Luoghi santi visti dall’«alto»

Presentazione Dossier

«Il dato principale di questo sinodo – afferma il segretario generale mons. Nikola Eterovic – è il fatto che il sinodo ci sia stato. Non era scontato!». A lanciare l’idea di convocare un sinodo sulla situazione delle minoranze cristiane mediorientali fu l’arcivescovo caldeo di Kirkuk, mons. Louis Sako, nel gennaio 2009, durante la visita ad limina dei vescovi dell’Iraq. Il Papa rispose subito che era una buona idea: durante il pellegrinaggio in Terra Santa (8-15 maggio 2009) accolse la petizione firmata da vescovi e patriarchi e il 19 settembre 2009 indisse ufficialmente l’assise sinodale, annunciandone anche il tema: La Chiesa cattolica nel Medio Oriente: comunione e testimonianza. “La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuore solo e un’anima sola” (At 4.32).
L’iter preparatorio si svolse in tempo da record. Formato subito il consiglio presinodale (7 patriarchi, 2 presidenti di conferenze episcopali, 4 capi di dicasteri vaticani), in tre incontri di due giorni ciascuno fu redatto il testo dei Lineamenta e le relative domande. Fu pubblicato l’8 dicembre 2009 in 4 lingue (arabo, francese, inglese e italiano) e inviato alle chiese in Oriente e nella diaspora; furono raccolte le risposte nell’aprile 2010 e integrate nell’Instrumentum laboris, testo base per la discussione sinodale, reso pubblico dal Papa nel corso della sua visita apostolica a Cipro nel mese di giugno 2010.
Tempo-record anche nell’esecuzione. La più breve assemblea mai celebrata finora: solo 14 giorni, dal 10 al 24 ottobre 2010, a differenza dei precedenti durati almeno tre settimane.
Inoltre, nei sinodi tenuti nel passato, su temi riguardanti la chiesa universale o uno specifico continente, la maggioranza dei vescovi appartenevano alla chiesa occidentale e la presenza degli orientali era definita «minoranza qualificata». Quello attuale riguarda, per la prima volta, questa «minoranza», disseminata in un territorio che possiamo definire «transcontinentale», che abbraccia 16 paesi, dall’Egitto all’Iran, ma soprattutto riunisce, oltre alla chiesa latina, altre 6 chiese cattoliche, ciascuna con un patriarca o vescovo leader, i cui fedeli sono presenti nei paesi mediorientali solo in parte: buona parte i essi vivono nella diaspora in Europa, nelle Americhe e in Australia.

Un sinodo ben diverso da quelli continentali del passato anche per le cifre. I partecipanti a questa assise sono stati circa 330: 173 padri sinodali, di cui 159 ex officio e 17 di nomina pontificia, 36 esperti e 34 uditori, 13 «delegati fratei» di altre confessioni cristiane, numerosi assistenti, traduttori e personale tecnico impegnati nei servizi richiesti dallo svolgimento del sinodo.
Vi sono state 14 congregazioni generali, con 125 interventi di padri sinodali di 5 minuti ciascuno, più 5 consegnati per iscritto e oltre 100 interventi liberi. Sono stati ascoltati anche 12 delegati fratei, un rappresentante ebreo e due musulmani, un sunnita e uno sciita. Più articolati sono stati gli interventi nei cosiddetti «circoli minori», gruppi di lavoro divisi nelle quattro lingue ufficiali del sinodo: arabo, inglese, francese, italiano.
A parte i numeri, l’importanza dell’Assemblea speciale per il Medio Oriente vanta altri primati. La maggioranza dei partecipanti erano di cultura e lingua araba e lo hanno dimostrato nei loro interventi in aula (primo ed unico sinodo dove l’arabo è stato, insieme al francese, la lingua franca dei vescovi), come nelle pause e momenti liberi, conversazioni e discussioni fuori dell’aula sinodale. Tutto questo ha ricordato che «l’arabo è una lingua cristiana e che “arabo” non si identifica con musulmano» afferma l’islamologo gesuita Samir Khalil Samir.
Inoltre questo è stato il primo sinodo realmente «ecumenico», perché ha coinvolto i leader delle principali comunità ecclesiali attive nell’area mediorientale e perché i problemi trattati e le decisioni prese non interessavano solo i cattolici, ma riguardavano anche le sorti delle Chiese ortodosse. Anzi, questo Sinodo, forse più degli altri, è stato importante per la Chiesa universale.

