «Lògos» divenuto «carne» (cf Gv 1,1.14) per «compiere» le nozze del Regno.
Come si svolgeva il matrimonio al tempo di Gesù? Nella prossima puntata in una nota storica, descriveremo brevemente le modalità dello svolgimento del matrimonio e della festa che ci faranno gustare di più il valore antropologico e teologico del racconto dello sposalizio di Can. [continua – 18]

Paolo Farinella

Paolo Farinella




Le mani nelle urne

Reportage: al voto la perla delle Antille

Sull’isola caraibica anche le elezioni sono imposte dalla comunità internazionale. Sebbene non ci siano le condizioni per realizzarle. Così, tra la mancanza di documenti di identità, liste di votanti incomplete e seggi improvvisati, si consumano, senza quasi elettori, le consultazioni farsa volute (e pagate) da Onu e Unione europea. Per un governo stabile e gestibile.

La mattina di domenica 28 novembre, Port-au-Prince sembra un’altra città. Non c’è il terribile traffico di ogni giorno, le strade sono quasi deserte, l’ordinanza per le elezioni prevede il blocco del traffico, possono circolare solo veicoli autorizzati e tap-tap, i mezzi di trasporto locale. Molta gente cammina.
Da due mesi, le strade della capitale hanno iniziato a tingersi di colori, di volti e di numeri. A poco a poco, i muri non erano piu sufficienti, così i manifesti appena usciti di stampa venivano affissi su altri manifesti, collocati qualche giorno prima. Al 26 di Novembre, ultimo giorno di campagna elettorale, si constata che non solo gli spazi pubblici classici sono stati invasi ma anche altri mezzi di propaganda piu modei sono stati messi in azione, dai messaggi sui cellullari agli annunci via facebook. La campagna elettorale ad Haiti è stata intensa, vivace e soprattutto, mediatica. La stampa locale ha parlato di «americanizzazione» della campagna o di «guerra di immagine», ovvero di una propaganda fatta di poster e striscioni invece che di messaggi chiari e dibattiti sul contenuto dei programmi di azione di ciascun candidato. Il motivo di fondo è che i principali candidati non hanno programmi politici chiari, ma hanno slogan, bei sorrisi, camioncini che diffondono musica e uomini cartello in maschera che girano per le strade.

Paura del colera

Più che  dai numeri dei 19 candidati alla presidenza e dei 66 partiti politici in corsa per le elezioni presidenziali e legislative, i mesi di ottobre e novembre ad Haiti, sono stati segnati da cifre ben più spaventose, che contavano, giorno dopo giorno, l’aumentare dei morti per colera.
Le stesse organizzazioni umanitarie del settore sanitario affermano che nessuno riesce a fornire dati aggioati e costanti sul numero delle vittime e dei ricoverati. I nuovi casi aumentano in tutto il paese, ormai i 10 Dipartimenti sono stati toccati. L’epidemia è arrivata in capitale, dove a un anno dal terremoto,  sotto le tende di oltre 1.200 campi di sfollati, vivono in condizioni precarie oltre 1.3 milioni di persone. Al 25 di novembre il numero di decessi per colera, secondo il rapporto del ministero della Salute pubblica e della Popolazione,  ha raggiunto quota 1.603 mentre in 30.000 hanno contratto la malattia.
Su una cosa però concordano gli esperti in epidemologia, inviati da vari paesi e istituzioni: la diffusione del colera ad Haiti continuerà a crescere nei prossimi sei mesi e si prevede toccherà 200.000 persone.

