Prigione a cielo aperto

Gaza: 10 giorni dopo il cessate il fuoco

Una campagna militare, presentata all’opinione mondiale come operazione di «legittima difesa», in 22 giorni di bombardamenti aerei e incursioni di carri armati ha ridotto la Striscia di Gaza a un cumulo di macerie, distruggendo case, scuole, alberghi, ospedali e altre infrastrutture, provocando soprattutto morti, feriti e profughi, riducendo la popolazione palestinese alla miseria più nera, senza tuttavia cancellae la dignità e la voglia di ricostruire il proprio futuro, in attesa della pace.

R afah, 28 gennaio 2009. Dopo un viaggio di diverse ore lungo la costa settentrionale del Sinai, arriviamo al valico egiziano. La guerra israeliana contro la popolatissima Striscia è terminata il 18 e l’Egitto ha riaperto, con il contagocce, il passaggio. Ne approfittiamo per presentarci alle autorità egiziane di confine, che, da quasi tre anni, contribuiscono all’assedio di Gaza.
Ci disponiamo ad attendere diverse ore, in coda all’ufficio passaporti, in compagnia di decine di altre persone: un simpatico e creativo gruppo di ingegneri egiziani con tanto di elmetto giallo, due parlamentari marocchini, attivisti greci e feriti palestinesi di ritorno dagli ospedali del Cairo.
Mentre aspettiamo più o meno pazientemente, osserviamo alcuni ragazzi con arti ingessati o amputati. Sono stati feriti dalle bombe lanciate da Israele, poche settimane prima, durante l’operazione «Piombo fuso»: dal 27 dicembre al 18 gennaio.
Storie di umanità ferita
Hamid ha 30 anni, ma ne dimostra molti di meno. Ha passato diversi giorni in un ospedale del Cairo, dove è stato sottoposto a quattro interventi. Ci indica le ferite: sono sparse in tutto il corpo. È un giovane padre di famiglia, residente a Beit Lahiya, nel nord della Striscia: è uno delle centinaia e centinaia di «terroristi» che Israele ha fatto a pezzi. La sua colpa, infatti, è stata quella di uscire in strada, una mattina – il primo giorno di invasione di terra israeliana – per comprare un po’ di dolci ai figlioletti terrorizzati dai bombardamenti nottui. Mentre era al supermercato, un missile dell’aviazione si è abbattuto su di lui e su altri cittadini, uccidendone sei. Lui si è salvato, ma è rimasto gravemente ferito.
Thaer ha 18 anni e anche lui viene da Beit Lahia. I medici egiziani gli hanno amputato una gamba, spappolata dai cannoni dell’artiglieria israeliana. Pure lui, a quanto pare, era un «terrorista», come le sue nove sorelle e il fratellino disabile. La loro casa era stata rasa al suolo 25 giorni prima. Suo papà lo guarda con gli occhi pieni di lacrime, accarezzandogli il capo: «Grazie a Dio» ci dice. È l’unico figlio che gli è rimasto…
Dopo un numero interminabile di ore, un solerte ufficiale ci spiega che non potremo procedere verso i Territori palestinesi. Nonostante le lettere di «remissione di responsabilità» rilasciateci dalla Faesina e dall’ambasciata italiana al Cairo, necessarie per recarci a Gaza, ci manca ancora qualcosa: una presentazione ufficiale dei dirigenti dell’Ordine dei giornalisti d’Egitto.
Nonostante i proclami di fratellanza e solidarietà con una popolazione stremata da quasi 3 anni di embargo e 22 giorni di attacchi da cielo, terra e mare, le autorità del Cairo permettono solo raramente l’entrata e l’uscita dalla Striscia. A nord e a est, ci pensa Israele a sigillare gli altri valichi.
Ci ripresentiamo il giorno successivo con la lettera dei colleghi egiziani, determinati a passare. Con noi valicheranno il confine ingegneri giordani, palestinesi feriti, diversi medici e altri giornalisti.
L’armageddon
La Rafah palestinese ci appare in tutta la sua devastazione: case rase al suolo dai missili e carri armati israeliani, campi spianati dai bulldozer. «Hanno fatto un deserto di macerie e distruzione e l’hanno chiamato “legittima difesa”» ci viene subito da pensare, parafrasando una celebre espressione.
Pochi chilometri più avanti, a Khan Younes, vedremo abitazioni, scuole, sedi della polizia cittadina, ufficio postale e altri luoghi pubblici ridotti a cumuli di detriti. In questa cittadina le vittime dei bombardamenti per niente selettivi di Israele sono state 120 e i feriti 150.
La Striscia di Gaza è larga 7 km e lunga poco più di 50. Percorrerla da sud a nord – Rafah, Khan Younes, Abasan, Deir al-Balah, al-Bureij, an-Nuseirat, Gaza City, Jabaliya, Beit Lahiyah – necessita di poche ore. Dovunque, ora, c’è morte e distruzione.
Nuseirat è dislocata nei pressi di Deir al-Balah, nella regione centrale: fermiamo l’auto davanti a una barriera di lamiera. C’è scritto: «Centro di polizia di Nuseirat»; ma di quella che fino a poche settimana fa era una caserma rimangono solo i blocchi di cemento fracassati dai missili israeliani e crollati sopra i poliziotti che vi prestavano servizio. I morti sono stati 70, tutti giovani fatti a pezzi dall’esplosione o schiacciati da pesanti lastroni.
«Missili contro covo di terroristi» hanno tuonato i nostri media. In realtà, si trattava degli omologhi dei nostri vigili urbani. Molti di loro, con ogni probabilità, non erano né di Hamas né di Fatah né di altri partiti.
Proseguiamo il viaggio dell’orrore lungo la strada Salah ed-Din, che collega l’intera, piccola, Striscia: a destra e a sinistra scorrono cittadine, campi profughi, terreni agricoli. Nulla è stato risparmiato dalla furia devastatrice dell’artiglieria e dell’aviazione israeliane: intere palazzine, edifici di 15-18 piani, aziende, serre, completamente distrutti. Sotto quei massi scagliati qua e là dalla forza delle bombe, i soccorritori hanno estratto intere famiglie massacrate. Cittadini comuni. Non terroristi. 
I crateri lasciati dai missili sono ovunque: nei villaggi, nei terreni, nelle strade.
Neanche le scuole sono state risparmiate. Entriamo nel cortile di un complesso scolastico costruito dall’Unrwa, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati. I bombardamenti hanno sventrato intere aule, distrutto edifici. I ragazzi ora fanno lezione all’aperto.
Ritorniamo a Khan Younes: siamo ospiti di un albergo della Mezzaluna Rossa palestinese. È un’ampia costruzione di nove piani, con centinaia di stanze, molte delle quali destinate a famiglie rimaste senza tetto.
Siamo subito colpiti da un particolare, banale e scontato in altre occasioni: nei bagni ci sono asciugamani puliti, sapone e shampoo confezionati. Come in un qualsiasi hotel. Solo che non siamo in un qualsiasi hotel, ma in una sorta di ostello per scampati ai bombardamenti. Ecco, questo sforzo di «normalità» e dignità nell’accoglienza ci commuove.
Questa fierezza, questa forza d’animo la noteremo continuamente, sia negli adulti sia nei bambini. «Andremo avanti – ci dicono – con l’aiuto di Dio». Forse proprio la determinazione e uno spirito indomito hanno permesso al popolo palestinese di sopravvivere a 60 anni di pulizia etnica.
Nella cittadina visitiamo un centro caritativo islamico, dove ogni giorno tantissime persone si recano a chiedere aiuto in denaro e in viveri. Sono circa 800 gli orfani assistiti e tantissime le famiglie indigenti che vengono sostenute. I responsabili dell’associazione, finanziata da organizzazioni arabe e occidentali, tra cui l’Associazione benefica di solidarietà con il popolo palestinese (Abspp) di Genova, ci mostrano le foto dei bimbi rimasti orfani e poi quelle dei loro genitori – papà o mamma – uccisi durante i quotidiani bombardamenti di Israele.
La Striscia di Gaza sopravvive grazie alla carità che giunge dall’estero. Qui, infatti, manca tutto: cibo, acqua, vestiario, medicine, libri, quadei, combustibile, materiale sanitario e per l’igiene e la pulizia. L’embargo israelo-internazionale e la chiusura di tutti i valichi di entrata e uscita l’hanno resa un immenso carcere a cielo aperto. A ciò si sono sommati gli «effetti collaterali» di «Piombo fuso», con i 1.366 morti e gli oltre 5.000 feriti, le migliaia e migliaia di edifici distrutti e i danni alla salute e all’ambiente provocati dalle armi di distruzione di massa usate dall’aviazione e dall’artiglieria di Israele.
Scelta «sbagliata» dei palestinesi
Ora la maggior parte dei palestinesi di Gaza è costretta a vivere di aiuti umanitari, ma prima non era così. In questa striscia di terra c’erano industrie alimentari e di abbigliamento, cementifici, aziende per la lavorazione del ferro, ditte di edilizia, distese di serre per le produzioni agricole, allevamento di bestiame. Non era certo la Svizzera, ma non c’erano la fame e la miseria attuali. La popolazione della Striscia, e del resto della Palestina, infatti, sta subendo una punizione collettiva, come è stata definita da inviati dell’Onu e personaggi inteazionali come Desmond Tutu e Jimmy Carter, per aver compiuto la scelta elettorale «sbagliata», durante le votazioni del 25 gennaio del 2006, le prime veramente democratiche e monitorate da osservatori inteazionali.
I palestinesi, in quell’occasione, diedero in massa il voto a Hamas, snobbando Fatah, ritenuta da molti corrotta e collaborazionista. Da lì, dall’esito di quella decisione presa dalla maggioranza assoluta di un popolo, è scaturito un disumano embargo e la chiusura di tutta la Striscia, e poi bombardamenti e morte.
Paradossalmente, quelle elezioni furono incoraggiate e sostenute proprio dall’Europa e dagli Stati Uniti, certi del fatto che avrebbe vinto il partito dell’amico Abu Mazen, il presidente dell’Autorità nazionale palestinese, e non il movimento di resistenza islamica. Questo è ciò che i palestinesi di Gaza rinfacciano a chiunque rivolga loro domande «politiche». È difficile riuscire a dimostrare il contrario, vista la storia degli ultimi tre anni.
Distruggere il futuro
Ciò che balza subito agli occhi, in qualsiasi cittadina o villaggio gazese, è la presenza di moltissimi bimbi, di tutte le età. Affollano le strade, i vicoli, i campi. I loro piedini nudi affondano nella sabbia e le manine sono protese a salutare. Si avvicinano fiduciosi e sorridenti. Si presentano. Vogliono conoscere i nostri nomi e poi, prima di tornare a giocare, con l’indice e il medio fanno il segno della vittoria.
Sono vivi, loro, ma hanno visto i loro cari, i vicini, gli amici dilaniati dalle bombe «intelligenti» di Israele. A livello psicologico, spiegano medici e psichiatri, il trauma li segnerà per sempre. Da grandi, la rabbia e il dolore impotente, che ora hanno il sopravvento, potranno trasformarli in violenti.
Nonostante si sforzino di dichiarare il contrario, i generali e ministri israeliani lo sanno benissimo: colpire la Striscia significa fare macelleria di questi piccoli. Semplicemente, ogni qual volta un missile dell’aviazione o dell’artiglieria si abbatte sulla Striscia densamente popolata, fa strage di bambini. È impossibile non centrarli. Sono in ogni luogo, tantissimi.
Certo, per giustificarsi agli occhi ciechi del mondo, lo stato israeliano ci ha raccontato che Hamas ha usato scudi umani, ma questa versione deve ancora essere provata dalle indagini che condurranno le Nazioni Unite. Documentate oltre ogni ragionevole dubbio e denunciate da diverse organizzazioni inteazionali, dall’Onu, dal Phr (Physicians for Human Rights, Medici per i diritti umani), da testimoni oculari e dalle testimonianze degli stessi soldati1, sono invece le stragi compiute dall’esercito.
Gaza City: paesaggi lunari
Attraversiamo interi quartieri rasi al suolo o con palazzi trasformati in tanti scheletri. Sembra di essere atterrati su Marte o su una terra del futuro post-guerra nucleare.
Il compound dei ministeri (Finanze, Esteri e Inteo) e il Parlamento ci appaiono in tutta la loro imponente distruzione. Proviamo a pensare alle sedi delle nostre istituzioni, a Roma, e a un qualche Attila che le bombardi, senza rispetto alcuno per ciò che esse rappresentano per un intero popolo.
Qui, anche l’assurdo diventa possibile. Non molto lontano, alla faccia di qualsiasi convenzione di Ginevra e diritto umanitario, vedremo anche l’ospedale al-Quds annerito e ridotto a una semplice carcassa vuota.
Nonostante fossimo preparati al peggio, ciò che vediamo ci lascia impietriti. Proviamo puro sgomento e vergogna, in quanto cittadini di un’Europa completamente incapace di prendere la parte dei deboli, degli oppressi, e di far applicare anche solo un barlume di giustizia.
La morte dell’informazione
Le tre settimane di guerra contro la Striscia di Gaza hanno provocato anche un’altra vittima: l’informazione. Come giornalisti, ci sentiamo mortificati per il modo in cui i nostri media hanno raccontato ai nostri connazionali i massacri israeliani. Tv di stato e private, quotidiani e riviste, ci hanno fornito, senza sostanziali differenze, le stesse notizie, quelle passate loro da Tsahal (Forze di difesa israeliane) e dal governo di Tel Aviv. Il leit motiv che accomunava tutti era: «Israele ha diritto a difendersi dai razzi di Hamas»; «Hamas ha rotto la tregua»2; «negli ospedali/scuole/case si nascondono terroristi di Hamas».
A fronte di tali affermazioni, non vi è stato alcun tentativo di verificare le notizie, di scoprire i fatti, la realtà. A un certo punto, è emerso pure il caso dell’inviato di un importante quotidiano nazionale che, più realista del re, ha scritto che i morti nella Striscia erano 600 e non 1.300, ma è stato prontamente smentito dall’esercito israeliano, il giorno dopo.
La guerra contro Gaza è stata un esperimento, riuscito, di manipolazione delle coscienze attraverso un uso spregiudicato e scorretto dell’informazione. Almeno, fino a quando in internet non hanno iniziato a circolare i video girati dagli operatori della tv satellitare Al-Jazeera, che hanno rivelato al mondo i crimini commessi da Tsahal, e denunciati, appunto, da numerose organizzazioni inteazionali, arabe e israeliane.
Vittorio, il palestinese
A Gaza City incontriamo l’ormai famoso attivista dell’Inteational solidarity movement (Ism), scampato a 22 giorni di guerra e unico testimone italiano della mattanza: Vittorio Arrigoni, il gazawi d’Italia. Ci racconta delle giornate e delle nottate di bombordamenti israeliani, del suo lavoro di «scudo umano volontario» sulle ambulanze cariche di feriti, nel tentativo di impedire che i soldati israeliani le colpissero, come da documentata abitudine. Ci narra delle telefonate che l’esercito faceva alle famiglie, annunciando bombardamenti imminenti, e dei bambini morti d’infarto, per la paura, il primo giorno di guerra.
Durante le settimane di attacchi continui, Vittorio è stato l’unico corrispondente occidentale: la sua eccezionale testimonianza è stata raccolta in «Gaza, restiamo umani», edita dal Manifesto.
Shifa hospital e tenda degli orrori
Domenica primo febbraio, alle 9, abbiamo appuntamento con il dott. Ashur, direttore dell’ospedale Shifa, il più grande della Striscia di Gaza. Nel cortile è allestita una tenda con foto delle vittime. Sui tavoli, al centro, sono disposti frammenti delle armi usate da Israele. L’odore è pesante: ci sono pezzi di bombe al fosforo e a frammentazione, e proiettili all’uranio impoverito.
I cittadini entrano, osservano ammutoliti, piangono. Mentre scattiamo foto e prendiamo appunti, ascoltiamo le testimonianze di chi ha perso tutto: figli, marito o moglie, genitori, parenti, casa.
Hanan, una signora sulla cinquantina, ci viene incontro e ci mostra la foto della sua abitazione demolita, sbriciolata dagli F16. Uno dei suoi figli è rimasto senza gambe. Abita a Sudania, un quartiere di Gaza City. Zakya, un’anziana, ci indica la foto dei suoi cinque figli uccisi. È disperata, perché è vedova e senza più casa.
Entriamo nell’ospedale sovraffollato. Ci accoglie il dott. Ashur. «Dopo il cessate il fuoco – racconta -, annunciato il 19 gennaio, Israele ha ucciso almeno altri 13 civili. Nei giorni di bombardamento indiscriminato abbiamo ricoverato 1.926 feriti e ricevuto 658 cadaveri. Il primo giorno di guerra, il 27 dicembre, sono arrivate, in mezz’ora, ben 200 persone. Il totale delle vittime, su tutta la Striscia, è di 1.366, di cui 430 bambini e 111 donne, ovvero il 40% dei morti. I feriti sono 5.360, di cui 1.870 bambini e 800 donne. Anche qui, donne e bambini costituiscono il 50% del bilancio complessivo. Il resto sono civili maschi adulti, e una minima parte di combattenti.
Nonostante i tanti aiuti ricevuti da tutto il mondo, ci mancano molte attrezzature per la cura del cancro e diagnostiche, di cui Israele impedisce l’entrata nella Striscia».
Armi di distruzione di massa
«Nel primo attacco contro i civili – continua il dott. Ashur – sono state usate armi Dime3. Tutti i feriti portati in ospedale presentavano arti amputati. Inoltre, molti avevano gravi ferite, una colorazione della pelle sospetta. Un altro elemento che dimostra l’uso di armi non convenzionali è il fatto che gli alberi, intorno alle aree colpite, non sono stati distrutti. Le bombe non hanno avuto effetti sul pavimento, sul selciato, ma solo sui corpi, sulla massa corporea».
Usciamo dall’ospedale ash-Shifa, e, attraversata la strada piena di auto, ci troviamo di fronte alle macerie dell’omonima moschea, completamente distrutta.
I bombardamenti riprendono. Nel pomeriggio, ci fermeremo qualche ora a scrivere nel bel giardino dell’Hotel Maa, nel centro di Gaza City. A lavorare, seduti ad altri tavoli, ci sono alcuni giornalisti stranieri. In giro per la città ci sono un reporter di Rai34 e una giornalista di un’agenzia stampa italiana. Per il resto, oltre a noi, sembra non ci siano altri cronisti italiani.
Sono le 16, quando Israele riprende a bombardare la Striscia. Il giardino dell’hotel è scosso da un sussulto. Pochi istanti dopo, sentiamo nel cielo il macabro sorvolo degli F16. Sarà l’inizio di una nuova serie di attacchi contro diverse aree della Striscia, sebbene, per il momento, non segni l’avvio di una nuova guerra.

