La missionaria non va in pensione …

A conclusione del centenario delle Missionarie della Consolata

Nata nel 1920, missionaria da 70 anni, suor Corona Nicolussi, da Besenello sulla sponda destra dell’Adige a pochi chilometri da Trento, infermiera e ostetrica, è in Kenya dal 1954, salvo 11 anni in Etiopia. Ha avviato ospedali, fatto nascere bambini, aiutato le donne e combattuto, sempre, contro la miseria materiale e spirituale.

Era l’aprile del 1989 quando ci incontrammo in Kenya, esattamente nella missione di Maralal, dove ero appena stato destinato. Suor Corona era la suora incaricata del dispensario. Non la ricordavo, ma lei mi riconobbe subito visto che aveva curato le mie influenze e altri piccoli acciacchi studenteschi durante i primi anni settanta quando studiavo teologia a Torino. Aveva già i suoi begli anni, essendo nata nel 1920, ma là, nella terra dei Samburu, marciava dritta come un fuso, instancabile e zelante, dedita ai malati a tutte le ore, con quel suo piglio risoluto che sapeva frasi ubbidire, sul terreno della salute, anche dai missionari maschi, spesso riottosi quando si trattava di farsi curare, come se la malattia fosse una debolezza da nascondere.
Tra l’agosto 1990 e giugno 1991 ebbe molto lavoro extra. Per i Samburu era il tempo delle grandi circoncisioni con il passaggio di gruppi di età: il gruppo dei Lkiroro (circoncisi nel 1976) era sostituito dai nuovi guerrieri Lmeoli. Migliaia di giovani furono circoncisi nel distretto, centinaia e centinaia anche nella missione di Maralal. La suora, con il personale del dispensario, fu presente al maggior numero possibile di cerimonie di iniziazione per cercare di contenere gli eventuali danni fatti dai circoncisori, e soprattutto impedire lo spandersi dell’Aids. Una mattina di giugno del 1991 la portai in una grande lorora (villaggio della circoncisione) a dieci km da Maralal, dove oltre 120 giovani dovevano essere circoncisi, senza contare le ragazze/sorelle. Avevamo in macchina diversi litri di disinfettante puro, antidolorifici, antibiotici, emostatici, garze e tutto quello che era necessario al caso. Sr. Corona seguì personalmente l’operazione su oltre sessanta giovani, avendo cura di disinfettare il coltello del circoncisore prima e dopo, assicurandosi che tutto fosse fatto correttamente mentre io facevo luce con una grossa pila. Si cominciò alle prime luce dell’alba ed erano già oltre le 8,30 quando finimmo di controllare tutti i giovani, alcuni ancora giovanissimi di circa dieci anni. Stavamo sorbendo il tè e gustando un meritato riposo presso la capanna di una cristiana, quando all’improvviso un grido: «Sista (kiswahili da sister, sorella-suora-infermiera) corri, c’è un giovane che perde sangue, un altro è là, anche qui, vieni anche da noi…». Borsa del pronto soccorso alla mano lei, bidoncino del disinfettante io, per un bel po’ trotterellammo su è giù per il vasto campo a rattoppare i casi più disperati, salvo dovee poi portare alcuni all’ospedale perché l’emorragia non si poteva fermare.
Anni dopo, incontrando alcuni di quei giovani, ringraziavano ancora ricordando che se non fosse stato per la suora e la missione probabilmente sarebbero morti dissanguati!

Ma chi è suor Corona?
Da birichina a suora
Ricordando la sua gioventù sr. Corona non riesce ancora oggi a capacitarsi di come sia potuta diventare una missionaria. Carattere impetuoso e vivace, amante dello sport e della buona compagnia, non particolarmente devota, la giovane Corona non aveva niente che potesse far supporre una inclinazione alla vita religiosa, visto che non aveva certo il «collo storto» popolarmente associato con la vita da suora. Ma la lettura di una rivista missionaria che una paesana aveva portato di ritorno da Torino doveva cominciare a seminare dei dubbi nella sua sicurezza. «Ero una birichina – mi ha raccontato durante una lunga chiacchierata in quel di Gitoro, nel Meru, dove oggi fa la «pensionata» -, ma le storie di quelle suore in Etiopia che avevano sofferto tanto durante la guerra, mi erano rimaste dentro. Cominciai a pensare che forse anch’io sarei potuta essere una missionaria. Lo dissi in giro, chiedendo pareri. Nessuno ci credeva e si prendevano gioco di me. Andai allora a piedi al santuario della Madonna di Pinè (poco più di 20 km dal mio paese), e là mi decisi. Era il 1937. Nel 1938 feci la vestizione come suora della Consolata e nel 1940 emisi i primi voti religiosi».

Destinazione Kenya
Diventata infermiera professionale e ostetrica, andò in Inghilterra per avere i titoli necessari ad essere la caposala di un ospedale keniano. Da là nel 1954 fu mandata nel Meru, all’ospedale di Nkubu che, appena aperto, non era ancora riconosciuto dal governo. La struttura di base c’era: pronto soccorso, reparto uomini, reparto donne, mateità, isolamento, sala operatoria illuminata da una lampada a pressione che perdeva petrolio, farmacia e cucina. C’erano due suore, suor Silveria e suor Gesualda, sovraccariche di lavoro, anche perché dovevano provvedere le medicine ai dispensari di tutta la diocesi di Meru. Mancavano però le latrine, che pure erano state costruite ben distanti dall’ospedale, ma erano state demolite dalla gente che le riteneva disdicevoli. Proprio quello delle latrine fu il primo problema che sr. Corona ebbe da affrontare con gli ispettori del governo coloniale inglese che volevano vederle a tutti i costi prima di dare l’approvazione definitiva all’ospedale. Ci volle del bello e del buono per convincerli a posticipare l’ispezione. Quando tornarono una decina di giorni più tardi, trovarono una batteria dei bei cessi nuovi fiammanti (che nessuno usava). La sista rimase quattro anni a Nkubu da dove curò anche l’inizio dell’ospedale di Chuka con la sua nuova mateità.
In realtà in quei tempi ben poche donne andavano a partorire all’ospedale. Nel Meru era ancora fatto tutto in casa. Ma quanta sofferenza per le donne! Sr. Corona narra con vivezza una delle sue prime esperienze. «Era già sera, avevo fatto il mio giro di controllo nell’ospedale e tutto andava bene. All’improvviso mi chiamano, non dall’ospedale, ma da fuori perché c’è una donna che è grave. Seguo rapida il messaggero; arrivo ad una capanna attorniata da un sacco di gente; entro, vedo una giovane donna legata al palo centrale della capanna in preda a dolori atroci, sta per partorire, ma il bimbo è rovesciato e non può nascere. Brusca, ordino di portarla all’ospedale; le donne di casa resistono, la nonna soprattutto, ma poi la paura prevale. Portano la giovane in mateità, riesco così a far girare il bambino che nasce bene. Piccolo e madre sono salvi».

La sofferenza delle donne
Quell’esperienza le aprì gli occhi sulla sofferenza delle donne, vittime delle tradizioni e dell’ignoranza e spesso maltrattate soprattutto se sterili o se partorivano solo figlie. Era sempre colpa della donna. Neanche le infermiere credevano che il sesso del bambino fosse determinato dal seme dell’uomo e che l’uomo potesse essere sterile al pari di una donna. Di fronte a tutta questa sofferenza, la sista inventò un approccio tutto personale. Qualsiasi fosse la ragione per cui una donna veniva all’ospedale, lei faceva sempre un esame completo, la curava e poi le dava le raccomandazioni necessarie per condurre bene a termine la gravidanza. Stupite che la suora conoscesse la loro condizione, le donne cominciarono pian piano ad aver fiducia e così si recavano all’ospedale a partorire. Quando poi la gente si rese conto che all’ospedale i malati guarivano, anche i bambini portati in condizioni estreme dopo essere stati trattati inutilmente dai guaritori tradizionali, cominciarono a lasciare sul prato dell’ospedale i bambini moribondi per cui avevano perso ogni speranza e che, secondo le loro tradizioni, avrebbero dovuto essere abbandonati alle iene nella foresta. Le suore li raccoglievano e, curati bene, guarivano. La gente pensava che risorgessero dalla morte.
La morte era un’altra causa di tanta sofferenza, non solo per la perdita della persona cara, ma anche per tutti i tabù ad essa legati. Toccare un morto era impensabile. Chi per sbaglio lo faceva era escluso dalla comunità e dalla famiglia e doveva pagare multe e passare attraverso pesanti rituali di purificazione, particolarmente umilianti per le donne. Quante volte aveva dovuto lei stessa – per fortuna era giovane e forte allora – portare al cimitero il corpo di bambini o persone morte perché, a causa del terrore per il tabù, il massimo che poteva chiedere al personale dell’ospedale era scavare la fossa!

Dal Kenya all’Etiopia
Dopo Nkubu e Chuka, ormai ben stabiliti, nel 1963 fu mandata ad avviare il Nazareth Hospital, a due passi da Nairobi. L’ospedale era ancora in costruzione, così cominciò nella casa del colono inglese da cui le suore della Consolata avevano acquistato la terra (era l’anno dell’indipendenza, e gli inglesi vendevano volentieri). Lasciato il Nazareth nelle mani di sr. Prisca Gobbo, nel 1970 dovette ricominciare di nuovo. Ad Ishiara, nell’Embu, i sacerdoti fidei donum di Venezia avevano costruito un nuovo ospedale, ma le suore che dovevano venire a gestirlo non erano arrivate. Allora le superiore pensarono ancora a sr. Corona. Mentre era ad Ishiara a ricominciare ancora una volta, missionari e missionarie della Consolata erano riusciti ad ottenere il permesso di rientrare in Etiopia, da dove erano stati cacciati insieme all’esercito italiano sconfitto. La suora trentina, ormai esperta, fu scelta per iniziare la nuova avventura. Ci volle tutto il suo coraggio, condito da tanta fede e un pizzico d’incoscienza, per accettare. La richiesta le era arrivata all’ora di pranzo per mezzo di una lettera portata a mano, e la superiora voleva una risposta immediata a mezzo delle stesse messaggere. «Mi sono ritirata un po’ e mi sono detta, “Signore, l’Etiopia è la terra del Fondatore e della Madonna. Ho visto tanti missionari che hanno veramente sofferto perché sono stati espulsi da là. Come faccio a rifiutare?”. Mi spaventava la lingua, ma come avevo imparato il kemeru, il kiswahili, un po’ di kikamba e persino un po’ di gucialati per capirmi con gli indiani che venivano all’ospedale, imparerò anche l’amarico. Povera me, non sapevo che era scritto in quella maniera».
In attesa del visto, sr. Corona passò un paio di anni a Torino, dove servì nell’infermeria di Casa Madre e del seminario teologico, allora ancora pieno di oltre sessanta chiassosi giovanotti, tra cui il sottoscritto. Il 22 agosto 1974 partì per Addis Abeba dove familiarizzò con l’amarico. l’11 settembre dello stesso anno ci fu il colpo di stato comunista contro l’imperatore Hailé Selassié e tanta gente fu uccisa. Rimase in Etiopia per 11 anni, prima nel Wollega e poi ad Asella. «Sono stati anni molto difficili. C’era sempre soldati in giro, tutto era nazionalizzato, nessuno era più padrone di niente, nessuno poteva andare in chiesa e la domenica gli uomini erano al lavoro comunitario e le donne dovevano far da mangiare per i militari. Era una vita molto dura, in mezzo a tanta povertà. In quelle condizioni mi sono ammalata, ero molto debole e stanca, in più ho avuto una reazione allergica ad una medicina. Sono dovuta tornare in Italia per farmi curare».
In mezzo ai clashes
Una volta rimessa in sesto, fu rispedita in Kenya. Per alcuni anni fu nel dispensario di Maralal (dove ci incontrammo), poi nel 1992 fu trasferita a Mombasa, zona di Likoni. E là, per due volte, si trovò con la missione invasa dalla gente a causa dei clashes (scontri tribali), la prima volta nel 1992, la seconda nel 1997. «La prima volta arrivarono 10.000 rifugiati. Erano dovunque: in missione, in chiesa, nella scuola, asilo e cortile. Quando sentii che avevano cominciato a bruciare le case, andai con sr. Ester a comperare un po’ di fagioli e granoturco da dare a chi era nel bisogno. Invece, dopo pranzo, la gente cominciò ad invadere la missione. Chiamai p. Angelo (Fantacci), il parroco. “Che facciamo?” Togliemmo i banchi della chiesa e la riempimmo di donne e bambini. Tutti i locali erano pieni, e il cortile era diventato un grande accampamento. Per fortuna non pioveva. Erano proprio tanti. Prova ad immaginare com’era! Chiudemmo il dispensario e tutte le cure andarono a chi avevamo in casa. Pensa che quando di notte mi chiamavano per un’emergenza, dovevo scavalcare i corpi dei dormienti».
Finita l’emergenza a Mombasa, la sua superiora (allora era sr. Leonella, la suora che fu uccisa a Mogadiscio nel 2006), le chiese di andare con una suora comboniana a Maella. Maella era nella Rift Valley. Là c’erano stati violenti scontri tribali con molti morti e numerosi rifugiati interni, oltre mezzo milione secondo alcune stime. L’associazione delle suore del Kenya aveva preso a cuore la situazione, perché davvero la gente viveva nella miseria. Ma tutte le speranze svanirono prima di Natale 1997. Invece di una nuova distribuzione di terre, come era stato promesso, arrivò la polizia e caricò tutti su grossi camion disperdendoli qua e là nel paese. Fu un’operazione brutale. Anche il sacerdote che era là fu picchiato e buttato per terra. Era p. Kaiser (John Anthony, missionario americano dei Maryknoll), un uomo che amava la gente e la difendeva. Per questo fu ucciso alcuni anni dopo (il 24 agosto 2000).
Vita da pensionata speciale
Intanto anche per sr. Corona gli anni passavano. A ottant’anni la trovai a Gitoro, vicino alla città di Meru, dove le suore della Consolata hanno una casa per suore anziane ma ancora autosufficienti. Là queste pensionate speciali trovano il modo di non annoiarsi. Una visita le prigioni, un’altra lavora nel dispensario, una terza ha fondato una scuola per ragazzi di strada, una quarta visita gli ammalati a domicilio, una quinta si occupa di orfani e sr. Corona è diventata la paladina delle donne più povere e derelitte degli slums. Cominciò visitandole, creando rapporti di fiducia e amicizia. Nacque l’Irene Women Group (il gruppo delle donne della serva di Dio Irene Stefani). Insieme, con l’aiuto di benefattori, costruirono una scuoletta nello slum, 12 metri e mezzo per 6, dove 65 bambini stavano pigiati ma contenti. Poi emerse il problema delle vedove e delle donne abbandonate dai mariti, senza lavoro e mezzi di sussistenza, incapaci anche di pagare il misero affitto che gli strozzini, speculando sui poveri, caricavano per tuguri da 2 metri x 3. Nacque così il progetto del Consolata Village: dare a quelle donne una casetta con un pezzo di terra dove potessero vivere e lavorare, guadagnandosi il cibo quotidiano. Ne usufruiscono oggi circa 40 famiglie.
Sr Corona ha oggi 90 anni e continua ad uscire ogni giorno per andare a trovare le sue donne e insieme fare nuovi progetti, perché le case non bastano e ci vuole una scuola. «Chi te lo fa fare?», le ho chiesto. «Soltanto per amore di Quello che è lassù e per amore della gente. A volte viene da mollare, soprattutto quando ti imbatti in scansafatiche e lazzaroni. Ma poi vedi quelle donne che si danno da fare, che hanno voglia di uscire dalla miseria, allora si va avanti, si soffre con loro. Ci vuole tanto coraggio e tanta pazienza». «Progetti per il tuo futuro?» «Di andare incontro al Signore. Intanto vado avanti fin che posso ad aiutare la gente per amor di Dio. Poi se il Signore mi chiama, che sia in una capanna o in chiesa, lui è il padrone e io sono contenta che sia fatta la sua volontà. Sono felice di essere arrivata fino a questo punto. Sono nelle sue mani e quando mi chiama: eccomi!».

Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




HUSSAIN E KARAMULLAH

Reportage

Due fratelli afghani, di professione commercianti, emigrati a Peshawar, in Pakistan, parlano del loro paese e dei talebani.

