Un paradiso a rischio di estinzione

Viaggio in un paese pieno di fascino e contraddizioni

Dagli orrori causati dai gas tossici della città di Bhopal alle isole Andamane, passando per città cariche di glorie passate, l’India è un succedersi di contraddizioni: il progresso e la modeità più avanzata contrastano con sacche di grande arretratezza; i sogni di un futuro migliore si scontrano con i rischi di degrado ambientale e di scomparsa di antiche culture.

Sono passati 25 anni dal disastro di Bhopal e solo oggi è arrivata la sentenza, vergognosamente mite, per i colpevoli: due anni di galera per sole 7 persone ritenute responsabili dell’incidente che provocò decine di migliaia di morti, invalidi, ciechi e bimbi nati con malformazioni. La fuoriuscita di 40 tonnellate di gas tossici proveniva da un impianto di produzione di pesticidi della multinazionale americana Union Carbide.

Un italiano a Bhopal
A Bhopal scopro una regione bella, ricca di monumenti storici e artistici, alcuni ancora sconosciuti agli stessi indiani. Vi rimango alcuni giorni e capisco che Bhopal vuole dimenticare: la vita va avanti, nonostante gli orrori vissuti in questi anni.
La città è un importante polo industriale; in albergo incontro un italiano che ci viene sovente per lavoro. Ludovico è un tecnico veneto che, come tanti nostri connazionali, ha portato nel mondo la professionalità e la tecnologia italiana. Ora raccoglie i risultati di un serio impegno. «L’azienda per cui lavoro da tanti anni è di proprietà del governo francese ed è presente in Italia, Brasile, Cina e India – mi spiega, mentre si sta riposando presso la piscina dell’albergo storico sulla collina di Bhopal -. Produciamo interruttori, trasformatori e blindati elettrici, ma qui in India si fanno le porcellane».
Il costo della manodopera è 10 volte più basso che in Italia, ma quello che mi sorprende è che tali prodotti vengono fatti a Bhopal e commercializzati nella stessa India. «Il mercato europeo è scarso, quindi produciamo e vendiamo nei paesi emergenti. Chiaramente la tecnologia è ancora in mano italiana».
Con un diploma di perito, conseguito a San Donà del Piave più di 40 anni fa, Ludovico potrebbe godersi la pensione, ma l’azienda ha ancora bisogno della sua esperienza. Le proposte che ha ricevuto erano molto buone e lui in fondo ama il suo lavoro, anche se è stato sovente testimone dello sfruttamento dei lavoratori. «In India ho visto donne vestite di sari colorati, accompagnate dai loro bambini, lavorare nelle fonderie. E quelle di ghisa sono le peggiori».
Il sogno di Kallebhai
Dopo le visite al complesso buddista di Sanchi, con lo stupa più bello del subcontinente, e alle pitture rupestri di Bimbetka, risalenti fino al Paleolitico, proseguo con degli amici verso nord su strade dissestate. Giungiamo al piccolo villaggio di Udayapur, dove siamo intervistati da fotoreporter indiani, sorpresi di incontrare degli stranieri in un sito fuori dai circuiti turistici.
Ammiriamo il tempio originale e spettacolare in arenaria rossa, colonne e contrafforti cesellati con decorazioni geometriche e figurative, ma dobbiamo ripartire per Chanderi, unico luogo dove è possibile peottare nella foresteria governativa.
Statura piccola, capelli corti e rossi di henné, sempre sorridente, Kallebhai mi racconta la sua vita, in ottimo inglese: «Da bambino ho sofferto la fame. Per dare cena a me e i miei fratelli, mia madre bolliva le foglie che raccoglievo nei campi».
A 13 anni Kallebhai andò a lavorare in una bottega, dove un giorno conobbe alcuni studiosi, incaricati dal governo di esaminare i numerosi monumenti della zona, da secoli in stato di abbandono. Lavorando con gli archeologi imparò l’inglese, la storia e l’arte della regione di Chanderi. Oggi, 20 anni dopo, è guida abilitata dal Ministero dei beni culturali dello stato.
«Un tempo Chanderi era una grande città – mi dice, indicandomi le antiche fortificazioni sulle colline -. Vi regnava la potente dinastia Rajput, fino al 1527, quando fu sconfitta da Babur, capostipite dei Moghul originario dell’Asia Centrale; perché le donne non cadessero in mano nemica, il Raja ordinò la pratica suicida del jauhar».
Oggi, l’antica città regale si presenta come un villaggio di case modeste dove non manca mai un telaio con un ragazzino al lavoro. Ce ne sono più di 3 mila e danno lustro alla città di Chanderi con i suoi tessuti di finissimo cotone e lavorati a mano.
Kallebhai abita la casa degli anziani genitori con i quattro fratelli e le loro famiglie. Come da tradizione, vi è posto anche per due capre e una mucca, che si vedono girare tranquille per le vie fino a sera, quando trovano la via di casa per la mungitura.
Il sogno di Kallebhai sarebbe di avere una casa tutta sua. La figlia ha 14 anni ed è un’abile disegnatrice, il maschio è un birbone di 4 anni. «Con un lavoro saltuario come il mio – spiega – non è facile vivere. La stagione dura qualche mese in inverno e si lavora in media due volte la settimana».
Lasciamo Chanderi e attraversiamo una campagna ferma nel tempo. I lavori agricoli sono fatti senza l’aiuto di macchine, ceci e grano sono sparsi sulla strada affinché i rari camion di passaggio possano sgranarli. I villaggi non hanno la luce elettrica e la sera i lumi a petrolio rischiarano le bancarelle.

Dalla città dei nababbi al Gange
Il treno per Lucknow viaggia con 7 ore di ritardo. La nebbia ha fermato aerei e treni a Delhi. Tutti i collegamenti sono in ritardo, si viaggia a vista, poiché in un solo giorno vi sono stati 6 incidenti sulle linee ferroviarie. Ci arriviamo alle tre del mattino e troviamo la nostra guida Prakash che ci aspetta.
La guida chiama subito un anziano facchino con baffi e capelli bianchi, divisa rossa e sguardo fiero, e lo carica dei nostri bagagli, che lui mette sulla testa uno sull’altro. Prakash nota la mia indignazione e mi tranquillizza: «Costoro sono abituati a reggere fino a 40 kg; hanno sviluppato i muscoli del collo, è il loro mestiere».
Lucknow, capitale del Uttar Pradesh, è la città natale del presidente dello stato federale, una signora potente e corrotta, che si cura solo dei suoi concittadini, lasciando il resto dello stato nel degrado. La città è piacevole, ricca di moschee, monumenti e palazzi dei nababbi, dinastie sciite che governarono la regione dal 17° secolo. Gli architetti e artisti che arricchirono la città di monumenti erano di origine persiana o afghana. Il luogo più emozionante è però il Residency, dove gli inglesi si difesero dall’aggressione dei ribelli durante quella che in India chiamano la prima guerra d’indipendenza e che dagli occidentali è conosciuta come la rivolta dei Sepoy, del 1856.
Varanasi è la città sacra degli induisti. Dal quartiere Cantonment, una volta abitato dagli inglesi del Raj e ora centro alberghiero per turisti, attraversiamo vie intasate da un traffico incredibile di bus, auto e rikshò; quindi ci infiliamo nei luridi vicoli della città antica, tra mucche, cumuli di immondizia, e finalmente raggiungiamo i ghat, le gradinate che scendono sulla riva del Gange, dove hanno luogo abluzioni, cremazioni, offerte e altri rituali induisti.
Oggi le pire sono solo due; ma accanto ai ghat c’è anche un grande foo crematorio. Dovrebbe essere un luogo mistico, ma mi causa un certo turbamento, per cui lo abbandono volentieri per recarmi in periferia, dove nei primi anni dell’800 fu costruita una notevole università, col supporto inglese e il contributo dei principi marajà. Il campus è vasto e ricco di parchi ombrosi. Vi sono numerose facoltà, 130 corsi di laurea e 18 mila studenti.
Swati, Shitka, Cutee e Amrita, studentesse curiose e sorridenti, mi fermano e mi chiedono notizie del mio paese e mi raccontano dei loro studi scientifici e informatici.