S i chiudono le porte dell’inferno di Gaza. Il nostro «permesso» di visita alla prigione di Gaza è scaduto. Lunedì 2 febbraio faremo ritorno in Egitto. Alle spalle ci lasciamo 1,5 milioni di persone intrappolate nella più grande prigione del mondo. All’interno, rimangono i nostri amici, i nostri colleghi, i nostri fratelli e sorelle, abbandonati dai governi del mondo civile e democratico. 

Di Angela Lano

Angela Lano




Catastrofe infinita

Introduzione

La campagna scatenata dalle Forze armate israeliane (Tsahal) contro la Striscia di Gaza, dal 27 dicembre 2008 al 18 gennaio 2009, è stata chiamata operazione «Piombo fuso», parole desunte da una canzone cantata durante gli otto giorni di Hanukkah, una festa che ricorda la vittoria riportata dai Maccabei, nel II secolo a.C., sui greci che volevano imporre al popolo ebreo l’ellenismo con relativi usi e costumi pagani; una vittoria, secondo Zaccaria 4,6, «dello spirito sulla forza brutale» che minaccia Israele nella sua vita religiosa e spirituale. Tale operazione militare è stata lanciata proprio durante tale festa di Hanukkah, il sabato, elevandola così al rango di causa nazionale e religiosa.
Da parte d’Israele l’attacco militare è presentato come operazione di legittima difesa, cioè per neutralizzare i razzi Qassam lanciati da Hamas contro obiettivi civili del sud di Israele; tale lancio si sarebbe intensificato appena scaduta la tregua di sei mesi, stipulata il 19 giugno 2008 grazie alla mediazione egiziana.
Da parte palestinese, invece, la ripresa del lancio di razzi è stato motivato dalle violazioni della tregua di parte israeliana il 4 novembre 2008, con l’assassinio di 6 suoi militanti, con il blocco dei convogli umanitari e l’uccisione di 19 palestinesi in attacchi aerei.

Ora, la nozione di legittima difesa presuppone una proporzionalità dei mezzi impiegati, ma non è il caso dell’operazione  «Piombo fuso»: Tsahal ha attivato una sessantina di bombardieri e almeno 20 mila uomini super equipaggiati di fronte a resistenti armati di razzi rudimentali e di adolescenti armati di pietre.
Scopi ufficiali dell’operazione erano: distruggere i supporti logistici di Hamas, eliminare il maggior numero possibile di leader, rallentare o addirittura prevenire il riarmo, distruggendo i tunnel sotterranei tra Gaza ed Egitto, attraverso i quali si rifoiscono di armi Hamas e altre fazioni paramilitari. Di fatto l’operazione «Piombo fuso» ha seminato morte tra i civili e ridotto Gaza in un cumulo di rovine.
L’uso sproporzionato della forza è confermato anche da un rapporto interno delle Nazioni Unite, pubblicato all’inizio del mese di maggio, in cui vengono ricostruiti i fatti di «nove incidenti più gravi» accaduti durante l’operazione «Piombo fuso». Il giudizio degli esperti Onu è duro: essi accusano Israele di uso eccessivo e indiscriminato della forza contro i civili, e di aver aperto il fuoco e bombardato deliberatamente le sedi Onu pur sapendo che si trattava di edifici delle Nazioni Unite, a partire dal bombardamento della scuola femminile Unrwa (agenzia dell’Onu per i profughi palestinesi) di Khan Younis, a quello della scuola elementare di Gaza City, alla scuola di Jabalya, fino ai mezzi e alle ambulanze Onu e ai morti provocati dai proiettili contro la scuola elementare di Beit Lahia.

Poche settimane dopo il cessate il fuoco, in Israele si sono tenute le elezioni anticipate (10 febbraio). Secondo molti commentatori la campagna elettorale è strettamente legata alla messa in opera dell’attacco militare, della sua escalation e dell’appoggio unanime delle principali forze politiche israeliane. Il risultato delle votazioni ha premiato i politici che hanno maggiormente appoggiato la campagna militare.
Ciò non significa che tutta la società israeliana sia guerrafondaia. Da alcuni anni cresce il numero degli obiettori di coscienza, chiamati «refusnik»: sono i giovani che rifiutano di arruolarsi e numerosi soldati, ufficiali e sottufficiali che abbandonano l’esercito, per sottrarsi al dover prestare servizio nei Territori Occupati palestinesi e dovere obbedire a ordini di natura repressiva e aggressiva contro civili.
E poiché Israele non riconosce il diritto all’obiezione di coscienza né prevede servizio civile alternativo, coloro che rifiutano di arruolarsi vengono sottoposti a processi e umiliati, fino a essere riformati in quanto «mentalmente disabili»; mentre quei militari, arruolati o riservisti, che scoprono di non potere, in coscienza, obbedire agli ordini dei loro superiori, vengono incarcerati e scontano la loro pena in un carcere vicino a Haifa.

di Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




L’anno del vento

Antropologia culturale / Cosa resta della celebrazione del «capodanno maya»

La società civile guatemalteca promuove un ritorno alle tradizioni. Ma la gente sembra aver dimenticato i riti pubblici. Colpa della dominazione spagnola e di 36 anni di guerra civile.  Come l’attesa del nuovo anno, che prevede 5 giorni di riflessione. È iniziato l’anno del vento,
ovvero respirazione, movimento, che fa girare la terra, alimenta la vita.