Peshawar (frontiera nord-ovest). Soltanto il Khyber Pass separa Peshawar dal confine afghano. La città, che sotto un’apparenza trascurata nasconde le vestigia di un tempo, è abitata quasi totalmente da gente pashtun, etnia cui appartengono anche i talebani. Stringo in mano un bigliettino datomi da Munir, un ragazzo di Gilgit. «A Peshawar va’ a trovare i miei familiari. Sono commercianti di tappeti», mi aveva detto. Sulla carta è scritto «Khyber bazar, Kamran market». Sembra facile, finché non vedi il palazzo: ogni stanza è una bottega di tappeti e ogni venditore vuole trascinarti a vedere la sua mercanzia. Farsi capire, inoltre, non è impresa delle più semplici.
Finalmente trovo la porta dell’«Afghan Carpets House». Ogni lato della stanza è occupato da alte pile di tappeti, che sono mercanzia e arredamento a un tempo.
Un uomo dalla folta capigliatura nera e barba ben curata sta spostando alcuni tappeti; un altro è seduto per terra intento nella lettura del Corano, mentre in un angolo due ragazzi e un uomo armeggiano con alcuni quadei.
Appena spiego di essere lì su suggerimento di Munir, l’atteggiamento diventa molto amichevole. Si fanno le presentazioni: Muhammad Hussain e Karamullah sono fratelli e gestiscono il negozio del padre. Dall’angolo mi salutano anche i due ragazzi e l’uomo che è con loro: «I nostri fratelli minori stanno studiando l’inglese con un maestro».
Muhammad Hussain è il fratello più vecchio. «La mia famiglia – racconta – lasciò l’Afghanistan ai tempi del governo comunista. Ora viviamo in Pakistan lavorando come commercianti. Al mio paese too una volta al mese per comprare tappeti per i nostri negozi». Per voi musulmani io sono un «infedele»: che significa? «Sta scritto che l’ultimo profeta chiamerà la gente all’islam. Quelli che accetteranno l’invito avranno successo nel mondo e dopo il mondo; quelli che non saranno musulmani saranno messi all’inferno. Nel sacro Corano Allah onnipotente dice: “Io sono contento con l’islam come tua religione”. In un altro passo del libro sacro Allah afferma: “Io ho completato la tua religione: essa è una religione perfetta. È la migliore delle religioni. Una religione diversa dall’islam non è accettabile”». Allora, obietto, gli islamici non possono tollerare la presenza di religioni diverse dalla loro? «In accordo con quanto scritto nel sacro Corano, nessuna religione è accettabile al di fuori dell’islam. Tuttavia, in Pakistan musulmani e cristiani vivono in pace».
Karamullah, il fratello più giovane, è sposato e ha due bambini. Non porta la barba, ma soltanto un paio di baffetti che non dissimulano la giovane età. Il profugo afghano non nasconde la propria simpatia per i talebani (…) (*).
I due giovani studenti, ormai distratti dalla mia presenza, si avvicinano portando bicchieri fumanti, colmi di un thé che riempie la stanza di profumi speziati.
Tra un sorso e l’altro, chiedo di spiegarmi la condizione delle donne nei paesi islamici: «I diritti delle donne – dice Karamullah sforzandosi di trovare le parole inglesi più adatte – non sono quelli che vengono esaltati nei paesi occidentali. L’islam ha attribuito diritti sufficienti alle donne, perché Allah misericordioso, creatore di tutti gli uomini, conosce bene ciò che è giusto fare. La donna ha una grande dignità nella società islamica. I figli crescono nelle braccia delle madri e ricevono molto amore. Tra le mura di casa la donna agisce come un capo assoluto. Il marito invece lavora all’esterno in condizioni diverse. Tutto ciò che guadagna lo porta in famiglia. In molte società non musulmane le donne sono considerate come animali da utilizzare per la felicità sessuale degli uomini. Il flagello dell’Aids non è altro che un castigo divino per questi comportamenti».
Alle cinque in punto Karamullah si interrompe e mi chiede qualche minuto di pausa. Prende  il suo personale tappetino, lo distende, si inginocchia e inizia il rituale della preghiera. Terminato il suo dovere di buon musulmano, torna a conversare con me.
Non ti sembra – gli chiedo – che la sharia sia uno strumento disumano che rende la punizione molto simile alla vendetta? «No, la sharia è giusta! Quando ad un ladro viene tagliata una mano, non è solo una punizione, ma anche un esempio per far comprendere agli altri che rubare è male».
Obietto che il male è anche altrove: per esempio, nella corsa alle armi nucleari intrapresa da Pakistan e India. «I paesi poveri non costruirebbero armi distruttive, se i paesi coloniali non li incoraggiassero».
Mi accorgo che il tempo è volato: sono passate più di due ore dal mio arrivo nella bottega di Hussain e Karamullah. Fuori è sceso il buio e il grande bazar si è quasi svuotato. Prima di andarmene, ci abbracciamo come vecchi amici. A dispetto delle nostre grandi diversità.

Paolo Moiola

(*) Il viaggio raccontato in questo reportage è avvenuto anni fa, quando i talebani  erano al governo dell’Afghanistan. Lo riproponiamo, pur tagliato in alcune sue parti (cfr. Missioni Consolata, dicembre 2001), perché rimane significativo ed attuale.

AHMAD EJAZ, GIORNALISTA PAKISTANO

PREGIUDIZI E VERITÀ

Condanna la pratica e la violenza dei «matrimoni combinati». Chiede che si dia più spazio al «giornalismo etnico». Difende il suo paese, ma ne condanna i dittatori e i fondamentalisti. Sulla questione della convivenza ha un’idea precisa, anche perché lui, Ahmad Ejaz, ha sposato una donna italiana.

Ahmad Ejaz  è un pakistano da molti anni in Italia. Gioalista, è caporedattore di Azad (Libertà), rivista mensile in lingua urdu distribuita in 5.000 copie nei phone centers e nei negozi pakistani. Abbiamo sentito Ejaz subito dopo un tragico fatto di cronaca.

Ejaz, come spiegare agli italiani – spesso impreparati, prevenuti, aizzati o usati – l’omicidio della donna pakistana di Novi Modena (3 ottobre) e quello, quasi identico, di Hina Sallem a Brescia nel 2006?
«La donna di Novi è stata uccisa da un uomo ignorante di nazionalità pakistana. Lui fa parte di una cultura limitata e crudele che non ha niente a che fare con la cultura millenaria pakistana. Padre e figlio  non hanno ucciso soltanto la propria moglie o madre, ma hanno tolto la vita ad una persona. Mentre la figlia, la povera Nosheen, sta in coma. Nel gennaio 2005, a Bologna, un pakistano di nome Hafiz aveva ucciso Silvia de Paolis; nel 2006 Hina Saleem e adesso Shahnaz Begum. Pochi sanno che questi tre uomini vengono dalla stessa regione del Pakistan».

Come comportarsi davanti a questi fatti? E soprattutto cosa fare?
«Bisogna aprire un dibattito all’interno della comunità pakistana. Lo so che anche gli italiani uccidono le proprie donne, ma io vorrei salvare altre possibili vittime dei maschi pakistani confusi che hanno scelto di vivere in Italia.
Per questo, bisogna creare  nuove figure tra gli immigrati: persone che facciano da leader o mediatori per spiegare la cultura italiana e per capire la propria.
Occorrerebbe anche cambiare la legge sulla cittadinanza: lo straniero che nasce in Italia deve essere cittadino italiano. Così le seconde generazioni potrebbero avere un po’  più di libertà nelle loro scelte. Inoltre, dovremmo dare più importanza al giornalismo etnico, per parlare con le prime generazioni. In Italia, tra l’altro, ancora non esiste un numero verde per salvare le ragazze costrette ai matrimoni combinati e non esiste un ufficio internazionale che tuteli i loro diritti».

Le inondazioni hanno devastato il tuo paese. Ma gli italiani non sono stati generosi come in altre occasioni…
«Hai ragione: è stato tempestivo ed intenso l’aiuto dell’Italia per Haiti, mentre non è stato così per il mio paese. Ci sono diversi pregiudizi verso il Pakistan. Dopo l’11 settembre, il Pakistan è stato sempre protagonista per il suo ruolo, sia positivo che negativo, nella guerra al terrorismo. Si pensa pregiudizialmente che noi aiutiamo i talebani, ma allo stesso tempo siamo i più grandi alleati degli Usa. In realtà, le nostre frontiere sono calde e il nostro esercito non le controlla tutte. Al Nord vigono le leggi tribali: questo significa che in alcune zone del Pakistan ci sono stati liberi come San Marino in Italia. Nel Nord del paese il problema non sono i talebani, ma è il “talibanismo”, che è abbastanza radicato(1). Voglio ricordare che noi siamo musulmani, ma non siamo arabi e non parliamo arabo; noi preghiamo in arabo come lingua sacra, senza capire il suo significato. L’islam è la nostra religione, ma la nostra cultura è del subcontinente indiano. I fondamentalisti cercano di arabizzare la nostra cultura, ma non riusciranno mai».

D’accordo, ma i talebani sono pashtun e non arabi…
«È vero che i taliban sono pashtun, ma il modello che propongono è il modello delle società arabe. Per esempio, la sharia, la sunnah. Nel subcontinente abbiamo un islam indiano: il matrimonio, la morte, il modo di pensare, i vestiti, la credenza nelle tombe dei santi popolari che portano alla rincarnazione, tutte queste sono abitudini indiane. Il problema è che la nostra società di oggi è diventata talmente insicura di sé che alcuni pensano e vedono nell’islam fondamentalista una soluzione».

A parte il fondamentalismo, alcuni comportamenti del tuo paese certamente non favoriscono il dialogo. Ad esempio, le discriminazioni verso i non-musulmani.
«Il Pakistan nasce nel 1947. Subito dopo si sviluppa il fenomeno della discriminazione linguistica contro i bengalesi. Così, nel 1971, il Pakistan dell’Est (oggi Bangladesh) si stacca dal Pakistan dell’Ovest. Poi , per più di 40 anni, i generali dell’esercito comandano il paese, schiacciando ogni speranza di democrazia.
Ma il vero dittatore è stato il  generale Zia Ul- Haq, avendo alimentato le discriminazioni razziali, etniche e religiose. Sono sue le leggi contro i non musulmani soprattutto contro i Qadiani(2). Il fondamentalismo statale ha eliminato tutto il lavoro interculturale fatto nei secoli precedenti. Oggi in Pakistan la guerra tra sciiti e sunniti è spaventosa. Anche i cristiani hanno sofferto molto a causa della legge sulla blasfemia(3), fatta sempre dal generale Zia Ul- Haq. Quando un paese sceglie di essere monoculturale significa che ha scelto il suicidio».

In Occidente è quasi un’equazione matematica: islamici=terroristi. Ad intervalli regolari, si dice che Osama Bin Laden, Ayaman al-Zawahiri e il Mullah Omar vivano tranquillamente in Pakistan. Che ne pensi?
«In tutti i paesi islamici negli anni ‘60 e ‘70 era fallito il progetto della identità nazionale, perché – dopo il colonialismo – questa ricetta era superficiale: i popoli di questi paesi non avevano mai praticato il nazionalismo. Al contrario, l’identità religiosa per loro era molto più facile e vicina. Purtroppo, dopo la crescita dell’identità religiosa, è subentrato anche il fondamentalismo politico per dare una risposta ai nostri dittatori di stile occidentale e corrotti fino al collo. Chiaro che, dove cresce il fondamentalismo, si sviluppa anche il  terrorismo».

Ejaz, il Pakistan ha gravi problemi di sottosviluppo, eppure è una potenza nucleare…
«Si chiama “bomba dei poveri”. Una buona parte del budget nazionale va speso per sostenere l’esercito più forte nel mondo islamico, ma allo stesso tempo un popolo di 180 milioni di persone soffre di povertà, malattie e carestia. Questa bomba serve per rispondere al nemico India, ma l’India cresce economicamente, mentre il Pakistan è sempre più povero e pericoloso per il mondo».
Toiamo all’Italia. Secondo te, è possibile una convivenza civile e rispettosa tra pakistani ed italiani?
«Ci sono tanti pregiudizi da combattere. Pakistan e Italia sono due paesi che possono costruire ponti di amicizia per salvare i milioni di poveri in Pakistan. Noi 100 mila pakistani stiamo lavorando in Italia come braccia per sollevare la economia di questo nostro secondo paese. Non ci sono ponti culturali tra due paesi. Dobbiamo e possiamo costruire la amicizia mettendo da parte i nostri stereotipi, preconcetti e egocentrismi».

Tu hai sposato un’italiana. Ci puoi raccontare qualcosa?
«Mia moglie e io siamo persone appartenenti a due culture diverse. A casa nostra, la Bibbia e il Corano stanno nello stesso scaffale della libreria. Abbiamo due figli di 9 e 5 anni. Valentina è stata 9 volte in Pakistan e io rispetto molto la famiglia e la cultura di mia moglie. Siamo insieme da 20 anni. Problemi ce ne sono, ma quelli quotidiani. I nostri figli hanno nomi italiani e cognomi pakistani. Sono bambini di due culture».
Paolo Moiola

1 – Sui talebani si legga: Jonathan Steele, La terra dei taliban, Internazionale n. 865, 24 settembre 2010. Inoltre, secondo il New York Times del 19 ottobre 2010, si stanno svolgendo trattative di alto livello tra governo afghano, Nato e talebani per arrivare ad un accordo di pace nel paese.
2 – Corrente dell’islam, condannata come eretica e costituzionalmente non-musulmana (1973), poi perseguitata sotto i governi del generale Zia.
3 – Introdotta nel 1986, commina la morte a coloro che sono accusati di offesa al profeta Maometto. Nel 1998, il vescovo cattolico John Joseph si uccise per contestare la norma.


Paolo Moiola




«Voi non meritate i nostri aiuti»

Un paese (difficile) devastato dalle alluvioni

Violenze e discriminazioni contro le donne e contro i non-musulmani, vicinanza a movimenti terroristici, possesso di arsenale nucleare. È il Pakistan, paese che nei mesi scorsi è stato devastato da alluvioni, che hanno provocato migliaia di morti e milioni di sfollati. Nonostante l’entità della tragedia, gli aiuti inteazionali sono arrivati con il contagocce. Per questo si è parlato di «vittime di serie B». Ma è giusto che il Pakistan venga aiutato meno perché considerato – a torto o a ragione – poco meritevole? È giusto far pagare a donne e bambini sbagli ed intolleranze? L’aiuto non dovrebbe essere un atto di generosità disinteressata e di umana pietà?

Inumeri – pur ballerini – sono impressionanti: 20,2 milioni di persone coinvolte, un’area interessata estesa 50 mila chilometri quadrati, 2,4 milioni di ettari di raccolti andati perduti, oltre 1,9 milioni di case distrutte o danneggiate(1).
Sono le conseguenze delle inondazioni monsoniche che la scorsa estate – dal 22 luglio al 16 settembre – hanno colpito il Pakistan, un paese già prostrato dai conflitti interni e dai problemi usuali di una nazione in via di sviluppo. Una catastrofe, insomma. Eppure, rispetto ad altre tragedie (il terremoto di Haiti, ad esempio), ci sono state meno immagini in televisione, meno giornalisti inviati sul posto, meno campagne di solidarietà, meno Sms per raccogliere fondi. Che sia stato perché, in un mondo sempre più interconnesso (forse la forma più visibile della globalizzazione), le tragedie sembrano ormai essere all’ordine del giorno? O perché il Pakistan è un paese troppo diverso (per religione, cultura e tradizioni) e troppo ambiguo (i suoi presunti legami con il terrorismo internazionale) per meritare i nostri aiuti?

TRA TALIBAN E KASHMIR
Con oltre 180 milioni di abitanti, il Pakistan è il sesto paese più popolato del mondo e il secondo più grande stato musulmano dopo l’Indonesia. È un paese afflitto da enormi problemi fin dalla sua nascita (1947), ma accentuati a partire dal novembre 2001, quando Stati Uniti e Gran Bretagna cacciarono il governo talebano del vicino Afghanistan, dando inizio a quell’interminabile conflitto da cui oggi tutti vorrebbero ritirarsi(2).
A parte l’annoso contenzioso con l’India per il controllo della regione del Kashmir, il problema del Pakistan sta proprio lungo il confine con l’Afghanistan, dove due vaste province sono ormai fuori controllo: le «Aree tribali ad amministrazione federale» (Federally Administered Tribal Areas, Fata) e la «Provincia della frontiera nord-ovest» (North West Frontier Province, Nwfp).
In queste zone, imperversano gruppi armati collegati ai talebani. In particolare, nella Swat Valley, zona densamente popolata perché ricca di acqua e vegetazione, la situazione è molto difficile. «Negli ultimi due anni – scrive Amnesty Inteational -, i talebani hanno distrutto più di 200 scuole nello Swat, oltre un centinaio delle quali erano scuole femminili. Secondo le autorità locali, questi attacchi hanno interrotto gli studi di più di 50.000 alunni, dalla scuola primaria all’università»(3).
Il governo centrale, dopo gli anni (1999-2008) del generale Musharraf (despota protetto dagli Stati Uniti di George W. Bush), è ora guidato dal presidente Asif Ali Zardari, vedovo di Benazir Bhutto, personaggio poco limpido, già coinvolto in vari scandali. Il governo Zardari gode oggi di molta impopolarità, dentro e fuori del paese, per l’incapacità di contrastare la violenza e la pessima gestione dell’emergenza durante le alluvioni.
A causa della pluralità e complessità dei problemi, è facile prevedere che la polveriera Pakistan occuperà per molto tempo i notiziari inteazionali.
Quanto alle recenti alluvioni, è da dire che la situazione è stata resa ancora più difficile dalle tradizioni – sociali e religiose – vigenti presso le popolazioni colpite. Ad esempio: le donne vittime dell’alluvione potevano (e possono) essere visitate soltanto da personale medico femminile, cosa molto difficile  vista la carenza dello stesso(4). Si è inoltre parlato di discriminazioni verso i pakistani non-musulmani (cristiani ed hindù) nella distribuzione degli aiuti. Cosa certamente da stigmatizzare (ove, come pare, sia confermata)(5), ma che – purtroppo – capita frequentemente nelle società diseguali, con molti soggetti più deboli. Un esempio ci è stato offerto anche dagli Stati Uniti all’epoca – era il 2005 – dell’uragano Katrina. È risaputo che gli afroamericani, appartenenti agli strati più poveri della popolazione, furono gli ultimi ad essere soccorsi e quelli che sopportarono le conseguenze più pesanti del disastro.