Calcutta: casa di Madre Teresa
Ritoo volentieri in questa caotica città, ricca di stimoli e fermenti culturali. Accanto al tempio di Kali, dea dalle quattro braccia, simbolo di distruzione e purificazione, sorge la casa di Madre Teresa. Entro e mi trovo in una vasta sala, dove sono allineati i letti dei malati, assistiti da un gruppo di medici e infermieri, volontari dalla pelle bianca. C’è silenzio e odore di pulito, pareti e pavimenti di cemento, vasche dove anche una suora sta lavando panni insanguinati.
Suor Anila, albanese di Scutari, ci parla sorridente del loro lavoro senza sosta: «Ritoo a casa ogni 4 anni; una volta all’anno abbiamo 8 giorni di ritiro spirituale».
Calcutta è una metropoli dagli aspetti contraddittori. Negozi e locali aprono dopo le dieci, ma fin dalle prime ore del mattino si vedono uomini seminudi che si lavano ai bocchettoni dell’acqua sui larghi marciapiedi; ben presto anche le bancarelle con fornelli sono al lavoro, occupando anche le vie più eleganti. Tè speziato con latte, frittelle di melanzane e patate, una grande varietà di cibo di strada gustoso ed economico.
Il centro vittoriano è ricco di palazzi e monumenti, mentre il quartiere dei librai è vivacissimo e trafficato, con centinaia di librerie affollate.
Percorrendo una via affollata dove anche un vecchio tram riesce a farsi largo tra rikshò, veicoli a motore e pedoni, raggiungo la casa di Tagore, in un quartiere un tempo elegante e residenziale. È il poeta, scrittore e filosofo indiano bengalese più conosciuto in Occidente, premio Nobel per la letteratura nel 1913. Uno dei 5 Nobel nati a Calcutta.
Il paradiso… a rischio
Dopo 14 anni ritorno nelle Andamane, un rosario di isole nel golfo del Bengala, al largo delle coste birmane e malesi. Ricoperte di foreste di alberi giganteschi, la fauna ricca e varia, un tempo erano abitate solo da aborigeni dalla pelle scura e capelli crespi e da gruppi tribali di origine malese e mongolide.
Al taglio del legname pregiato, iniziato nell’800 e praticato ancora oggi, si sono aggiunte le piattaforme marine delle multinazionali per lo sfruttanmento del petrolio. L’impatto con la nostra «civiltà» ha costretto gli aborigeni ad abbandonare habitat e costumi: nonostante il governo indiano abbia riservato loro alcune isole, sembrano destinati a scomparire.
Anche la capitale Port Blair è molto cambiata: da porto esotico e remoto ha preso l’aspetto di un’affollata città bengalese, per via dei profughi provenienti da Calcutta, Bangladesh e Birmania. Questo perché dopo la spartizione del Bengala orientale nel 1947, quando milioni di fuggiaschi si rifugiarono a Calcutta provocando il collasso della città, il governo indiano decise di portarli in parte nelle isole andamane. Nel territorio selvaggio, privo di strade, acqua e luce, i coloni sopravvissero in condizioni durissime e tagliarono le foreste di preziose essenze, come il padauk, simile al teak, per poter coltivare riso, canna, palma da betel e allevare capre e bufali.
Mentre le isole più remote sono riservate agli aborigeni e altre sono off limits per ragioni militari, Havelock è stata scelta per nuovi insediamenti turistici. Gli abitanti non parlano ancora l’inglese, ma possono contare su qualche piccolo guadagno lavorando nei locali pubblici, nella pesca e come autisti di tuktuk (taxi a tre ruote).
Purtroppo alcune spiagge di Havelock sono discariche all’aperto, ripulite raramente solo nei pressi dei villaggi turistici. Il mare e i coralli hanno perso colore e splendore, restano numerose le tridacne, annegate nella massa corallina ingrigita. I pesci sono belli, ma rari e scappano veloci appena ci si avvicina.
Ho visto galleggiare in mare aperto un isolotto di plastica, un intrico di bottiglie, corde, sacchi,  mentre eravamo diretti a South Button, uno scoglio senza approdi, regno dell’aquila pescatrice delle Andamane e vero paradiso per le immersioni subacquee.
Incontri… vari
Mi tuffo in un mare ricchissimo di vita e colori, con grandi ventagli di madrepore e pesci di barriera. Ho un incontro con un pesce balestra, bello e aggressivo, da cui devo difendermi e fuggire con decisi colpi di pinne. Sono poi circondata da un gigantesco branco di pesci fucilieri gialli che si muovono come se fossero guidati da una musica. Vedo sul fondo un serpente marino, molto velenoso, a strisce gialle e nere, e un polpo scuro, che emette inchiostro e si rifugia nel corallo, guardandomi con un occhio dal fondo della tana. Non è facile provare emozioni altrettanto forti nei mari più belli del mondo.
Originario del nord del Pakistan, di religione sikh, ma senza turbante e senza barba, tagliata non ricorda quando, Andra Singh  ha modi garbati e un buon inglese, con accento americano. È lui che serve in tavola nel ristorantino di Mangit, la nostra guida di Havelock.
«Con la spartizione dell’India nel ‘47 la mia famiglia si rifugiò in Kashmir, dove aveva commerci ben avviati e terreni coltivati a mele», inizia a raccontare Andra. Emigrato negli Usa, ha lavorato per otto anni alla Boeing di Seattle; poi ha voluto girare il mondo e si è fermato qualche anno in Australia. Ritornato nel nord est dell’India, si è impegnato nella difesa dei diritti umani delle popolazioni locali, tribali, dell’Himachal Pradesh. Ora che è approdato ad Havelock riesce a dare un tocco di classe a questa locanda, che Mangit ha ricavato tra la sua capanna e la strada, l’unica che attraversa l’isola.
Qui conosciamo Baman e Roxan giovane coppia di turisti parsi. Nati a Yazd, in Iran, sono riparati a Mumbay con la famiglia durante la rivoluzione khomeinista, ma si recano sovente a trovare i parenti. Mumbay ha una importante comunità parsi, e Baman gestisce una proprietà nel nord del Maharastra, dove si coltiva la sapota, un frutto marrone, originario del Messico.
Ci scambiamo gli indirizzi. Domani partiamo tutti, ritorniamo in continente, a Chennay, per qualche giorno di visite prima del ritorno in Italia.

Claudia Caramanti

Claudia Caramanti




Cari missionari

Inesattezze

Caro Direttore,
ho letto il suo editoriale «Golia 2010» sul numero di luglio-agosto di Missioni. Non mi hanno colpito tanto le inesattezze (volute? dovute a disinformazione? Entrambe ipotesi disdicevoli ad un giornalismo irreprensibile come il vostro). [La lettera contiene poi puntualizzazioni su tre punti: l’attacco alla Freedom Flottilla, il giudizio sul ruolo della Turchia e la liberazione di A. Lano].
Questo, ed altro; ma – come dicevo all’inizio – non sono state tanto le inesattezze ad addolorarmi quanto il clima che si sprigiona dall’editoriale che per me ha evocato (spero a torto) una parola inquietante: antisemitismo. Con tutto ciò rinnovo l’espressione della mia immutata ammirazione per i tanti, ottimi servizi della rivista, che da decenni mi porta il mondo in casa. Cordialmente.
F. Aschieri e Vassia Carla
sostenitori da mezzo
secolo delle Missioni della Consolata – Cumiana (TO)

Intervengo con poche righe di risposta alla lettera «Inesattezze», scritta in reazione all’editoriale «Golia 2010», da me firmato in quanto allora direttore editoriale di Missioni Consolata. Vi sono infatti due sottili insinuazioni che non accetto e che mi permetto di segnalare, senza voler fare eccessiva polemica. La prima riguarda la mia presunta malafede. Se avete riscontrato inesattezze, queste non sono state «volute». Anzi, a ben vedere, le inesattezze da voi segnalate altro non sono che interpretazioni diverse dalle mie di fatti che restano documentati negli archivi dei maggiori mezzi di informazione del nostro paese e inteazionali (e su cui si continuerà a discutere all’infinito). Non credo di avere scritto nulla di falso, al massimo, sicuramente, di non condivisibile. Sono dell’idea che il bianco e il nero non sono i colori più adatti a rappresentare una realtà complessa come quella Medio Orientale che è invece fatta di molti grigi. Potremmo restare a discutere per delle ore su Gaza, sul ruolo della Turchia e alla fine continuare a non essere d’accordo. A consolazione di quanto da me scritto va il fatto che, il 29 settembre scorso (quattro mesi dopo i fatti in questione), il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite ha approvato la risoluzione che condanna le forze israeliane per aver violato le leggi inteazionali nel blitz condotto contro la Freedom Flotilla diretta a Gaza (anche se Israele, com’è logico, non accetta questa sentenza).
La seconda insinuazione, più grave, riguarda il mio presunto antisemitismo. Perdonatemi, il Dizionario Garzanti della lingua italiana, definisce l’antisemitismo come «ostilità, intolleranza nei riguardi degli ebrei». Esprimere dissenso e protesta nei confronti della politica del Goveo di Tel Aviv non significa assolutamente voler disprezzare gli ebrei e la loro fede. Ci sono ebrei che dissentono dal modo in cui il governo di Israele tratta la questione palestinese, lo sapete meglio di me. L’equazione «critica a
Israele = antisemitismo» può far comodo ad alcuni, ma non è applicabile a Missioni Consolata.
Ugo Pozzoli

Non Solo
Vacanza

Non ho mai baciato, abbracciato e stretto mani così tanto come in quella vacanza in Colombia durante lo scorso agosto. Se potessi darle un titolo sarebbe: «La vacanza dell’accoglienza», un valore che invece troppo spesso dimentichiamo di coltivare (ed insegnare) nei gesti quotidiani. Quanti volti, quante persone ho incontrato e conosciuto! Quello che mi ha colpito di più è stato il continuo contatto con la gente delle parrocchie di Bocachica e Marialabaja, sempre pronta ad accoglierci: una porta aperta, una sedia offerta e tanti racconti di vita quotidiana. Niente ferma questa gente; né le difficoltà, né la povertà. Sono pronti a donare un sorriso, un aiuto a quelli che hanno meno di loro. Si accontentano semplicemente di un tetto sulla testa. Poi, non importa se dal tetto entra acqua, anzi può essere un segno di grazia, si raccoglie e non si butta. Tutto è un dono. Non chiedono molto, solo di essere ascoltati e di parlare, di stare con loro e trascorrere del tempo nelle loro case. Questi momenti sono, per questo popolo, molto importanti: in qualche modo ci hanno chiesto di condividere la loro vita. Essi, danno molta importanza alle persone: le «cose» da fare possono aspettare. Non c’è premura nei loro incontri, non importa se si fa tardi, c’è sempre tempo per le cose; sono le persone che hanno la priorità. Così, ogni incontro diventa un momento di gioia e una festa.
Ho avuto la fortuna di fare questa vacanza speciale perché ho incontrato la comunità dei Padri della Consolata di Bevera, dove Padre Gianfranco Zintu ha organizzato un viaggio – incontro in Colombia per un piccolo gruppo di giovani (vedi foto sotto). Questa vacanza mi ha fatto apprezzare quello che abbiamo e mi ha fatto riflettere sull’enorme ricchezza che possediamo: «l’umanità», che non fa differenze di religione o di razza. Riscopriamo l’amore che batte dentro il cuore e che tendiamo invece a far tacere a vantaggio della ricchezza materiale!
Wilma
Marialabaja – Colombia
 Agosto 2010