Impossibile votare

«Vivo in questa tendopoli dal 12 di gennaio 2010, ho la mia carta d’identità, ma il mio nome non è sull’elenco per poter votare. Perché?». Incontriamo Marie Carole il giorno del voto davanti al seggio allestito in una tenda presso il campo degli sfollati dedicato a Jean-Marie Vincent (padre confortano ucciso durante la dittatura di Raoul Cédras, ndr) a Port-au-Prince, nei pressi di Carrefour Aviation. Nel campo vivono circa 40.000 persone, ma sulle liste per votare appaiono poche centinaia di elettori. È uno dei due seggi monitorati dai carabinieri del colonnello Mangialavori, che ringraziamo per la disponibilità.
Un giovane rappresentante del seggio cerca i nomi sull’elenco all’ingresso della tenda e la sua risposta è sempre la stessa: «Mi spiace, il suo nome non c’è, non può votare».
Davanti sono dislocate le «forze di pace», i caschi blu dell’Onu, in assetto da combattimento, per garantire il «regolare svolgimento delle elezioni». Sono i militari della Minustah, Missione delle Nazioni unite per la stabilizzazione di Haiti, presenti nel paese dal 2004. Si susseguono le visite di giornalisti stranieri che accendono le telecamere, incitano la folla a fare un poco di chiasso per avere le immagini giuste per le news della sera, e se ne vanno.
A un certo punto arriva una macchina, un uomo con occhiali da sole scende e distribuisce poster e volantini del candidato Michel Martelly. I giovani del campo si infiammano, invocano il nome del cantante, la campagna elettorale sembra non essersi chiusa.
Chiediamo agli ufficiali del seggio quanta gente ha votato e non ci sanno rispondere, ma le ue si vedono piuttosto vuote. Non sanno dirci cosa faranno delle schede non utilizzate.

Pochi elettori molte frodi

Alla sera del 28 novembre, mentre gli elicotteri della Minustah sorvolano incessantemente Port-au-Prince per sorvegliare le manifestazioni nelle strade, i rapporti degli osservatori e dei media concordano nel dichiarare una partecipazione molto bassa e brogli evidenti. Come le liste elettorali parziali, prive dei nomi di molti elettori ma che spesso includono nomi di defunti, persone che hanno votato più volte, irregolarità nella presenza dei rappresentanti dei partiti, intimidazioni. Neanche il candidato Jude Célestin ha trovato il suo nome iscritto nel registro dei votanti, ma lui, a differenza di Marie Carole, è riuscito lo stesso a votare, attraverso firmando un documento.
Ancora prima della chiusura dei seggi, 12 candidati alla presidenza, inclusi Mirlande Manigat e Martelly, chiedono l’annullamento dello scrutino per brogli e invitano la stampa internazionale a denunciare gli eventi. Il bilancio a fine giornata è di 4 morti e manifestazioni di protesta in varie zone del paese.
Bisognerà attendere oltre una settimana prima che i risultati dei conteggi ufficiali, svolti nel dibattuto Centro di tabulazione, vengano resi noti e nel frattempo può succedere di tutto. Lo scenario è aperto anche a un possibile secondo tuo nel caso in cui nessun candidato non abbia raggiunto la maggioranza assoluta.

Un presidente legittimo?

Georges, 37 anni, autista, ha una certezza: «Queste elezioni non cambieranno nulla per gente come me, non sono le prime votazioni che vengono organizzate ad Haiti, ma ogni nuovo presidente, una volta in carica, si rivela un bandito. Sono tutti banditi, chi più chi meno. Ha votato per il cantante, almeno lui non è un politico di professione».
Le elezioni di un nuovo presidente sono state spinte dalla comunità internazionale, anche se le condizioni di base per svolgere un processo trasparente e democratico non erano presenti.
La percezione che si ha dalla gente è di grande frustrazione: un nuovo presidente, 99 deputati e 11 senatori, eletti in modo legittimo o illegittimo, non cambieranno la situazione. Il paese continuerà ad affidarsi ad altri attori inteazionali, alle Ong, alle congregazioni religiose, alle Nazioni Unite per cercare di risolvere i problemi.