MATRIMONI COMBINATI E DRAMMI FAMILIARI
In Italia ci sono circa 80-100 mila pakistani, il 70 per cento dei quali vive nel Nord Italia. La maggiore concentrazione si registra nella città e nella provincia di Brescia.
Nonostante l’abbinamento (mediatico) di pakistani uguale terroristi, in Italia la comunità pakistana vive in tranquillità. Essa è stata oggetto di attenzione da parte dei media soltanto in occasione di alcuni fatti di sangue avvenuti in famiglia. L’ultimo risale al 3 ottobre, in provincia di Modena.
Un pakistano, Ahmad Khan Butt, ha ucciso la moglie Begm Shnez e ferito gravemente Nosheen, la figlia ventenne che non voleva accettare un matrimonio combinato. L’uomo è stato aiutato dal figlio maggiore, Humair, di 19 anni.
La tragedia ha fatto ricordare un altro delitto avvenuto nell’estate del 2006 in una famiglia pakistana che viveva a Sarezzo, in provincia di Brescia. Hina Saleem, poco più che ventenne, era stata uccisa dal padre e da alcuni parenti maschi. La sua colpa: essere fidanzata con un italiano.
Nosheen e Hina, ragazze pakistane, volevano scegliere il proprio destino come le coetanee italiane: troppo per le loro famiglie d’origine, legate a tradizioni ancestrali. Abbiamo parlato di pakistani, ma  le circostanze si ripetono anche per altri. Nel settembre 2009, in provincia di Pordenone, Sanaa Dafani, 18 anni, marocchina, è stata uccisa dal padre, perché fidanzata con un italiano(6).
Davanti a questi fatti, il giudizio popolare – sospinto da politici e media interessati – è di solito perentorio ed inappellabile: «Visto? Gli immigrati non si adatteranno mai al nostro modo di vivere!».
In realtà, è probabile che sia vero il contrario: è la rapida integrazione nel paese d’adozione dei figli degli immigrati che porta a conflitti familiari, soprattutto in presenza di culture molto diverse, come nei casi di cui abbiamo fatto cenno.

GLI AIUTI INTERNAZIONALI E LE EMERGENZE CHE VERRANNO
Tutto questo giustifica meno compassione e meno aiuto verso i disperati del Pakistan? Le colpe di governanti e gruppi fondamentalisti vanno fatte pagare anche a gente innocente – bambini e donne in primis – bisognosa di aiuto? «Sarà che il Pakistan ci evoca terrorismo, immigrazione, talebani, un mondo sconosciuto e quindi pericoloso,… Sarà? – ha scritto Gianmarco Marzocchini, direttore della Caritas diocesana di Reggio Emilia -. Ma mi chiedo e vi chiedo il perché tante emergenze nazionali e inteazionali vengano considerate di Serie B!»(7).
Queste osservazioni valgono oggi per il Pakistan, ma sono ripetibili per molte altre situazioni, del presente e del passato. È vero che ci sono emergenze più emergenze di altre, ma morti e sofferenti si somigliano ovunque. O forse no?
Proviamo a fare qualche altra considerazione… Quando accade un’emergenza internazionale (un terremoto, una siccità, un’inondazione), i singoli stati concedono aiuti (intendendo soltanto aiuti non militari) in base a considerazioni geopolitiche e, in ogni caso, le promesse iniziali, fatte per rispondere all’emozione del momento, non sono mai rispettate. Si calcola che venga donato al massimo il 40% di quanto promesso. Rimangono le raccolte presso i singoli cittadini fatte da chiese (la Caritas, ad esempio), Ong, associazioni umanitarie ed agenzie Onu. È altamente probabile che, nel prossimo futuro, le emergenze inteazionali aumentino sempre più, vuoi per gli sconvolgimenti climatici, vuoi per le pressioni demografiche, vuoi per le instabilità sociali e politiche. Sarebbe bello che prevalesse sempre l’aiuto disinteressato, che non guarda alle diversità culturali, geografiche, etniche e religiose. Oggi, troppo spesso, sembrano invece prevalere criteri dettati da calcolo politico, ignoranza, fanatismo e pregiudizio. 

Paolo Moiola

Note

1 – Questi dati, aggioati all’8 ottobre 2010, sono quelli divulgati dalle Nazioni Unite. Sono reperibili, assieme ad altre informazioni, sul sito: www.unportal.un.org.pk.
2 – Mentre scriviamo queste righe, altri 4 soldati italiani sono stati uccisi in Afghanistan (9 ottobre 2010), portando a 34 il totale dei morti dell’Italia in questo conflitto, che nel 2011 entrerà nel suo decimo anno.
3 – Amnesty Inteational, La situazione dei diritti umani nel mondo. Rapporto 2010, Fandango Libri, Roma 2010, pag. 335.
4 – Si legga: Caritas Pakistan issues call for female doctors, 3 settembre 2010 su www.cathnewsasia.com.
5 – La fonte principale, poi ripresa da vari media, è Fides. In particolare, Cristians and Muslim confirm discrimination in aid distribution, pubblicato il 15 settembre 2010 su www.fides.org.
6 – Si legga il reportage di Robert Fisk, per «The Independent»: The crimewave that shames the world. Tradotto e pubblicato in Italia dal settimanale «Internazionale», n. 867, 8 ottobre 2010.
7 – Si veda: www.caritasreggiana.it.

Paolo Moiola




Insieme appassionatamente

Kibiti: dove musulmani e cristiani lavorano insieme

Nata una ventina di anni fa, fatta crescere dalle missionarie della Consolata e fecondata dalla vita spesa da padre Adalberto Galassi, l’«Unione di musulmani e cristiani del Rufiji» (Uwawaru) sta realizzando progetti di sviluppo finanziati da varie entità della Regione Marche. La solidarietà tra Nord e Sud rende possibile anche la convivenza pacifica e produttiva di cristiani
e musulmani.

Durante il mio primo viaggio in Tanzania, nel 2007, parlando con suor Zita Amanzia Danzero, missionaria della Consolata, nota studiosa ed esperta di islam e del mondo musulmano in generale, sentii per la prima volta parlare di UWAWARU (Umoja wa Waislamu na Wakristu Rufiji, Unione di musulmani e cristiani del Rufiji). L’esperienza di un’associazione di musulmani e cristiani, nata nel 1998 con lo scopo di impegnarsi insieme nello sviluppo, nell’aiuto e nel progresso della propria comunità, mi interessava proprio.
Dopo aver respirato polvere rossa per chilometri e chilometri, lungo la strada che va a sud, in Mozambico, arrivammo «rosse» a Kibiti, un villaggio in pieno bush, dove le missionarie della Consolata sono presenti nella missione dal 1991 con dispensario, mateità e scuola matea per le famiglie dei villaggi vicini.
uniti tutto è possibile
Quest’area, attraversata dal fiume Rufiji, è una delle più depresse del Tanzania, completamente abbandonata dal governo. I villaggi sono di case di fango e la gente è visibilmente provata dalla povertà. Acqua e luce sono un miraggio.
La popolazione di questi villaggi è costituita in prevalenza da musulmani tanzaniani; ma ci sono anche alcuni arabi, arrivati diversi secoli fa da Zanzibar e Arabia Saudita; tra di loro sono molti i fondamentalisti.
Sono riuscita a incontrare tre dei rappresentanti dell’Uwawaru, due musulmani e uno cristiano cattolico. Risposero a tuo alle mie domande, ma con una voce unica. Tutti e tre ripetevano la parola insieme. «Insieme ci siamo resi conto che era fondamentale trovare una soluzione per il futuro dei nostri figli, delle nostre famiglie. Insieme abbiamo parlato e deciso di unirci per dar vita a un’associazione che operasse adesso e in futuro non secondo gli esclusivi dettami religiosi degli uni o degli altri, ma per il progresso di questa zona e per il bene del villaggio, della comunità».
Avevo di fronte tre semplici uomini la cui saggezza e perspicacia erano disarmanti per me che venivo da un mondo dove il terrorismo islamico aveva creato un’islamofobia dilagante tanto da non concepire possibile il dialogo interreligioso. E a 9.000 km di distanza dal mio mondo, in una zona di povertà estrema ho capito davvero le parole di amici e saggisti che insistevano sull’esistenza di vari tipi di islam. E l’islam africano di questi vecchi capi, non ancora contagiato dal fondamentalismo che pur iniziava già a farsi strada, era tutt’altra cosa da quello da me temuto.
l’identità etnica prevale     su quella religiosa
Le popolazioni della zona del Rufiji sono musulmane, ma si rifanno a secoli di tradizioni, insite nel dna africano, di accoglienza, solidarietà, altruismo e rispetto.
Piena dei miei pregiudizi su fondamentalismo e guerra santa, continuai a interrogare i tre capi dell’Uwawaru, chiedendo loro come fossero così certi che le future generazioni potessero continuare a portare avanti i principi di questa associazione insieme.
Mi ero già imbattuta in altri villaggi alla periferia di Dar es Salaam in gruppi di giovani fondamentalisti, indottrinati dai sauditi che da anni avevano scelto la costa dell’Est Africa per una campagna di proselitismo. Ma i due musulmani mi spiegarono con estrema semplicità la loro realtà. «Noi siamo nati e cresciuti insieme. Noi siamo africani e tanzaniani prima ancora che musulmani e cristiani. Noi siamo fratelli, nonostante i nostri avi vengano da posti diversi. Per noi esiste un unico Dio che noi musulmani chiamiamo Allah, i cristiani invece Gesù. Il rispetto vissuto nella povertà e nelle difficoltà di questa zona non porterà mai uno di noi a far del male a un fratello tanzaniano solo perché non musulmano.
E anche in futuro, i nostri figli conserveranno la memoria e le esperienze dei loro padri e non succederà nulla. Sicuramente ci saranno in Tanzania anche gruppi influenzati da fondamentalisti, ma il nostro popolo è stato forgiato dall’esempio di vita e dagli insegnamenti del Mwalimu Nyerere (presidente del Tanzania dal 1964 al 1985) che ha saputo istruire le menti e i cuori dei tanzaniani, dimostrando come la pace e la collaborazione siano alla base della civiltà di un popolo. Sono certo che i nostri figli sapranno cosa fare della loro vita», conclude Iddi Rashidi.
Dalla convivenza alla
cooperazione
Uno dei momenti fondamentali di apertura al dialogo con i musulmani di Kibiti, racconta suor Ida Luisa Costamagna, è stato la partecipazione a un funerale insieme al cappuccino padre Alfeo. «Saputo della morte di un importante capo musulmano del villaggio, andammo a dare il pole, le condoglianze. Furono sorpresi e apprezzarono il gesto di vicinanza e condivisione nel lutto. Ricordo che ci togliemmo le scarpe e pregammo con loro. Certamente quel gesto ci aprì le porte non solo delle loro capanne, ma di una convivenza tranquilla e rispettosa, che continua ad andare avanti benissimo. Fu allora che iniziammo seminari, momenti di scambio e di preghiera insieme che continuano ancora oggi».
«Ricordo la profonda gioia – continua suor Zita – e il nuovo senso di missione sperimentati durante il mio primo incontro con un gruppo di musulmani e cristiani in questa zona. Narrai loro semplicemente il mio percorso verso la comprensione della loro fede e recitai in arabo la prima sura del Corano. I musulmani si mostrarono sorpresi e felici allo stesso tempo. Era infatti la prima volta che sentivano una suora cattolica parlare la lingua della loro fede. Si susseguirono altri incontri e crebbe anche un rapporto di stima reciproca. Dapprima riflettemmo insieme sui molti problemi presenti nella società odiea. Questo ci convinse dell’importanza di incontrarci, musulmani e cristiani, per ulteriori riflessioni e formazione. Fu programmata una serie di seminars su temi sociali come: Aids, aborto, spaccio e uso di droga, diritti umani di donne e bambini».
Dopo numerosi incontri nacque l’associazione Uwawaru. Gli inizi si devono all’opera del padre cappuccino e di alcune missionarie della Consolata; ma la nascita ufficiale risale al 1998. Non fu un cammino facile, dato che in quest’area c’è una forte presenza di musulmani integralisti che spesso minacciavano i musulmani di buona volontà che lavoravano alla formazione di tale Unione. Arrivarono al punto di rivolgersi al governo centrale, dicendo che l’Unione era haram -proibita- secondo il Corano.
Ma l’iniziativa riuscì ad affermarsi grazie alla tenacia di un altro missionario, padre Adalberto Galassi, maceratese, scomparso precocemente a 61 anni, nel 2002. Da quel momento suo fratello Vittorio ha continuato a portare avanti le opere avviate dal missionario scomparso e continua ancora oggi, con attività di sensibilizzazione a sostenere i progetti dell’Uwawaru e altre opere della parrocchia di Kibiti (vedi M.C. maggio 2008).
All’inizio del 2003, tre mesi dopo la morte del missionario, l’Unione ottenne il riconoscimento ufficiale del governo tanzaniano. L’anno seguente, nel mese di novembre fu organizzato un incontro per riflettere insieme su un’iniziativa comune a beneficio dei membri dell’Unione e della popolazione locale. Così fu deciso un progetto per lo sviluppo dell’agricoltura; progetto avviato e continuato grazie al sostegno degli amici marchigiani che hanno coinvolto anche l’Iscos Marche (Istituto sindacale per la cooperazione e lo sviluppo).
Sicurezza Alimentare
e lotta alla malaria
Nel 2009 mi trovavo proprio a Kibiti, e là incontrai Vincenzo Russo, un esponente dell’Iscos Marche, e Ilaria Bracchetti, incaricata di accompagnare l’Uwawaru e lo svolgimento del progetto di agricoltura. Mi entusiasmò da subito il progetto che l’Iscos Marche aveva pensato di realizzare per lo sviluppo agricolo e la lotta alla malaria nel distretto del Rufiji. È un’opera grandiosa che mira a costituire una vera e propria cornoperativa agricola. La somma stanziata è di 360 mila euro, co-finanziata dalla Regione Marche, Provincia di Macerata, Pensionati Cisl Marche e Iscos Marche.
«Il progetto – mi spiegò Vincenzo Russo – si concentra all’interno dei due sottodistretti di Kibiti, con 78.384 abitanti, e di Ikwiriri, con 25.339 abitanti. È una zona dove non ci sono infrastrutture, è difficile trovare acqua potabile e la situazione sanitaria è allarmante. Gli obiettivi del progetto sono essenzialmente due: il primo è la riduzione della povertà, attraverso lo sviluppo della produttività agricola della zona, la commercializzazione delle produzioni locali e l’aumento dei redditi delle famiglie dei due sottodistretti; il secondo, altrettanto fondamentale, è il miglioramento dello stato di salute della popolazione, contrastando l’incidenza della malaria».
I partner del progetto sono i membri dell’Uwawaru, con le relative famiglie. è l’associazione che gestisce in prima persona gran parte delle attività; il distretto del Rufiji assicura il supporto istituzionale al progetto, tramite agronomi, uffici sanitari, locali e amministrativi; la diocesi di Dar es Salaam, che già gestisce i due dispensari della zona, garantisce credibilità e fiducia nell’intervento.
Vincenzo continuò a snocciolare le principali attività legate al progetto: realizzazione di una campagna formativa finalizzata a migliorare le conoscenze agronomiche e gestionali degli agricoltori dei due sottodistretti; formazione e supporto di un’associazione promuovente l’agricoltura meccanizzata; creazione di punti d’accesso alla foitura di materiali e strumenti agricoli a prezzo agevolato anche conpagamenti “in natura”; costruzione della sede dell’Uwawaru, con magazzino e rimessa per gli attrezzi; acquisto e messa in funzione dei macchinari agricoli e di trasporto (trattore, carro agricolo, erpice, camion, etc.); sperimentazioni di nuove colture e pratiche agronomiche; messa in produzione di 40 ettari di terreno; studio sulla commercializzazione dei prodotti dei due sottodistretti, per accorciare e migliorare la filiera e ottenere un giusto guadagno dalla produzione.
«I beneficiari del progetto agricolo non sono solo i membri dell’Uwawaru con le relative famiglie (4 mila persone circa), ma anche altri 400 e più agricoltori di Kibiti e Ikwiriri, oltre i 600 neonati e loro mamme e più di mille persone che beneficeranno della profilassi contro la malaria. Speriamo di realizzare il tutto in tre anni», concluse Vincenzo.
entusiasmo contagioso
L’entusiasmo di Vincenzo e di altri membri dell’Iscos Marche che si sono alternati era contagioso. Ancora una volta ebbi la prova che i progetti efficaci, i cui finanziamenti vanno totalmente a destinazione, non sono fatti dalle organizzazioni inteazionali di cooperazione, ma da Ong senza potere di acceso ai famosi fondi mondiali e generalmente sconosciute alla massa, benché operino da tempo in numerosi paesi del mondo.
Non mi stupì il fatto che dietro a un progetto del genere ci fosse la Regione Marche, la Provincia di Macerata, i pensionati marchigiani della Cisl e l’Iscos Marche. Li avevo conosciuti bene i marchigiani durante i miei anni di studio a Macerata: gente onesta, brillante e soprattutto buona.
Tanto di cappello ai marchigiani: di fronte a un progetto di tal valore sociale ed economico, lasciatemi dire che possiamo sfatare il mito del marchigiano «tirchio»!
Eppur si muove
A distanza di un anno chiamai Ilaria Bracchetti, che rappresenta l’Iscos Marche nella gestione del progetto direttamente  sul terreno in Tanzania. Ho sempre apprezzato la volontà e la determinazione di Ilaria, che è la sola mzungu non missionaria in quella zona difficile. «Sono arrivata a Ikwiriri nel settembre 2009 – mi scrisse Ilaria -. In quell’anno sono state avviate le attività di campo vere e proprie. Il mio impegno si è focalizzato nel cornordinamento e appoggio al partner locale, l’Uwawaru, per coinvolgere la popolazione nella organizzazione di una cornoperativa agricola, nella campagna per la lotta alla malaria e nella costruzione dei locali necessari, terminati all’inizio dello scorso settembre».
Le fotografie inviate da Ilaria alla Iscos Marche descrivono con chiarezza la nuova sede della Uwawaru: essa è costituita di un magazzino, tre uffici, una sala riunioni, con un computer in funzione, e relativi annessi (bagni, casetta del guardiano, cistee per l’acqua e fognature) per un totale di 193 mq. Il metodo adottato, cioè la partecipazione della gente, l’utilizzo di manodopera e materiali reperibili in loco, ha rallentato i tempi per l’ultimazione dell’edificio, ma hanno contribuito ad aumentare il senso di appartenenza del progetto al gruppo coinvolto.
«Nella scorsa stagione agricola, che va da novembre a marzo, si è sperimentata la coltivazione dei primi 10 acri di terreno. Per la ristrettezza nei tempi di pianificazione, non si sono avuti i risultati sperati», continua Ilaria. «In compenso l’esperienza è stata un buon tavolo di prova per capire sia le potenzialità tecniche dell’associazione che per testae le capacità di cornordinamento».
«Benché fin dalla sua nascita si sia sempre dimostrata volonterosa, l’Uwawaru ha mostrato scarsa capacità manageriale, non avendo l’esperienza necessaria. Perciò, l’anno passato è servito, soprattutto, per iniziare ad allenare l’Associazione in campo organizzativo, per affrontare e programmare il carico di lavoro e le fasi inerenti alla realizzazione del progetto».
«La base volontaria su cui opera l’Uwawaru – continua Ilaria – mi ha obbligato ad aggiustare le mie aspettative circa tempi e modalità di lavoro. Sicuramente anche la mia estraneità alla comunità, la mia presenza come “specialista” del tutto scollegata dal contesto missionario con cui in precedenza l’associazione si era rapportata, ha destato timori e riserve che solo il martellante e quotidiano lavoro ha un po’ dissolto, rendendo così possibile instaurare un rapporto di fiducia.
Inoltre, il contesto di vita in un villaggio nel bush tanzaniano è stato sicuramente difficile per me stessa e non privo di momenti di sconforto o di paura di non farcela. Ma la convinzione che con la tenacia si possano vincere le difficoltà e le resistenze, mi ha portato comunque a continuare ed affrontare questo secondo anno con nuove idee e la speranza che il lavoro svolto fin qui possa cominciare a dare frutti concreti».
crescere insieme
Anche Vincenzo Russo, responsabile del progetto Iscos Marche, ribadisce le difficoltà iniziali nell’accompagnare un gruppo di persone nella formazione di un’associazione economicamente sostenibile e indipendente. «Il processo di costruzione della sede di lavoro ha rappresentato non solo la realizzazione pratica, ma una crescita “didattica” e tecnica dell’associazione. La componente agricola non ha avuto le rese sperate. Purtroppo abbiamo iniziato tardi, a settembre, e non è stato possibile impostare il lavoro come avremmo desiderato, ma siamo fiduciosi».
Vincenzo conclude la chiacchierata con la prospettiva e l’auspicio che in futuro l’Uwawaru diventi un’entità che si autosostiene e autonoma. Da parte mia, auguro soprattutto che l’«Unione dei musulmani e cristiani del Rufiji» diventi un esempio contagioso. Nata e cresciuta indubbiamente con il sostegno dei missionari, che hanno ascoltato, consigliato e pungolato nel cammino di unione per un fine di sviluppo comune a prescindere dalla differenze di fede, l’Uwawaru dimostra che la convivenza civile, pacifica e produttiva tra cristiani e musulmani è possibile.