Nebaj. Esiste il calendario dell’antico Egitto, quello romano, quello cristiano così come quello musulmano, e infine esiste il calendario maya. A dire il vero sarebbe più corretto parlare di calendari maya visto le sottili differenze nei nomi e nelle date che esistono in corrispondenza ai vari stati in cui il popolo maya era diviso nell’area centroamericana prima dell’invasione spagnola.
Cosa accomuna però tutte le tradizioni maya è la visione del tempo e il suo legame con fenomeni naturali. I maya consideravano il tempo come un qualcosa senza né inizio né fine, per questo non hanno dato all’«anno uno» lo stesso significato di altri popoli, come i romani che iniziarono la loro cronologia a partire dalla fondazione di una città.
Per la cultura maya l’origine del calendario è strettamente ispirata all’universo e agli elementi naturali necessari per vivere: fuoco, terra, acqua e aria, oltre che ad alcuni simboli fondamentali, come la donna, il risveglio e la morte.
Il calendario maya è circolare, in accordo alla cultura ciclica che lo ispirava, mentre quello gregoriano è lineare. Inoltre si fonda sui cambiamenti cosmici e non sulla misurazione del tempo. L’aspetto sorprendente è la precisione di questo calendario, che creato in accordo ai movimenti del sole, aveva calcolato la durata dell’anno in 365, 2420 giorni, l’approssimazione più perfetta elaborata dall’umanità fino all’epoca dello sviluppo di sistemi tecnologici e informatici.

Un nuovo anno

Il 21 febbraio a Nebaj, cittadina di circa 20.000 abitanti situata nel dipartimento del Quichè, centro dei massacri inflitti alla popolazione indigena maya durante il conflitto armato e cuore della tradizione maya ixil (pronuncia iscil)  ha accolto l’anno 5125.
Chi si aspettava una celebrazione rumorosa, appariscente e molto partecipativa ha dovuto fronteggiare una certa delusione. Il capodanno maya, ci spiega Ana Laynez Herrera, guida spirituale appartenente al gruppo indigeno ixil, è un evento interiore, sacro. «Per accogliere il nuovo anno ci prepariamo con cinque giorni di riflessione, di purificazione: si tratta del wayeb, il periodo di transizione tra un anno e l’altro».
L’associazione Fundamaya, organizzazione guatemalteca impegnata nella promozione dei diritti umani e la salvaguardia delle tradizioni maya, ha sostenuto una celebrazione più ufficiale, simbolica, quasi per ricordare e mostrare alla gente che la cultura maya esiste ancora e non deve essere perduta.
Quello che sembra però stonare è un marcato senso di vuoto alla cerimonia. La gente partecipa, segue il rito di benvenuto al nuovo anno, ma alle semplici domande di turisti e curiosi, su quale sia il significato più profondo dell’atto o perché si usano determinati colori di candele piuttosto che elementi naturali, non sa rispondere.
La sensazione è quasi quella che si ripetano gesti che sono diventati automatici ma dei quali non si ricorda il valore. Conferma la riflessione Carolina, antropologa tedesca che da oltre tre mesi sta portando avanti una ricerca nell’area ixil: «La dominazione spagnola e la guerra civile (durata dal 1960 al 1996, ndr) hanno minato fortemente le tradizioni maya, arrivando quasi a cancellarle. Oggi varie organizzazioni stanno lottando per riprendere abitudini indigene che sono state dimenticate da molta gente, specie la nuova generazione.
La mia opinione è che questi tentativi possano correre il rischio di irrigidire e schematizzare troppo cerimonie che originariamente, per i maya, erano sentite come qualcosa di naturale, strettamente connesso al ciclo della vita e della natura.  Le guide spirituali in origine non seguivano schemi così fissi nel celebrare i riti, né bisognava convocare la gente per riunirsi ad assistere».

Lo spirito del vento

Il calendario maya si struttura in 18 mesi di 20 giorni ciascuno ai quali si aggiunge il periodo di transizione di 5 giorni. Ogni nuovo anno si definisce sulla base di un nahual reggente, ovvero un elemento sacro protettore che corrisponde alla simbologia religiosa dei maya e che imprime determinate caratteristiche al periodo che «protegge». 
L’anno corrente, il 5125, inaugurato il 21 febbraio scorso, si presenta sotto la carica del Iq. Iq simboleggia lo spirito del vento, il fulmine, la tempesta, le correnti e la purezza del cristallo. Ana Laynez interpreta il nahual entrante non tanto come un fenomeno meternorologico quanto piuttosto come l’anima vitale:  «Vento nella cosmovisione maya significa aria, movimento, respirazione. È ciò che alimenta la vita, che fa girare la Terra, muovere le onde del mare e le foglie degli alberi. Siamo entrati nel periodo 10 Iq, è un periodo pari, questo ci garantisce che le forze del nahual saranno piuttosto equilibrate, non ci aspettiamo grandi disastri o squilibri».
 L’Iq ha preso il posto al protettore anteriore che era il 9 Noj, rappresentante la saggezza, il pensiero e la riflessione. Il passaggio da un nahual all’altro è contrassegnato appunto dai giorni  «senza nome o wayeb», in cui ci si dedica alla purificazione e alla preparazione per accogliere quello nuovo. Così dal 17 al 21 febbraio, in varie forme, in Guatemala, le guide spirituali maya si sono ritrovate per riflettere e fare un bilancio dell’anno terminato.
Le celebrazioni più vistose sono avvenute nei luoghi sacri importanti, presso le rovine maya, come a Iximché, vicino Tecpan, dove la cerimonia è stata convocata e organizzata dal ministero della Cultura, la Commissione presidenziale contro il razzismo e varie associazioni indigene.

«Grande cambio» in vista

Aspettando l’anno 2012 e il grande cambio preannunciato dalla fine del quinto ciclo del sole secondo la visione maya, restano molti i dubbi sulla capacità e la forza della cultura indigena maya di resistere e conservarsi, ma soprattutto di sapersi riadattare a una società che per secoli ha voluto cancellarla sotto le bandiere della conquista spagnola, delle chiese (cattolica e evangelica), e poi della dittatura militare. Questa ha creato nel paese una profonda confusione, o forse, un vuoto di sapere. 

di Ermina Martini


SIMBOLI
E SACERDOTI

La cerimonia maya solitamente si svolge in un luogo sacro ed è una celebrazione di ringraziamento delle forze della natura: Kab’awil (dio) è l’universo e si manifesta nella dualità, per questo ci sono giorni buoni e giorni cattivi, perché Kab’awil rappresenta due energie opposte. Le cerimonie, cornordinate dalle guide spirituali, sono caratterizzate dalla presenza di un fuoco centrale e iniziano sempre con il saluto ai quattro punti cardinali per seguire con l’offerta di vari elementi quali resina, petali o fiori, mais, acqua per invocare la protezione del dio e degli antenati.
Nell’area di Nebaj, in Quiché, esistono circa 350 guide spirituali. Le guide possono essere uomini o donne, ma l’importante è che la dote per essere «tatas» e «nanas» non si può acquisire o imparare, è innata.

Spesso si manifesta in giovane età in sogno, con simboli rappresentanti il volo, come varie specie di uccelli. È necessario l’appoggio di una guida spirituale già formata per coltivare le doti e aiutarle a manifestarsi. Durante le cerimonie le guide spirituali si riconoscono perché si coprono il capo con un tessuto, spesso di colore bianco, e impugnano un bastone simbolico.
Se un tempo «tatas» e «nanas» vivevano delle offerte che ricevevano per il servizio che prestavano nelle comunità oggi invece si trovano in difficoltà e devono svolgere altre attività per sostentarsi. Vari progetti di salvaguardia delle tradizioni indigene appoggiano l’attività delle guide, forse in parte snaturando la loro funzione, ma quanto meno ne garantiscono una formale esistenza.         

Ermina Martini

Ermina Martini




«Una storia di negri»

Osvalde Lewat: donna, africana, regista

Africana, madre di famiglia. Gioalista, ma non le basta. Osvalde vuole approfondire. Ma vuole soprattutto risvegliare il senso civico e politico della gente. È convinta che le difficoltà quotidiane diminuiranno se si riesce a intervenire sulla società. Questo lo fa con i film documentari, per scuotere,
far riflettere, e far agire.

«Ho scelto di ritornare sulla storia drammatica del Comando operativo, che fu istituito dal capo di stato in Camerun tra il 2000 e il 2001, con l’obiettivo di combattere il grande banditismo. Ma rapidamente ci sono state derive, e dopo un anno ci si è resi conto che più di 1.000 persone erano scomparse, o erano state arrestate per essere interrogate e non sono mai più tornate».
Osvalde Lewat è nata nel 1976 in Camerun. È sposata ed è madre di due figli. Ha cominciato come giornalista della carta stampata lavorando per diversi anni nel suo paese, anche al quotidiano Camerun Tribune. «Ero frustrata perché ogni volta che facevo un articolo il giorno dopo era già superato». Lavorava molto sull’attualità, ma era attirata dagli approfondimenti sui temi trattati, sentiva di dover prendere del tempo per fare delle vere ricerche. «Volevo anche realizzare dei lavori che potessero restare, in un certo senso, essere rivisti».
Dopo aver frequentato l’Istituto nazionale dell’immagine e del suono di Montréal (Canada), realizza il suo primo documentario. Si interessa ai diritti degli innuit, le popolazioni indigene del Canada. Il taglio è sociale. Frequenta un corso anche alla prestigiosa Femis di Parigi (Scuola nazionale superiore dell’immagine e del suono) e realizza un documentario sulla vita di una religiosa.
Comincia a lavorare per la televisione, facendo dei programmi d’informazione. Arriva così al suo primo cortometraggio impegnato: Au-delà de la peine (Al di là della pena). È la storia vera di un carcerato in Camerun, che condannato a 4 anni, ne aveva passati 33 in prigione. Questo film riceverà diversi premi, tra cui il gran premio film televisivi in Portogallo e il premio diritti umani al festival Vues d’Afrique di Montréal.
Osvalde non si ferma, ha trovato il suo modo di essere e fare giornalismo. Unisce alla sua intelligenza e capacità tecniche una grande determinazione.
«Questo film mi ha dato voglia di andare avanti. Ho continuato quindi con i documentari quello che avevo iniziato con il giornalismo, una sorta di attrazione per i soggetti socio-politici».

Per una nuova
coscienza cittadina

Se le si chiede da cosa scaturisce questo suo «impegno» risponde: «Non so se è un giornalismo impegnato. Forse. Voglio piuttosto che gli altri, tramite i lavori che faccio, si sentano impegnati, coinvolti. Che i film portino qualcosa alla gente, al mondo in cui vivo, all’Africa. Non so se riesco sempre a farlo, ma ci provo».
E così si trova a raccontare tragedie: «Mi dicono che i miei film fanno piangere. Io ho piuttosto voglia di scuotere la gente e farla muovere. Fare in modo che ci sia più coscienza cittadina in Africa, e quindi un risveglio politico maggiore. Che la gente comprenda che ha una responsabilità sul proprio destino, quindi non può dare le dimissioni di fronte a delle questioni che sono preoccupanti nella loro società».
In Africa è difficile vivere, occorre battersi: quotidianamente ci si domanda se si riuscirà a nutrire la propria famiglia. Così molti africani non si interessano più a quello che succede nel loro mondo: «Io invece penso che cercando di far muovere la società si può riuscire a migliorare anche il proprio quotidiano. È questa la mia visione ed è per questo che faccio i film».
Nel 2005 Osvalde Lewat torna sugli schermi con il soggetto delle donne violentate in Congo durante la guerra: Une amour pendant la guerre (Un amore durante la guerra). Un punto di vista di una africana su una tragedia di africane.
Nonostante la durezza dei temi trattati, Osvalde è molto femminile e non nasconde una certa tenerezza sotto la quale fermenta una grande grinta.
Donna e realizzatrice, si rischia di avere più difficoltà in questo mestiere. «Penso che noi donne abbiamo molti più ostacoli per fare una carriera professionale. Quando si è veramente impegnate è difficile conciliare una vita di famiglia con la carriera. E questo non solo per le donne cineasta. Per noi c’è la dimensione supplementare di dover andare ai festival, assentarsi settimane per le riprese e per la promozione del film».
Come donna, cineasta, africana è ancora più complicato, ricorda Osvalde, perché: «Il cinema è un universo molto chiuso, pieno di uomini. Talvolta quando si gira ci si ritrova come sola donna con quindici uomini. Non è mai molto semplice… Anche a livello internazionale è un ambiente machista e sessista». Nonostante questo il numero di donne africane che realizzano film in tv o per il cinema è in aumento.