Chi ha voluto le elezioni

La Delegazione della Commisione europea, la Minustah, l’ambasciatore americano ad Haiti, il rappresentante della missione di monitoraggio elettorale Osa – Caricom, Colin Granderson (Organizzazione degli stati americani e Comunità caraibica): tutti, in diverse conferenze stampa svoltesi nella settimana pre-elettorale, hanno espresso il loro supporto allo svolgersi delle elezioni nella data stabilita e hanno esortato il popolo haitiano a partecipare in massa e pacificamente al voto.
La comunità internazionale, che da subito dopo il terremoto ha spinto per pianificare le elezioni come da programma – il mandato di del presidente Préval scade il 7 febbraio 2011 – ha finanziato ampiamente la consultazione elettorale con 29 milioni di dollari.
Kenneth Merten, ambasciatore Usa ad Haiti, sottolinea: «Non ci sarebbe alcun beneficio a rimandare le elezioni, come alcuni candidati hanno richiesto. Gli Stati Uniti contano su questo voto per avere dei partner in Haiti capaci di prendere decisioni chiave per lo sviluppo del paese».
Per l’Unione europea, che ha sborsato per le elezioni 7 milioni di euro, tutto era pronto perché il processo elettorale si svolgesse in modo regolare: «Haiti ha bisogno di stabilità politica» ha spiegato Lut Fabert, rappresentante Ue ad Haiti. «Siamo in piena fase di ricostruzione di un paese e abbiamo bisogno di un governo capace di gestire la situazione».
Erano previsti 5.500 osservatori elettorali, tra nazionali e inteazionali e la Minustah ha lanciato dal 19 novembre l’«Operazione Bonjour», per favorire un clima di sicurezza, con pattugliamenti costanti e capillari nel paese, al fine di rassicurare gli elettori e contrastare il clima di violenza, che secondo i caschi blu, è stato fomentato da alcuni attori che usano la paura per boicottare il processo elettorale. L’Onu, oltre a 5.082 militari, schiera 3.000 agenti di polizia internazionale, ai quali si aggiungono oltre 4.000 poliziotti haitiani.
Tra chi invece non sostiene le elezioni spicca la storica organizzazione contadina Tet Kole ti Peyizan Ayisien (Unione dei piccoli contadini haitiani). Sostengono che le elezioni sono state organizzate e volute dalla comunità internazionale e dal governo in carica con lo scopo di piazzare il loro candidato che difenda i loro interessi: «Le elezioni si svolgeranno in un quadro di governo subalterno a delle forze di occupazione straniere». Dichiarava l’organizzazione a due settimane dal voto.

Candidati originali

Dei 19 candidati iniziali iscritti per la corsa alla presidenza, ne spiccano tre che i sondaggi pre-elettorali davano favoriti. Molti dei candidati, una volta ricevuti i finanziamenti statali che gli spettavano, 2 milioni di gourdes – circa 50.000 dollari – per organizzare la campagna, sono spariti; tanto, di quei fondi non devono rendere conto a nessuno.
Mirlande Manigat, già parlamentare e prima dama nel 1988, quando suo marito, Leslie Manigat, fu eletto presidente e rovesciato 4 mesi dopo. In testa ai sondaggi con il 30% dei voti, è costituzionalista e vice rettrice dell’Università Quisqueya. I Manigat fondarono il partito Rdnp (Raggruppamento dei democratici nazionali progressisti). Mirlande rappresenterebbe la rottura con il passato di Préval, ma se eletta, dovrà scendere a molti compromessi. Dal momento che Rdnp non ha candidati né al Senato né alla Camera, non avrebbe una maggioranza in parlamento per sostenerla. Ha però tessuto alleanze con vari gruppi, come il Collettivo per il rinnovamento haitiano (Coreh), il Gruppo 77 e altri. Anche la sua campagna è stata marcata da messaggi mediatici forti, da cartelli imponenti e dall’utilizzo di Facebook: «siamo tutti d’accordo» è il suo slogan.
Jude Célestin è il candidato supportato dal Goveo in carica, delfino, nonché cognato di Préval; ha 48 anni, ingegnere, nessun passato politico. Capo del dipartimento dei lavori pubblici, deve rendere conto solo al presidente. Il suo partito è Inite (Unità, in creolo) fondato da Préval a fine 2009, il suo slogan è «100% Haiti», il colore è il giallo, di cui ha tappezzato le città; lo stesso colore delle migliaia di t-shirt che sono state regalate nella campagna. Ha spesso collegato la sua propaganda al programma Cash for work (soldi per lavoro) sostenuto dal governo, per creare impiego tra gli sfollati vittime del terremoto. Célestin, in caso di vittoria, avrebbe l’appoggio di una maggioranza quasi sicura in parlamento. Gareggiano infatti per Inite anche 92 candidati (su 816) alla camera dei deputati e 11 (su 96) per il senato.
Michel Martelly «Sweet Mickey» è la grande sorpresa di queste elezioni. Non ha nessun passato politico, è un cantante controverso che ha vissuto diversi anni negli Stati Uniti. Nelle piazze ha attirato grandi folle ed è stato in grado di usare mezzi di comunicazione innovativi, come la chiamata automatica a tutti i numeri di cellulare delle due più grosse compagnie di telefonia mobili. I giovani hanno votato per Micky, come ci conferma Evienne, studentessa di Petion Ville di 19 anni.