Romina Remigio

Romina Remigio




Cosmogonia e resistenza

L’oggi

Daris e Berito sono leader u’wa conosciuti anche all’estero. La nostra collaboratrice, ospite del resguardo, racconta la sua coinvolgente esperienza con la comunità. Una comunità in cui la Terra è la madre che dà tutto. Per questo essa va rispettata e difesa, soprattutto quando il nemico è quell’«uomo bianco» che non sa e non capisce. La distruzione del territorio significherebbe la morte certa del popolo u’wa, ma anche una nuova ipoteca sul futuro dell’umanità tutta.

«L’hortigo è la nostra carne», dice Daris, mentre strappa con sapienza una pianta simile alle nostre ortiche, ma con le foglie molto più larghe e caose. La scova in mezzo ad un groviglio di tante altre: «Gli u’wa che vivono vicino alle montagne sono quasi vegetariani e cacciano poco. Kakina è lo spirito degli animali e si arrabbia. Per questo, bisogna digiunare per tre giorni prima di cacciare».
Probabilmente i lettori non avranno idea di quale intrinseca soddisfazione possa provare una riowa, una bianca, straniera e vegetariana, nel trovare un posto (almeno uno in America Latina), dove invece di ridere o guardarti con stupore quando spieghi che «no, la carne no», ti dicono: «Capiamo perché non mangi carne. Con tutta la violenza che i vostri poveri animali devono subire in Europa. È come mangiare la loro sofferenza», e te lo dicono allungandoti una tazza di zuppa con piante e tuberi sconosciuti, calda e gustosa e, a quanto pare, molto nutriente.
Daris Cristancho è della comunità u’wa di Bachira, una delle più integre perché meno contaminate dal mondo esterno. Quando va a trovare i suoi, Daris cammina quattro giorni da Cubarà, attraverso vallate e risalendo montagne, fino ad arrivare a 4.000 metri, dove le pendici del ghiacciaio Cocuy cominciano ad essere imbiancate dalle nevi perenni lasciandosi indietro i paramos1 gonfi d’acqua e di leggende. Là vive la sua famiglia. Daris è quella che si dice una leader: impegnata per il suo popolo e per i diritti delle donne indigene. Assieme a Berito Kuwaria, il viso inteazionalmente riconosciuto della lotta degli u’wa e premio Goldman2 nel ’98,  cura i rapporti inteazionali. Gira il mondo, partecipa a conferenze, ma poi torna sempre qui, nel Resguardo unido, nella sua terra e dai suoi cinque figli, e nella scuola indigena dove è insegnante.
«Mia nonna quando ero piccola mi ha detto che avrei difeso il mio popolo – ci racconta – e questo è stato e sarà il mio destino». Camminiamo lungo il sentirnero che ci porta verso la comunità di Fatima, una delle prime comunità u’wa che s’incontrano all’interno del territorio ancestrale. La gente si sta preparando ad un rituale che durerà tutta la notte e mentre camminiamo chiacchierando, frotte di bimbi eccitati ci superano correndo.
Con Daris era qualche anno che non ci si vedeva. Abbiamo deciso di metterci in viaggio per el Planeta Azul (il pianeta azzurro, altro nome del territorio ancestrale), rispondendo ad una chiamata delle autorità u’wa: il popolo è pronto ad un nuovo levantamiento. Ovvero, si sta preparando per altre battaglie. L’appello era arrivato a gennaio 2010. In maggio siamo partiti.

Finalmente… la foresta
La pressione della politica estrattivista dell’ex presidente Alvaro Uribe – raccolta e portata avanti nel segno della continuità dal nuovo primer mandatario, Manuel Santos – si è fatta insostenibile. E la tensione militare che alberga in ogni angolo del Paese, qui è doppia. La scia del quasi decennale programma di «sicurezza democratica» di Uribe, che ha sdoganato eserciti paramilitari come le Autodefensas Unidas de Colombia; la militarizzazione dei territori sotto l’egida del Plan Colombia3 statunitense: le condizioni favorevoli alle multinazionali che mirano al saccheggio dei sottosuoli più ricchi del mondo. «Come volpi – ci dice Ramiro, un giovane u’wa che fa parte del cabildo mayor – hanno atteso che l’attenzione internazionale sulla vicenda del mio popolo scemasse. Ora si preparano ad azzannare».
Per incontrare l’antico popolo u’wa bisogna aspettare il responso dei werjayà, i saggi che vivono sulle montagne. E poi quello del cabildo mayor, la massima autorità politica. Entrare nel territorio sagrado (sacro), vuol dire contaminarlo, e ci sono delle procedure da seguire. Prima di entrare nel territorio u’wa, per qualche giorno ci dobbiamo fermare a Cubarà, una cittadina appena fuori dal resguardo. Pattuglie di militari la percorrono ininterrottamente, e ad ogni ora del giorno e della notte. A Cubarà non veniamo mai lasciati soli. I werkajà hanno raccomandato prudenza e i nostri amici u’wa non prendono sottogamba simili avvertimenti e ci accompagnano in ogni nostro minimo spostamento. Gli eserciti guerriglieri – le fitte foreste che ci circondano sono habitat ideale per l’Esercito di liberazione nazionale (Eln) e per le Forze armate rivoluzionarie colombiane (Farc) – pattugliano i dintorni. È ancora fresco il ricordo dei 3 volontari ammazzati dalle Farc nel ‘99, fra cui Terence Freitas, cornordinatore della campagna «La cultura con principios no tiene precio» in difesa del popolo u’wa. Cubarà è inoltre un punto strategico per l’esercito colombiano. Ovunque, nella cittadina polverosa che nulla offre se non una piccola scuola e l’essere un crocevia di merci, ci sono occhi che, per una ragione o l’altra, non ci perdono di vista.
Quando finalmente riusciamo ad entrare nel Resguardo unido u’wa, tiriamo un respiro di sollievo. Benché sia solo calma apparente quella che si vive nelle foreste, stare a contatto con questo popolo regala immediata serenità.
Daris è come sempre sicura di sé e sorridente. In 10 anni – tanti sono passati da quando, con la figlia più piccola fra le braccia, affrontava l’inferno che il suo governo aveva scagliato contro il suo popolo per l’occupazione del pozzo Gibraltar 1 –  non è cambiata: noi l’avevamo conosciuta qualche anno dopo . È sempre bella. E riflette la spontanea meraviglia della sua stessa terra, che mescola fiori e foreste impenetrabili, montagne innevate e piante pluviali. E la sensazione di essere ai primordi del mondo, assieme alla consapevolezza di essere in un avamposto di resistenza.
Qui la natura è potente perché libera ed incontaminata. Le scimmie araguaro urlano d’amore fra gli alberi mentre noi camminiamo all’imbrunire lungo i torrenti che scendono dalla Cordillera andina. Se è vero che il Kajka Ika è per gli u’wa il cuore del mondo, questo cuore pulsa forte. Mai ci siamo trovati in una terra così bella e intatta. Ad oggi, il resguardo è poco meno del 20% di quello che una volta fu il territorio ancestrale u’wa. Si estende per 225.000 ettari circa, e comprende quattro fasce climatiche. Questi pisos termici, così come qui vengono chiamati (letteralmente, piani termici) sono fondamentali per la vita e la cosmogonia della popolazione, che sigla ogni momento della vita comunitaria con rituali e digiuni che devono essere ripetuti in ogni fascia climatica.

STORIA DI DARIS, LA DONNA CHE SA PARLARE  A TUTTI 
La storia di Daris è delicata e complessa. Lei è figlia di un abuso subito dalla madre ad opera di un bianco. Suo padre era uno dei tanti che, durante la guerra civile colombiana, negli anni ’50, si nascosero nei territori degli u’wa, creando scompiglio e seminando violenza. Daris è dunque una «meticcia». Per questo – perché «contaminata» – fu allontanata come un pericolo dalla sua comunità d’origine quando era molto piccola. Verso i 7 anni, venne però richiamata per ordine delle autorità religiose, che la sognano defensora del pueblo. Quando ritorna fra la sua gente, non sa una parola di u’wa. Ha paura di tutto. Ma la madre e la nonna – una curandera molto capace –  le danno la forza che le serve per farsi accettare. Daris cresce con una certezza: lei si sarebbe dovuta battere per la salvezza dei suoi. Studia, si laurea, elabora quella capacità istintiva che ha di parlare alla gente. E il suo essere «meticcia» la predispone al dialogo con gli riowa.
Chissà se è per la forza che le donne della sua famiglia le hanno trasmesso. Ma Daris capisce bene che la salvezza del suo popolo passa per il rafforzamento delle donne u’wa. Crea una fondazione al femminile che si chiama Ambaya (le api). Vuole fornire gli strumenti alle donne u’wa per diventare «leaders», per poter studiare. E per poter continuare a vivere come loro vogliono: nel territorio sacro, in pace, con una natura che proteggono, cantano e amano come una madre. E continuando a sviluppare il proprio artigianato – connesso anch’esso al mondo cosmogonico. «Il popolo indigeno u’wa gestisce il proprio territorio attraverso politiche fondate su principi ancestrali», racconta, mentre mi porta ad incontrare le rappresentanti delle donne delle 17 comunità che compongono il popolo u’wa. Spiega come valori di rispetto e di armonia con la natura compenetrano i differenti settori del tessuto sociale: il territorio, l’autonomia, la salute, l’educazione, i nuclei abitativi, l’educazione ambientale. Identità culturale che si riflette nell’elaborazione e nella realizzazione dei prodotti artigianali. A causa degli invasivi processi di colonizzazione ed evangelizzazione che ha sofferto il popolo u’wa, gran parte delle pratiche culturali e artigianali rischiano di scomparire nella maggior parte delle comunità che compongono il territorio u’wa. La fondazione Ambaya vuole da una parte rafforzare il ruolo delle donne e dall’altra, difendere i valori, i principi e i significati ancestrali della cultura u’wa trasmettendoli alle nuove generazioni. «Per noi i bambini sono un dono e il nostro futuro: noi donne abbiamo il ruolo fondamentale di trasmettere i saperi, le conoscenze che fino ad oggi ci hanno permesso di difendere il nostro mundo–centro (centro del mondo, il territorio u’wa) e difenderlo», dice ancora Daris, dimostrando, col suo progetto e la sua determinazione, il grande coraggio che possiede.
Le donne u’wa riunite nella Casa de la sabiduria («Casa dei saperi») sono almeno un centinaio, alcune venute a piedi da comunità lontane tre giorni di cammino. Si distinguono fra loro le differenti tribù: kuwar’uwa, tigria’s, aguablanca come nuclei principali. La grande capanna che ci riunisce è fresca ed accogliente, e negli angoli, intimiditi, i bambini filano il fique per fare le chacaras4  con la testa bassa, lanciandoci ogni tanto uno sguardo divertito.
Daris ci illustra le attività e ci fa vedere la piccola sartoria che permette ad alcune donne u’wa di farsi dei vestiti per poter andare al mercato a barattare oggetti artigianali per qualche alimento, sale e frutta per lo più.