Natale e martirio

Vita e morte, principio e fine, nascita e sepoltura: sono dei binomi che ci spiazzano, di cui non vorremmo parlare, soprattutto a Natale, dove vita, gioia e pace sembrano dover essere le parole d’ordine. In realtà, da sempre, la liturgia della Chiesa fa seguire il Natale, festa della vita, da due feste di sangue, santo Stefano e i santi Innocenti. Questo ci ricorda che sullo sfondo del Natale c’è sempre la Pasqua con il suo mistero di passione, sofferenza, morte e risurrezione. Il messaggio è ripetuto sette giorni dopo con la memoria della presentazione di Gesù al tempio quando il vecchio Simeone ricorda a Maria tutta la sofferenza che le sta dinnanzi. Da ultimo, i regali dei tre Magi all’Epifania, se da un lato esaltano la divinità e la regalità del Bambino, dall’altra annunciano la sua immolazione sacrificale, il suo martirio.
Il martirio, che richiama persecuzioni d’altri tempi, è oggi una parola che è rimbalzata su tutti i media del mondo dopo il massacro degli oltre 50 cristiani a Baghdad lo scorso 31 ottobre. Secondo le statistiche il XX secolo è stato quello con il maggior numero di martiri cristiani. Tuttavia il XXI secolo sembra voler battere il record sia per il perpetuarsi di sistemi ad influenza comunista che per la nuova virulenza del fondamentalismo (sia esso islamico, indù o buddista), come per lo svilupparsi di nuove forme di intolleranza e cristianofobia nei paesi che pure hanno fatto della tolleranza la loro bandiera. Sta già succedendo qua e là nel mondo, ma diventerà sempre più frequente, che cristiani siano imprigionati o penalizzati per coerenza alla loro fede circa questioni come aborto, omosessualità, eutanasia, famiglia e difesa della vita. Saranno colpiti sacerdoti che predicano principi morali che invece la legge civile ha abolito, medici e operatori sanitari che fanno obiezione di coscienza, giornalisti che non accettano il politicamente corretto e normali cittadini convinti che «bisogna obbedire prima a Dio». Questo accadrà non perché saranno emanate leggi apertamente ostili alla libertà religiosa, ma solo grazie a mille regolamenti contorti, approvati grazie a lobbies interessate e applicati da funzionari che hanno rinunciato al buon senso.
Certo continueranno, e diventeranno anche più feroci, le persecuzioni dolorosamente plateali ad opera di chi mette in carcere vescovi e preti e continua a mandare cristiani in campi di rieducazione, di chi impedisce ogni manifestazione pubblica della fede, di chi usa la scusa del proselitismo per reprimere, di chi ricorre a bombe e minacce, assassinio e terrorismo, ma nei nostri paesi si svilupperanno altre modalità sicuramente meno intrusive ed esecrabili, perciò più facilmente giustificabili ed addirittura accettabili, ma non per questo meno intolleranti e violente.
Pessimista? Lo spero. Ma non mi spaventa, anzi. Mi preoccuperebbe di più se il martirio cessasse totalmente. Vorrebbe dire che i cristiani non sono più «sale della terra», che hanno talmente diluito la loro testimonianza da diventare innocua parte del sistema, preoccupati più dei loro privilegi che della fedeltà al loro Maestro, morto in croce. Non è forse questo il rischio che stiamo correndo proprio nel nostro paese? «Hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi» (Gv 15,20). «Beati voi quando vi perseguiteranno per causa mia» (Mt 5,11). Non è fuori posto ricordare questo a Natale, perché, non dimentichiamolo mai, il Natale è sotto il segno della Croce.
Concludendo, faccio di vero cuore i più sinceri auguri di Buon Natale a tutti i nostri lettori, amici e benefattori a nome dell’intera redazione e dei Missionari della Consolata, con i quali esprimo solidarietà e vicinanza a tutti coloro che in Italia sono stati vittime del maltempo, in particolare in Veneto – dove sono molti dei nostri lettori -, e di altre calamità frutto dell’irresponsabilità dell’uomo. Che l’esempio di coerenza, amore e difesa della vita dato dalla Santa Famiglia possa essere di incoraggiamento alla nostra quotidiana testimonianza di fede e carità in una realtà sempre più segnata da paura, intolleranza e diffidenza verso gli altri. Che la comprensione del Natale alla luce della Pasqua sostenga la nostra fede e ci aiuti a «dar ragione della nostra speranza» (cf 1 Pt 3,15).
Buon Natale a tutti voi anche dai nostri missionari e dalle persone che essi amano, con voi.

Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




Regala la vita

La salute matea e infantile, chiave di volta degli obiettivi del  millennio

La salute matea e infantile, quinto Obiettivo del Millennio, è di importanza cruciale per raggiungere anche gli altri obiettivi in ambito sanitario e socio – economico. Ma i risultati ottenuti finora sono ancora lontani dall’essere soddisfacenti.
Lo stato dell’arte della salute matea
«Fra gli obiettivi del Millennio, la salute matea è quello più lontano dall’essere raggiunto. Eppure, questo obiettivo è fondamentale per raggiungere tutti gli altri». Con queste parole il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki Moon, ha aperto la conferenza durante la quale è stata lanciata, lo scorso 22 settembre, la nuova Strategia globale per la salute matea e infantile dell’ONU. «Se in alcuni Paesi ci sono stati segni di miglioramento», ha proseguito il Segretario Generale, «le donne che muoiono per malattie legate alla gravidanza e al parto sono ancora centinaia di migliaia. Una disgrazia che non possiamo più tollerare», ha concluso Ban Ki Moon. Per questo, con la nuova strategia saranno stanziati quaranta miliardi di dollari per salvare la vita di sedici milioni di donne e bambini.
Secondo i dati ONU, delle oltre 350 mila donne che muoiono annualmente durante la gravidanza o il parto, il 99% vive nei Paesi in via di sviluppo. In Africa sub-sahariana una donna incinta su trenta perde la vita, a fronte di un rischio pari a uno su 5.600 nei Paesi sviluppati. Ogni anno, un milione di bambini resta senza madre; la loro probabilità di morire prematuramente è dieci volte più alta rispetto agli altri bambini. I dati sono indubbiamente allarmanti e lo diventano ancora di più se si considera che l’80% dei decessi di donne incinte sono causati da emorragie, infezioni, travaglio complicato, interruzioni di gravidanza praticate con metodi non sicuri e malattie ipertensive. Si tratta, cioè, di patologie che potrebbero essere contenute semplicemente mettendo a disposizione delle madri e dei loro bambini dei servizi sanitari adeguati, gestiti da personale qualificato e in strutture dotate dell’attrezzatura necessaria per intervenire tempestivamente. Nel caso della trasmissione del virus HIV da madre a figlio, inoltre, un’assistenza sanitaria adeguata è fondamentale per ridurre il rischio di contagio, che aumenta durante il travaglio,  il parto e con l’allattamento al seno.
Gli interventi che, nel corso di questi anni di impegno per il raggiungimento degli obiettivi del millennio, hanno dimostrato maggior efficacia sono quelli che hanno saputo tenere in considerazione le specificità delle singole realtà alle quali si applicavano. Nel caso della salute matea e infantile, infatti, ad avere maggiore successo non sono stati progetti mastodontici che prevedevano grandi investimenti e trasferimenti di tecnologie, bensì iniziative più limitate che però valorizzavano le risorse locali e superavano difficoltà apparentemente non collegate all’ambito sanitario, come quelle relative ai trasporti. Ad esempio, nelle zone rurali e isolate si sono rivelati decisivi la formazione di levatrici tradizionali, la creazione di comitati sanitari di villaggio a livello di comunità di base e la costruzione di reti di piccoli centri sanitari in grado di assistere le pazienti quando la situazione delle strade e delle vie di comunicazione rende difficoltosi gli spostamenti delle donne incinte all’ospedale di riferimento.

l’esempio di Neisu
«è proprio per innestare il servizio di salute matea nel contesto socio–culturale del Paese», conferma il personale dell’ospedale Nostra Signora della Consolata di Neisu, in Repubblica Democratica del Congo, «che abbiamo scelto di investire sulla formazione delle levatrici tradizionali, figure di importanza fondamentale in un contesto rurale isolato come quello di un villaggio della provincia prientale congolese».
La popolazione locale, infatti, si affida da tempo immemore ai servizi di queste donne quando si tratta di assistere una donna incinta nella gravidanza e nel parto. Le donne incinte e le loro famiglie ripongono completa fiducia nella figura della levatrice tradizionale, che conosce le tecniche, radicate nella cultura locale, per favorire il parto. Tuttavia, ci sono numerosi casi in cui l’assistenza delle levatrici, nonostante la loro competenza, non è sufficiente per evitare l’insorgere di complicazioni che possono mettere a rischio la vita di partorienti e neonati. Per questo, reclutare e formare queste donne perché possano arricchire le loro conoscenze tradizionali con nozioni tipiche della medicina modea ha significato dotarle, nel rispetto della cultura locale, degli strumenti necessari a riconoscere una situazione potenzialmente rischiosa e orientare in tempo le future mamme verso i servizi della rete sanitaria dell’ospedale di Neisu.
Questa rete, con il suo ospedale di riferimento e gli undici centri sanitari periferici, è in grado di fornire alle donne con gravidanze difficoltose l’assistenza e le terapie necessarie a limitare in modo decisivo i rischi di decesso della madre o del neonato.

Clinica di Modjo e
dispensario di Alendu
In occasione della campagna di Natale 2010 Regala la vita, Missioni Consolata Onlus ha deciso di concentrare i suoi sforzi su progetti che, come quelli finora coronati da successo, privilegiano strutture relativamente piccole e molto radicate nel tessuto socio-culturale locale. In particolare, quest’anno la campagna sarà incentrata sulla Catholic Clinic di Modjo, in Etiopia, e sul Saint Luke Dispensary di Alendu, in Kenya. Si tratta di due strutture sanitarie collocate in una posizione strategica che permette loro, nonostante le dimensioni limitate, di fare la differenza nelle zone di competenza poiché vanno a inserirsi in contesti nei quali i servizi sanitari di buona qualità sono praticamente assenti o non riescono a fare fronte a una richiesta di assistenza troppo elevata.
Modjo è una cittadina di circa quarantamila abitanti che si trova 75 chilometri a sud-est di Addis Abeba, la capitale etiope. È una realtà in rapida espansione poiché si trova al crocevia di diverse strade che collegano le regioni dell’Etiopia tra loro e con il Kenya. Questo rapido sviluppo comporta problemi di gestione tra i quali quello sanitario è uno dei principali: il passaggio di merci e persone, infatti, induce scompensi che creano, tra l’altro, malnutrizione, disoccupazione, carenza di abitazioni e di igiene, in un contesto dove le strutture sanitarie pubbliche sono per il momento inadeguate a far fronte alla richiesta di assistenza crescente legata all’espansione della città.
La Catholic Clinic, gestita dai missionari della Consolata in collaborazione con le Suore della Carità, cerca di raccogliere queste sfide in ambito sanitario e di rispondere alle esigenze della popolazione locale. Il progetto relativo alla salute matea, in particolare, mira a rendere pienamente operativa la mateità per permettere alle 1.300 donne che si rivolgono annualmente alla clinica di godere dell’assistenza sanitaria pre- e post-natale e ai neonati di ricevere fin da subito le cure necessarie per evitare malnutrizione e malattie che potrebbero pregiudicare seriamente la crescita dei bambini.
Alendu è un villaggio vicino a Kisumu, sulle rive del lago Vittoria. Nonostante le ingenti risorse ittiche del lago e la possibilità, almeno in alcune aree, di trovare terreno fertile, la zona di Kisumu non ha beneficiato finora di uno sviluppo sufficiente a migliorare significativamente la condizione dei suoi abitanti: mancano le infrastrutture, l’agricoltura è quasi solo di sussistenza, la carenza di acqua potabile e i regolari allagamenti durante le piogge favoriscono la diffusione di malattie conseguenti alla mancanza di strutture d’igiene adeguate (vedi MC gennaio 2010 pag. 55).
Il dispensario Saint Luke è stato aperto dai missionari della Consolata nel 2009 e sta ampliando le sue attività anche di conseguenza all’aumento delle richieste di assistenza ricevute dal vicino ospedale di Chiga, che ora fatica a soddisfare tutti i pazienti che si rivolgono annualmente alle sue strutture. In particolare, nell’ambito della salute matea, il dispensario di Saint Luke ha appena lanciato un progetto di assistenza alle madri affette da HIV e alle madri single, inserendole in un programma di prevenzione della trasmissione da madre a figlio. Alle donne coinvolte nel progetto verrà foita assistenza sanitaria, terapia anti-retrovirale ove necessario e formazione su come evitare il contagio.