Una storia di «negri»

Nel 2003 decide di dedicarsi a un progetto ambizioso: un documentario sul Commandement opérationnel (letteralmente: Comando operativo). Si tratta di un corpo militare d’élite, che il presidente camerunese Paul Biya (ancora in carica) creò, con decreto presidenziale, nel febbraio del 2001. Vi facevano parte reparti scelti di esercito, gendarmeria e vigili del fuoco. L’obiettivo era quello di combattere il «grande banditismo» che imperversava la zona di Douala, la capitale economica del paese, sulla costa.
Purtroppo il «Co» (come veniva chiamato) ha una deriva violenta e diventa incontrollabile. I giovani dei quartieri spariscono, sono torturati e, il più delle volte, uccisi. In altri casi sono chiusi in piccole celle dove sono lasciati consumare per fame e sete. Se non basta, sono avvelenati.
Tutto senza processo e spesso senza prove, ma dietro semplice delazione.
Le organizzazioni inteazionali di difesa dei diritti umani, come Amnesty Inteational, la Federazione internazionale delle leghe dei diritti dell’uomo (Fidh), l’Associazione contro la tortura (Apt) e quelle locali, come la Acat (Associazione cristiana contro la tortura) denunciano persecuzioni ed esecuzioni sommarie.
Già nel novembre dello stesso anno la commissione delle Nazioni Unite contro la tortura chiede al governo del Camerun di sciogliere il corpo. Si muoverà anche l’Alto commissariato per i diritti umani.
Dopo appena un anno di attività i desaparecidos africani sono oltre un migliaio.
«Quando decisi di girare Une affaire de nègres, tutti mi dicevano: “Tu non avrai la capacità e la forza di portare a termine un progetto così difficile”. Ma poi, quando incontravo dei personaggi, mi vedevano fragile e così mi davano fiducia più facilmente. I rapporti personali sono a volte più semplici, quando si è donna. Poi ci sono finanziamenti in favore della promozione delle donne realizzatrici, e cerchiamo di approfittae».

Le vittime non
si dimenticano

«Abitavo in Camerun quando il Commandement opérationnel è stato creato ed ero più o meno nello stesso torpore dei miei concittadini, non sapendo che cosa stava succedendo. Non ero cosciente. La città in cui è successo, Douala, è conosciuta per il suo lato eccessivo e soprattutto per la sua posizione all’opposizione rispetto al governo. Leggendo i giornali si prendeva distanza rispetto ai fatti e mi ci è voluto molto tempo per rendermi conto che vicino a me un tale dramma si era consumato».
Le motivazioni che la portano a questa vicenda sono ancora una volta interiori: «È un film forse egoista, un po’ catartico, nel quale tento di fare qualcosa che non ho fatto prima. Dovevo agire. Fare in modo che questa storia sia conosciuta, in quanto lo è molto poco, e che la gente si fermi a riflettere. Volevo che le famiglie delle vittime, i cui figli sono stati sepolti come dei malfattori, accusati di banditismo senza alcuna prova, avessero la possibilità di dire: no, non erano dei banditi».
Girare un film su un tema che il governo vuole si dimentichi, a pochi anni dall’accaduto, non è impresa esente da rischi.
«Ho fatto quattro anni di ricerche prima di iniziare le riprese. Chiesi a tutta l’équipe la totale discrezione su quello che stavamo facendo. Abbiamo girato le immagini con molta prudenza e con un po’ di fortuna non ci sono stati problemi.
Certo abbiamo avuto anche paura: ogni volta che iniziavamo a prendere delle immagini non sapevamo se avremmo terminato. Mi ricordo quando siamo partiti dal Camerun, all’aeroporto tremavo e mi dicevo “avranno saputo che stiamo facendo questo film”».
Il documentario è diffuso dalla televisione francese. Viene visto anche in Camerun, nella versione Tv, un cortometraggio, nel febbraio del 2008. Al ministero camerunese della comunicazione vanno in fibrillazione e vogliono preparare un contrattacco: un video che presenti il punto di vista governativo. Ma poi non si sa più nulla.
«Ci sono state reazioni aggressive da parte del governo del Camerun, ma solo di tipo verbale – racconta Osvalde -. Sono stati sorpresi che io sia ritornata su questa storia imbarazzante, che si vuole non risvegliare. Mi hanno telefonato, e non erano molto amichevoli».

Testimoni coraggiosi

Il film presenta molte testimonianze. Familiari delle vittime, il giornalista Séverin Tchounkeu (direttore di La Nouvelle Expression), politici di opposizione. Fondamentale è il coraggioso avvocato Jean de Dieu Momo, che cura la difesa  dei parenti delle vittime in tribunale.
Struggente il racconto di madame Etaha, la vedova di uno dei nove scomparsi del quartiere Bepanda (febbraio 2001), il caso che ha creato più scalpore e quindi reazioni nazionali e poi inteazionali. I nove furono arrestati, torturati e uccisi perché sospettati del furto di una bombola di gas.
Agghiacciante invece la descrizione delle operazioni da parte di un militare, ex membro del Commandement, Rigobert Kouyang.
I testimoni, tutti residenti in Camerun, non hanno avuto problemi dopo la diffusione.
«Non che io sappia – racconta Osvalde -. Hanno raccontato in tutta coscienza. Sono stata con loro tre anni prima di girare e ho chiesto loro se erano sicuri di fare questa testimonianza. Sapevamo tutti che avremmo preso dei rischi, pur non sapendo quali. Ognuno ha avuto tempo di misurare le conseguenze del proprio impegno in questo film».
Una pellicola molto coinvolgente per tutti. «Sono questioni ancora attuali. Eravamo preoccupati per la reazione del governo». Un film mostrato pure all’estero, che attira l’attenzione della comunità internazionale.
«Anche l’équipe tecnica era cosciente dei rischi, ma tutti hanno voluto andare fino in fondo».
Osvalde ha realizzato due versioni di Une affaire de nègres, una per la televisione e un’altra, più lunga, per il cinema. Ora sta lavorando per proiettare in Camerun la versione integrale, eventualmente in dvd oppure riaprendo per l’occasione un cinema (le ultime sale cinematografiche del Camerun sono state chiuse a Yaoundé nel 2008).
«In realtà il film ha già avuto un grande impatto nel paese, è stato anche piratato e diffuso sul mercato informale. È una pagina della nostra storia che è un po’ nera, ma siamo pronti…».

Difficile reperire i fondi

Una lavorazione che dura cinque anni è costosa e soprattutto il film non è redditizio economicamente.
Uno sforzo notevole è stato fatto per reperire i fondi.
«Avere i soldi per la realizzazione è stato complicato. Non volevo fare un film senza mezzi, volevo avere un potenziale cinematografico. Purtroppo i giovani cineasti non capiscono sempre che bisogna prendere molto tempo per fare bene le cose. Ho avuto la fortuna di presentare un piccolo testo a un fondo canadese per la cultura. Non hanno dato molto, ma hanno conferito credibilità al progetto. Da lì ho ottenuto altri finanziamenti: fondi d’autore, fondi francesi per cinema africano, ecc. Occorreva però avere un pre-acquirente, un canale televisivo che si impegnasse a diffonderlo, per accedere a quei finanziamenti. Non è stato facile, poi ci sono riuscita con France 5».

Una società addormentata

Il film si chiude con interviste lampo sul marciapiede. Alla domanda: «Vorrebbe di nuovo il Commandement opérationnel?», la maggior parte della gente risponde di sì, che c’è bisogno di maggiore sicurezza.
Possibile che la gente abbia già dimenticato?
«No, non hanno dimenticato. Ma siamo in un paese dove la coscienza cittadina è quasi inesistente, mentre la delinquenza è un vero problema. La questione che pone il mio film non è se combattere l’insicurezza, ma come combatterla. Occorre fare un’analisi per capire l’origine di questo stato di cose: la gente non è istruita, è povera, ma perché?».
 «Ho voluto mostrare queste risposte a freddo per spiegare che malgrado tutto quello che è successo la gente vuole sicurezza, la reclama». Nessuno pensa che possa succedere a lui di essere arrestato arbitrariamente, torturato e ucciso. 
«È anche il segno di una società che è addormentata. In molti paesi l’accento è stato messo sulla questione sicurezza: anche in Francia e Italia. Sono le grandi questioni di oggi, e le soluzioni sono di tipo populista. La gente è contenta se ha l’impressione che ci sono misure molto forti, dure, repressive, per portare la sicurezza. Ma non si rendono conto che quando si fa un’unità speciale per combattere il grande banditismo, alla fine, tutti noi abbiamo perso».
«La gente, nonostante abbia visto quello che è successo, non è neanche cosciente che la risposta non è il Co, non è la repressione».
Il Commandement opérationnel era una risposta puntuale per combattere il gran banditismo, un problema reale che si poneva. Quando cominciarono le derive, le prove di corruzione e di abusi, questa unità speciale è comunque rimasta operativa. C’è stata poi una pressione internazionale, affinché sia fatta giustizia. In realtà, il Co non sarà sciolto ufficialmente e diventerà il «Centro operativo della gendarmeria».

Un titolo che
non si dimentica

Une affaire de nègres, (letteralmente: una questione di negri) un titolo che colpisce: «Cercavo qualcosa di un po’ schoccante, in quanto ho la sensazione che poca gente conosca questa storia. Perché è successo in Africa, è un dramma in più, una deriva in più, la gente è stanca di queste piaghe. Il fatto di essere africana e nera mi ha permesso di usare un titolo così, se fossi stata bianca magari non avrei osato. Penso che ci sia gente che pensa: “Oh, ancora una storia di negri” ma non possono esprimerlo. Volevo attraverso questo titolo prendere in contropiede queste persone, dicendo: no, è un affare umano, un dramma universale, successo in Camerun, ma quando parliamo di delazione, corruzione, impunità, ovunque siamo sulla terra, in Europa, in Africa, sono questioni che ci riguardano tutti, che ci preoccupano tutti, non è solo una storia di negri». 

di Marco Bello

Marco Bello




Paure, speranze e rabbia

Storie di immigrati

Questo reportage riguarda una casa occupata da immigrati a Ostia, realtà molto difficile e chiusa, con traffici e attività non sempre legali, e la casa di «Action» a Roma, in via Carlo Felice, a San Giovanni in Laterano. Casa questa, composta da circa 150 persone. Entrambe le case
sono state sgomberate.

Calcinacci, muri affumicati dall’umidità, secchi ovunque per raccoglier l’acqua che gocciola come un lavandino semi chiuso e un odore fortissimo che mi ottura il naso. «Attenzione non aprire a nessuno! Guardate sempre dal buco… attenzione alla polizia!». È la scritta tradotta in arabo, serbo, rumeno, wolof e italiano che ricopre il grosso portone che si chiude immediatamente dietro di noi.
È difficile far finta di nulla, parlare, camminare e pensare mentre un odore opprimente si insinua nel naso, nella mente, nella bocca. La scenografia in cui mi muovo sembra quella di un film ambientato dopo la guerra in Jugoslavia. Invece siamo solo a Roma a pochi metri dalla basilica di San Giovanni in Laterano. In uno dei tanti quartieri più costosi di Roma.
Tantissime porte si aprono e si chiudono, sguardi terrorizzati mi attraversano scrutandomi dall’alto in basso. I pensieri silenziosi e la paura li avverto con la stessa intensità di una fucilata. Lo stesso rumore sordo. Pianti, lamenti, chiacchiericcio occupano l’aria insieme a quell’odore che mi rimarrà dentro. Un melting pot di cucine e culture diverse aumenta man mano che salgo i sei piani dell’edificio.
Cento-centocinquanta persone, 60 nuclei familiari occupano questa grande casa di proprietà della Banca d’Italia in via Carlo Felice. Senza luce perché la Banca d’Italia impedisce all’Acea di Roma di stipulare contratti con gli occupanti per l’erogazione dell’energia elettrica.
Non sono sola. Con me c’è la mia collega Alessandra Sinibaldi. Il nostro contatto è una peruviana, Alexandrina. Colf di una famiglia borghese romana. Alexandrina è una vera e propria istituzione nella casa. Ci racconta come, tramite una regolare elezione fatta dagli inquilini, si vota il rappresentante capo della casa. «Ci sono regole rigide per i nuovi arrivati. Non possiamo rischiare tutti per qualcuno» spiega Alexandrina.
Organizzati come in una fabbrica ci sono tui di pulizia degli spazi comuni, tui di coloro che fanno i muratori, la stragrande maggioranza della manovalanza edilizia romana, che sistemano, bucano, tirano su muri cercando di migliorare la casa.
I bambini come sempre sono i più curiosi. Come in Africa, bastano pochi passi per ritrovarseli attorno a flotte in un riuscitissimo esempio di integrazione. Ma l’integrazione non è solo dei bambini. Non può che stupirci questa straordinaria integrazione tra stranieri e italiani, perché la casa ospita anche italiani del meridione, che lavorano in nero nella capitale e non possono permettersi gli affitti altissimi.
Inutile dire che quella è considerata una bruttura estetica al centro di Roma, vissuta come un pericolo dai vicini chiusi nei loro grandi appartamenti. E come ho sempre sostenuto quando si parla di immigrazione un esempio del quale i nostri stressati ministri potrebbero prendere esempio per una migliore politica d’immigrazione e miglioramento dell’integrazione in spazi di vita comuni.
Musulmani, cattolici, cristiani copti che si capiscono in un italiano mescolato da parole della loro lingua che non hanno traduzione. I bambini corrono su e giù per le scale. Si chiamano, si cercano contenti di avere uno spazio tanto grande per giocare.