La «MADRE TERRA» E LA LUNGIMIRANZA                                                DEGLi u’wa
«Se voi siete qui fate parte del nostro pensiero – ci dice -. Sono più di sessant’anni che noi u’wa combattiamo per difendere la nostra cultura e più di 500 per la nostra sopravvivenza. La Madre Terra ci dà tutto, ci dà da mangiare, ci dà la vita. E noi dobbiamo difenderla. Noi siamo i “guardiani della Terra”». Il discorso che Daris fa davanti alle sue compagne è appassionato. Bisogna tradurlo tre volte, in spagnolo e nei due principali dialetti u’wa. «Vi chiedo: cosa stiamo pensando di lasciare ai nostri figli? Io non vivo fuori dal mondo, so che il denaro serve. Ma quando la terra non darà più frutti, l’acqua sarà troppo contaminata, le sementi troppo stanche per crescere, che pensiamo di fare? Qual è il nostro progetto? Questa è la grande tristezza che noi proviamo. Per questo noi cantiamo molto per la Madre Terra, per cercare di lenire il suo dolore, che in questo tempo è grande. Noi u’wa siamo stati incaricati di proteggere  la terra, l’aria, l’acqua. Per questo, siamo in un processo di lotta e resistenza».
Ecco dunque che il «progetto» u’wa si mostra in tutta la sua lungimiranza. Viene descritto con il loro linguaggio, che è colori ed immagini. Ma la proposta politica è molto chiara: bisogna smetterla di alimentare questo sistema economico irrazionale ed iniquo. Bisogna smetterla di martoriare la Terra.
Il discorso di Daris spinge le donne ad aprirsi e a perdere la naturale timidezza che le contraddistingue. Ci chiedono di visitare le loro abitazioni nascoste nella fitta foresta pluviale, le case dove fanno i digiuni – capanne basse con il tetto spiovente fatto di foglie dove per almeno cinque volte l’anno si intraprendono lunghi ayunos (digiuni) purificatori; i piccoli campi coltivati a fagioli, yucca, patate.
Andiamo con loro ed andiamo in un paradiso. Ogni microclima dei quattro che caratterizzano il territorio ancestrale u’wa, ha le proprie piantagioni utili all’alimentazione e per le cerimonie religiose. I rituali hanno una funzione stabilizzatrice, nella ricerca di un costante equilibrio. Gli u’wa coltivano poco e a rotazione. Non vogliono stancare la terra. Per trovare i loro campi, dobbiamo seguire la fila colorata di donne coi bambini legati dietro la schiena con una fettuccia fissata sulla testa. «Quest’acqua si può bere, questa no», e indicano questo o quel ruscello. «Qui ci sono i pesci!» grida Claudia, una giovane con gli occhi grandi e le collane azzurre che vogliono augurare fertilità. Con l’acqua alle ginocchia e un po’ di pazienza ci dimostra come si prendono i pesci con le mani. Ogni piccolo pesce che prende, lo mette in bocca dalla parte della testa. Poi l’infila uno con l’altro con una pagliuzza e se li mette al collo per trasportarli. Ingrid – ognuna ha anche un nome u’wa, ma il primo è per forza in lingua spagnola – ci fa vedere più avanti il campetto di piante di coca che usano per i riti. Jolanda ci mostra come col machete e la corteccia di un albero si fanno le pentole. Ascoltiamo gli uccelli, perché portano messaggi. Stiamo in silenzio quando attraversiamo certi luoghi. In altri, cantiamo.
Ridono, le donne u’wa, con la frangetta e gli occhi asiatici. Camminano a piedi scalzi con tale leggerezza che paiono non piegare l’erba. «Hai visto? Questi sono i nostri dollares!». Compare nel fogliame lo sciamano Berito: «Questi sono i nostri soldi: i bambini, gli alberi. E l’allegria». Tira fuori la maracas dei suoi canti, e racconta: l’universo era diviso in due, un mondo di sopra, luminoso e secco, e un mondo di sotto, buio ed umido, il primo bianco, il secondo rosso. Dopo «il grande movimento» si formò un mondo di mezzo, e assieme ad esso, il giallo e l’azzurro. «Noi siamo i guardiani che curano questo mondo. Se il mundo– centro degli u’wa sparisce, muore l’universo».  Per gli u’wa, la magia ed il soprannaturale non sono realtà distinte dalla vita quotidiana e sociale. Le malattie, la morte, i conflitti, irrompono quando l’equilibrio è alterato. Gli alimenti devono essere puri e consumati nei giusti momenti dell’anno. I digiuni e le purificazioni sono parte fondamentale della vita rituale.
Può questo paradiso perfetto resistere? Può sopportare una mentalità guerrafondaia, violenta e distruttrice? Eppure qui ci si sente tranquilli e forti. E sinceramente, proprio non viene da rispondere di no.

LA DISTRUZIONE AVANZA:
GASDOTTI, AUTOSTRADE, FUNIVIE
«Nuove battaglie ci aspettano. Guarda le montagne, non si vedono: questa nebbia perenne le copre. È el micero del gas che brucia notte e giorno. E il cielo da mesi non è più lo stesso». Daris è preoccupata, e molto. «Ecco perché il cabildo mayor è sul piede di guerra: il gasdotto brucia la nostra aria. Cambia il nostro clima. Non piove più».
Con una grande marcia – una minga –  lo scorso anno in ottobre oltre 2.000 u’wa hanno manifestato contro lo sfruttamento delle risorse naturali nel loro territorio. Sotto un sole cocente hanno percorso la lunga strada che da Arauca arriva fino alle province di Santander e Norte di Santander cantando: «Gli u’wa davanti a Dio e al Mondo marciano per la vita. Gli indigeni d’America di fronte all’invasione: resistenza, resistenza, resistenza!».
I megaprogetti che minacciano immediatamente la sopravvivenza di questa popolazione, che con i suoi 6.000 abitanti è una delle decine  a rischio d’estinzione della Colombia, sono principalmente tre, ed in cima a tutto, ancora, c’è il petrolio.
La statale Ecopetrol – che dal 27 agosto del 2007 ha cominciato ad essere venduta ai privati, e di «statale» è rimasto ben poco – non ha mai interrotto le attività estrattive in territorio u’wa. La Oxy ritirandosi ha ceduto le azioni alla compagnia colombiana, che ha continuato – con argomenti inaccettabili –  a promuovere attività estrattive intense. Uno di questi argomenti era che le aree di perforazione non fossero «territorio abituale degli u’wa». Pur sfiorando il resguardo – a 400 metri vive un nucleo di famiglie indigene –  vi entra di sbieco sotterraneamente. D’altronde, è la stessa Agenzia nazionale degli idrocarburi che afferma come questi pozzi siano «di interesse nazionale». Dopo i Gibraltar 1, in barba alla stessa legge statale sono stati scavati il 2 e il 3, senza che la comunità fosse mai consultata. Il «Gibraltar 3» si è portato dietro un miniplotone di militari, che stazionano stabilmente nel territorio. La Ecopetrol manda regolarmente emissari che cercano di dividere con regali e promesse, le piccole comunità più esposte e ricattabili. La giostra ha ricominciato a girare. In verità non si era mai fermata.
Il secondo progetto è la costruzione di un’autostrada che dovrebbe segare in due il territorio u’wa: è la carretera binacional fra Venezuela e Colombia, che passerebbe esattamente sopra tutti i luoghi per i rituali. Infine, il Parco nazionale del Cucuy. La montagna sacra, il punto più intoccabile, il ghiacciaio che è il mundo-blanco: un progetto di «ecoturismo» prevede un ampliamento del Parco nazionale del Cocuy  nel territorio u’wa. Secondo il governo, ci si dovrà costruire una funivia. La «Unidad de Parques nacionales naturales», assieme al ministero degli Intei e a quello di Giustizia, da tre anni cerca di portare avanti il processo della consulta per modificare il decreto 622/77. Ma gli u’wa hanno sempre rifiutato un incontro che per loro è basato fin dalle fondamenta sulla menzogna: «Durante la Settimana santa passano nel Parco nazionale oltre 1.000 turisti a settimana. Sotto il Cocuy è poi nota la presenza di una riserva immensa di oro, rame, ed acqua. Ma a chi la vogliono raccontare? E ci vengono a dire che è per il bene della montagna, perché noi non la sapremmo tenere bene. Il Cocuy è la nostra montagna. E noi la proteggeremo», raccontano quelli dell’AsoUwa, associazione che rappresenta politicamente la maggioranza delle comunità u’wa.
 
«IL PROGRESSO È vivere in armonia
con la terra»
 «Con la scusa di questi progetti, ci militarizzano. Uomini armati attraversano continuamente il nostro territorio con i loro pensieri di morte» spiega Daris. «Ma noi andiamo avanti sicuri del nostro compito nel mondo, anche se loro ci danno già per scomparsi, per finiti. Solo perché vogliamo andare avanti seguendo i dettami e la filosofia che da sempre ci ha contraddistinto: vivere in armonia con la Terra, con gli elementi della natura, rispettandoli. Questo per noi è il progresso. So che per voi è difficile pensare che esistano persone, popolazioni, che vivono come migliaia di anni fa. Tra di noi u’wa c’è chi non ha mai visto un’automobile e non sa cosa sia una lampadina. Ma è una nostra consapevole scelta. Io sono la prima donna u’wa ad uscire dal territorio e viaggiare. Ma vivo gran parte della mia esistenza nelle comunità u’wa, perché la memoria del proprio popolo va protetta e mai dimenticata. Il mio sogno è che ogni donna u’wa possa pensare di poter essere una leader, e parlare, lottare, viaggiare, partecipare ad incontri inteazionali in appoggio al nostro popolo. Dieci anni fa ci scontrammo con una grande multinazionale del petrolio, la statunitense Occidental Petroleum Inc. Le donne marciarono e si opposero con forza a tanta violenza. Da allora, io lotto perché la forza di quelle donne sia riconosciuta e valorizzata all’interno del “popolo che sa parlare”». Ci fissa con i suoi occhi neri e ci assicura: «Anche per questo so che sopravviveremo. Gli u’wa camminano lenti, ma sicuri».
Fa impressione pensare che il mondo degli u’wa potrebbe venire distrutto per dare quattro mesi in più di petrolio agli Usa (tanto è quantificato il giacimento individuato sotto il mundo–centro). Secondo quanto diffuso dal ministero dell’Energia, in Colombia hanno non più di tre anni di rifoimenti petroliferi. Poi dovranno importare. La politica petrolifera colombiana si sta così rendendo flessibile per creare uno scenario proficuo agli investimenti stranieri. Questo, fra le altre cose, vuol dire incentivare le perforazioni «per l’interesse nazionale». Con le buone o con le cattive. Poco importa se gli u’wa continuano a dare lezioni di vita, insegnando che la loro lotta non è contro la Oxy o la Ecopetrol, ma contro un modello economico che vuole la loro morte e quella dell’equilibrio naturale. Poco importa se gli u’wa sanno che essere «guardiani della Terra» non significa difendere il territorio per se stessi, ma per l’umanità intera, che ha nelle popolazioni indigene la sua ultima speranza. E non per folklore. Ma perché davvero, la loro lucida proposta politica – è necessario vivere tutti e con meno, nel rispetto dello stesso mondo che ci dà i suoi frutti, appunto «cambiando il modello, non il clima»  – è l’unica percorribile.
Noi siamo già con loro. Siamo nel mundo-centro. Con Daris, le donne, Berito che canta, i suoi dollares – i bambini -, che ci corrono attorno. Ci avviamo verso la grande capanna di legno per il rito atavico che durerà tutta la notte. Noi saremo battezzati come nuovi u’wa, io riceverò il nome di Abouswia, «madre delle acque». Il rito serve per ringraziare la Madre Terra dopo la semina. Il nome, per sentirci u’wa anche noi. Ed avere speranza.

Francesca Caprini

 
NOTE

(1) Paramo: ecosistema tipico delle Ande. Di fondamentale importanza per la conservazione dei meccanismi idrogeologici. Si sviluppa alla fine dei boschi e all’inizio delle nevi perenni.
(2) Premio internazionale concesso ai difensori dell’ambiente: www.goldmanprize.org.
(3) Nel 2000 viene varato il Plan Colombia. Ufficialmente un accordo tra Stati Uniti (amministrazione Clinton) e Colombia che prevede l’invio di consulenti civili, militari e finanziamenti per combattere la produzione di droga nel paese. Per molti, la longa manu militare degli Usa in Colombia.
(4) Tipica borsa tessuta con i filamenti della pianta del fique intrecciati. Serve per trasportare ciò che serve per i riti. È un lavoro destinato ai bambini maschi.

Francesca Caprini




«Minacciati, criminalizzati, censurati»

Danilo Rueda (Commissione giustizia e pace)

Nella spirale della guerra: popolazioni native, campesinos, sindacalisti, organizzazioni dei diritti umani.

«In Colombia è sempre grave la situazione dei diritti umani. In questo panorama, la Comisión de Justicia y Paz lavora da anni per la verità, la giustizia, la ricostruzione e la memoria. Accompagnando comunità rurali in varie zone della Colombia, permette la difesa  della vita, dei diritti umani e dell’ambiente, attraverso la creazione di zone umanitarie e per la biodiversità, assieme alle comunità locali. Secondo una fonte, contro i membri della Commissione Giustizia e Pace è in atto un piano di attacco su due fronti: uno giudiziario e mediatico ed un altro persecutorio, con la complicità di agenti dello stato. Coloro che traggono vantaggio dalla violenza paramilitare per ottenere i noti benefici provenienti dal commercio della palma, dall’allevamento intensivo e dalla coltivazione dei banani, si occupano anche di screditare il lavoro di coloro che difendono i diritti delle comunità, sfollate e danneggiate proprio da queste stesse imprese. Ancora una volta, un’organizzazione per la difesa dei diritti umani è vittima di un attacco. Questa situazione in Colombia non è eccezionale. Coloro che vorrebbero continuare ad agire nella totale impunità si vedono “minacciati” dal lavoro delle organizzazioni della società civile. Per questo, sempre di più, i difensori dei diritti umani e dell’ambiente sono minacciati, criminalizzati o censurati, per ostacolare il loro lavoro».
Questo è parte di un comunicato del settembre scorso, che denunciava apertamente le minacce subite da membri della Commissione Interecclesiastica Justicia y Paz (CIJYP).  Da più di dieci anni questa associazione si occupa dell’accompagnamento delle comunità indigene e contadine «desplazadas», nei territori dai quali sono state allontanate con la violenza dalle organizzazioni paramilitari.
Come molte associazioni per i diritti umani in Colombia, Justicia y Paz vive in uno stato di assedio. In media, in Colombia viene ucciso un attivista al mese. Amnesty Inteacional calcola che ogni anno circa 1.500  civili rimangano uccisi nel conflitto armato che insanguina il Paese da oltre mezzo secolo. Quasi 200 sono le vittime di sparizioni forzate, soprattutto nel sud del Paese, particolarmente colpito a causa dei combattimenti in corso tra le forze di sicurezza, paramilitari e i gruppi della guerriglia. Gli sfollati a causa del conflitto hanno dovuto affrontare condizioni di profonda e radicata discriminazione ed emarginazione, che hanno reso ancor più difficile per loro accedere a servizi di base come sanità e istruzione. I gruppi della guerriglia e paramilitari reclutano forzatamente bambini. Anche le forze di sicurezza utilizzano bambini come informatori, contravvenendo alla Direttiva del 2007 emessa dal ministero della Difesa che proibiva l’impiego di bambini per scopi di intelligence. Ogni anno, altre 300 persone sono vittime di esecuzioni extragiudiziali da parte delle forze di sicurezza. I paramilitari al soldo delle imprese straniere che operano in Colombia per petrolio, agrocombustibili, attività di estrazione mineraria, commercio di banane e di zucchero, e naturalmente per il narcotraffico, continuano a uccidere civili e a commettere altre violazioni dei diritti umani, a volte con il supporto o l’acquiescenza delle forze di sicurezza. Si calcolano fra i 400 ed i 500 morti ammazzati ogni anno per mano loro.
Nel 2009, oltre 180 uccisioni di civili sono state attribuite ai gruppi della guerriglia. Almeno 46 sindacalisti sono stati uccisi nel corso dell’anno passato, 20.000 le sparizioni forzate ed un numero di sfollati in costante crescita (oltre 4 milioni): solo nell’anno scorso,  i nuovi sfollati sono stati oltre 286.000. Tra i maggiormente colpiti sono risultati i popoli nativi, gli afro-americani e i campesinos (contadini).  Il governo si è rifiutato di appoggiare un progetto di legge sulle vittime del conflitto, che avrebbe garantito loro dei risarcimenti.
In particolare, sono le popolazioni indigene – ridotte a meno del 2% della popolazione colombiana – a soffrire delle violenze e dell’impunità di chi le compie. Nel corso della sua visita in Colombia, il Relatore speciale delle Nazioni Unite ha descritto la situazione dei diritti umani che le popolazioni native si trovavano ad affrontare in Colombia come «un grave, critico e profondo motivo di preoccupazione».
Durante l’anno sono stati uccisi 114 tra uomini, donne e bambini nativi. E sono solo i dati ufficiali.
Questo è il desolante scenario in cui i difensori dei diritti umani devono operare. Ma, a sentire loro, ne vale la pena. Come racconta Danilo Rueda, che lavora per la Comisión de Justicia y Paz.

«L’accompagnamento ai desplazados, gli sfollati a causa della guerra, che noi operiamo, è diretto e permanente e si realizza attraverso un gruppo di lavoro che garantisce la propria presenza nella zona di conflitto: noi viviamo e condividiamo la vita con le comunità che assistiamo. Questo ha permesso ai componenti della Commissione una conoscenza profonda delle realtà di ogni comunità, delle famiglie che la compongono e delle necessità di ognuna di loro. E quindi anche di denunciare e visibilizzare le violazioni dei diritti umani perpetrati in queste zone al fine di creare uno scudo, umano e mediatico, in difesa delle comunità. Lavoriamo per il miglioramento del benessere comunitario attraverso la sicurezza alimentare, la costruzione di infrastrutture comunitarie e familiari, l’appoggio psicosociale, la difesa del territorio: per questo costruiamo abitazioni e scuole, acquedotti comunitari, sistemi igienico sanitari, orti comunitari per il recupero e la valorizzazione delle sementi autoctone. Inoltre sono stati avviati processi comunitari di protezione ambientale, conservazione del territorio, della cultura e della memoria».
Danilo Rueda non sta passando un periodo facile. Qualche tempo fa era in moto ad un semaforo. È stato raggiunto ed affiancato da una serie di motociclisti che semplicemente gli hanno detto: «Smetti di occuparti di quello che stai seguendo. O sei morto». Era vicino a casa sua. Ha preso moglie e i due figli e ha cambiato, di nuovo, abitazione.
«Non ti ci abitui mai. La paura è tanta. Ma è il nostro lavoro – racconta Danilo -. Ma quando poi un solo uomo, una sola donna, un solo bambino che noi proteggiamo, ti dimostra che hanno capito cos’è la dignità, sai che ne vale la pena».  
Gli chiediamo di raccontarci della Colombia con il nuovo presidente, Manuel Santos: «Gli ultimi 8 anni sono stati una sintesi del modello di repressione colombiano. La militarizzazione della maggior parte dei territori attraverso il programma di “sicurezza democratica” portato avanti dall’ex presidente Uribe, ha provocato la frammentazione delle popolazioni e ha abusato della cornoptazione dei falsi testimoni. Difatti, la commissione JyP si sta esponendo molto proprio perché sta riuscendo a documentare con elementi probatori e giuridici le violazioni ai diritti umani delle multinazionali. Nelle carceri ci sono 8.500 persone detenute illegalmente. Con Santos pare esserci più dialogo, ma di fatto la linea politica segue nel solco del predecessore e la pressione militare continua: assistiamo ad una implementazione del paramilitarismo – in particolare nel Chocò – e ad una sua istituzionalizzazione per un maggiore controllo sociale e militare dei territori. Aumenta la violenza sociopolitica, col pretesto della lotta alla guerriglia. In verità, è tutto in nome della sicurezza per gli investitori stranieri, mentre il 20% dei colombiani sono poveri, 8 milioni sono in condizione di miseria, l’accesso all’acqua potabile è un lusso».