Confusione sui registri

Malgrado le dichiarazioni dei rappresentanti della comunità internazionale, problemi evidenti nell’organizzazione di elezioni regolari e trasparenti vengono riscontrati e denunciati dalla società civile: l’Oni (Office National d’Identification), istituzione incaricata di distribuire oltre 411.000 nuove carte d’identità (necessarie anche per votare), si ritrova al giorno prima del voto con lunge file di gente in attesa davanti ai suoi uffici. L’Oni sembra aver sottostimato il suo incarico e molti haitiani non hanno potuto votare perché non in possesso  della carta d’identità. Questo è il sentimento comune a Petion Ville, dove la gente in coda dalle 4 del mattino, spesso non riusciva a ritirare la carta.
La lista elettorale conta 4.7 milioni di registrati ma anche su questo dato ci sono informazioni discrepanti. Infatti, tra l’elenco pubblicato dal Consiglio elettorale provvisorio (Cep) e quella dell’Oni c’è una differenza di 71.030 elettori.
Il Cep ha aggiunto ulteriore confusione pubblicando una lista di seggi all’ultimo minuto, includendone diversi nuovi, anche molto distanti da dove gli elettori andavano normalmente a votare. Inoltre parecchi nuovi seggi sono stati creati volutamente in zone di forte influenza di determinati candidati. Il Cep ha operato, a sua discrezione, anche una serie di sostituzioni dei supervisori e dei membri dei seggi, che secondo la legge elettorale dovevano essere tirati a sorte da elenchi foiti dai partiti 60 giorni prima del voto.
Solomon, haitiano, ha studiato a Cuba e oggi lavora per una Ong internazionale. Lui non è andato a votare, perché: «Il voto truccato e l’elezione di un candidato già scelto dalla comunità internazionale e dalla classe dominante non risponde a ciò di cui ha bisogno Haiti».

Ermina Martini

Ermina Martini




Attivarsi contro la tratta

La tratta di esseri umani è un’orrenda realtà

Mary e Scikò avevano sempre sognato di vedere il mondo. Ragazze adolescenti cresciute in una famiglia povera, avevano finito a stento le scuole primarie con il sogno di andare alla secondaria frustrato dalla povertà e dalla concorrenza dei fratelli maschi su cui le poche risorse della famiglia si erano concentrate. A loro era rimasto solo il lavoro nei campi.
Un giorno, tornando dal lavoro, le due furono accostate da un camionista che chiese loro informazioni: stava andando a Nairobi e non sapeva districarsi nel labirinto delle strade di campagna. Le ragazze accettarono di salire sul camion del simpatico autista, liete della novità, per guidarlo alla strada principale. Per passare il tempo lui raccontò loro di Nairobi, dei grattacieli, delle macchine veloci, dei grandi centri commerciali e di tante altre meraviglie. Le ragazze, affascinate, a loro volta raccontarono con un pizzico d’amarezza della loro vita da contadine e dei loro sogni infranti. L’autista si mostrò molto partecipe e comprensivo e, come per gioco, le invitò ad andare con lui nella grande città, anche subito: là, due ragazze sveglie come loro  avrebbero avuto un mare di possibilità, un buon lavoro, una bella paga e un futuro brillante. A Mary e Scikò sembrava di sognare, accettarono la proposta senza esitazione e andarono a Nairobi con il simpatico forestiero.

Città, fascino e trappola
Arrivate nella casa dell’autista benefattore a Nairobi, il suo atteggiamento cambiò: chiese a Scikò di dormire con lui e, al suo rifiuto, la violentò brutalmente. La mattina successiva consegnò Mary a un suo cugino, perchè ne divenisse la serva.
Mary, picchiata e violentata ogni giorno, iniziò a lavorare per l’uomo ribellarsi terrorizzata com’era dalla grande città con il suo rumore, la folla in continuo movimento, il correre dei matatu e il gran numero di macchine. Capiva ben poco della lingua parlata nella città, perché lo swahili parlato là era molto diverso da quello usato a casa, inonltre non conosceva nessuno e non sapeva a chi rivolgersi.
La sorte di Scikò fu anche peggiore. L’autista la tenne per sé fino a quando si trasferì in Uganda per lavoro, quando la cedette ad un suo amico, autista di matatu. Questi non solo la violentò regolarmente, ma le impose anche di soddisfare gli amici che invitava. In breve Scikò fu contagiata da malattie veneree. Cacciata senza pietà, abbandonata e senza mezzi di sussistenza, Scikò trovò rifugio presso una prostituta locale che, avendo pietà di lei, la introdusse nel mondo della prostituzione.
Quella di Scikò e Mary è una delle tante storie che accadono nelle aree rurali del Kenya o negli slum delle grandi città, senza il privilegio di finire sui giornali o nei gossip delle radio locali, che pure non sono indifferenti al problema.
In passato, in Kenya, si è anche parlato di bambini scomparsi, di matrimoni fasulli tra europei e ragazze locali sparite poi nel nulla in Occidente, di loschi traffici sulla costa, di turisti a caccia di bambini e bambine, di uomini malati di AIDS, africani, convinti che il sesso fatto con una vergine abbia proprietà terapeutiche.