U na decina di materassi a terra incastrati come un puzzle in quattro metri per quattro. Un armadio, un tavolino e due sedie per gli ospiti. Ci giriamo come due elefanti in una giornielleria tra i sorrisi di Aisha, una giovane etiope che vive in questa stanza con marito, figli e parenti. Una decina di etiopi che si dividono l’umidità che trasuda dai muri al pavimento.
Due occhi magnetici grandi e scuri ci fissano. Sembra una bambola seduta su uno di quei materassi con la stessa eleganza di una regina d’oriente sul suo trono. È Sara. Per molto tempo sarà la nostra modella, vincendo la timidezza e la paura dei suoi due anni. Un odore di caffè riempie l’aria. È Mohamed che appena dopo le presentazioni è scomparso nell’anticamera di una pseudo-cucina. Sarà il primo dei sei caffè della giornata, dei sei piani. Forte e scuro come la loro terra africana.
Aisha ci racconta la sua storia. Amava Mohamed, ma in Etiopia era dura. Volevano sposarsi, ma nel loro villaggio era iniziata una guerriglia tribale. Appartengono a due tribù rivali da sempre. Un fratello di Mohamed era venuto in Italia e gli scriveva una lettera al mese. Gli mancava la sua terra. La luce e i colori dell’Etiopia, la famiglia, le feste tutti insieme, ma «mi ripeteva sempre, non sai che gioia svegliarsi la mattina senza saltare dal letto, non andare a dormire con il terrore che anche quella notte verranno a fare razzie – ricorda Mohamed -. È vero. Qui è dura. Non si fidano. E quando trovi lavoro ti ricattano con uno stipendio da fame, tanto sanno che non possiamo ribellarci, altrimenti non abbiamo una documentazione per rinnovare il permesso di soggiorno. Menomale abbiamo saputo di questa casa occupata. Siamo in tanti e diversi. La sera succede di tutto, perché c’è sempre chi fa entrare qualcuno che spaccia come amico. Ma almeno abbiamo un tetto. E la maggior parte degli abitanti sono brave persone. Sono riuscito a trovare questi materassi e piano piano compro qualcosa per la mia famiglia. La nostra gioia più grande è la nostra Sara. Non riuscivamo ad avere figli. E per noi che siamo cresciuti con il pensiero fisso di fare dei bambini, non avee di nostri era dura. Ma abbiamo pregato e pregato, e il buon Dio ci ha premiato» continua Mohamed.
Parliamo mentre Sara continuamente si gratta la testa piena di ricci. «È un’allergia del cuoio capelluto, mi hanno detto» dice Aisha. La mia paura, avendo una testa altrettanto piena di ricci, è che fossero pidocchi. Ma che fare. Non posso andar via. Non posso non ascoltarli. Non posso non stargli vicina. Non è stato semplice entrare laddove non entra nessuno. Ci avevano dato fiducia. E io non potevo tradirli.
Guardo Alessandra, capisco lo stesso timore, ma la stessa voglia di documentare come si possa ancora, nel terzo millennio, vivere in queste condizioni, nella Roma multietnica. Alexandrina ci fa capire che ci stanno aspettando. Continuiamo a salire le scale tra i saluti e gli sguardi di chi è intrinsecamente intimorito. Sono clandestini. Clandestini con storie alle spalle allucinanti. Ma tutti insieme vanno a manifestare per il diritto alla casa. La casa di Carlo Felice è nota per le sue manifestazioni. Spesso sono finiti nei telegiornali nazionali.

A lexandrina ci porta a casa sua; vive con il nipote, la sorella e un’altra sudamericana che ha ospitato. L’odore di cibi e l’arredamento tipicamente sudamericani ci avvolge e ci impregnerà i vestiti. Un bellissimo ragazzo vestito come tanti suoi coetanei italiani è steso su un letto fisso a guardare i video di Mtv. Non si gira, non ci guarda, sembra quasi non accorgersene.
Alexandrina dice essere suo nipote. «Diciassette anni e da due anni su quel letto per problemi forti alle articolazioni. È stato in coma per un lungo periodo, quando si è risvegliato doveva seguire una fisioterapia costante per riprendere a camminare. Il primo periodo l’ha fatta in ospedale, ma poi è tornato a casa e io e mia sorella non siamo riuscite a farlo curare».
Le chiedo se in Perù non sarebbe stato più semplice e la sorella mi dice che vivevano in una povertà spaventosa. «Tanti fratelli con tante mogli, figli e genitori troppo anziani. Come tutti abbiamo sognato una vita dignitosa e comunque riusciamo a mantenerci e a mandare anche qualche soldo a casa per i nostri genitori, abbiamo conosciuto un medico volontario che ogni tanto viene a trovarci e ha detto che aiuterà mio figlio, ma Dio ci aiuterà come sempre, conclude Rosaria».

D io, Dio, Dio ci salverà. Ci aiuterà. Come in tante altre situazioni, mi chiedo come riescono in queste situazioni a credere con tanta forza. Ma forse è proprio in queste situazioni drammatiche che devi avere fede. Se non hai un Dio in cui credere, in cui sperare, la vita non ha più senso.
Il loro amico più stretto è il terrore di essere sgomberati da un momento all’altro. Vivono con la valigia sempre pronta a scappare perché, mi ripetono, «sappiamo che prima o poi verranno a sgombrarci» dice Alexandrina.
Nella mente vedo la foto del loro terrore. Incursione della polizia e anziani, donne e bambini buttati sulla strada, rinunciando anche a quei materassi, tavolini che hanno comprato con tanta fatica.
Ci sono interessi enormi per quella casa al centro di Roma. A distanza di due anni mi chiedo spesso dove sono andati. Sara sarà cresciuta ma dove sarà? E Alexandrina? Ho provato a chiamarla, ma non risponde più a quel numero.

N ello stesso periodo visitiamo anche la realtà di un’altra casa occupata che non nominerò per ragioni di sicurezza, perché la situazione all’interno è molto pericolosa, dovuta anche al fatto che non c’è una organizzazione ma c’è di tutto.
È una scuola abbandonata a Ostia. Una realtà molto più seria e complicata della casa a San Giovanni. Non è semplice entrare, ma il nostro contatto è un attivista di diritto alla casa, che spesso viene qui per dare una mano a chi vuol essere aiutato. È lui che ci accompagnerà e ci spiegherà.
Parliamo all’entrata mentre a flotte la gente entra e esce, non prima di averci scrutato e interrogato il nostro amico con lo sguardo, su chi siamo e perché siamo lì. Sembra una casa della periferia degradata di Bucarest. Fredda. Vetri rotti. Muri di cartongesso sfondati. Dalle tracce sono i topi i veri padroni di casa.
Un bimbo di circa sei anni scorrazza con una mini moto da competizioni, senza casco e palesemente troppo piccolo per una moto. Gli immigrati si sono divisi in piani. Al primo piano ci sono marocchini, tunisini, egiziani che lavorano qua e là come muratori; al secondo piano sudamericani e italiani disperati, quasi tutti impiegati come colf nelle case e nel mercato della droga; gli ultimi due piani del tutto incontrollabili e abitati da africani. Nigeriani, senegalesi e africani soprattutto dell’Africa occidentale, che hanno ricreato la loro gerarchia tribale.
Sguardi spauriti e spaventati di altissimi ragazzi africani ci osservano e escono per andare a vendere occhiali e asciugamani. Alcuni mi sorridono, mi danno la mano e si presentano. Altri mi chiedono di fargli una foto per mandarla alle famiglie e alle mamme, preoccupate del destino dei figli spariti da mesi in quell’Europa di bianchi.
Ragazzini rumeni sniffano colla in un sottoscala. Avranno meno di 18 anni, ma occhi da uomini che hanno assaggiato la durezza della vita da immigrato povero. «Hashish, marijuana, erba, coca…» ripetono come un disco incantato da tempo.

D ue bambini si avvicinano curiosi della macchina fotografica, vogliono vederla, toccarla. Esce una donna, la madre, vestita al quanto succintamente: non mi servono spiegazioni per capire il suo lavoro. Mi chiede se i bimbi mi stanno dando fastidio.
Prendo la palla al balzo per dirle che sono carinissimi, dolcissimi e che amo i bimbi africani. «Menomale che c’è ancora qualcuno che ci vuol bene – dice, voltando lo sguardo a quel bianco vicino la porta -. È il padre di Jafety, il più grande dei miei figli e nettamente più chiaro della mamma e del fratellino, viene qui ma non ne vuole sapere. È un operaio di Ostia, razzista, con moglie e figli a casa ma qui viene a comandare e a divertirsi sbandierandomi i suoi soldi» mi dice stizzita Rosa.
Lo guardo fulminandolo per lo sdegno da donna, italiana e bianca, mentre lui, indifferente e con ancora indosso la tuta da lavoro, fa cenno a Rosa che la sta aspettando già da troppo tempo. Mi fa capire che non vuole finire nelle mie foto, chiudendosi la porta dietro non prima di aver fatto entrare Rosa.
Guardo Alessandra impotente: che si fa? Chiamiamo la polizia? Non possiamo, ne andrebbero di mezzo tutti e poi vuoi che non si sappia già cosa succede qui dentro. Continuiamo a giocare con i bambini mentre la mamma si sta prostituendo dentro quella stanza. A pochi metri dai figli che potrebbero spingere la maniglia della porta, entrare e vedere tutto. Vedere cosa mi dico, che non avranno già visto!
Dopo un po’ si riapre la porta, l’italiano esce e se ne va senza nemmeno salutare suo figlio e noi ci avviciniamo. Rosa sta sistemando quell’umida e scrostata camera. Non so che dirle. Che discorso iniziare. Ci invita subito a entrare e ad accomodarci sull’unica cosa che ha: un grande letto matrimoniale con ancora lenzuola disfatte. Cosa dirle? «Non preoccuparti, ne uscirai! Ci sono tante associazioni, ti aiuteremo».