Chiara Giovetti

Chiara Giovetti




Neghelli parla romagnolo

Gambo: l’opera di padre Tarcisio Rossi continuata da un compaesano

Il sogno di p. Tarcisio Rossi (+ 2005), stroncato dalla morte, è continuato e portato a termine da un compaesano: ecco la storia di un silenzioso volontario di Cesena, Bruno Fusconi, che da oltre 20 anni coinvolge amici e benefattori romagnoli nella missione di Gambo, in Etiopia.

È la 19° volta che il signor Bruno Fusconi torna a Gambo. Da quando ha stretto una solida amicizia con il compaesano di Cesena, padre Tarcisio Rossi, ogni anno ha speso 3-4 mesi in Etiopia, prima per aiutare il suo concittadino, poi per continuae l’opera.
Nel 2004, padre Tarcisio progettò la costruzione di un nuovo centro missionario a Neghelli, a 40 km da Gambo, ma non ne vide  che gli inizi, essendo deceduto all’inizio di settembre del 2005. Il signor Bruno, come promesso all’amicoe conterraneo, continuò quel progetto, che si può considerare ormai realizzato con l’inaugurazione della chiesa, avvenuta l’estate scorsa.
Ma l’opera principale è stato l’asilo, aperto nel 2008 con una sessantina di alunni; oggi sono 130 e c’è posto per altri 70. «Gli scolaretti di 4 e 5 anni – racconta Bruno – sono seguiti da personale qualificato; vestono una divisa azzurra con camicia rosa: per molti di essi sono i primi indumenti di qualità ed è la prima volta che possono giocare in un luogo sicuro e pulito. Tra insegnanti, assistenti e personale vario, l’asilo dà lavoro a 13 persone, il che significa sostegno per 13 famiglie: è stato adottato per intero dalla ditta Origel di Cesena, che si è impegnata a sostenee le spese».
È infatti bussando alla porta di ditte, banche, club, associazioni e amici cesenati e romagnoli che il signor Fusconi è riuscito a costruire le varie strutture di Neghelli: case per le suore, abitazioni per i missionari e personale di servizio, salone polivalente e la chiesa. Ma sono molte le opere di utilità pubblica che portano la sua firma in questi 20 anni di volontariato nella missione di Gambo: linee elettriche, pozzi per l’acqua, strade, scuole elementari e medie, cappelle e sostegno a varie iniziative dei missionari e missionarie della Consolata, come borse di studio, corsi di formazione per la promozione della donna, progetti di microcredito.

«Dopo due ore e mezza di cammino su una pista fangosa, suor Eudoxia e io siamo saliti fino a 2.600 metri di altitudine, per raggiungere la frazione di Alamgana, dove i cattolici costituiscono il 90 per cento della popolazione. Essi ci attendevano nel salone parrocchiale per la chiusura dell’anno di formazione di un gruppo di donne, pronte per avviare attività di microcredito», racconta Bruno. Le iniziative di emancipazione femminile sono portate avanti con successo dalle suore e il signor Fusconi dà il suo valido supporto, con  l’aiuto dei benefattori.
«Abbiamo consegnato a una trentina di donne un prestito in denaro con cui iniziare un’attività in proprio – continua -. Più che un esercizio di microcredito, mi sembrava di partecipare alla creazione di una vera e propria Cassa Rurale, con documenti da compilare, firme del beneficiario e controfirma del rispettivo marito o da un conoscente».
Tale procedura rafforza l’importanza dell’atto sottoscritto. Prima di ricevere il prestito la donna deve frequentare i corsi di formazione in cui impara a leggere e scrivere e riceve istruzioni su come gestire la propria attività. Inoltre, porre la firma in un documento conferisce alle donne il senso di autostima, d’importanza e di autorità in seno alla propria famiglia.
Le attività intraprese da queste donne sono varie: acquisto di una mucca da latte, una pecora già gravida (per avere subito agnellino e latte), galline per la produzione di uova, sementi varie per le coltivazioni, esercizio di piccoli commerci… tutto per rispondere almeno in parte alle necessità della famiglia.
Attualmente i corsi di formazione sono stati organizzati in sette comunità della missione, con la partecipazione di 560 donne, delle quali 218 hanno avuto accesso al microcredito. Molte di esse hanno già restituito il prestito.
Mentre aumentano i partecipanti ai gruppi già costituiti, altre comunità chiedono di poter godere di tale iniziativa: le donne hanno capito che l’alfabetizzazione e l’esercizio di una microattività è l’unica strada per uscire dall’emarginazione, diventare protagoniste della gestione familiare e reclamare la parità con gli uomini in seno alla famiglia e alla società.

Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Il crogiuolo delle religioni

Dove la religione è chiave per capire un paese

Con sei italiani dell’associazione Impegnarsi Serve in Corea per cercare di capire qualcosa di un paese che non è solo uno dei giganti economici del mondo o quello con il confine più militarizzato del mondo, ma anche quello in cui diverse religioni coesistono in armonia.