La politica economica dell’Unione Europea, l’accettazione del TLC (Trattato di libero Commercio), quanto incide nella situazione dei diritti umani colombiani e sulla difesa delle zone di biodiversità?
«La crisi energetica dell’Europa ha oggi un motto: “consumiamo verde”. Che in Colombia si trasforma in “produciamo verde”, nel senso della coltivazione di biodiesel ed agrocombustibili come l’olio di palma. Questo significa sfollamenti forzati, confisca delle terre alle popolazioni originarie, paramilitarismo. Oltre che la distruzione di aree d’interesse forestale e di biodiversità».

Quali sono le vostre vittorie?
«Le zone umanitarie funzionano (zone che JyP fa riconoscere e struttura perché siano prive di militarizzazione, ndr), e stiamo riuscendo a fare ottenere la consulta previa a molte comunità indigene.
E la gente ha voglia di lottare, non molla. Due milioni di contadini stanno affrontando un processo per ottenere la restituzione delle loro terre. Su quello abbiamo meno speranza: la politica estrattivista delle società minerarie, sostenuta dal governo, non guarda in faccia nessuno».

Che chiedete e che sperate?
«Per noi non può esserci soluzione militare al conflitto colombiano. E noi non perdiamo la speranza. Quando ci minacciano, penso ai miei figli. Ma poi penso che sto facendo questo anche per loro. È il rischio di lottare per la democrazia. E per un sistema e per un mondo che così, non possono andare avanti».

                                    Francesca Caprini

Francesca Caprini




«Attento uomo bianco, la Terra si ribellerà»

L’epopea degli U’wa

In questo mese si è svolto – a Cancun, in Messico – un nuovo vertice sul clima. Risuonano di nuovo gli allarmi – ipersfruttamento, insostenibilità -, ma nessuno si muove con atti concreti. Paesi ricchi e paesi in via di sviluppo non sembrano rendersi conto della situazione. La consapevolezza pare maggiore in popolazioni marginali, come quelle indigene. Come gli u’wa della Colombia.
A 10 anni da un nostro dossier, Missioni Consolata torna ad occuparsi di questo popolo: poche migliaia di individui la cui sopravvivenza è – simbioticamente – legata alla Terra. Storia di una piccola grande lotta dall’alto valore simbolico.

In molti luoghi della Terra sono evidenti i disastri connessi al «cambio climatico» ed il messaggio è chiaro: il Pianeta non regge più. Fino ad oggi in cima alla piramide è stata seduta Sua maestà il petrolio, reggente di un sistema economico mondiale, che si trascina dietro una scia di sangue, distruzione ambientale e militarismo. La Colombia ne è un esempio lampante.
Nonostante questo, invece di «cambiare il sistema, non il clima» (secondo lo slogan dei movimenti civili per il Forum di Cancun), si continua ad alimentare il pericoloso e perverso meccanismo attuale.
L’imbarazzante mancanza di volontà da parte delle potenze economiche di fronte all’aggravarsi del problema climatico si evidenzia nei fallimenti plateali dei grandi Vertici sul clima: il Cop 15 di Copenhagen, finito a scazzottate fuori e dentro i palazzi di vetro; il vertice di Cancun – Cop 16 (29 novembre- 10 dicembre 2010) – verso cui le zero aspettative sono più delle auspicate «zero emissioni». Tuttavia, mentre gli indici ambientali e di povertà mostrano l’insostenibilità del modello di sviluppo tuttora imperante, dalla martoriata Colombia ci arrivano insegnamenti ed esempi da imitare.
QUELLE STORIE CHE FANNO LA STORIA
Dieci anni fa si parlò molto – lo fece anche un dossier di Missioni Consolata – di un pugno di indigeni colombiani che a costo di suicidarsi collettivamente, aveva cercato di bloccare le trivellazioni petrolifere nel loro territorio.
Erano il popolo u’wa: 6.000 individui per 17 comunità, distribuite in un lembo di terra al confine col Venezuela, fra la Cordillera Orientale delle Ande ed Arauca.
Il territorio è per questi indigeni come un organismo vivente. Perforarlo è come violare il corpo della propria madre, un attentato alla sopravvivenza loro e del loro universo.
Minacciando di uccidersi tutti – e sostenuti da una campagna mediatica internazionale – erano riusciti a fermare, almeno momentaneamente, la costruzione di altri pozzi, dando uno schiaffo all’impresa petrolifera, la statunitense Occidental Petroleum Inc, ed una lezione al governo colombiano, restio ad applicare la Costituzione del ’91, che legiferava sui diritti delle popolazioni indigene e sulla salvaguardia dei loro territori ancestrali.
Gli u’wa avevano dimostrato per la prima volta che si poteva mettere in discussione un sistema. Con la loro battaglia estrema, avevano infiammato, dieci anni fa, il nostro immaginario.
Sono storie che fanno la Storia. Gesti che diventano simbolo, voce, coraggio. Ma disegnano anche soluzioni possibili.
Il lato «epico» di questa vicenda ha un’altra faccia più complessa e a tratti torbida, fatta di annunci, smentite, menzogne, e che ha tirato in ballo – in una lotta impari – avvocati, giuristi, ministeri, fino alla «Commissione interamericana dei Diritti umani», che già nel lontano ‘97 dava ragione agli u’wa. Una faccia che ha indiscutibilmente segnato un’epoca e che ha cambiato le prospettive delle popolazioni indigene latinoamericane, che pure continuano a versare in condizioni drammatiche. Una storia emblematica quella degli u’wa, perché dice basta ad un sistema irrazionale ed inumano che, assassinando le popolazioni originarie, distrugge la nostra memoria e, con essa, la nostra speranza.

IL DILEMMA DEL RAPPORTO UOMO-NATURA
Gli indigeni u’wa, la «gente che sa pensare», come decine di popolazioni originarie colombiane, hanno rischiato di sparire dalla faccia della Terra molte volte: prima per i conquistadores spagnoli; poi, per la evangelizzazione forzata che – negli anni ’50 – strappava i bambini alle famiglie indigene, e li obbligava alla rinuncia del proprio patrimonio culturale, condannandoli ad una vita spuria «né da indigeno, né da bianco»; infine, con l’arrivo delle multinazionali del petrolio, che in meno di vent’anni – fra gli anni Sessanta ed Ottanta – si sono appropriate dell’83% delle terre indigene colombiane. 
«Oxy no, u’wa sì!» era il motto delle manifestazioni della campagna internazionale «las culturas con principios no tienen precio» (le culture con principi non hanno prezzo) che dalla Colombia aveva raggiunto Stati Uniti, Canada, Europa, fino all’Italia. Negli anni, tale campagna è stata minimizzata in tutti i modi dagli organi governativi colombiani. Ma, come era stato in Bolivia con la guerra dell’acqua di Cochabamba nell’aprile del 2000, la lotta degli u’wa contro la Occidental Petroleum Inc. metteva apertamente in discussione un modello fino ad allora indiscutibile. Aveva creato piccole crepe da cui però era riuscita finalmente a filtrare una luce: quella di un’alternativa, di un nuovo mondo possibile.
Il caso del popolo u’wa, ben prima che a livello internazionale si parlasse di cambio climatico, aveva imposto agli occhi di chi vuole vedere il dilemma del rapporto uomo-natura: da una parte uno Stato violento, disposto a spazzare via un popolo pacifico per qualche mese in più di rifoimento petrolifero agli Stati Uniti; dall’altra, gli u’wa, che si immolavano, pur di salvare il loro territorio ancestrale.
Berito Kuwaria, sciamano u’wa premiato più volte per aver capeggiato la battaglia del suo popolo, continua a ripetere ovunque i suoi piedi scalzi e i suoi occhi ridenti lo riescano a portare: «Attento riowa: la Terra sta soffrendo e si ribellerà. La Madrecita (la piccola madre, ndr) inizierà a  sanguinare».
Sono passati dieci anni e gli u’wa –  dopo un ragionato silenzio – sono tornati a parlare: nuovi megaprogetti (si legga alle pagine 38-39) minacciano l’integrità loro e del loro territorio ancestrale. La campagna «le culture con principi non hanno prezzo» è stata riattivata, perché loro sono Kajkrasaq Ruyina, i «guardiani della Terra».
IL «SANGUE DELLA TERRA»
È il 28 aprile del 1995 quando il giornale colombiano El Nuevo Siglo titola: «Cinquemila indigeni minacciano di suicidarsi», e completa la notizia con la storia della rocca «del orgullo tunebo» o «de los Muertos». Si racconta che durante la colonizzazione spagnola, los tunebos – altro nome degli u’wa – si fossero buttati a migliaia da un precipizio, pur di non finire nelle mani dei conquistadores. Compresi i bambini piccoli, messi in recipienti di ceramica e gettati dall’alto, ed ovviamente il cacique, il capo del popolo, che ultimo a buttarsi, coronò una montagna di cadaveri tanto grande da cambiare anche il corso del fiume sottostante.
Che il Nuevo Siglo, giornale a tiratura nazionale, sia arrivato a parlare del popolo u’wa e dell’atto estremo che minacciava, vuole dire che il testa a testa fra indigeni, industrie del petrolio e governo colombiano è giunto ad un nodo cruciale.
La storia era iniziata nel ’92 quando la multinazionale Occidental Petroleum Inc. – conosciuta come Oxy – ottiene di affondare i denti nel territorio indigeno u’wa. La compagnia statunitense con sede a San Francisco da quasi dieci anni gode assieme alla British Petroleum della grande ricchezza petrolifera dei territori intatti della Colombia. A est del territorio u’wa, la Oxy dall’85 succhia oro nero dal grande bacino chiamato Caño Limon. Dagli u’wa arriva assieme alla anglo-olandese Shell: con quote azionarie del 37.5%, entrambe entrano in Ecopetrol, società pubblica appartenente al governo colombiano. La prospettiva è l’estrazione di un miliardo e mezzo di barili di petrolio. Il luogo individuato è il «Bloque Samoré».  Gli u’wa insorgono disperati: il petrolio è per loro «ruiria», sangue della terra, estrarlo sarebbe come sgozzare una creatura e condannarla ad una morte atroce: «Tagliereste mai la vena del collo a vostra madre?», chiedevano increduli i werkajà, i saggi del popolo che vivono ritirati nella foresta.  Samorè è poi un luogo adibito ai rituali.
Il governo colombiano convoca la prevista consulta previa, così come da articolo 330 della Costituzione: «Le popolazioni indigene hanno diritto a partecipare nelle decisioni di sfruttamento delle risorse naturali nei loro territori». Di fatto, è un escamotage utilizzato per raggirare gli indigeni, ed estorcere loro accordi.
Il 10 gennaio del ’95 una delegazione composta da rappresentanti del governo colombiano (la direttrice generale dell’assessorato agli affari indigeni, alcuni assessori e membri del ministero dell’ambiente e di quello dell’energia) e della Occidental Petroleum Corporation, incontra ufficialmente una delegazione u’wa.

UOMINI ANALFABETI E VESTITI DI STRACCI
L’incontro, secondo gli atti riportati anche dalla antropologa Margarita Serje, si svolge ad Arauca.
Ci piace immaginare la scena. Un manipolo di funzionari, eleganti e visibilmente accaldati sotto il sole cocente delle pianure, arrivano con le loro Jeep presso gli uffici municipali. Li attendono 44 indigeni, vestiti di stracci ma con il portamento fiero e le corone degli incontri importanti sulla testa. Tra loro i «werjayas», le massime autorità tradizionali, appoggiati ai loro bastoni. Stanno tutti in silenzio.
La consulta previa si svolge come previsto. C’è il presidente della Occidental Petroleum, Guimer Domínguez, che dice:  «Troveremo velocemente il modo di uscire da questa situazione». La sua impresa ha sedi in Colombia, Russia e Pakistan.
Si sbaglia: analfabeti ma tutt’altro che sprovveduti, i 44 rappresentanti aborigeni  rifiutano di firmare qualsiasi accordo. Non si fidano delle parole dell’uomo bianco: quasi sempre menzognere. Fra il ‘93 ed il ’94, la Oxy si era preoccupata – vista la rigida Costituzione colombiana – di organizzare 33 incontri «previ», ma con singole persone u’wa. Con spregio delle autorità tradizionali religiose e dell’apparato politico con cui sono organizzate le comunità.
Gli u’wa, consci delle possibilità infime di poter vincere un simile confronto, passano all’azione. Con molta dignità, minacciano il suicidio: «Fino a che un ultimo u’wa vivrà, combatterà per la salvezza della Madre Terra», dicono. Avvocati amici, attivisti si schierarono apertamente al loro fianco. Parte una campagna internazionale che agglomera rabbia e speranza di tanti. Assieme, inizia la causa per frode che vede gli u’wa contro la Oxy. E succede il miracolo: la Corte costituzionale colombiana dà ragione agli u’wa. Che si appellano alla «Commissione interamericana per i Diritti umani». Inizia un balletto di carte, sentenze, ammissioni e ritrattazioni. Le multinazionali lasciano il Blocco Samorè. Ma non è finita.

ELICOTTERI, LACRIMOGENI,
CINGOLI DI METALLO E SCARPONI MILITARI
Nel 2000 il Dipartimento di stato statunitense stanzia 1,6 milioni di dollari per armare le forze dell’ordine, che addestreranno quelle colombiane. La mattina del 19 gennaio, il governo colombiano entra con l’esercito nel territorio u’wa. Qualche giorno dopo, sferra l’attacco: 5.000 soldati sono mandati a fronteggiare 5.000 indigeni seminudi e disarmati, mentre la Occidental avanza con le sue ruspe verso il Gibraltar 1, un pozzo fatto scavare a poche centinaia di metri dai confini del territorio u’wa. È un macello. Una bambina di quattro mesi muore asfissiata dai gas lacrimogeni, 3 ragazzini annegano nel Rio Cubucòn mentre fuggono da un attacco stile Apocalyps Now, con elicotteri e lacrimogeni. Undici guahibos, indigeni giunti in appoggio alla causa degli u’wa, spariscono nel nulla, così come una neonata, strappata dalle mani della giovane madre mentre viene arrestata. L’esercito circonda i villaggi e sequestra i werjayà portandoli via con gli elicotteri: «O fate passare i macchinari per le trivellazioni, o non rivedrete più i vostri sacerdoti». Il cordone umano di uomini e donne – soprattutto donne – che si era formato per bloccare la strada alle trivelle, deve aprirsi. Cala il silenzio. Solo il suono della Natura mortificata sotto i cingoli di metallo e gli scarponi militari.
Le donne non piangono. Fissano i soldati negli occhi. Una di quelle donne è Daris Maria Cristancho.

Francesca Caprini

Francesca Caprini




Cana (17) Simbologia del terzo giorno

Il racconto delle nozze di cana (17)

Abbiamo ripetuto tante volte che l’espressione «terzo giorno» con cui inizia il racconto di Cana corrisponde al «sesto giorno» del Sinai, giorno della consegna della Toràh ad Israele e tramite Israele a tutti i popoli. Il valore del numero «6» è importante nella Bibbia e nel vangelo di Giovanni per cui ne diamo qualche indicazione essenziale.