Tante storie, tanti miti.
In Kenya abbondano i miti circa il traffico degli esseri umani. Purtroppo, questi non solo non descrivono il fenomeno adeguatamente, ma ne rendono la comprensione più difficile. La gente generalmente è portata a pensare che la tratta avvenga in qualche remota parte del mondo, lontano, manovrata da trafficanti e predatori bianchi, ma la realtà è ben diversa. Donne e bambini sono trafficati nelle città e nei villaggi del Kenya e questo spesso succede per opera di amici, conoscenti e perfino membri della famiglia. Sono trafficati verso l’estero, ma anche all’interno della nazione; viaggiano in aereo, in macchine e matatu, ricevono promesse di impieghi ben retribuiti e vita facile, ma finiscono sempre per essere sfruttati come prostitute o lavoratori forzati. Quel che importa è che essi, sia i trafficati che i trafficanti, sono i nostri cugini, fratelli, sorelle, vicini, amici: persone come noi.
Abbondano le storie terrificanti di uomini, donne e bambini sfruttati localmente o all’estero sia per la prostituzione che per il lavoro forzato o il trapianto di organi. Il traffico di esseri umani esiste e bisogna domandarsi: cosa si può e si deve fare per fermarlo? Esso non è un crimine come tutti gli altri. è molto di più e costituisce una seria minaccia al futuro dell’Africa e dell’intero continente africano. Il traffico di esseri umani tocca le persone e le famiglie sul vivo e distrugge delle risorse umane che non possono essere semplicemente ricostruite con gli aiuti dei paesi occidentali.
Attivarsi contro la tratta
Per questo un gruppo di persone interessate e preoccupate stanno cercando di mettersi insieme e formare un’organizzazione chiamata Awareness Against Human Trafficking – (Consapevolezza contro il traffico di umani). I membri fondatori contano missionari e missionarie cattolici, attivisti dei diritti umani di fede cristiana non e attivisti di giustizia e pace impegnati a promuovere pratiche di buon governo. L’idea di fondo è che insieme si può fare molto di più che da singoli individui. Lo scopo dell’agenzia che si sta formando è quello di sradicare, o almeno di ridurre significativamente il fenomeno della tratta in Kenya, anche se sembra un’impresa impossibile. Per farlo le Nazioni Unite e altre agenzie impegnate nel settore credono che la strada più efficace sia quella di creare consapevolezza in tutti quegli ambiti della società che possono essere più facilmente infiltrati dai trafficanti (per questo hanno pubblicato manuali ad hoc in molte lingue che mirano all’addestramento specifico della polizia, dei magistrati e di attivisti a livello di base, reperibili sull’internet nel sito internet dell’UNODOC, United Nations Office on Drugs and Crime, www.unodoc.org). Applicando questi stessi metodi, lo scopo dell’agenzia è quello di rendere i normali cittadini, la gente comune dei villaggi, insegnanti, operatori della salute e impiegati governativi, consapevoli di quello che la tratta è e non è, facendo conoscere i trucchi dei trafficanti, insegnando come fare per evitare di essere venduti in schiavitù e come sfuggie in caso di necessità. Pur di salvare la vita di persone, vale la spesa raccogliere la sfida.