Siamo partiti con i vestiti leggeri per la Corea, dove ad agosto fa caldo. Eravamo in sei dell’associazione Impegnarsi serve, una onlus da tempo fiancheggiatrice dei Missionari della Consolata con cui ha fatto molti progetti. Alcuni di noi erano già stati in Kenya, Tanzania e Roraima (Brasile) per seguire i progetti che l’associazione aveva là iniziato. Ma perché andare in Corea? Già dallo scorso anno avevamo sentito il bisogno di aprire i nostri orizzonti sul dialogo interreligioso come dimensione nuova della missione senza fermarci solo ai problemi di sviluppo e promozione umana. Così, quest’anno 2010, il nostro gruppetto, tre uomini e tre donne, si è recato in Corea, mentre un altro nostro gruppo è andato in Costa d’Avorio con il medesimo obiettivo. L’approccio è stato di tipo esperienziale: attraverso i viaggi di conoscenza vogliamo promuovere qui in Italia una visione della solidarietà che non sia semplicemente l’aiuto portato a persone lontane in situazioni di bisogno, ma conoscenza e dialogo con culture e situazioni differenti che possono portare a un reciproco arricchimento. P. Giordano Rigamonti, l’anima della nostra associazione, ci aveva preparato con poche raccomandazioni: umiltà – grande, rispetto – molto, umanità – tanta, curiosità – discreta.
Corea, passando dalla porta del ju e del li
Dopo 24 ore di viaggio siamo sbarcati a Seoul e subito abbiamo assaggiato il caldo/umido della Corea che ci ha accompagnato per tutti e venti i giorni della nostra permanenza. Non conoscevamo l’Asia e il primo impatto con una cultura e un popolo così diversi non è stato semplice. Abbiamo viaggiato tanto, ma mai ci era capitato di essere così smarriti di fronte a una lingua tanto diversa e quindi impossibile da decifrare per noi. Per nostra fortuna p. Diego Cazzolato, superiore dei missionari della Consolata in Corea, ci ha accompagnato sempre. La sua guida è stata preziosa non solo come indispensabile traduttore, ma soprattutto perché piano piano ci ha spiegato le radici storiche e culturali del popolo coreano e ci ha dato le chiavi di lettura che ci hanno permesso di avvicinarci ad un mondo così diverso.
Per capire veramente una cultura bisogna conoscee la religione. Forti di questa certezza, ci siamo messi di buona volontà ad approfondire e studiare, ma p. Diego ci ha subito spiegato che in Corea le religioni sono molte e quindi il problema diventa difficile. Non a caso i missionari della Consolata hanno scelto il dialogo interreligioso come una delle vie specifiche della loro presenza missionaria in quella nazione.
Ci siamo accostati per primo al Buddismo, la religione più diffusa oggi in Corea, abbiamo poi incontrato rappresentanti del Ch’on-do-kyo (la via del cielo, una religione nazionale e nazionalista coreana), del Buddismo Won, del Confucianesimo e per finire abbiamo conosciuto una sciamano. Così, quasi con un percorso a ritroso nel tempo dalla religione più recente a quella più antica, abbiamo tentato di conoscere le varie religioni e vedere come nel tempo si siano sovrapposte e siano diventate, in alcuni casi con evidenti fenomeni di sincretismo, il fondamento su cui è costruita l’identità della Corea di oggi.
Da subito ci siamo chiesti come sia possibile che tante religioni convivano in Corea senza scontrarsi. Speravamo di scoprie in fretta il segreto per portarlo da noi (Lombardia), dove la convivenza tra cristiani e musulmani sembra diventare ogni giorno più difficile. Così p. Diego ci ha spiegato che i coreani hanno un forte senso di appartenenza e che il fatto stesso di essere coreani supera qualsiasi altra differenza, anche religiosa. Probabilmente un così forte senso di appartenenza è frutto della loro storia. Il confuciano principio del ju, rispetto e reciprocità, e quello del li, lealtà, permeano ancora oggi le relazioni nella società coreana, mentre un forte nazionalismo è la conseguenza della ribellione al colonialismo giapponese fortemente appoggiata dal Ch’on-do-kyo. La cosa certa è che tutto questo non è trasportabile qui da noi.
Superata la prima delusione di non trovare una risposta facile, non ci è rimasto che continuare il nostro viaggio di conoscenza nella speranza di trovare altre strade. Subito abbiamo capito che il percorso non era facile. Con la sua umanità p. Diego ci ha guidato, spiegandoci innanzi tutto che cosa non è il dialogo interreligioso per portarci poi a comprenderne il vero significato.
Dialogo interreligioso
Dialogo interreligioso non è studio delle altre religioni, non è ecumenismo, non è il tentativo di raggiungere l’unità tra le varie religioni, non è uno sforzo per convertire gli altri.
Ma allora cosa è?
C’è stata una discussione tra di noi. Il punto in questione era il come porci nell’incontro con persone di una religione diversa: è giusto dichiarare da subito la propria religione o è una forma di rispetto e di vera volontà di dialogo il non dichiarare da subito la propria appartenenza?
P. Diego ci ha suggerito di iniziare ogni mattina con la preghiera e la messa. Dopo un po’ abbiamo capito che un dialogo interreligioso deve necessariamente partire da una forte identità e da una grande conoscenza e consapevolezza della propria religione. è stato bello trovarsi giorno dopo giorno più uniti intorno al caratteristico altare basso che si usa in Corea. Dopo la messa c’era tutto il tempo per le nostre esplorazioni.
Fatto un giro nella città di Seoul, abbiamo visitato per primo il centro del dialogo interreligioso di Okkil inaugurato dai missionari nel 1999. Subito siamo stati colpiti dalla mancanza di simboli della nostra religione, solo una Madonna in granito immersa nella quiete del giardino circostante che, ci hanno spiegato, vuole rappresentare la madre che accoglie tutti. Spesso i simboli laici o religiosi di appartenenze rischiano di costituire un ostacolo e anche un motivo di offesa reciproca. Per questo è importante trovarsi in uno spazio aperto favorevole all’incontro, al confronto, al dialogo nel rispetto dell’altro.
Il dialogo interreligioso è un cammino tutt’altro che semplice. «Il dialogo interreligioso è l’incontro di persone appartenenti a diverse religioni, che avviene in un’atmosfera di libertà e di apertura, con il fine di ascoltare l’altro, cercando di capire la sua religione, nella speranza di trovare possibilità di collaborazione» (card. Arinze).
In virtù delle relazioni che da anni tiene con le varie religioni, partecipando anche a incontri ufficiali, p. Diego ci ha fatto incontrare alcune persone appartenenti alle 5 religioni più importanti nel paese e ci ha anche guidato a conoscere la storia della Chiesa Cattolica sudcoreana con i suoi tanti martiri. La storia del cattolicesimo in Corea è relativamente recente (fine del XVIII secolo) ed è segnata da due grandi persecuzioni: 1866 e 1901 (vedi box pag. 56). I protestanti, oggi la maggioranza dei cristiani coreani, ebbero via libera nel 1882 grazie ad un trattato con gli Stati Uniti.
Incontri
Alcuni incontri sono stati più formali, altri ci hanno toccato di più. Due sono state le esperienze che più ci hanno aiutato a capire: il soggiorno (chiamato temple stay) nel tempio Hwa-gye-sa del buddismo zen e l’incontro con la mudang Choung-Sun-Deo, una sciamano (vedi box a destra).
Non è stato facile alzarsi alle 3 del mattino e pregare per 7 ore in posizione zen, ma provare a condividere il serio impegno religioso e le belle forme di spiritualità dei monaci buddisti ci ha affascinato e fatto riscoprire la bellezza e la serenità della preghiera. Canti, preghiere e suoni lenti e ritmati aiutano a entrare in relazione con il divino; riscoprire alcuni di questi metodi può essere importante per tutti.
L’ultimo incontro, quello con la sciamano è stato senza dubbio il più sfidante. Parlare con lei, scoprire la storia della sua chiamata e conoscere l’impegno con cui porta avanti la sua missione è stata per noi una vera sorpresa. Il nostro naturale scetticismo nei confronti di ogni forma di religiosità diversa, ha dovuto cedere alla precisa sensazione che qualcosa di soprannaturale fa parte dell’esperienza di Choung-Sun-Deo. Sicuramente è la sua personale consapevolezza di essere in contatto con gli spiriti che la spinge a farsi carico di coloro che soffrono e le chiedono aiuto.
Le sciamano donne sono considerate quasi come le nostre streghe di un tempo, emarginate dalla società, ma cercate poi di nascosto quando c’è la necessità di risolvere qualche problema. Abbiamo avuto la possibilità di assistere a un kud, il rito in cui la sciamano entra in contatto con lo spirito di un morto, nel nostro caso con quello del marito di una signora che aveva chiesto di essere aiutata a rappacificarlo perché suicida. È stata un’esperienza forte che ha suscitato molti interrogativi.
INTERROGATIVI E SPERANZE
Abbiamo avuto solo un piccolo assaggio delle varie religioni, ma nell’esperienza al tempio, così come durante la preghiera con i monaci e le monache del Buddismo Won, abbiamo sentito che qualcosa di misterioso e spirituale stava accadendo.
Questo comune sentire tra noi  partecipanti al viaggio ci ha fatto riflettere molto. Se è vero che anche queste sono religioni e come tali sono alla ricerca di Dio o comunque dell’assoluto, come dobbiamo porci noi nei loro confronti? P. Diego ci ha rassicurato: «Che lo Spirito di Dio è presente anche in esse; che contengono i Semi della Parola; che c’è in esse molto di buono e santo che merita il rispetto e l’attenzione della Chiesa; che è possibile un dialogo vero, fatto anche di scambio di esperienze spirituali, con le persone di altre religioni; che possiamo aiutarci a vicenda nel cammino verso Dio; che possiamo lavorare insieme per il bene dell’umanità e per la costruzione del Regno».
Sicuramente questa nostra breve esperienza ha di molto aumentato il nostro rispetto verso le altre religioni. Ma la domanda «perché esistono tante religioni (se una sola è vera)?» si è insinuata dentro di noi. Questa è la sintesi di p. Diego. «Certamente Dio ha i suoi cammini, molte volte sconosciuti a noi, per farsi presente a tutti gli uomini, e per parlare al loro cuore. Le stesse religioni non cristiane credo che costituiscano alcuni di questi cammini. Mi sembra di poter affermare che il Signore Risorto attira a Sé le altre religioni, in una maniera misteriosa che io non conosco e che i teologi si affannano di chiarire e capire, e ciò le rende, per i loro fedeli, un mezzo concreto per fornire qualche risposta ai quesiti fondamentali dell’essere umano, e per offrire un cammino concreto di ricerca e comunione con il Mistero di Dio».

Laura Poretti

Laura Poretti




Il deserto è rifiorito

Primi battesimi ad Arvaiheer

Dopo quattro anni di studio della lingua e cultura del paese, nel 2007 i Missionari della Consolata hanno aperto la missione di Arvaiheer, a 340 km dalla capitale. Il giorno di Pentecoste di quest’anno hanno raccolto i primi frutti: sei donne hanno ricevuto il battesimo.

L’inverno è stato particolarmente rigido in tutta la Mongolia, causando la morte di alcuni milioni di capi di bestiame. E ad Arvaiheer, ai margini del deserto dei Gobi, neve e gelo hanno provocato un autentico disastro. Grazie alla solidarietà ricevuta attraverso la campagna «Mongolia: emergenza gelo», abbiamo potuto aiutare le famiglie più bisognose, provvedendo loro cibi, abiti, carbone, farina e fieno per gli animali.
Con la fine dell’inverno, la steppa e il deserto hanno ricominciato ad inverdire. Anche in questi angoli sperduti dell’Asia la vita vince sempre sulle difficoltà e sulle disperazioni e sulla morte. E non solo in senso materiale.
Lo scorso 23 maggio, domenica di Pentecoste, è stato un giorno di festa tutta speciale per la missione di Arvaiheer: 6 donne del paese hanno infatti ricevuto il battesimo. Dal nostro arrivo in Mongolia nel 2003, a parte la breve esperienza nella capitale, nel quartiere dell’aeroporto di Ulaanbaatar, sono questi i frutti visibili della nostra presenza di evangelizzazione in questo paese.
Sappiamo che quanto rimane nascosto nel cuore delle persone, senza riscontri estei, ha un valore immenso, che sfugge alla logica del computo e delle statistiche; non sono queste le cose che ci interessano. Nondimeno desideriamo ringraziare il Signore per queste scelte di vita sulle quali si costruisce la comunità cristiana.
Le sei nuove sorelle in Cristo hanno fatto una scelta di vita radicale, se si pensa al contesto in cui vivono e alla novità del messaggio cristiano per tutta questa popolazione. Battogoo (Lucia) è la più giovane (23 anni) e la più timida: cresce con tanta cura il suo figlioletto Byambadorj, senza la presenza del marito, e non è la sola in questa situazione; Perlimaa (Rita) e Diimaa (Elisabetta) sono due sorelle di una numerosa famiglia, la prima ex-operaia al tempo del comunismo e la seconda insegnante d’asilo in pensione; Narantuya (Caterina) e Otgonbayr (Maddalena) abitano nello stesso terreno, ma una vive di espedienti con figli e nipoti a carico, mentre l’altra ha marito e due figli; infine Deejit (Anna) si è stabilita da tre anni ad Arvaiheer, dopo aver perso il bestiame in aperta campagna, e vive con madre, figlia e nipoti in una piccola ger regalatale dalle sorelle.
Con noi hanno percorso un cammino di scoperta della fede e poi di preparazione ai sacramenti per più di due anni. In questo tempo di condivisione e di scambio ci hanno aperto spiragli veri sulle loro famiglie, spesso in situazioni difficili, a volte affaticate dalla povertà e dalle prove di una vita non facile, dove il contatto con il limite e le fragilità (la morte soprattutto) non è ancora stato esorcizzato dalla tecnologia e dalle illusioni del consumismo.
Per noi è stata una grazia vedere come queste vite erano già segnate misteriosamente dalla presenza di Dio che le ha guidate a questo incontro personale con Gesù.
La decisione di chiedere il battesimo l’hanno presa lo scorso autunno e passo dopo passo è cresciuto in loro il desiderio di entrare in questa vita nuova di perdono, misericordia e comunione intima con Dio. L’unione fra di loro è andata via via aumentando, soprattutto negli ultimi mesi, in cui hanno anche avuto la possibilità di incontrare altri mongoli cattolici in un viaggio ad Ulaanbaatar, accompagnate dai loro catechisti, suor Lucia e padre Eesto.
Il giorno in cui abbiamo chiesto loro un colloquio personale di verifica erano emozionate e un po’ impaurite dal dubbio di non ricordarsi qualche punto della catechesi; invece hanno dimostrato di aver recepito almeno i punti essenziali della dottrina cristiana e soprattutto hanno manifestato spontaneamente un vero desiderio di abbracciare la vita dello Spirito.
Una di loro l’avevamo vista recarsi al monastero buddista per riconsegnare l’altarino tradizionale, di cui conserva il rispetto dovuto alla tradizione, ma che non si sente più di tenere nella ger come oggetto di culto.
Tale evento è stato per noi un momento anche di intensa preghiera, che ha coronato un lungo periodo di preparazione e segnato l’inizio di un cammino altrettanto lungo, anzi per sua natura destinato a non finire.