Perfezione imperfetta del n. «6»
Nel giardino di Eden, Àdam è creato nel giorno sesto: «Dio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza … E Dio creò l’uomo a sua immagine …”. E fu sera e fu mattina: sesto giorno» (Gen 1,26.27.31). Il giorno «6» è dunque il giorno dell’uomo, dell’umanità. Secondo il criterio biblico, il giorno «6» è calcolato in rapporto al giorno della pienezza e della totalità che è il giorno «7», giorno in cui «tutto è compiuto» e Dio si riposa: da questo punto di vista il giorno dell’uomo è «7 – 1 = 6». Se il giorno sesto è il giorno della pienezza dell’umanità, esso però è inferiore alla totalità divina, espressa nel «giorno settimo» perché giorno della perfezione di Dio meno qualcosa. L’uomo non può mai competere con Dio perché sono somiglianti, ma non sono sullo stesso piano: creatore e creatura, ma non «amiconi». Il giorno «6» tende, cammina, è indirizzato naturalmente al «giorno 7°» che è il suo fine e il suo approdo. Il compimento dell’uomo è Dio che si esprime nella pienezza di se stesso e attrae a sé l’uomo per sua natura per dare senso al bisogno di «compimento/pienezza» a cui l’uomo aspira.
Il numero «sei» quindi è il numero della perfezione imperfetta del mondo creato e dell’uomo che del creato è il vertice cosciente per questo è anche l’inizio del genere umano, perché nel giorno «6» l’umanità nasce e si rapporta con se stesso (Eva), con le creature (animali) e con le cose (terra). È l’idea di generazione e di origine, come spiega Filone di Alessandria (sec. I d.C.) nelle sue opere (De opificio mundi, 13-14 e Legum Allegoriae I,3; De Specialibus Legibus II,58; A. Serra, «Vi erano là sei giare…» in Nato da Donna 145-147).
Alla nostra mentalità occidentale il ragionamento di Filone potrebbe non interessare o apparire troppo contorto, eppure se vogliamo capire la Bibbia dobbiamo percorrere questi sentirneri che ci portano alla comprensione di mondi nuovi e modi diversi di lettura. Secondo Filone, dopo il numero «1» che è l’unità iniziale e quindi ha un valore a se stante, il numero «6» è il primo numero perfetto;  infatti se si scompone il «6» si ha: la metà che è 3; un terzo che è 2 e un sesto che è 1. Ne consegue che il «6» è uguale alla somma della sua metà (3), del terzo (2) e del sesto (1): 6 = 3+2+1. Lo stesso pensiero sviluppa sant’Agostino nel sec. V d.C., segno che questo approccio con la Scrittura è rimasto costante nella Chiesa dei primi secoli:
«A causa della perfezione del numero 6 si narra nella Scrittura che queste opere sono state condotte a perfezione in 6 giorni che sono il medesimo giorno ripetuto 6 volte. La ragione non è che a Dio fosse necessario uno spazio di tempo […]. La ragione è invece che mediante il 6 è stata indicata la perfezione del creato. Il numero 6 infatti è il primo ad essere compiuto dalle proprie parti, cioè la sesta, la terza parte e la metà, che sono l’uno, il due e il tre e che addizionati danno il 6 […]. E in esso Dio ha compiuto le sue opere. E per questo non si deve trascurare il significato aritmetico. A chi riflette con attenzione appare evidente quale valore abbia in molti passi della sacra Scrittura. Non per caso è stato detto a lode di Dio: Hai disposto tutte le cose nella misura, nel numero e nel peso» [Sap 11,21; cf Is 40,12; Gb 28,25] (Sant’Agostino, La città di Dio, XI,30).

Il n. «6» aspira al riposo del giorno
«settimo»
Il numero «6» è perfetto anche perché è il prodotto della moltiplicazione di 3 x 2 perché il 2 è il primo dei numeri pari e il 3 il primo dei numeri dispari. Una regola comunemente accettata presso i Giudei, compreso Filone, era la convinzione che i numeri dispari fossero numeri maschi e quindi buoni, mentre quelli pari fossero femmine e quindi cattivi  (cf E. Testa, Il simbolismo dei Giudei-Cristiani, 227). Il numero «6» contiene sia l’elemento maschile che quello femminile e quindi porta in dotazione il bene e il male. Ecco perché era conveniente che l’umanità fosse creata al «sesto giorno»: nascendo dall’accoppiamento tra maschio e femmina essa portava in sé il germe del bene e del male, intimamente mescolati come il grano alla zizzania della parabola evangelica (cf Mt 13,24-30).
Per questi motivi i kabalisti (cf Tiqouné Zohar 6) spiegano il motivo per cui la prima parola della Bibbia è «berešit – nel principio» (Gen 1,1). In ebraico è formata da «6» consonanti che essi dividono in due parole, giocando sulle assonanze con il verbo «barà – creò» e «shit» che richiama «shesh – sei» e quindi traducono: «creò il sei». Non solo, ma Dio crea l’universo e l’uomo in sei giorni. «Si comprende forse perché allora tutta la struttura del tempo ebraico è basata sull’esistenza di questo numero perfetto, il «6». Il mondo è creato in sei giorni. Poi segue lo Shabat. Lo schiavo lavora sei anni e il settimo acquista la libertà. Anche la terra può essere lavorata per sei anni, ma al settimo deve riposare (è la chemità). Il mondo creato durerà sei mila anni, e il settimo millennio inaugurerà il tempo messianico, ecc.» (M.A. Quaknin, Mystères de la kabbale, 361).
Donando la Toràh al «sesto giorno» (che come abbiamo visto corrisponde al «terzo» in base al computo complessivo, Dio consegna all’umanità il codice di discernimento, cioè la coscienza per decidere e scegliere tra bene e male, quella coscienza che Àdam ed Eva non seppero gestire. Ora la capacità di discernimento è contenuta entro i confini della «Legge» che non è una serie di norme da osservare o vietate, ma il binario di marcia verso il compimento del «settimo giorno», il giorno del riposo di Dio, cioè il giorno della perfetta somiglianza fallita nella creazione e ora rimandata nel contesto della storia. Sul numero «6» vi è una letteratura immensa sia nella letteratura apocrifa (cf P. Sacchi, Apocrifi dell’AT, vol. I, UTET, Torino 1981, 239-240; M. Erbetta, Apocrifi del NT. Vangeli I/2, Marietti, Torino 1981, 280-281) che nella patristica (cf p. es. Giustino, Dialogo con Trifone, 81, ecc.).

A Cana si riapre il tempo dell’amore
Nelle nozze di Cana, da una lato si precisa che è «il giorno terzo» che corrisponde al sesto della prima settimana di Gesù e dall’altro si mettono in bocca a Gesù le parole oscure che solo alla fine del vangelo troveranno luce e significato: «Non è ancora giunta la mia ora» (Gv 2,4). Gesù si trova nel «sesto giorno», il giorno dell’uomo e della storia, ma ancora non è giunto il suo «settimo giorno», il giorno del suo riposo nella morte donata come offerta pura di obbedienza al Padre che vuole che il mondo sia salvo (cf Gv 3,17). La pienezza cercata da Gesù è la sua immersione nella volontà del Padre (cf Lc 22,44), recuperando così la disobbedienza dei progenitori che al Padre avevano preferito le lusinghe del serpente (cf Gen 3).
Tutta questa simbologia serve a mettere in connessione stretta sia dal punto di vista teologico che emozionale il Sinai e la creazione, rapporto che Giovanni prolungherà con «il principio» dell’attività di Gesù, il nuovo Sinai da cui non scende più la Toràh di pietra, ma il Volto e il Nome del Padre (cf Gv 1,18).
Le nozze di Cana sono così l’ingresso in questo vortice di Presenza e di salvezza che Dio sparge a piene mani sul mondo, davanti al quale il Figlio è venuto a dichiarare aperti ancora una volta i termini dell’alleanza nuziale. Nulla è perduto perché ora Dio è di nuovo in mezzo al suo popolo per riprendere le fila di quella alleanza sinaitica che non può andare perduta, perché Dio è fedele a se stesso e alle sue promesse. Il patto di Dio è eterno e poiché ha sedotto Israele, lo ha sedotto per sempre; per questo a Cana si riaprono i giorni delle nozze e l’oscura cittadina della Galilea quasi pagana, diventa il nuovo monte Sinai, testimone di una nuova «manifestazione/rivelazione»: le nozze etee tra il Dio di Abramo e di Mosè e il popolo santo, qui rappresentato dalle giare di pietra e dalla Madre che vuole assaporare il gusto del vino nuovo del tempo del Messia.

Cana: il «principio» della nuova bellezza
Il Targum e il Midrash al Cantico dei Cantici (Tg 2,3.5; Ct R 2,3.2; 2,3.5; 8,5.1; TB Shabbat 88a) descrivono il Sinai come l’albero che produce mele, cioè le parole della Toràh che sono «desiderabili per acquistare saggezza» (Gen 3,6) e dolci al palato della Sposa/Israele (cf Ez 3,3). Anche lo pseudo Filone (Liber Antiquitatum Biblicarum 11,15 [SC 229, 124; 230, 113]) paragona l’albero della vita dell’Eden alla Toràh che Dio dona a Mosè sul Sinai. Nell’Eden Eva fu sedotta dal serpente e disobbedì al creatore, scoprendosi nuda nella sua opacità; al Sinai invece la sposa/Israele, si lascia sedurre solo dal suo Sposo/Dio e si veste dell’obbedienza alla sua Parola: «Quanto il Signore ha detto, noi faremo e obbediremo» (Es 19,8; 24,3.7). La bellezza perduta da Eva, la cui nudità deve essere coperta da pelli di animali morti (cf Gen 3,21) viene recuperata da Israele/Sposa che diventa «la più bella delle donne» (Ct 1,8; 5,9; 6,1).
Anche il vangelo di Giovanni dà importanza al numero «6»: nel capitolo 1 descrive la prima settimana di Gesù che culmina nel «sesto giorno», che corrisponde al «terzo giorno» quando avviene lo sposalizio di Cana (Gv 2,1). Nello stesso racconto al v. 6 troviamo «sei giare di pietra» che esamineremo a suo tempo; in Gv 4,6 l’incontro con la Samaritana avviene «circa l’ora sesta»; la stessa Samaritana ha avuto cinque mariti e il sesto «non è tuo marito»; a Betania, Maria sorella di Lazzaro e Marta compie l’unzione di Gesù con l’olio «sei giorni prima della Pasqua» (Gv 12,1); Gesù viene consegnato alla morte di croce «circa l’ora sesta» (Gv 19,14) e infine Gesù consegna lo Spirito, morendo nel «giorno della Parascève» (Gv 19,31), alla vigilia del sabato, cioè nel sesto giorno (cf Gv 19,31.42).
È evidente che Giovanni vuole inserire il «terzo giorno» di Cana all’interno di un tessuto simbolico che dia al fatto una dimensione nuova e nello stesso tempo molto più ampia di quanto non possa essere un semplice e banale matrimonio.
In tutti questi passaggi c’è un disegno interiore, una spiritualità intima che lega eventi e fatti lontani con un filo rosso invisibile, che lo Spirito Santo può condurre e interpretare, perché a noi giunga il sapore dell’evento per eccellenza, il «compimento» che non ha più bisogno di pienezza: il Lògos eterno che assume il volto, la voce e la vita di Gesù di Nàzaret, «l’uomo nuovo» di cui parla San Paolo venuto a pacificare i due popoli, l’ebraico e il greco (Ef 2,15; cf anche 4,24).
A Cana si compie definitivamente la tipologia tra Adamo e Cristo, nuovo Adamo (1Cor 15,45; 22) perché mentre il primo fu causa della distruzione della prima alleanza cosmica, il secondo invece ha invitato tutta l’umanità alle nozze nuove della nuova giustizia, quella che cerca il Regno di Dio che è già storia e promessa insieme.
[continua – 17]

Paolo Farinella

Paolo Farinella




I sogni ad alta voce

Teatro: scuola di integrazione e di pace

«A noi e alla maggior parte degli israeliani non importa vincere la guerra. C’importa vincere la pace!» dice Angelica Calò Livné; a tale scopo ha dato vita, nel 2002, a Beresheet la Shalom (in principio  la pace), fondazione che comprende una compagnia teatrale di giovani ebrei e mussulmani, cattolici e non credenti dell’Alta Galilea.

Incontrare Angelica Edna Calò Livné è sempre fonte di intensa emozione. In qualità di insegnante ho avuto modo di assistere con i miei studenti a due rappresentazioni del Teatro dell’Arcobaleno al Dal Verme di Milano; in seguito il mio Liceo ha avuto il privilegio di ospitarla per la rappresentazione di Beresheet e per un seminario sulle tecniche teatrali destinate a favorire l’accoglienza reciproca. Ogni volta sono rimasta incantata dalla sua personalità prorompente, dalla passione con cui persegue la sua missione di educatrice, dall’amore per la sua famiglia e per i suoi figli «adottivi» del Teatro.
L’ho rivista il 12 settembre 2010; di passaggio per Milano, è riuscita a trovare alcune ore per incontrare un gruppo di ragazzi della parrocchia di San Giovanni Battista alla Bicocca, che aveva trascorso quindici giorni in Terra Santa, nell’intento di ascoltare le loro esperienze e offrire con la sua testimonianza una conoscenza più completa e articolata di Israele.

Da Roma al kibbutz in Galilea
Angelica ha iniziato a parlare ricordando la sua esperienza di ebrea romana, che ha vissuto l’adolescenza sul «confine», tra ebrei e cristiani, tra ebrei osservanti ed ebrei di ideali sionisti. A 20 anni ha preso la decisione di concretizzare quell’amore per Israele che condivideva con i genitori con una scelta di vita radicale: andare a vivere in kibbutz.
Così da 35 anni vive a Sasa, un kibbutz dell’Alta Galilea, nei pressi del confine libanese, nelle vicinanze del quale sorgono un villaggio druso, uno circasso, un villaggio di arabi prevalentemente cristiani, uno di arabi a maggioranza mussulmana.
Nel kibbutz, uno dei pochi che resistono alle trasformazioni in atto nella società israeliana, ha potuto dar corpo, insieme a suo marito Yehuda, alla sua passione per l’educazione e per il teatro.
Al tempo dell’intifada (1987) ha deciso di porre a servizio della pace la sua missione di educatrice e la sua esperienza di attrice e regista fondando nel 2002 il Teatro dell’Arcobaleno, il cui nome allude alla varietà di ragazzi che lo compongono, di etnia e religione diversa, ed evoca al tempo stesso il simbolo biblico per eccellenza della pace.
Ha ripercorso la storia di quella che è diventata nel frattempo una fondazione, la Fondazione Beresheet la Shalom (in principio la pace), intrecciando nel racconto le vicende del teatro, le difficoltà incontrate a livello economico-amministrativo, i momenti di scoraggiamento, ma anche gli aiuti inaspettati, i riconoscimenti ottenuti…, con la storia dei suoi ragazzi. Grazie a lei, essi hanno imparato il linguaggio universale dell’arte, ma soprattutto hanno imparato a conoscersi, ad accettarsi, al punto da sentirsi come appartenenti a una grande famiglia. Quando il tempo del teatro finisce e inizia quello dell’università e del lavoro per gli arabi e dell’esercito per gli ebrei, ricordano ad Angelica che sono e saranno sempre i suoi figli.

La storia di Mor
Due episodi in particolare sono impressi nella mia memoria. Il primo è legato alla storia di Mor, la ragazzina ebrea che, in vacanza in Kenya, si è trovata con i genitori e i fratelli nell’albergo di Mombasa oggetto nel 2002 di un terribile attentato.
Mor ha visto tutto l’orrore di quella strage e ha deciso di non frequentare più il teatro di Angelica: da quel momento ha odiato gli arabi. Angelica ha insistito perché almeno tornasse a salutare i suoi amici ebrei, Mor ha accettato.
Angelica ha preparato un’azione teatrale che aiutasse ad allentare la tensione che ognuno si portava nel cuore: era un’azione in cui ci si trovava imprigionati in scatole da cui progressivamente ci si doveva liberare. Al termine i ragazzi ad uno ad uno sono saliti sul palcoscenico a parlare di sé, delle proprie «prigioni»: Mor ha ascoltato in silenzio, poi, a sua volta è salita sul palcoscenico e ha dato sfogo a tutto ciò che ha visto, le macerie, il sangue, i corpi mutilati…
A quel punto Sharif, ragazzo arabo cristiano, le si è avvicinato e le ha chiesto di poterla abbracciare: tutti hanno seguito il suo esempio creando intorno a Mor un abbraccio di solidarietà e amore. Mor non è più partita.