UNA LOTTA SENZA TREGUA
C’è molto da fare per sradicare la tratta in Kenya. Il fenomeno deve essere affrontato in modo sistematico e scientifico perché la tratta è una realtà in continuo mutamento, che si adatta con incredibile rapidità al cambiare delle situazioni. I trafficanti imparano velocemente e usano sempre nuove tecniche, nuove rotte e nuove strategie per sfruttare gli altri. Così per stare al loro passo, gli attivisti anti-tratta devono tenersi aggioati e formarsi in modo permanente.
In questo contesto l’azione dei volontari si svolge su due fronti: formazione di attivisti sul territorio e realizzazione di un programma di assistenza e recupero delle vittime, la cui dignità e diritti umani sono stati violati e la cui salute fisica e psicologica è stata severamente compromessa. Per raggiungere lo scopo Haart lavora in collaborazione con tutte le forze già esistenti, tra cui Solwodi (Solidarity with Women in Distress) in Mombasa, un progetto diocesano attivo da molti anni in quell’area ad alto influsso turistico.
I volontari hanno già cominciato ad operare e lo scorso settembre hanno fatto il primo corso di formazione di animatori anti-tratta. Un gruppo di venti persone proveniente da tutti gli angoli del Kenya sono stati preparati su come organizzare campagne di sensibilizzazione sul territorio e su come raccogliere dati riguardanti casi di tratta. I volontari sono stati reclutati sia a livello di base che tra persone con delle sociali o governative. Dopo il corso ora lavorano in gruppi di tre volontari nelle proprie zone per far conoscere i danni causati dalla tratta e documentare storie di vittime. Presto a questo primo nucleo si aggiungeranno altri volontari da altre regioni del Paese per estendere il più possibile la rete degli attivisti.
IL FUTURO A RISCHIO
La tratta degli schiavi ha segnato l’Africa profondamente, e le conseguenze sono ancora visibili oggi perché la condizione della donna, soprattutto nel suo ruolo di soggetto principale dei lavoro nei campi, sarebbe certamente diversa se la tratta non fosse mai esistita. Mentre l’Africa sta tentando a fatica di lasciarsi alle spalle le conseguenze di quella tragedia, ecco che la nuova tratta di esseri umani mette a rischio il futuro stesso del continente, soprattutto il futuro delle donne. La nuova tratta, anche se apparentemente condotta con il consenso delle persone trafficate, ma non per questo meno violenta e disumana, può avere delle conseguenze ancora più gravi di quella passata. Solo il suo totale sradicamento può fare sì che il prossimo decennio sia davvero quello della donna africana. Per ottenere questo c’è ancora molto lavoro da fare.

Radek Malinowski
è un gesuita polacco ed è uno dei promotori della nuova agenzia contro la tratta nell’Africa dell’Est.
(Il testo è stato tradotto e adattato da Gigi Anataloni)

Radek Malinowski




Antogo, rito «magico» della pesca

Mali, paese dogon. Nella regione di Mopti, quasi al confine con il Burkina Faso, si staglia la Falesia di Bandiagara: un impressionante costone di roccia lungo 200 km e alto tra i 200 e i 300 metri. Tra i suoi anfratti vi abitarono popoli antichi fin dal III e II secolo avanti Cristo. Fu poi, tredici secoli più tardi, il paese dei tellem. I dogon, invece, vi si stabilirono intorno al XII – XIII secolo. Dal 1989 è patrimonio mondiale dell’Unesco.
Nella parte Nord della Falesia si trova il villaggio di Bamba, uno dei più antichi della zona, dove, «da sempre», ovvero dall’insediamento dell’etnia dogon in questo pezzo magico del Mali, si celebra il «Rito della Pesca»: Antogo in lingua dogon.
Nei pressi di Bamba si trova un lago dalle piccole dimensioni, ma dal grande potere.
Soumaila Guindo è un anziano guaritore dogon, originario di Bamba, ora residente a Bandiagara, «capitale» del paese dogon, ubicata sull’altipiano. Anche grazie a lui cerchiamo di capire e scoprire il fascino di un rituale unico che abbiamo avuto la fortuna di osservare e ora raccontare, senza essere capaci di svelae tutta la magia.
Sabato, giorno di mercato a Bamba. Da sempre. Stessa ora, stesso giorno, stesso mistero. Ore 15 e 15, un caldo indescrivibile, il sole, anch’egli in festa, brucia nel cielo, regalando timide ombre a pochi fortunati. In coincidenza con il sesto mese della stagione secca (Aprile-Maggio), il consiglio dei saggi di Bamba si riunisce per fissare la data del rituale. Durante i primi tre giorni di mercato del mese – in occasione di ogni mercato – un bastone viene piantato nel lago, a indicare l’approssimarsi del rituale, che infine si celebra al sesto giorno. I tre bastoni fungono da segnale, che arriva a tutti i villaggi dogon della Falesia. Antogo si celebra solo una volta l’anno, mentre durante tutti gli altri giorni è proibita a chiunque la pesca nel lago sacro.