La vita della grazia, infatti, si innesta in noi con potenza, ma necessita di continue riprese e risurrezioni quotidiane. Come quella che abbiamo sperimentato la vigilia di Pentecoste. Sapevamo di certi dissapori che erano venuti a crearsi nel gruppo, per via di malintesi, pettegolezzi e ferite di questo genere. Secondo la tradizione buddista il diffamare gli altri attraverso mezze verità e giudizi calunniosi è uno dei 10 «peccati» più gravi e ne abbiamo toccato con mano gli effetti nefasti: persone in lite tra di loro, che si discreditano a vicenda presso gli altri col raccontare i peccati altrui e così «rovinare il nome» di quella famiglia.
Non potevamo arrivare al battesimo senza una riconciliazione vera: così abbiamo organizzato un momento di chiarimento, dopo la condivisione della Parola di Dio del sabato pomeriggio. In presenza delle interessate, abbiamo esposto il problema e dichiarato che per chi abbraccia la vita cristiana non ci può essere spazio per falsità e inganni; quindi abbiamo invocato lo Spirito e invitato le presenti a dirsi una volta per tutte la verità.
C’è stata tensione, ma poi le lacrime hanno rotto gli argini e si sono dette quello che si dovevano dire; il passo successivo è stato quello di alzarsi dal proprio posto e tendere la mano a ciascuna delle altre, chiedendo scusa e offrendo il proprio perdono. Infine padre Eesto ha letto il brano della lettera di Giacomo sulla necessità di controllare la propria lingua: «Vedete un piccolo fuoco quale grande foresta può incendiare!» (Gc 3,5).
Il seguito è stato un sospiro di sollievo e un ritorno del sorriso su volti bagnati dal pianto; è stato così bello vedere di nuovo la vita negli occhi di quelle donne, mentre bevevano un tè a casa nostra per festeggiare la riconciliazione!

Poi il gran giorno di Pentecoste: la luce entra dal tondo centrale della ger-cappella proprio a illuminare le camicie bianche, cucite in stile mongolo che le neo-battezzate adesso indossano ogni domenica.
Grande partecipazione di tutta la comunità, occhi incuriositi di bambini e adulti mentre l’acqua gocciola dalla testa nel fonte battesimale. L’atmosfera raccolta ha facilitato la liturgia, con i suoi segni sobri ed essenziali, ben preparati da tutti.
Dopo la messa un momento di festa organizzato dalle altre donne della comunità: sembrava di essere a un banchetto tradizionale, non tanto per cibi raffinati (che non c’erano), ma per la solennità semplice delle tradizioni mongole, con bambini che recitano poesie interminabili, giovani che mettono in scena atti di commediole e adulti che cantano le lodi della madre, compresa la madrina, suor Lucia, che si è vista regalare una camicia tradizionale di colore azzurro, come il cielo.
Desideriamo ringraziare con voi il Signore per questo momento di celebrazione delle sue lodi; lo facciamo insieme alla Consolata, madre nostra e di tutti i figli e figlie di Dio di ogni popolo e nazione. Evviva!

Daniele Giolitti

Daniele Giolitti




La felicità non si trova per strada

«Chicas y chicos de la calle» a Buenos Aires

Hanno dormito per le strade. Hanno conosciuto la violenza. Hanno rubato ed assunto droghe. Hanno vissuto come adulti pur non essendo adulti. Abbiamo visitato due strutture familiari che accolgono bambine e bambini di strada. Strutture piccole, ma che raggiungono lo scopo: dare ai ragazzi un tetto per la notte e quel po’ di affetto e attenzione, che non hanno trovato nelle loro famiglie.

Buenos Aires. Il lavandino è nel cortile, davanti alla porta della piccola abitazione. I ragazzi pelano le patate, tagliano le carote, lavano i pomodori. 
Altri ragazzi sono in strada, una strada non trafficata di Barracas, a preparare la legna, recuperata da cassette e vecchi mobili.  Il fuoco per l’asado sarà acceso lì fuori, senza troppe formalità.
Gli invitati sono ragazzi e ragazze in apparenza normali. Normali nell’indossare maglie extralarge, normali nel modo di portare i jeans o la tuta, normali negli atteggiamenti spavaldi, normali nei gesti e nel modo di scherzare, di ascoltare musica o di abbordare l’altro sesso. In apparenza, abbiamo detto. Perché nella realtà questi giovani – l’età varia dagli 8 ai 16 anni – hanno già sperimentato troppo nella loro ancora breve esistenza. Una vita in strada, senza famiglia, a contatto con la droga, la polizia, il sesso a pagamento, i furti, il carcere, le botte, gli abusi sessuali.
Ecco, arrivano il vassoio con la carne da cuocere e la salsa di pomodoro, di cui Mario va tanto fiero. Mario Sotero è il padrone di casa e l’organizzatore della festa. Da ex ragazzo di strada, nel suo piccolo, da anni Mario si dedica al recupero di giovani e giovanissimi, che si sono persi ma che sono ancora recuperabili. Ci siamo conosciuti alcuni anni fa al Santa, una struttura di recupero dei salesiani di Buenos Aires dove Mario fa l’istruttore di arti marziali.
Mario è amato dai ragazzi. Uno di loro, cappellino calato sulla fronte, dice:  «Tutti i ragazzi vogliono bene a Mario. Perché lui è sempre molto buono con noi». 
Anche se non sempre la sua bontà viene premiata. Nella sua voglia di fare e di aiutare, Mario ha infatti subito – un po’ per ingenuità, un po’ per sfortuna – anche un rovescio, costoso per il portafogli e per l’autostima. Le autorità locali gli hanno demolito una casetta, costruita con i soldi risparmiati e il lavoro suo e dei ragazzi, che avrebbe dovuto fungere da rifugio per la notte.  Si è ripreso e ha reiniziato a darsi da fare per aiutare i ragazzi di strada di Buenos Aires.
Leo sta controllando il fuoco sotto la griglia delle cai. Ha 17 anni, ma sembra più giovane. È stato sulle strade dall’età di 11 fino a 15. «In casa mi picchiavano. La vita di strada è dura. Non ti puoi lavare. Gira droga».
Come vivevi?, gli chiediamo. «Rubando alle vecchie nel centro di Buenos Aires: la borsa, la catenina, gli anelli. Ora, con l’aiuto di Mario, sono uscito. Ho un lavoro in nero, ma è un lavoro. Per il futuro mi piacerebbe studiare, formare una famiglia e lavorare con i bambini di strada».
Leo porta con sé un fratello più piccolo, Juan. Juan ha occhi grandi e una faccia pulita da bambino spaurito. «Sono andato via di casa perché mio papà mi picchiava. Sono andato con Leo, mio fratello. Sono stato in strada per un anno. Ora vivo nel parador di Tina». Juan non è mai andato a scuola e, dalle sue risposte, pare un bambino molto fragile. «Da grande vorrei insegnare karate come Mario», spiega.
Alejandro Daniel ha 14 anni, capelli neri ed un fisico robusto:  «La mia mamma aveva un fidanzato. Un giorno lui venne e mi disse che dovevo andarmene di casa perché voleva stare con mia madre. Risposi che andava bene. Presi il mio zainetto e me ne andai. Allora avevo 13 anni. Adesso vivo nel parador di Tina, una casa per i ragazzi di strada».
Nell’anno passato in strada hai fatto cose cattive? «Sì, molte – risponde Alejandro con tono grave -. Non avevo da mangiare e dunque rubavo alle persone, soprattutto nel centro di Buenos Aires. Con un amico che guidava la moto rubavo le borse alle persone. Per fortuna, la polizia non mi ha mai preso. Ora non rubo più». Hai mai conosciuto tuo padre? «Mio papà lavora in Paraguay, ma non lo vedo da quando avevo 11 anni. È triste. Ma ora spero che la mia vita migliori. Da grande, mi piacerebbe fare il tecnico dei computer».

Famiglie normali cercasi
Alcuni dei ragazzi presenti da Mario dormono al Parador Tina, una casa d’accoglienza che prende il nome dalla sua fondatrice ed animatrice, la signora Tina.
Andiamo a visitarla, approfittando ancora una volta di un asado, una delle principali attività ricreative degli argentini, indipendentemente dallo stato sociale, dall’età, dalla stagione.
La casa è in mattoncini rossi. E non si distingue dalle altre della via, se non per quella sobria insegna accanto alla porta d’entrata: Fundación «Ayudemos a crecer».
Tina Romero Ortiz (intervista a pag.46) è più manager di Mario Sotero e all’ingresso della casa di Pasaje Doctor Madera 1558 ha affisso sulla parete tutte le autorizzazioni rilasciate dalle autorità preposte, nonché alcuni diplomi e riconoscimenti per l’attività svolta.
Passato il corridoio d’entrata, oltre la parete delle autorizzazioni, a sinistra c’è una prima stanza adibita ad ufficio della Fondazione e a destra una camera dove trovano posto 5 letti.  Si passa poi ad una sala comune e alla cucina.  Un piccolo patio porta ad altre due stanze con letti a castello.  Il parador di Tina è piccolo e spartano, ma è molto accogliente e soprattutto ricrea tutti gli ambienti tipici di una casa familiare. Ovvero il contrario di quello che potrebbe essere un istituto per minori in difficoltà.
Una scala in ferro porta al piano superiore, dove c’è una saletta con un televisore e una bella terrazza, oltre ad un angolo attrezzato con le griglie per cuocere la carne. La festa sarà qui. Il tavolo è già imbandito con piatti di empanadas e bevande, mentre la carne sta ancora cuocendo sulla parilla. Mancano del tutto sia il vino che la birra, «per non dare il cattivo esempio ai ragazzi», spiega Tina. Un gruppetto di ragazzi è seduto attorno ad un tavolino a giocare a carte, mentre una radio portatile funziona ad alto volume. La musica è forte ma, alzando un po’ la voce, si riesce ancora a comunicare. 
Lucas, orecchino sul lobo destro, racconta senza remore: «Sono andato in strada perché avevo problemi con mia mamma che mi picchiava molto. Mio papà non l’ho mai conosciuto. Sono stato in strada per 2 mesi e mezzo. Adesso sono qui da Tina». Lucas è un tipo sveglio e chiede la telecamera per filmare la serata. Impara subito, anche a fare le interviste.
Jorge, minuto, capelli biondi, parla così rapidamente che si fa fatica a seguirlo: «La mia mamma se ne andava con il suo fidanzato e mi lasciava a casa con il mio fratello più piccolo. Poi io ho cominciato ad andare e tornare da casa, ma lei non mi voleva più. In strada ho iniziato a prendere droghe: paco, porro, merca, pastiglie. Il paco è la più pericolosa: ti uccide».