I l brutto e il bello del mio lavoro è proprio questo. Quando ti occupi di reportage sociale, quando racconti la disperazione, le difficoltà di queste persone… è vero che dai loro voce, ma non puoi dirgli esplicitamente ti aiuterò perché non puoi farlo. Non puoi aiutare tutti. Perché anche se conosci tante persone non puoi sempre chiedere e chiedere di darti una mano a sistemare questo e quello. Puoi consigliare delle associazioni di aiuto e sostegno.
Rosa chiarisce subito che se siamo lì per farle una predica o per giudicarla è perché non conosciamo come va il mondo. Le dico che posso provare a capirla. Non voglio giudicarla. Voglio invece ascoltarla.
«Sono venuta qui come tante, con la speranza di un futuro e di un lavoro. Mio fratello in Nigeria mi aveva venduta a un trafficante di droga e donne, molto pericoloso e io non lo sapevo. Sapevo che in Nigeria succedevano queste cose, ma se non ti fidi nemmeno di tuo fratello! Noi in Africa non siamo come voi, crediamo nella famiglia, viviamo tutti insieme senza distinzioni e se un parente ha bisogno siamo pronti a fare sacrifici tutti. Ho capito chi era quel mio tranquillo fratello quando era ormai troppo tardi. E la storia continua come voi giornaliste già sapete. Botte, botte, botte e poi la strada. Aborti continui e strada. Strada, droga e aborti clandestini. Lavoravo dalle 12 alle 15 ore sulla strada senza potermi permettere nulla. Anche i vestiti erano i loro».
Cerco di capirla e iniziare con dei se e dei ma… Rosa tronca il discorso. «Non accetto critiche da te. Che ne sai tu della disperazione, di tuo figlio che ti dice mamma ho freddo, mi fa male la pancia. Ho fame. Allora anche se quel bimbo ha la faccia di quello che ti ha usato è anche parte di me. Jafety ha i miei occhi. Nelson la mia faccia. Allora non pensi al tuo corpo o a te stessa. Pensi che è l’unica cosa che hai che può dare da mangiare a tuo figlio. Sono riuscita a staccarmi da quello che mi ha messa sulla strada. Gli ho pagato il famoso debito con milioni e ora lavoro per conto mio, qui. Ho provato e continuo a cercare un lavoro onesto. Ma sembra non esserci. Sono andata da tante associazioni che stai nominando. Ma la verità è che io sono una prostituta e rimarrò sempre una prostituta. Per giunta nera. Una prostituta nera. Vorrei solo un lavoro di cui i miei figli non dovranno mai vergognarsi, vivere in una casa povera, ma dignitosa e magari un buon compagno. Ma ho perso le speranze. L’amore non esiste. Per quelle come me l’amore non esiste. E gli uomini, mie care, fidatevi: sono tutti uguali.
Qui fa schifo, lo so. Le finestre sono rotte. I bagni sono di tutti e ci trovi anche gente che si spara in vena eroina. E il terrore continuo che possano fare qualcosa ai miei figli. Ma è meglio che stare sotto i ponti. La luce va e viene, quindi d’inverno i termosifoni vanno per un po’. Ogni tanto vengono a chiuderli, perché non paghiamo… Menomale c’è un’associazione di attivisti che ci aiuta. Abbiamo una stanza tutta per noi. Sono cose per voi assurde, ma per me è già un passo avanti» chiude il discorso Rosa.
C ontinuiamo a scattare tra i sorrisi dei bambini che vogliono entrare dentro l’obiettivo. Rosa ci guarda divertita ma non dice più nulla. Ci ha già vomitato la rabbia e il dolore. Non è stata un’intervista la mia, ma solo un suo sfogo. E lo prendo così. Il senso di impotenza torna come il senso di colpa che si fa spazio nel cuore e nella mente ogni volta dopo aver visto e ascoltato queste storie. E ti dici: è il tuo lavoro. Sei la loro voce e così li puoi aiutare.
Dopo qualche settimana leggo nella cronaca locale del Lazio che a Ostia, nella malfamata casa occupata da clandestini «è stata ammazzata una giovane nigeriana. Si faceva chiamare Rosa. Lascia due bambini di cinque e due anni affidati all’assistente sociale».
Riguardo le foto e rivedo quella sagoma nello sfondo del primo piano di Jafety. Ogni foto è un ricordo. Rivivo quel suo sfogo. Ricordo i sorrisi dei bambini così come lo sguardo di quel cliente. Il padre di Jafety che ha abbandonato suo figlio pur di non rovinare quel finto matrimonio che andava avanti da troppi anni. 

Romina Remigio

Romina Remigio




Seguire Cristo nell’islam

Mazhar Mallouhi: un musulmano discepolo e apostolo di Gesù Cristo

Scrittore ed editore arabo, Mazhar Mallouhi si definisce «musulmano sufi, seguace di Cristo»; con romanzi e teologia pratica cerca di colmare l’abisso di incomprensione tra islam e cristianesimo: partendo dalle radici mediorientali comuni alle due religioni, egli presenta Cristo senza i paludamenti religiosi e culturali occidentali con cui è associato nella mente dei musulmani.

È nato in Siria nel 1935, da una famiglia musulmana sunnita, orgogliosa della propria eredità religiosa: secondo l’albero genealogico appeso al muro, discende dal profeta Maometto. Una famiglia che ha prodotto vari chierici musulmani, attivisti politici comunisti, un folto numero di scrittori rinomati, tra i quali uno zio che ha tradotto in arabo tutte le opere del «Grande Capo» Mao Zedong… e un discepolo di Cristo: Mazhar Mallouhi, scrittore famoso anche lui.

VEDERE CRISTO
CON GLI OCCHI DI GANDHI

Avido lettore fin dall’infanzia, Mallouhi passava molto tempo da solo con i libri. Adolescente, cominciò a sentire problemi di religione, ma fu duramente scoraggiato a fare domande, poiché secondo l’islam è blasfemo porre Dio in questione. «Quando leggevo il Corano – racconta – mi raffiguravo Dio lassù in cielo, che fumava la sua pipa ad acqua. Mi aveva dato il suo libro, ma non era coinvolto nella mia vita quotidiana o nelle sofferenze umane qui in basso».
L’inquietudine spirituale portò Mallouhi a studiare le religioni orientali e poi le credenze religiose degli antichi greci e romani. La sua ricerca lo indusse a concludere che «Dio» fosse un’invenzione umana, per tacitare la coscienza dall’inferno creato dagli uomini sulla terra. Inoltre, notò che in tutte le religioni i capi predicavano cose che essi stessi non riuscivano a vivere e cercavano qualcosa senza mai riuscire a sperimentarla. E quando la famiglia gli propose di entrare a fare parte del clero islamico si rifiutò.
Benché i musulmani abbiano grande rispetto per Cristo, Mallouhi non studiò il cristianesimo: lo vedeva come uno strumento di oppressione dei colonialisti, una religione occidentale che continuava le sue crociate medioevali contro la popolazione araba. Paesi occidentali «cristiani» sostenevano a occhi chiusi le ingiustizie dello stato d’Israele contro il popolo palestinese. Notava inoltre che i cristiani chiamavano Cristo «Principe di pace», ma poi appoggiavano e facevano guerre. E diceva: «La parte più bella del vangelo, la croce, è diventata un’arma contro di noi in mano ai crociati: la croce, dove Dio aveva abbracciato l’umanità, era diventata una spada».
Durante gli anni ‘50, Mallouhi, come molti intellettuali moderati siriani, aderì a un partito politico popolare laico; cominciò a scrivere per giornali e pubblicare poesie. Iniziò pure a leggere le opere di Gandhi e fu conquistato dal suo movimento non violento e dalla sua grande devozione per Cristo come incarnazione della compassione, l’autore del Discorso della montagna. Visto con gli occhi di Gandhi, Cristo gli appariva differente da quello che aveva fino ad allora immaginato. 
«Rimasi affascinato – scrive Mallouhi – nel vedere come Gandhi avesse fatto propri i principi cristiani senza Cristo, come avesse lottato e vinto la sua battaglia contro una nazione cristiana (l’Inghilterra) senza principi cristiani». Confrontando la vita vissuta da entrambi, vita esemplare e di auto-sacrificio, dirà: «Gandhi mi ha spiegato nel modo più drammatico l’insegnamento di Cristo».
Mentre prestava il servizio militare  sulle contese Alture del Golan, Mallouhi decise di studiare la Bibbia. L’inquietudine spirituale cresceva e diventò così forte da ventilare l’idea di suicidarsi. Poi, dopo aver speso un anno a leggere le scritture, concluse che Cristo non era come gli altri leaders religiosi; sia in Gandhi che in Cristo l’insegnamento combaciava con la vita.
Benché non avesse avuto alcun contatto con una chiesa o qualsiasi altra forma di cristianesimo, Mallouhi fu attratto dalle parole di Cristo: «Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi e io vi darò riposo». Il cuore gli scoppiò nel petto e gridò: «Questo Cristo è il mio Signore! Dammi questa nuova vita che prometti».
Aveva 24 anni. Mallouhi ricevette non solo nuova vita, ma il mondo intero gli cominciò a rivivere: invece di odiare la gente, ora non cercava altro che stare in compagnia.

Nuove direzioni

Da parte della sua famiglia, però, Mallouhi sperimentò immediatamente il rifiuto; uno zio tentò di sgozzarlo in pubblico, come testimonia la cicatrice al collo. Poco dopo, diventato membro attivo di un partito politico, stava per essere arrestato, ma se ne andò in esilio.
Mallouhi perseverò nella sua nuova fede: condividere con gli altri la ricchezza di Cristo era diventato il suo supremo desiderio. E cominciò a scrivere romanzi in arabo con temi spirituali, sul modello di Tolstoj e Dostojevski. La letteratura è per lui la via più naturale e uno dei metodi più efficaci per il mondo arabo, dove i racconti esercitano un fascino potente nella tradizione orientale.
Egli ha già scritto oltre una ventina di libri, che sono letti in tutto il Medio Oriente. ll suo primo romanzo, Il viaggiatore, storia del figlio prodigo impersonato da un arabo moderno, dalla prima edizione (1963) a oggi ha venduto più di 80 mila copie ed è stato letto da oltre un milione e mezzo di musulmani (si calcola che ogni libro è letto da 20-25 persone nel mondo arabo).
Nel 1975 Mazhar sposò Christine, un’australiana che ha dedicato la vita alla popolazione araba; hanno due figli. L’intera famiglia è impegnata nello stesso servizio: scrivere e pubblicare libri; insieme hanno lavorato in Egitto, Marocco, Tunisia, Siria, Giordania e infine in Libano.
E come il Mahatma Gandhi aveva presentato Cristo ai suoi correligionari indù, con lo stesso approccio Mazhar Mallouhi vive la fede in Cristo e la condivide con i suoi compagni musulmani.

Dichiarazione di pace    ai musulmani

Per comprendere meglio l’attività di Mallouhi bisogna tenere presente la sua «dichiarazione di pace ai musulmani». Sotto questo aspetto egli ha esercitato un forte influsso per portare pace e curare i contrasti tra musulmani e cristiani. Perché i musulmani riescano a vedere la vera natura di Cristo, è di cruciale importanza, secondo Mallouhi, che essi vedano prima la somiglianza tra Cristo e i suoi seguaci.
Mallouhi stesso si definisce «un musulmano che segue Gesù» e spiega che seguire Cristo nello spirito di Gandhi significa prendere ogni giorno il sentirnero dell’amore, della pace, del sacrificio e rinnegamento di se stesso. Egli stesso trasuda gentilezza, bontà, cordialità e allegria: attrae la gente come una calamita. I ragazzi lo adorano.
Ho avuto il piacere di passeggiare con lui in vecchi quartieri arabi e l’ho osservato mentre conversava con estranei: li legava a sé quasi all’istante con la sua calda e profonda umanità. È affascinante vederlo parlare e comunicare l’amabilità di Cristo a coloro che gli stanno attorno nei caffè arabi, mentre tira boccate di fumo da una pipa ad acqua e fa scorrere il rosario musulmano. In tutto il Nord Africa e Medio Oriente è conosciuto come uomo dal cuore grande.
L’esistenza dei coniugi Mallouhi è sempre aperta, col risultato che la loro casa è un continuo via vai di gente d’ogni tipo: fondamentalisti islamici, preti e suore cattoliche, pastori battisti, copti ortodossi, comunisti, rabbini giudei, baha’i e ogni sorte di stranieri occidentali.
Mentre viveva in Marocco, Mallouhi portava a casa gente trovata per la strada per nutrirla e aiutarla. A Fes, un milione e 300 mila abitanti, era conosciuto da così tanta gente, che una volta ricevette una lettera indirizzata semplicemente: «Mazhar Mallouhi – Fes».
Grazie alla sua straordinaria capacità di fare amicizia, in tutto il mondo ha centinaia di amici, di cui conosce a memoria i numeri di telefono; e li chiama regolarmente durante l’anno, si interessa di loro e promettendo preghiere. In qualunque città vada, organizza incontri settimanali che attirano intellettuali di ogni tipo.
Mallouhi vive la sua vita per gli altri. La sua gentilezza e giovialità disarmano perfino coloro che si oppongono alle sue credenze. In Egitto, una volta fu imprigionato insieme a dei fondamentalisti islamici, che gli domandarono perché fosse lì. «Perché condivido la mia fede in Cristo con altri musulmani» rispose: uno sceicco fondamentalista condivise con lui la sua coperta e un altro il cibo.
Spesso i musulmani gli dicono: «Non riesco a capirti. Perché ti metti in tanti guai per noi? Quali sono i tuoi secondi fini?». La sua risposta è semplice: «Se mi si presenta un’opportunità di fare del bene e non aiuto, è un peccato. L’opposto dell’amore è l’indifferenza».