I cristiani del Medio Oriente sono una minoranza esigua nel grande oceano dell’islamismo. I cattolici sono una minoranza della minoranza. Per questo forse sono poco conosciuti o addirittura dimenticati. Eppure non è azzardato affermare che il Medio Oriente è una sorta di «concentrato» dei problemi della Chiesa universale. Già nei documenti preparatori, Lineamenta e Instrumentum laboris, sono messe sul tappeto questioni ecclesiologiche (giurisdizione tra patriarcati, Chiese e riti diversi), interreligiose (i rapporti con le fedi abramitiche) e socio-politiche (diritti delle minoranze e conflitti).
Nell’attuale situazione di globalizzazione, molti degli interrogativi e delle sfide delle chiese mediorientali sono comuni anche all’Occidente: come dialogare con il mondo islamico? Come superare l’integralismo religioso? Come sconfiggere il terrorismo? Come frenare l’emorragia dell’emigrazione? Come costruire pace e sicurezza per i popoli afflitti da endemiche tensioni e conflitti? Le risposte che i padri sinodali suggeriscono servono non solo alle popolazioni del Medio Oriente, ma vanno a vantaggio anche del mondo occidentale.
Portando alla ribalta la pluralità di cultura e tradizioni dei cristiani del Medio Oriente, la loro resistenza nella fede in una storia millenaria segnata da ostilità e persecuzioni, il sinodo offre alla Chiesa universale un esempio su cui specchiarsi. Al tempo stesso l’assemblea sinodale ha usato ogni mezzo per renderla consapevole della vita, difficoltà e sofferenze, ma pure della vocazione unica e del futuro dei cristiani in Medio Oriente, al fine di promuovere una maggiore solidarietà con questi fedeli e le rispettive Chiese.

Cosa sarebbe un Medio Oriente senza cristiani? Non è una domanda retorica: la fuga dei cristiani dai paesi di origine continua e sembra inarrestabile di fronte al crescere della situazione d’instabilità generale e del clima d’insicurezza che regnano ormai da vari anni nell’area. L’allarme è risuonato spesso nell’aula sinodale: la culla del cristianesimo rischia di rimanere senza cristiani. Tale perdita non danneggerebbe solo le regioni interessate, ma impoverirebbe tutta la Chiesa, privandola della memoria e del vero senso della fede, delle radici e del destino finale della vita cristiana.
Dall’Egitto, terra di Mosè, alla Turchia, terra delle prime comunità cristiane, si estende una regione a cui dobbiamo guardare con fede, afferma il papa nell’omelia di apertura del sinodo: «Dio la vede da una prospettiva diversa, si direbbe “dall’alto”: è la terra di Abramo, di Isacco e di Giacobbe; la terra dell’esodo e del ritorno dall’esilio; la terra del tempio e dei profeti; la terra in cui il Figlio Unigenito è nato da Maria, è vissuto, è morto ed è risorto; la culla della Chiesa, costituita per portare il Vangelo di Cristo sino ai confini del mondo. E noi pure, come credenti, guardiamo al Medio Oriente con questo sguardo, nella prospettiva della storia della salvezza… Guardare quella parte del mondo nella prospettiva di Dio significa riconoscere in essa la “culla” di un disegno universale di salvezza nell’amore, un mistero di comunione che si attua nella libertà e perciò chiede agli uomini una risposta».
I luoghi santi non costituiscono una preoccupazione tra le tante, ma una priorità per la Chiesa cattolica e per i cristiani. Essi non solo racchiudono la culla della nostra fede, ma contengono il simbolo del nostro destino e dell’intera umanità. «Chiedete pace per Gerusalemme, perché tutti là siamo nati» (cfr Sal 87). «Sion, altura stupenda, gloria di tutta la terra» (Sal 48,3), è «il monte santo», «la casa di tutti i popoli», luogo in cui sono convocati «insieme tutti i popoli e nazioni» (cfr Is 25,6; 43,9; 56,7). Tale convocazione conserva intatto tutto il suo fascino: l’intera umanità guarda a quella città santa, avvertendo di avere con essa profondi legami. Per un misterioso disegno divino, quando ci sarà «pace nelle sue mura», ci sarà pace per tutti i popoli.

Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi

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