Una vita diversa
Joaquin ha 17 anni ed è stato in strada un anno: «Non è facile perché la polizia ti mena». Che facevi?, chiediamo. Joaquin si scheisce e ride di gusto. «Rubava», suggerisce un compagno. Nazareno di anni ne ha 12: «La strada ti insegna cose brutte. A rubare, a prendere droga. Io consumavo porro e merca». Parlando con i ragazzi, una cosa risalta subito: tutti sono felici di aver lasciato la strada e di aver iniziato un percorso di vita diverso. 
Le ragazze presenti sono soltanto due. Una, giovanissima, è agli ultimi mesi di gravidanza. L’altra si chiama Antonella, 12 anni, capelli lunghi, occhi molto belli ma tristi. Vita dura quella di Antonella, che non ha conosciuto né la mamma né il papà. Dice di avere due fratelli, ma più piccoli di lei. «Quando stavo per strada, mi drogavo con il paco, ma non ho mai rubato. Per mangiare, la sera andavo a recuperare gli scarti del McDonalds».  Chiediamo ad Antonella se le farebbe piacere conoscere i suoi genitori. «No», risponde senza tentennamenti.  E per il futuro, cosa vorresti? Scuote la testa, senza rispondere, ma quando le suggeriamo se le piacerebbe andare a scuola e poi trovare un lavoro, fa un cenno di assenso.
Paula lavora come assistente sociale nel parador. È entusiasta e positiva. «Mi piace molto lavorare qui – dice con un ampio sorriso -. I ragazzi mi danno molto. Io sono cresciuta in una famiglia umile, ma – al contrario dei nostri ospiti – ho avuto un’infanzia felice. Questa per me è come la continuazione della mia famiglia».
È trascorsa la mezzonotte. Tina, Mario, Paula avvertono i ragazzi che è ora di chiudere la festa. Al parador di Tina ci sono regole precise. E tutti le rispettano.

Paolo Moiola

A colloquio con Tina Ortiz
PARADOR TINA

Robustiana Romero de Ortiz detta Tina è una signora che parla con il tono pacato di una nonna,  ma che ha il grande pregio di essere chiara e di sapere ciò che vuole.

Tina, come ha cominciato ad occuparsi di ragazzi di strada?
«Ho cominciato a lavorare con loro nel 1998 in una chiesa giudeo-messianica guidata da un pastore giudeo. Cominciammo servendo ai ragazzi due pasti al giorno. Oggi ne serviamo 250».

Alla settimana?
«No! 250 al giorno… Poi è successo che i ragazzi iniziarono a domandare ogni giorno di più, ma nella chiesa era impossibile lavorare con tutta quella gente. Così, con molti sacrifici e con i soldi dei miei due nipoti, decidemmo di comprare una casa. Nel 2000 ne trovammo una nel quartiere San Cristobal. Poi, per questioni di norme legali, nel 2001 ci siamo trasformati in fondazione, la Fondazione “Ayudemos a crecer”. Ma a causa di una nuova legge, quella casa non era più adeguata e quindi abbiamo comprato questa, nel barrio di Barracas. Abbiamo impiegato 4 mesi per ristrutturarla e altri 8 per ottenere l’abilitazione».

Quanti ragazzi accogliete qui dentro?
«La notte dormono qui 16 bambini. Mentre d’inverno, durante il giorno, possiamo arrivare a 30. Vengono a fare una doccia, a mangiare, a guardare un attimo la televisione o a seguire qualche corso».

Dunque, se i ragazzi transitano di qui, a cosa serve esattamente un parador?
«Il parador è una struttura intermedia, tra la strada e una struttura consolidata come l’hogar. Se il ragazzo riesce a rimanere nel parador per 2 o 3 mesi, significa che può essere pronto per un hogar».
Chi sono i frequentatori di questo parador?
«Qui arrivano bambini della strada, che consumano droghe. Paco o qualsiasi altra».

E qui, com’è fatta una loro giornata?
«Durante l’estate, si alzano, fanno colazione e vanno alla colonia. Arrivano verso le cinque del pomeriggio. Fanno merenda. Poi c’è qualche attività. O vanno a giocare a pallone: il calcio è la cosa che più piace. Qui vicino ci sono campi e giardini pubblici. Per fortuna, perché se giocassero qui dentro, con la palla romperebbero tutto!».

Ricevete degli aiuti pubblici per lavorare con i ragazzi?
«Per il comedor riceviamo aiuti dal governo di Buenos Aires che ci dà gli alimenti. All’inizio ricevevamo aiuti da qualche chiesa, ma oggi questo è diventato difficile perché ciascuna chiesa ha le proprie necessità. Ognuna ha costituito una propria fondazione che si occupa della gente del barrio dove opera. La realtà è che, giorno dopo giorno, crescono i bisogni. Per parte mia, posso dire che avevo dei risparmi raccolti in 45 anni di lavoro, risparmi che ora non ci sono più, dato che sono stati investiti nella ristrutturazione di questa casa».

Tina, perché ha scelto di seguire i ragazzi di strada?
«Noi – intendo io, i miei fratelli, mamma e papà – eravamo molto poveri, ma Dio ci aiutò molto. Abbiamo potuto studiare. Dunque, abbiamo sentito l’obbligo di ringraziarlo per ciò che ci aveva dato. Non so se molto o poco però abbiamo ricevuto. Questo vogliamo insegnare ai ragazzi: che possono uscire dalla loro situazione e che un domani loro stessi potranno aiutare altri».

Paolo Moiola

Paolo Moiola




Alla ricerca di un perché

Reportage da Trabzon

Siamo andati a Trebisonda (Trabzon) per vedere com’è la situazione dopo l’omicidio di don Andrea Santoro cui è seguita – in altra zona del paese –  l’uccisione di mons. Luigi Padovese. Nella Turchia che si dice tollerante come si spiegano due omicidi di preti cattolici in meno di 4 anni? Chi è contro il dialogo interreligioso?

La piazza centrale di Trebisonda, Trabzon in turco, pullula di uomini impegnati a godersi i piaceri del dolce far nulla. È una visione comune della Turchia, e racconta stili di vita meno ossessivi di quello occidentale.
Così un gruppetto radunato intorno a tazze di tè non si lascia scappare l’occasione per attaccare bottone: mi chiamano al loro tavolino. Un giro di bicchierini bollenti è gentilmente offerto e subito si instaura un simpatico scambio di battute in lingue inesistenti composte soprattutto da gesti. Ma i discorsi velocemente passano dal solito schema «calcio-Berlusconi» ad argomenti decisamente più pesanti: i guerriglieri del Pkk ed il rapporto tra cristianesimo e islam in questa città.

TRABZON, porta sul mar nero
e sul kurdistan turco

Il primo è il vero piatto forte della regione che da anni si dibatte dentro drammi che costellano la vita di milioni di persone. Una guerra civile infinita (sebbene nessuno utilizzi queste parole), che recentemente sembra aver perso cruenza, anche se talvolta erompe in maniera violenta. Il Kurdistan è la zona est della Turchia e Trebisonda è la porta che si affaccia su questo territorio. Un tempo città strategica per i traffici marittimi sul Mar Nero (da qui il detto italiano «perdere la Trebisonda»), oggi è una città industriale e trafficata.
Gli abitanti (qui la comunità kurda è una minoranza) sostengono che avventurarsi per la zona est della Turchia è pericoloso. I piazzisti di una compagnia di trasporti, che battono la stazione degli autobus, ripetono ai viaggiatori che gli spostamenti diui sono soggetti ad attacchi a colpi di mitragliatrice da parte dei guerriglieri kurdi. La notte invece sarebbe tutto più tranquillo.
Una volta in viaggio nel Kurdistan turco la situazione invece apparirà molto tranquilla. Le esagerazioni sono molto amate dai turchi, anche se affettivamente le zone montane non sono scevre da combattimenti, di norma taciuti dai media principali.
Città come Van, Erzrum, Diyarbakir sono centri vitali e pacifici, popolati da Kurdi che non ne vogliono più sapere né della repressione militare né dei metodi violenti degli insorti.
Così, una volta terminata la discussione sui «terroristi kurdi», trascinatasi in maniera abbastanza stanca per mancanza di argomenti, è tempo di
discutere dei rapporti interreligiosi in città e nel paese. E qui i toni si fanno seri. Perché a differenza delle chiacchiere sul Pkk, dominate da eccessi verbali e fragorose risate, quelle relative alle recenti tragedie che hanno riguardato questa ed altre
zone, sono percepite più pesantemente.
Dopo poco un ragazzo ci chiede se vogliamo visitare l’unica chiesa ancora «operativa» di Trebisonda. È la chiesa tristemente famosa per l’omicidio di un prete italiano, don Andrea Santoro,  avvenuto nel febbraio del 2006. Il sacerdote ucciso era un missionario della congregazione di Charles de Foucauld. Apparteneva alla diocesi di Roma ed era un sacerdote fidei donum missionario in Turchia da qualche anno. Il suo lavoro (grazie anche all’aiuto di alcuni laici) era centrato sul mantenimento in vita della presenza cristiana, esigua al tempo dell’omicidio ed ora a rischio estinzione. Chi lo conosceva racconta che era un acceso sostenitore del dialogo islamo-cristiano e forse è esattamente questa la ragione che ha armato la mano di chi poi lo ha ucciso proprio dentro la chiesa dove stiamo per entrare.
Sono passati quattro anni da allora, ma il ricordo è ancora molto vivo. Il nostro amico accompagnatore, musulmano praticante, ricorda bene quel prete: «Era una presenza molto discreta e chi l’ha colpito a mio avviso l’ha fatto perché mosso dalla pazzia e non da odio religioso».
Probabile, anche se poi le indagini hanno portato in carcere un giovane di appena diciassette anni che, al momento di sparare, pare abbia pronunciato la frase «Allah è il più grande».