CONDIVIDERE
LE SOFFERENZE DI CRISTO

Quando toò in patria dopo 25 anni di esilio, visse un’altra esperienza in prigione, che contribuì profondamente a fargli comprendere il significato sacrificale delle sofferenze di Cristo. Consegnatosi alle autorità, chiese che il suo caso fosse investigato, per avere l’opportunità di provare la sua innocenza. Invece, per 18 giorni fu tenuto in isolamento, in una cella sotterranea, in compagnia di topi, con una sottile coperta sul freddo pavimento di cemento.
Dio usò questa esperienza per insegnargli nuovamente ad «abbracciare le amarezze della vita, finché dalle ferite sgorgano gocce di dolcezza – testimonia Mallouhi -. Sentii come se venissi liberato dal tetro ambiente circostante e dalla prigione intea personale. Bevvi profondamente dell’amore e patimenti per noi del Padre in Cristo sulla croce».
Negli ultimi decenni si è notato un crescente interesse dei cristiani verso l’islam, insieme a sincere aperture per comprendere i musulmani. Altrettanto evidente è stato l’aumento dei reciproci dissensi: alcuni cristiani occidentali hanno cercato di demonizzare l’islam, dipingendolo come l’ultimo grande nemico da vincere.
Invece dello scontro tra cristiani e musulmani, che crea ulteriore allontanamento, Mallouhi propone un approccio opposto: egli dimostra l’importanza di costruire su valori comuni esistenti nell’islam e nella cristianità. I seguaci di Cristo devono impegnarsi in uno sforzo incondizionato per aiutare i musulmani, non per conquistarli, incarnando benevolenza, comprensione e solidarietà nello spirito di Cristo.
Proponendo rispetto e reciprocità, Mallouhi ha ottenuto una stupefacente apertura tra i musulmani verso la fede in Cristo. Per esempio, gli studenti musulmani che frequentano il prestigioso centro islamico Al-Azhar del Cairo, si sono seduti attorno a lui nel cortile della moschea mentre egli parlava di Cristo, esponendo loro le scritture.

Cristo: un mediorientale

Forse il contributo spirituale più significativo di Mallouhi è che ha spogliato Cristo delle sue bardature occidentali e lo ha presentato ai musulmani come uno che è nato, vissuto e morto nel Medio Oriente. Un Cristo così i musulmani lo possono comprendere; ed è il Cristo incontrato da Mallouhi, per cui si definisca semplicemente «un arabo siriano, seguace di Cristo», evitando l’etichetta di «cristiano».
I musulmani in generale percepiscono il cristianesimo come parte dell’agenda politica occidentale e vedono Cristo come un occidentale, senza alcuna relazione con la cultura orientale. Il cristianesimo, tuttavia, non è una fede dell’Occidente, ma ha origine nel Medio Oriente. Cristo, un mediorientale, era culturalmente molto più simile a un arabo odierno che a un cristiano occidentale.
Grazie alla sua personale esperienza, Mallouhi colma con successo questa lacuna. Quando egli divenne seguace di Cristo, i cristiani gli dissero che doveva lasciarsi alle spalle il suo passato culturale, cambiare il nome (prendere un nome «cristiano») cessare di socializzare nei caffè (principale luogo di incontro per gli arabi), non partecipare alle celebrazioni religiose della sua famiglia, stare alla larga da moschee e musulmani, cessare di digiunare, cambiare posa nella preghiera (non piegarsi o prostrarsi) e incominciare a mangiare carne suina (per dimostrare che era convertito).
Il risultato fu che, ben presto si alienò la famiglia e tutti i vecchi amici, e, ironia della sorte, non veniva del tutto accettato dalla comunità cristiana locale, poiché proveniva da un ambiente islamico.
Col tempo, tuttavia, Mallouhi si rese conto che seguire Cristo non significa rinnegare la propria lealtà alla cultura del Medio Oriente e diventare parte di una cultura straniera «cristiana». Pur essendo a servizio di Cristo, egli continua ad abbracciare le sue radici mediorientali, le stesse radici di colui che egli serve. Arrivò a capire che la sua famiglia lo rifiutava  non perché era diventato seguace di Cristo, ma piuttosto per il modo, impostogli dai cristiani, di comportarsi ed esprimere la sua nuova vita. Non era «Buona notizia» per i suoi familiari. Ai loro occhi egli stava voltando le spalle ai valori della famiglia e comunità a favore dell’individualismo occidentale, rigettava la fede monoteistica per il politeismo, e abbandonava forti tradizioni morali per stili di comportamento moralmente rilassati. Era come ribellarsi a tutti i migliori valori che gli avevano insegnato; allo stesso modo qualsiasi decente famiglia si sarebbe giustamente preoccupata.
A Mallouhi piace pregare e meditare nella quieta e riverente atmosfera di una moschea: si siede sul pavimento coperto da tappeto e legge la Bibbia. Spesso ne approfitta per far visita a sceicchi o imam suoi amici.
Mallouhi dice: «L’islam è mia eredità e Cristo è mio patrimonio»; di conseguenza ha mantenuto la sua cultura araba e islamica, pur essendo da oltre 40 anni discepolo di Cristo. La carta di identità siriana lo elenca come musulmano: il governo non permette il cambio della propria identità religiosa. Egli incoraggia i nuovi seguaci di Cristo provenienti da ambiente musulmano a non abbandonare la propria famiglia, popolo o cultura.
E sottolinea che seguire Cristo non richiede di prendere un nome cristiano, vestire in una foggia diversa, farsi il segno della croce (non usato dalla chiesa primitiva), cambiare il giorno di culto pubblico (la domenica al posto del venerdì), aderire a un rito differente in una chiesa, smettere di digiunare, mangiare cibi diversi, bere alcornolici, usare immagini di Cristo, molte illustrano un Cristo di discendenza europea.

Presentare la scrittura ai musulmani

Mallouhi spende la maggior parte del tempo ed energie nel presentare la Sacra Scrittura cristiana in modo che i musulmani la possano rispettare. A tale scopo, nel 1998, ha fondato Al Kalima («la parola» in arabo), che pubblica e distribuisce libri di carattere spirituale (vedi riquadro). I più importanti progetti editoriali di Al Kalima si concentrano nel ripresentare le scritture cristiane come scritti dell’antico Medio Oriente, come sono in realtà, riportandoli alla loro autentica origine culturale. In fin dei conti, la Bibbia non è un libro occidentale, essendo di fatto radicato nelle culture mediorientali, più antiche di quella alla base del Corano.
Per spazzare via stereotipi, vincere pregiudizi, illustrare e risolvere incomprensioni tipiche musulmane in fatto di Scrittura, Mallouhi cerca cooperazione e consiglio di influenti musulmani. Ha chiesto a centinaia di essi di leggere le scritture per identificare le difficoltà che incontrano per capire il testo; poi, in base ai suggerimenti, sviluppa un commento che risponda a tali questioni.
I primi due lavori «Una lettura orientale del vangelo di Luca» e «Genesi: l’origine del mondo e dell’umanità» (entrambi in arabo), pubblicati rispettivamente nel 1998 e nel 2001, includono testo biblico e commento mirato all’islam, che di fatto spiega le scritture e presenta Cristo nella sua realtà di mediorientale.
Termini come «messia» e «figlio di Dio» sono presentati in modo tale che i comuni lettori arabo-musulmani possano capirli nel contesto della propria cultura, aiutandoli a vedere in Cristo il compimento dell’alleanza di Dio con Abramo, considerato dai musulmani loro padre storico.
Nel 2004 Mallouhi ha pubblicato «Una lettura sufi del vangelo di Giovanni». Articoli e commenti di otto simboli o concetti chiave (in principio, vita, luce, amore, agnello, vino, acqua, pane), Gesù è presentato come il mistico definitivo e la parola vivente, mentre viene notato che molta poesia e letteratura sufi portano a Gesù Cristo e ai suoi insegnamenti.
Mallouhi cerca la collaborazione con articoli e introduzioni anche ai musulmani; uno di essi è Fadhel Jamali, ex primo ministro dell’Iraq, che nell’introduzione al Una lettura orientale del vangelo di Luca, scrive: «Noi musulmani conosciamo meno sulla fede cristiana di quanto i cristiani conoscono l’islam. Perciò io, come musulmano, vi incoraggio a leggere questo libro per capire ciò che essi credono veramente».
confezione e distribuzione
Tali pubblicazioni «orientalizzate» della scrittura sono state appoggiate da una vasta gamma di leader arabi musulmani, personalità politiche, ministri di governo, rettori e professori di università islamiche.
Oltre al contenuto dei libri, direttamente orientato ai musulmani, è altrettanto importante la confezione estea, insieme al modo in cui sono distribuiti. Per un musulmano, la sacra parola di Dio ha bisogno di essere presentata in una forma che esprima grande importanza e riverenza. Per cui le pubblicazioni di Al Kalima sono volumi elegantemente rilegati e curati nei dettagli, stampati con elaborata calligrafia arabica, come quella che i lettori arabi si spettano nelle edizioni del Corano.
Presentando le scritture come culturalmente mediorientali, Mallouhi si è guadagnato un successo e accoglienza senza precedenti. In una recente fiera del libro arabo, in un paese nordafricano con pochissimi cristiani locali, Una lettura orientale del vangelo di Luca è stato il best seller. Dopo averlo letto, un professore musulmano ha commentato: «Per la prima volta vediamo che Cristo ha radici mediorientali, imparentato alla nostra stessa cultura. Storicamente abbiamo ricevuto il cristianesimo solo attraverso la visione imposta dai colonialisti occidentali. Vogliamo che sia letto da tutti gli studenti nel nostro Dipartimento di studi islamici». Attualmente è usato come libro di testo di religione comparata in due università arabe.
Oltre alla presentazione e confezione estea delle scritture, Mallouhi è fortemente convinto che bisogna curare la distribuzione: deve avvenire esclusivamente attraverso canali di vendita legali, in opposizione a qualsiasi tipo di contrabbando o gratuita distribuzione di massa, come avviene per molta letteratura cristiana di produzione occidentale.
Tutte le pubblicazioni di Al Kalima sono state approvate dai censori governativi, per cui vengono vendute legalmente e apertamente attraverso normali punti vendita: dagli scaffali di supermercati, alle fiere del libro e librerie arabo-musulmane. In questo modo le scritture sono ufficialmente accettabili e largamente disponibili nella maggior parte dei paesi considerati «chiusi» alla Bibbia.
Da notare infine, che il più grande sostegno finanziario per tali pubblicazioni viene dagli stessi lettori musulmani, poiché i proventi dalle vendite sono reinvestiti per assicurare ristampe e ulteriori pubblicazioni.

Come Mahatma Gandhi ha permesso agli indiani di visualizzare Cristo che cammina lungo le loro strade dell’India, così Mazhar Mallouhi è impegnato nel restituire Cristo alle sue origini culturali, che cammina a suo agio per le strade del Medio Oriente. La sua visione per fare spazio alla parola di Dio nel cuore del mondo musulmano aiuta migliaia di musulmani a comprendere il vangelo e permettendo a molti di trovare la vera e duratura riconciliazione nel Principe della pace mediorientale. 