Siamo tutti in barella
L’altro episodio ha riguardato un gruppo di studenti di una scuola professionale romana, poco motivati e assai indisciplinati, per i quali Angelica ha accettato di organizzare in Israele una settimana di approfondimento della cucina multietnica mediorientale. I ragazzi hanno partecipato con estrema attenzione e inaspettato senso di responsabilità, facendo amicizia con i ragazzi del Teatro dell’Arcobaleno.
Il momento culminante è stato quello in cui Yotam, uno dei quattro figli di Angelica, che era in quel periodo nell’esercito, ha letto la poesia di Erri De Luca, «Considero valore», e ha chiesto un tempo di silenzio, dopo il quale ha invitato tutti i ragazzi a esprimere a loro volta quello che per loro era il valore più importante.
È stato emozionante ascoltare quei ragazzi, spesso conosciuti soprattutto per le loro trasgressioni, parlare di amicizia, affetti familiari, solidarietà…
Un rappresentante dell’amministrazione comunale di Roma, che accompagnava gli studenti e che aveva sempre espresso la sua simpatia per la causa palestinese, ha chiesto a Yotam come mai un giovane come lui, così dolce e sensibile, non facesse l’obiettore di coscienza.
Yotam ha risposto raccontando quello che ha chiamato l’aneddoto della barella: «Nell’esercito quattro soldati portano sulle spalle una barella e devono marciare per molti chilometri sotto un sole cocente in territori impervi, seguiti da una lunga fila di soldati. Quando il dolore alla spalla si fa insostenibile il soldato alza una mano e dalle fila retrostanti uno prende il suo posto. Il ferito – dice Yotam – che viene portato sulle spalle è il popolo ebraico, in Israele e nel mondo, ma siete anche un po’ tutti voi minacciati dal terrorismo internazionale… Io devo essere pronto a sostituire chi è in difficoltà».
L’assessore al termine del soggiorno affermò di continuare ad avere a cuore la causa palestinese, ma ammise anche di capire Israele.
Angelica non avrebbe voluto che i suoi figli fossero costretti a indossare la divisa; fin da quando era in attesa del primogenito si augurava che non gli toccasse questa sorte e continua a sperarlo per Or, il figlio minore. Vorrebbe per loro e per tutti i ragazzi di Israele, ebrei e arabi, un destino di pace, di armonia, senza kamikaze, senza missili, senza muri.
Proprio perché si realizzi questo sogno ha dato vita alla Fondazione che comprende, oltre al Teatro, Shalom Lecha Salaam Radio Program, un programma radiofonico realizzato e condotto, insieme, da ragazzi israeliani arabi ed ebrei; il Progetto Comuna, che prevede un anno di servizio civile nella Fondazione; il Centro ecologico per la Pace e la Squadra di calcio United Colours of Galilee…

Sognando ad alta voce
Secondo la mistica ebraica un sogno pronunciato a voce alta è destinato ad avverarsi, perciò Angelica continua a sperare e a lottare con determinazione.
Mentre parlava sulla parete scorrevano le immagini di un documentario che proponeva un’intervista ad Angelica, ai suoi ragazzi e immagini di Beresheet, lo spettacolo diventato il simbolo del Teatro dell’Arcobaleno.
Si vedevano i ragazzi entrare in scena indossando abiti bianchi e una maschera: mimavano la condizione dell’umanità, vittima dell’ignoranza e della paura, che gradualmente scopre la sua identità. I ragazzi si liberavano così delle maschere, degli abiti tutti uguali, ma dall’identità ritrovata nasceva il desiderio di prevaricazione su chi ora, senza maschera, appariva «altro, diverso, nemico». Poi faticosamente emergeva la scoperta della comune dimensione umana che affratella nella diversità.
Nella mia mente riemerge il ricordo di quando Beresheet è stato rappresentato nell’auditorium del mio liceo. La rappresentazione ebbe luogo l’8 maggio 2008 e fu particolarmente emozionante perché coincise con il 60° della fondazione di Israele.
Il pubblico seguiva attento, ritmava i canti, accendeva i cellulari illuminando di piccole stelle l’auditorium, si univa alla danza sul palcoscenico, applaudiva, mentre sullo sfondo scorrevano le immagini della vita del kibbutz e scorci di paesaggi e di città israeliane, dove vivono tutt’ora i ragazzi, incantando con la loro bellezza gli spettatori.
Al termine dello spettacolo i ragazzi del Teatro dell’Arcobaleno si sono rivolti al pubblico ponendo ai loro coetanei domande del genere: «Come ci immaginavate? Come ci aspettavate?» e se ciò che avevano visto aveva confermato o modificato le loro idee, i loro convincimenti.
Gli spetattori hanno ammesso  con gratitudine che dopo lo spettacolo avrebbero guardato a Israele con occhi e cuore diversi. Mentre i mass-media imponevano le immagini di un paese militarizzato e profondamente segnato dall’odio, dalla violenza, Angelica e i suoi ragazzi avevano fatto conoscere la vita di gente normale che sogna e lotta per la pace.
A dimostrarlo basterebbero queste parole di Ittay, 17 anni, ebreo: «Mio fratello è nell’esercito da diversi mesi; tutti i giorni penso a lui e alla guerra e faccio quello che posso per testimoniare che la pace è possibile»; così pure Saeed, 17 anni, mussulmano: «Lo spettacolo porta la pace nei cuori. Noi siamo un microcosmo di pace dentro un mondo di guerra. Tutti possono mettere un po’ di amore nelle proprie guerre quotidiane».

Spettatori: giù la maschera!
Beresheet rappresenta una storia di liberazione, di conoscenza di sé e di accettazione dell’altro, che ha una valenza universale e al tempo stesso anche ciò che Angelica realizza con il Teatro dell’Arcobaleno educando a combattere il pregiudizio, a scoprire la bellezza e la ricchezza del vivere con l’«altro».
Ma l’azione teatrale diventa vera ed efficace anche nel momento stesso della sua rappresentazione, coinvolgendo il pubblico a cui si toglie la maschera di una conoscenza approssimativa, deformata da stereotipi e informazioni parziali…

Ballando la pace
Angelica è tornata nel nostro liceo anche nell’ottobre 2009 per incontrare un gruppo di studenti e far conoscere la sua tecnica teatrale. Così quell’incontro rivive nelle parole di Giulia: «Angelica ha voluto fare con noi lo stesso lavoro e le stesse attività che fa con i “suoi” ragazzi in Israele. E così ci siamo ritrovati a ballare e a fare giochi con ragazzi/e di altre classi, che non conoscevamo e di cui soltanto dopo abbiamo conosciuto i nomi e le origini.
Nella seconda parte dell’incontro, dopo essere stati divisi in gruppi, abbiamo preparato delle piccole scene mute, dalle quali però doveva trasparire il concetto di amicizia o di conflitto e riappacificazione. Il fatto più strano è che Angelica, pur non conoscendoci, è riuscita a metterci a nostro agio. Non mi era mai capitato di ballare o recitare davanti e con persone sconosciute, soprattutto in un’aula di scuola con i professori presenti.
In sostanza Angelica è riuscita a unire e a far divertire dei ragazzi di classi diverse, che probabilmente non si sarebbero mai incontrati e conosciuti altrimenti. Quindi è riuscita nel suo intento, perché ha ricreato una situazione simile a quella che vive tutti i giorni in Israele e ha dimostrato come attraverso il teatro e l’arte si possano costruire incontri e gettare le basi di un dialogo duraturo».
E Giovanni aggiunge a sua volta: «Quando Angelica, trafelata, è arrivata nell’aula predisposta, ha fatto spazio spingendo le sedie contro una parete, ha acceso la musica e ha detto: “Iniziamo a muoverci!”. Tutti si sono pietrificati. Pian piano, un arto alla volta, abbiamo iniziato a scioglierci. Ho visto persone, che consideravo da anni dei timidi cronici, ballare e saltare per la stanza e ragazzi sconosciuti svelare volti nascosti e inimmaginabili.
Definire questa esperienza “teatro” è esagerato. Non si diventa attori in due ore scarse di laboratorio e improvvisazione; un termine più corretto sarebbe “esperienza di socializzazione”. Alla fine dell’incontro erano tutti rilassati e sorridenti, ci siamo salutati come vecchi conoscenti e un mio compagno di classe mi ha detto ridendo: “Oggi ci siamo fatti un bel po’ di nuovi amici!”.
È stato un incontro interessante e utile, da riproporre. Non trovo per nulla strano che con questi “giochi” e musiche senza parole si possano unire popoli lontani e nemici come palestinesi e israeliani».
Ora Angelica sta allestendo uno spettacolo sui diritti dei minori, ispirato all’opera di Janus Korczak, il medico polacco di origine ebraica, estensore della carta dei diritti del bambino, morto a Treblinka insieme ai 200 bambini e ragazzi del ghetto di Varsavia che non aveva voluto abbandonare.

Per maggiori informazioni vedi il sito: www.masksoff.org

Maria Teresa Maglioni

Maria Teresa Maglionii




Il grande vuoto

Maghreb: il lungo braccio di Al Qaeda

Il Sahara è sempre stato il «paese di nessuno». Oggi vi fioriscono traffici illegali di armi, droga e migranti. I gruppi terroristi legati ad Al Qaeda hanno iniziato ad essere attivi tre anni fa. Rapiscono gli stranieri creando il «vuoto». Le cancellerie occidentali abbassano la «linea rossa» di sicurezza, i turisti cambiano destinazioni e le Ong si ritirano. Le popolazioni sono abbandonate. Intanto i tuareg, vogliono prendere le armi, per cacciare questa minaccia dai loro territori.

A Gao, città del nord del Mali, conobbi un doganiere, approdato da poco alla pensione, che per gran parte della sua vita aveva prestato servizio nelle zone di frontiera tra Mali, Niger e Algeria. Affascinato dalla personalità di quell’uomo, gli chiesi quante fossero, a suo avviso, le persone che ogni giorno perdono la vita nel tentativo di attraversare il re dei deserti, il Sahara, abbandonate da qualche passeur senza scrupoli, che li avrebbe dovuti condurre verso le sponde del Mediterraneo. Il doganiere mi disse in modo perentorio: «Figlio mio, solo gli avvoltorni ti possono rispondere». Questa affermazione ci permette di capire l’impotenza di uno Stato come il Mali nell’amministrare, controllare e difendere un territorio desertico così vasto: solo il Nord del paese copre una superficie grande quasi tre volte l’Italia.
Il Sahara dell’Africa Occidentale è un’area di circa 4.000.000 di chilometri quadrati e comprende la Mauritania, il Nord del Mali e del Burkina Faso, il Niger ed il Sud dell’Algeria. Terra ancestrale di popolazioni nomadi come i tuareg e i peulh, suddivisa geometricamente a tavolino dai coloni, oggi questa immensa fascia desertica, più che al fascino delle carovane del sale, si presta a traffici illeciti come quello della droga, delle armi, dell’emigrazione clandestina e al dilagare del terrorismo.
È in questa terra di nessuno, lontano da ogni forma di controllo possibile che Al Qaeda per il Maghreb Islamico (Aqmi), da ormai quasi tre anni, sta seminando il terrore nelle popolazioni locali e nelle comunità di stranieri, per lo più cooperanti e impiegati di società minerarie, che abitano e frequentano quelle zone.

Ma chi è Aqmi?
Qualche esperto di geopolitica, come Jeremy Keenan, sostiene che Aqmi sia stata creata ad arte dai servizi segreti americani e algerini ai fini di destabilizzare una zona ancora tutto sommato stabile, come l’Africa Occidentale. L’obiettivo sarebbe potee giustificare la militarizzazione e di conseguenza il controllo totale (risorse del sottosuolo comprese). Altri sostengono che si tratti di cellule terroristiche salafiste, formate alla guerriglia in Afghanistan o in alcune aree dell’Africa, come in Somalia. Queste vogliono estendere il raggio d’azione di Al Qaeda in zone in cui ci sono forti interessi occidentali, approfittando del fatto che questi si scontrano spesso con quelli delle popolazioni.
Alcuni leader locali si dichiarano «confusi» e affermano che oggi all’interno di queste zone «vedono installarsi dei predicatori, alcuni originari del Pakistan, venuti per insegnare il salafismo (corrente nell’Islam che promuove il ritorno alle origini, alla purezza della religione, senza contaminazioni, ndr.). Le prediche sono seguite da costruzioni di pozzi, aiuti alle popolazioni e naturalmente dall’edificazione di moschee». Mentre altri pensano: «Non sono terroristi, ma leggono e strumentalizzano l’Islam a fini politici».
Se pochi anni fa i combattenti di Aqmi erano circa un centinaio, oggi le stime parlano di oltre  mille unità, mentre nuove cellule nascono ovunque.
I governi dei paesi del Sahara ostentano coesione e dichiarano al mondo di volersi unire nella lotta contro il terrorismo, che non fa che peggiorare le già precarie condizioni di vita delle loro popolazioni.
Il 30 settembre scorso ad Algeri, i responsabili degli eserciti di Niger, Mauritania, Mali e Algeria hanno creato un centro unificato di servizi segreti, allo scopo di contrastare il terrorismo nel Sahel. Costituito da alti ufficiali dei quattro paesi, il centro servirà per lo scambio di informazioni «sulle attività dei gruppi terroristi nella regione, la loro creazione e gli spostamenti».  Il centro sarà il braccio operativo del Consiglio dello stato maggiore regionale che già collega gli eserciti e la sua direzione verrà assegnata a rotazione.

La strategia di Aqmi
Intanto alcuni rappresentanti della società civile iniziano a denunciare con forza la presunta collusione tra poteri centrali, in particolare forze armate e polizia, con i terroristi. I militanti di Aqmi mirano infatti ad esercitare il controllo in stile mafioso, basato sulla complicità e sul racket, su queste zone in cui i traffici illegali generano interessi colossali per tutti, tranne che per le popolazioni, che pagano a duro prezzo la destabilizzazione socio-politica delle regioni in cui abitano.
I gruppi di Aqmi minacciano gli stranieri nelle aree dell’immediato Sud del Sahara, il Sahel, che siano essi operatori delle Ong o impiegati delle multinazionali minerarie. Cercano così di scoraggiae la presenza, per isolare la regione e trasformarla nella nuova roccaforte del terrorismo islamico. Nel momento in cui scriviamo sono sette gli ostaggi (cinque occidentali e due africani) in mano al movimento terrorista, imprigionati in qualche anfratto delle colline rocciose del Nord del Mali. Rapiti a metà settembre nei pressi di Arlit (Nord Niger), sono dipendenti di Areva, il gigante francese del nucleare civile. Areva ha grossi interessi nelle miniere di uranio in Niger.
Intanto le Ong, che per deontologia devono essere vicine alle popolazioni più bisognose, si trovano di fronte a scelte difficili. Da una parte lasciare sole le comunità di queste zone, tra le più povere e depresse del mondo, significa condannarle alla miseria assoluta. D’altra parte non possono esporre fisicamente il loro personale, straniero o locale, ai rischi dell’insicurezza.
Anche i finanziatori principali dei progetti di cooperazione stanno riducendo gli investimenti in quelle zone, poiché non sussistono le condizioni minime necessarie per le realizzazioni. E mentre i turisti non si vedono più da tempo e le Ong abbandonano quelle aree, le forze militari francesi e americane s’installano, in barba alla sovranità dei paesi ospiti. Il pretesto è garantire l’incolumità degli europei che continuano a lavorare nel campo dell’estrazione delle materie prime (petrolio, uranio, oro, ecc.), attività che non hanno subito nessun rallentamento.

L’economia locale a picco
Le condizioni d’insicurezza, gli allarmismi delle ambasciate europee in Africa e la grande enfasi mediatica data agli atti di terrorismo, hanno fatto crollare il già precario turismo nei paesi dell’Africa Occidentale. La drastica riduzione dei viaggiatori in Mali, una delle mete preferite del continente africano per la sua varietà paesaggistica e culturale, ha piegato l’economia di intere comunità che avevano investito nel turismo integrato su scala famigliare (guide, autisti, albergatori, artigiani). Stessa sorte per Niger e Mauritania.  Quest’ultima ha investito negli ultimi anni denaro pubblico e privato nella promozione del turismo d’avventura. Point Afrique, la storica compagnia aerea che effettua voli charter nella zona saheliana, ha annullato sei destinazioni su sette, licenziando l’80% del personale africano con evidenti ulteriori ricadute sull’economia locale legata all’indotto del turismo.
Una crisi economica che non fa altro che giovare ad Aqmi, pronta a radicarsi in contesti nei quali la povertà diventa disperazione.
Cosa ancora più grave: i gruppi di Al Qaeda hanno una strategia subdola, quella di reclutare persone, soprattutto giovani, che per un motivo o per l’altro hanno fallito il loro percorso di emigrazione verso l’Europa. Questi, oltre ad essere senza lavoro nutrono un senso di rancore nei confronti del mondo occidentale. Spinti dalla disperazione ed arenati in qualche città del Sahel, si vendono per pochi dollari ad Aqmi, per compiere atti di manovalanza criminale nei confronti degli occidentali: dal furto di auto, alle rapine armate, fino ad arrivare al sostegno logistico alle incursioni finalizzate al sequestro di persone.

Cosa dicono i popoli del deserto
L’attivismo terroristico delle cellule di Aqmi nel Sahara, ha portato in secondo piano la questione dei tuareg, minorità etnica che da anni lotta per l’autodeterminazione, cercando di preservare il proprio stile di vita ancestrale nomade. Popolo che gli Stati «modei» vorrebbero rendere sedentario per poterlo meglio amministrare. I capi tribù e rappresentanti della società civile tuareg del Mali si stanno organizzando per incontrare i responsabili di alcuni gruppi di salafisti di Aqmi, allo scopo di chiedere loro di tornare al Nord del Sahara e lasciarli abitare liberamente la terra dei loro antenati.
Se la maggior parte della popolazione tuareg non ha nessuna complicità con i terroristi e neppure attrazione ideologica per il fanatismo religioso, è pur vero che alcuni giovani si sono venduti ad Al Qaeda. Durante il recente attacco che l’esercito mauritano ha perpetrato nel Nord del Mali contro gruppi armati (19 settembre), sono stati uccisi quattro uomini tuareg che ne facevano parte. Ed è proprio verso i giovani di questa etnia che si rivolgono i terroristi. Partecipare ad un’azione di banditismo e contribuire al sequestro di una persona fornisce loro in qualche giorno un guadagno pari a 10 anni di stipendio.
Per questo motivo Ibrahim Ag Bahanga (ex leader della ribellione tuareg) e altri responsabili, da diverse settimane hanno lanciato una sensibilizzazione dei giovani della loro etnia, affinché non si integrino nelle bande di Aqmi. Ma vanno oltre e vogliono dare una risposta armata ai terroristi e ai trafficanti di droga, per riprendere il controllo del loro territorio ancestrale.
Questione delicata, se si pensa che fino a due anni fa i tuareg del Mali e del Niger erano in ribellione contro i rispettivi governi.
La destabilizzazione del Sahel ad opera dei gruppi armati legati ad Al Qaeda facilita la presenza militare occidentale in zone ad elevata concentrazione di materie prime. Al contrario, la popolazione si vede privata del turismo e degli investimenti delle Ong, le uniche due risorse utili ad alimentare un’economia già molto fragile.

Marco Alban e Marco Bello

Marco Alban e Marco Bello