NICOLAE, il diacono (rumeno)
che lavora da prete

Ci arrampichiamo per le vie del centro seguendo i passi del nostro amico. Trebisonda è una città che ha perso i fasti del passato e si aggrappa ad uno sviluppo caotico, dominato dal cemento e dai traffici un po’ loschi che vanno e vengono dalla vicina Russia.
Da soli difficilmente saremmo riusciti a trovare la chiesa, perché non segnalata. L’esterno è arioso ed un cartello invita i cristiani e gli stranieri ad entrare dentro, perché tutti sono benvenuti. È scritto in inglese ed in turco (vedere foto). Suoniamo il campanello.
La chiesa sembra deserta. Dopo pochi minuti siamo però accolti da un uomo di circa trent’anni a cui siamo introdotti, in turco, dalla nostra guida. È gentile, ma sospettoso. Si rivolge a noi in francese ma, dopo poche frasi di circostanza, passa all’italiano. È rumeno e non è il prete della chiesa. È un diacono che manda avanti tutta la baracca tra sforzi immensi. È solo da tre anni, perché un nuovo sacerdote, dopo l’omicidio di Andrea Santoro, non è mai stato nominato. Racconta del clima che si respira nella città che maggiori problemi di convivenza dà alla Turchia.
Nicolae, così si chiama il padrone di casa, racconta di paura, ma anche di speranza. La paura è dovuta al secondo omicidio:  monsignor Luigi Padovese, dal 2004 vicario apostolico dell’Anatolia, è stato assassinato il 3 giugno 2010 nel giardino della sua casa sul mare a Karagaac, vicino a Iskenderun, sulla costa del Mediterraneo. Il suo autista Murat Altun, probabilmente a causa dei gravi scompensi psichici di cui soffre, l’ha colpito con diversi fendenti, uccidendolo.
Le voci di odio religioso, figlio del fanatismo islamico, si sono allargate a macchia d’olio, ma nessuno osa confermarle. Anzi, gli uomini della piazza di Trebisonda, come i pochi cattolici che si incontrano, negano che il clima sia questo.
La speranza è comunque viva: «Noi siamo una comunità molto piccola, poche centinaia di persone – spiega Nicolae – . La nostra chiesa è sempre aperta. E questa mattina è accaduta una cosa che mi ha dato fiducia ed aperto il cuore. Ho visto entrare quattro ragazze islamiche. Giravano e commentavano. Le ho sentito dire frasi sulla bellezza della chiesa e soprattutto sulla follia del conflitto religioso…». A pochi metri da dove chiacchieriamo c’è ancora il foro di uno dei proiettili.
Nicolae è un diacono che svolge un po’ tutti i servizi fra mille difficoltà, economiche e non. È sposato e vive con la moglie a pochi passi dalla chiesa.
«Il problema – racconta – sono le ostie consacrate. La mancanza di un prete le rende difficilmente disponibili. Così capita che, quando un sacerdote passa da queste parti, io ne approfitto per fae consacrare un po’ e poi le custodisco. Ma non è facile, dato che trascorrono mesi e mesi senza che passi alcuno. La soluzione migliore sarebbe la nomina di un prete ma, dopo la uccisione del vescovo Padovese, sarà ancora più difficile».
La chiesa è deserta, pulita, sembra quasi un museo.
«Questi sono gli aspetti più difficili della situazione. In compenso è molto bello portare la parola di Dio in un posto difficile come Trebisonda. È vero che gli esaltati non mancano, ma la Turchia rimane un paese laico in cui la libertà di culto è preservata. Comunque, questi sono discorsi politici che interessano relativamente chi si trova in trincea come me. Qui io mi occupo di tutto: dallo spazzare il pavimento alla celebrazione delle messe. E lo faccio per due soldi. I vertici della Chiesa dovrebbero ricordarsi maggiormente di chi porta la parola di Dio in posti di frontiera come questo».
Sono solo un centinaio i cattolici che vivono a Trebisonda. Altri sessanta circa sono presenti a Mardin, bella città che ricorda un po’ Gerusalemme, nel centro del Kurdistan.  Il resto è deserto. In ogni senso.

Maurizio Pagliassotti

Maurizio Pagliassotti




Parola di sufi

L’intervista

Elvio Arancio, artista e ceramista torinese, nato nella medina di Tunisi, è un musulmano sufi. Sposato, con tre figli, impegnato nel dialogo interreligioso, in questa intervista ci spiega cos’è il sufismo e le ragioni della sua conversione all’islam, in particolare, alla sua corrente mistica.

Elvio Arancio, come descriverebbe il sufismo?
«Il sufismo, tasawwuf, in arabo, è la pratica di ricerca mistica specifica della cultura islamica.
È la scienza della conoscenza diretta di Dio; le sue dottrine e i suoi metodi sono derivati dal Corano, e anche se ingloba in sé influssi ellenici, induisti e buddisti, l’essenza del sufismo è prettamente islamica.
Potremmo definirlo un metodo islamico di perfezionamento interiore, di ricerca dell’equilibrio, di fervore profondamente vissuto e che gradualmente vuole ascendere all’oggetto d’amore: Dio.
Possiamo affermare che le componenti della dottrina sufi sono l’amore totale per Dio; la gnosi, che superando la conoscenza intellettuale imperfetta e incompleta unisce direttamente il sufi al divino, certi della Sua esistenza e consapevoli dell’impossibilità di capirLo con le sole forze umane; il raggiungimento della conoscenza intuitiva; l’ascesa mistica attraverso una serie di stati spirituali e stazioni del percorso evolutivo, integrati dalla recitazione, o ricordo, dei nomi di Dio (dikhr, in arabo), e dall’estasi».

Che differenza c’è tra asceta, adoratore e sufi?
«L’asceta è colui che si allontana dai beni del mondo e dalle sue cose piacevoli; il sufi non rifugge dall’esperienza matrimoniale e quindi dalla sessualità.
L’adoratore è colui che pone attenzione nell’osservare gli atti di adorazione – alzarsi di notte per pregare, compiere le preghiere canoniche (as-salat), e così via. Il sufi, dunque, è sia un asceta che un adoratore. Niente può distrarlo da Dio. Egli è anche un adoratore per il suo costante rivolgersi a Dio e il suo legame d’amore con Lui. Adoriamo Dio perché Dio è “adorabile”, non per desiderio, né per paura.
La santa sufi Rabi’ah al-‘Adawiya diceva: “Oh Dio, se io Ti adoro per paura del Tuo fuoco infeale, gettami dentro. E se Ti adoro per il desiderio del Tuo paradiso, impediscimi di entrarvi. E se Ti adoro per amore del Tuo nobile volto, non proibirmi di vederTi”».

Quando è diventato musulmano e sufi?
«Appartengo all’ordine sufi della Jerrahi-Halveti d’Istanbul dal 1999. Poiché il nostro maestro Tugrul Inancer Efendi è anche un maestro della Mevleviya (in Occidente sono chiamati “Dervisci roteanti”), i nostri rapporti con questa importante confrateita, fondata dal grande poeta mistico Jalal al-Din Rumi, sono intensi e frequenti.
Sono sempre stato interessato alla letteratura mistica, da quella cristiana a quella dell’Oriente Zen, finché sono arrivato ai libri sufi.
Un giorno, leggendo un testo del grande teologo Ibn Arabi mi colpirono questi versi:
“Il mio cuore è divenuto capace di accogliere ogni forma / è un pascolo per le gazzelle, / un convento per i monaci cristiani / è un tempio per gli idoli,
è la Ka’ba del pellegrino / è le tavole della Torah,
è il libro del Sacro Corano. / Io seguo la Religione dell’amore, / quale mai sia la strada/ che prende la sua carovana: / questo è il mio credo e la mia fede”.
È stata una folgorazione: ho cominciato ad approfondire la conoscenza del sufismo e a cercare i sufi, e… sono arrivato in Turchia».

Che organizzazioni sufi ci sono in Turchia e cosa fanno?
«Il sufismo permea profondamente il mondo turco e mi riferisco non solo allo Stato, ma a tutta la vastissima area asiatica turcofona che va dall’Anatolia alla Cina occidentale. Infatti, le confrateite sufi, sin dall’800 d.C., praticamente dai primi secoli della diffusione dell’Islam, hanno diffuso la fede musulmana alle tribù nomadi e ai clan guerrieri delle steppe asiatiche.
Furono le confrateite sufi ad integrare poi nel grande Impero ottomano, che si espandeva per tutta l’Eurasia, le tante etnie e le diverse provenienze religiose dei popoli che ne facevano parte. Ad esempio, i corpi militari furono quasi tutti affiliati all’ordine sufi Bekhtashiya, gli intellettuali e gli studiosi in genere alla Mevleviya e alla Jerrahi-Halveti, altri alla Naqshbandiya, e questo solo per citare gli esempi più conosciuti.
È negli ordini sufi che nasce la letteratura turca; è sulle pagine dei maestri delle confrateite che si forgia la sensibilità di questo popolo/nazione».

Perché adesso ai sufi è vietato di dichiararsi tali in pubblico?
«Nel 1925, Atatürk soppresse gli ordini religiosi sufi. Da allora essi sono vietati, o meglio, non autorizzati, ma non per questo sono meno presenti e attivi.
Tuttavia, mi sembra che sia in corso un cambiamento e auspico una riapertura imminente ufficiale degli Ordini: un ritorno alla luce del sole.
È infatti difficile conoscere la Turchia senza conoscere le confrateite religiose che ne hanno formato e alimentato il tessuto sociale, e alle cui fonti ancora si rivolgono intellettuali, donne e uomini di ogni ceto sociale».

Cosa pensa della Turchia attuale e del presidente Erdogan?
«Ritengo che il governo guidato da Erdog˘an sia una delle realtà più interessanti del panorama internazionale, e questo per varie ragioni: il Paese è passato da una rovinosa crisi economica all’attuale fase di sviluppo; è in atto un confronto tra il partito di governo, l’Akp, e il potere militare, sul tema della laicità dello Stato; lo spostamento delle alleanze nel Vicino e Medio Oriente: sostegno alla causa palestinese e presa di distanza dalle politiche d’Israele.
Vale la pena ricordare la nomina del nuovo Ambasciatore turco Kenan Gürsoy presso la Santa Sede: si tratta di un personaggio di notevole cultura, un grande accademico e profondo conoscitore del sufismo, ed egli stesso discendente di una famiglia di tradizione sufi. Ritengo che la scelta del governo turco di assegnargli l’importante carica sia espressione di un desiderio di dialogo aperto e costruttivo nei confronti della Chiesa cattolica, anche in considerazione dell’amicizia che legava da molti anni il neo-ambasciatore a monsignor Padovese, il prelato ucciso a giugno in Turchia».
Cosa pensa del referendum costituzionale che si è svolto il 12 settembre?
«Sono profondamente convinto che il peso dei militari in Turchia andasse ridimensionato: un esercito che non dipende dal governo, da un ministero della Difesa, che con la scusa della tutela della laicità dello Stato condiziona la vita democratica della nazione, è inaccettabile. La nascita della repubblica turca di Kemal Atatürk comportò l’emergere di due miti: in primo luogo, quello dello stesso “laicissimo” presidente, nei cui confronti si espresse una dogmatica e incondizionata devozione che potremmo assimilare, paradossalmente, ad un vero e proprio culto religioso, e poi, quello dell’esercito. Da allora, fino ad oggi, l’apparato militare è sempre stato visto come “un’istituzione sacra che protegge i sacri valori dei Turchi”. Tale legittimazione ha permesso ad esso di intervenire ripetutamente nelle vicende politiche del Paese.
Credo che la scelta del popolo turco rappresenti una svolta democratica, importante quanto necessaria.
Inoltre, Erdog˘an esce dalla consultazione referendaria estremamente rafforzato, soprattutto in vista delle elezioni politiche del luglio 2011, alle quali, non dimentichiamoci, faranno seguito, l’anno successivo, le prime elezioni presidenziali dirette nella storia turca».

Angela Lano

Angela Lano