Nell’antichità, si dice, l’intera zona era rigogliosa e ricoperta di fitte foreste, ed il lago – le cui acque da subito furono considerate sacre e popolate da geni – offrivano pesci in abbondanza. Il giorno di Antogo centinaia e centinaia di dogon provenienti da ogni angolo della Falesia e non solo, si ritrovano presso il lago di Bamba, per la celebrazione. Una fitta coice nera e silenziosa si disegna attorno al lago: è composta di ragazzini, uomini e anziani poco vestiti, alcuni dei quali portano una sorta di nassa con la quale catturano i pesci. Le donne non possono partecipare al rituale, per loro avvicinarsi al lago è proibito. Esistono varie spiegazioni a questo veto, alcune verosimili, altre meno; la più realistica – in linea con altri aspetti della complessa cosmogonia dogon che confina la donna lontano dalle dimensioni ritualistiche e magiche – vuole la donna intrinsecamente impura per via del ciclo mestruale.
Attoo al lago si notano tre gruppi più folti, ciascuno dei quali composto dalle famiglie più importanti di varie zone: il gruppo più folto è quello delle famiglie di Bamba, che raccoglie 33 villaggi. Ciascun gruppo, in un mistico silenzio collettivo, pronuncia formule rituali e nomi delle famiglie. Chiudono il giro quelli di Bamba, che, all’improvviso, annunciano l’inizio del rituale.
La folla si riversa nel lago, eccitata, convulsa, estasiata. Lo specchio d’acqua ormai non si vede più: ha inizio una danza felice, armonica e fangosa. I dogon si prodigano con mani, bocca e piedi per catturare il maggior numero di pesci, che ripongono in un’apposita borsa a tracolla fatta di pelli. La danza prosegue caotica. Le acque sacre rendono impossibile ferirsi con i pesci, nessuna spina, nessun taglio nei piedi nudi o nelle mani, mai, da sempre. L’acqua color fango disegna volti e corpi: l’intensità del momento è palpabile. Nemmeno 30 minuti dopo l’inizio della pesca un colpo di fucile sparato in aria segna la fine del rito. Le acque del piccolo lago tornano a calmarsi, non vi è più traccia di pesci, solo qualche ragazzino ancora sonda le stanche acque nella vana ricerca di un superstite pinnato.    
I pesci verranno tutti raccolti e portati presso l’anziano di Bamba, per poi essere ripartiti equamente tra tutti gli abitanti. Il rito simboleggia la pace e la coesione tra i villaggi, l’assenza di conflitti e la condivisione dei frutti di un bene comune.
Antogo è un evento toccante e potente, ricco di magia, che faticosamente resiste ai flussi di turisti sempre più presenti, dei bianchi curiosi, che, con difficoltà, accettano la quasi assoluta impenetrabilità del mistero.   

Matteo Bertolino

Il Fotografo

Matteo Bertolino
Nato a Torino e laureato in Scienze Politiche, Matteo consegue un master in Studi sullo sviluppo. La curiosità verso il mondo lo condurrà a lavorare nel settore della cooperazione internazionale in quattro continenti. La passione per la fotografia cresce parallelamente nel corso delle esperienze all’estero, portandolo a specializzarsi nel «reportage sociale». Matteo si occupa inoltre di «comunicazione per lo sviluppo», documentando progetti di cooperazione e realizzando materiale informativo e di sensibilizzazione attraverso l’uso della fotografia. Tra le varie esperienze, ha curato e organizzato un’esposizione fotografica presso un museo internazionale di El Salvador (Marte), che ha visto la collaborazione di artisti italiani e salvadoregni. Come fotografo freelance, Matteo collabora oggi con riviste, agenzie fotografiche e associazioni. Attualmente lavora in Bolivia, dove sta sviluppando diversi progetti fotografici.
www.matteobertolino.com.

Matteo Bertolino