Di Paul-Gordon Chandler

Al Kalima

A l Kalima (in arabo: la parola) è frutto dell’intuizione dello scrittore arabo Mazhar Mallouhi e della sua moglie australiana Christine. Avendo una estesa rete di amici arabo-musulmani, avevano compreso che molti di essi volevano capire l’insegnamento della Bibbia, ma le pubblicazioni disponibili in arabo erano quasi nulle. Nel 1998, per rispondere a questa necessità, è nata Al Kalima, registrata l’anno seguente nel Regno Unito come casa editrice e di distribuzione, con base a Beirut.
La prima pubblicazione di Al Kalima è stato un commento al vangelo di Luca: «Una lettura orientale del vengelo di Luca». L’opera fu accolta con calore dai lettori arabi: in pochi anni sono state vendute oltre 50 mila copie e fatte varie riedizioni. Seguirono altri commenti biblici, «Genesi: origine del mondo e dell’umanita», «Una lettura sufi del vangelo di Giovanni», salutato da un giornale di editori arabi come libro dell’anno 2004, e «Il vero significato del vangelo di Cristo», che presenta i quattro vangeli e Atti degli apostoli, insieme alle rispettive introduzioni, articoli su temi-chiave come «Figlio di Dio» e ispirazione, note a piè di pagina sull’ambiente culturale per aiutare i lettori a comprendere il testo sacro. 
Nel piccolo catalogo di Al Kalima figurano cinque romanzi cristiani scritti da Mazhar Mallouhi: «Il fuggitivo» (144 p.) è la parabola del figliol prodigo ambientata nel mondo arabo moderno; e quattro sono commenti biblici a Luca, Genesi e Giovanni; «Perduta nella città» (424 p.) narra la storia di una donna, vittima della società, che ricostruisce positivamente la sua vita, superando le sue sofferenze e desideri di vendetta; «Momento di morte» (80 p.), una riflessione sulle scelte definitive dell’uomo, analizzando il significato dell’esperienza della sua fanciullezza, in cui ha ricevuto la vita attraverso il sacrificio di suo padre; «La lunga notte» (456 p.), ramanzo ambientato nella lotta della Siria contro il colonialismo, descrive la differenza tra diventare cristiani per scelta e l’essere nato in una famiglia cristiana; «Il fuggitivo» (190 p.) è uno dei più importanti romanzi spirituali in arabo, in cui viene descritta una nuova prospettiva sulla lotta tra bene e male, elaborando il concetto di rinascita nello spirito, che vive nel perdono e cresce nell’amore.

In arabo Al Kalima ha pubblicato altri libri vari, come traduzioni di racconti di Tolstoj e Dostojevski, testimonianze di palestinesi nel loro cammino spirituale verso la riconciliazione e lotta per la giustizia, e tre libri di carattere devozionale: «Fame di Dio» stimola il desiderio di Dio attraverso il digiuno, la preghiera e il rifiuto di ogni idolatria; «La passione di Cristo» risponde al perché della passione e morte di Cristo e ad altre domande; «Il maestro» racconta la vita di Cristo dall’inizio della sua missione fino alla sua morte e risurrezione.
La casa editrice ha pubblicato anche libri scritti in inglese da Christine Mallouhi, i più famosi dei quali sono: «Waging Peace on Islam» (dichiarare pace all’islam) e «Miniskirts, Mothers and Muslims» (minigonne, madri e musulmane).
Dei coniugi Mallouhi si è interessata anche la televisione Al Jazeera, che ha recentemente messo in onda un documentario sulla loro attività di scrittori ed editori di libri cristiani.

Paul-Gordon Chandler




Cari missionari

Politicamente
(s)corretto

Cari missionari,
anche se nel complesso ho apprezzato la pagina dedicata al Forum di Belem (M.C. n. 3/09 p. 66), le dichiarazioni della teologa Mary Hunt hanno suscitato in me molte perplessità. Bisogna stare molto attenti a non generalizzare quando si parla di «giustizia per le persone omosessuali»: le frasi pronunciate dalla Hunt, così come sono state riportate nella rubrica «Battitore Libero», somigliano molto agli slogan cari ai leader dei movimenti per i diritti degli omosessuali presenti anche in Italia, a cominciare da quelli che organizzano le giornate del cosiddetto orgoglio omosessuale, più note come gay pride.
Per me si tratta di posizioni che non solo non si conciliano assolutamente con la morale cristiana, ma i toni e modi usati per esprimerle sono di grave ostacolo a un dialogo degno di questo nome.
In un dialogo infatti ci si aspetta che gli interlocutori possano anche rivedere le posizioni di partenza, se non addirittura cambiare idea, mentre i leader dei gay pride la parola cambiamento la interpretano a senso unico, ossia non ammettono che un omosessuale smetta di riconoscersi e di comportarsi come tale e magari opti per l’eterosessualità.
Di ciò si è avuta un’inquietante conferma nello scorso mese di febbraio quando, al Festival di Sanremo, il noto cantante Povia – già vincitore del Festival – ha presentato la canzone «Luca era gay». L’imperfetto indicativo «era», contrapposto al presente indicativo «sta» nel ritornello «Luca era gay, adesso sta con lei», è stato subito liquidato dalla gran maggioranza degli opinionisti (e anchor man o maitre a penser, ognuno scelga l’espressione e lingua che più gli aggrada…) come non politicamente corretto, il presidene di Arcigay Aurelio Mancuso ha addirittura dichiarato che quelle di Povia sono «vaneggianti teorie, per cui si diventa gay a causa di genitori iperprotettivi o assenti, o perché si incontrano anziani pedofili; stupidità e luoghi comuni sostenuti da cantanti stile Povia e da integralisti cattolici…».
È evidente che chi usa epiteti come «stupido», «integralista», «clerico-fascista», «clerical-reazionario», «antiscientifico» (in realtà la situazione descritta nella canzone di Povia trova pieno riscontro nella letteratura medica, oltre che nelle teorie e nelle esperienze sul campo di celebrati psicologi, psicanalisti e psicoterapeuti…) non ha intenzione né di dialogare, né di creare un clima favorevole al superamento di certe forme di discriminazione le quali, a volte, sono patite da gay o presunti tali rispetto agli eterosessuali o ad altri gay diciamo… «eccellenti», big della politica, vip della finanza, star dello spettacolo, dello sport, ecc…), a volte, viceversa, sono patite proprio dai coniugati con figli rispetto ai gay, alle coppie gay e ai cosiddetti «conviventi»…
La Hunt, Mancuso, Grillini & C. hanno mai sentito parlare di magistrati e corti giudicanti che obbligano lo stato a indennizzare con centomila euro il gay che si è visto ritirare la patente da poliziotti «omofobi», mentre la mamma filippina del ragazzino di seconda media maltrattato, deriso, oltraggiato, bollato come «gay» e alla fine indotto al suicidio dai bulletti della sua scuola, non becca un centesimo di risarcimento perché «il fatto non costituisce reato»? Hanno mai sentito parlare di pedofili rilasciati dai giudici proprio perché i loro avvocati difensori sono riusciti a convincerli che quelli che, data la tenera età dei partner, sembravano atti di pedofilia, erano in realtà «normali rapporti omosessuali»? Hanno mai sentito parlare del forte legame che anche il mondo degli omosessuali ha col business del turismo sessuale?
Hanno mai sentito parlare di pederasti (sì, uso il vocabolo «pederasta» perché questo era il vero nome dei pedofili e dell’omosessuale orgoglioso e impenitente…) assassini che, dopo aver abusato, straziato, ucciso e riottenuto la libertà grazie ai soliti giudici politicamente corretti, abusano, straziano e uccidono ancora?
O, meno cruentemente, hanno mai sentito parlare di crediti agevolati da parte delle grandi banche in favore dei gay e di esenzioni dalle tasse sulla casa per chi esprime l’intenzione di metter in piedi una relazione omosessuale stabile?
Grazie per l’attenzione e che il Signore possa risanarci e rigenerarci.
Giovanni De Tigris
Urbino

Purtroppo viviamo in un mondo in cui per affermare i propri diritti si calpestano quelli degli altri. Abbiamo tutti bisogno di risanarci e rigenerarci per rispettare la dignità umana, di ogni persona, senza pregiudizi e senza estremismi, in dialogo per imparare ad accettarci così come siamo, come lo stesso Creatore ci accetta e ci ama.




INNAMORATI DELL’UMANITA’

Anno sacerdotale

L’anno sacerdotale (19 giugno 2009 – 19 giugno 2010) indetto dal papa, avente come slogan significativo: «Fedeltà di Cristo, fedeltà del sacerdote» è una preziosa opportunità per riflettere, non solo sull’attuale momento di difficoltà legata al calo di vocazioni che si riscontra nei paesi di antica cristianità ed in particolare nel nostro paese, ma anche e soprattutto sulle positive prospettive che da sempre il sacerdozio sa esprimere in tempi e situazioni difficili.
In quest’ottica a noi interessa porre l’accento sulla missionarietà del presbitero intesa non solo in senso geografico, ma soprattutto in senso antropologico. La meravigliosa avventura di essere prete, di agire cioè come costruttore di comunità, intessendo relazioni profonde dal punto di vista umano e presiedendo la celebrazione dei sacramenti con la propria gente, pone il servizio sacerdotale in una condizione autorevole di riferimento che di generazione in generazione si è profondamente sedimentata e radicata nel cuore stesso della chiesa popolo di Dio. Va da sé che tale servizio, proprio per essere più che mai aderente allo spirito evangelico, necessita di uomini che siano tali nel vero senso della parola, capaci quindi di esprimere al meglio i talenti ricevuti sia sul piano personale come quelli acquisiti negli anni della formazione.

Q uando nel 1984 Giovanni Paolo II nel ricordo di san Carlo Borromeo visitò il santuario di Varallo Sesia, al quale era particolarmente devoto, incontrò il clero piemontese, a cui diede un mandato insolito; rivolgendosi al folto gruppo di sacerdoti che si era stretto attorno a lui, papa Wojtyla disse: «Uscite dalle canoniche, incontrate la gente, parlate con loro, fatevi raccontare problemi e speranze che attraversano i loro cuori».
Questa autorevole esortazione racchiude un profondo anelito missionario, in quanto presenta il servizio sacerdotale come un cammino continuo accanto agli uomini e alle donne di ogni tempo, mettendo così il presbitero nella condizione di poter parlare a Dio degli uomini e agli uomini di Dio. Oggi più che mai abbiamo bisogno di sacerdoti capaci di relazione, innamorati dell’umanità loro affidata, che si rispecchia nei volti di bambini, giovani, adulti, anziani che incrociando lo sguardo del «loro prete», si sentano capiti e amati più che giudicati!
Tutto ciò implica da parte dei presbiteri un continuo aggioamento del loro modo di essere e del loro modo di fare: verificare fino in fondo quanto importante sia saper «perdere tempo» con la gente, magari anche saper essere presente proprio in quei luoghi dove meno uno si aspetta di vedere la figura del prete.

L’attuale crisi economico-finanziaria che stiamo vivendo accentua in maniera drammatica la precarietà di tante famiglie dove la insicurezza del lavoro (a volte l’improvvisa mancanza di esso) si ripercuote con crisi familiari che investono rapporti tra marito e moglie, tra genitori, figli, parenti, amici e via dicendo.
La tentazione di uscie con «furbizia italica», magari passando sulla testa dei più deboli, è sempre in agguato: saper convogliare all’interno della comunità cristiana tensioni sociali e drammi familiari che, riletti nell’ottica della speranza cristiana diventano un motore di cambiamento, è un’arte difficile ma preziosissima che ogni sacerdote dovrebbe coltivare, ponendosi alla scuola di quei grandi pastori che anche nelle ore più difficili hanno saputo sostenere il loro gregge, aiutandolo a percorrere impervi sentirneri che da soli forse non sarebbero stati capaci di attraversare.
Non dimentichiamoci mai che la missionarietà, prima di essere vissuta nell’orizzonte dell’impegno ad gentes, deve essere incarnata nell’impegno verso gli altri: Gesù, a differenza di san Paolo, non si allontanò mai dalla sua terra, però ruppe barriere e frantumò schemi mentali inossidabili, come quelli degli scribi e farisei, andando verso categorie e persone tenute ai margini della società e della gente «perbene». La sua missionarietà fu dirompente proprio perché osò andare incontro a persone che l’opinione pubblica del tempo giudicava impure o indegne: l’essersi seduto a tavola con i peccatori, aver dialogato con l’adultera, aver condiviso il pane con amici che al momento della prova lo piantarono in asso, ne fa un modello di missionarietà forse meno appariscente di quello di san Paolo, ma proprio per questo alla portata di ogni presbitero che operi in Italia o nel terzo mondo e sull’esempio del Maestro di Nazareth sia fedele a Dio e amico dell’uomo, ed abbia un’ardente passione per i poveri ed i sofferenti, che arda continuamente nel proprio cuore.

Mario Bandera

Mario Bandera




Cana (5) Un vangelo, moltissime prospettive: dall’ora alla gloria

Il racconto delle nozze di Cana (5)

Facciamo ancora un passo avanti per raggiungere l’obiettivo che ci siamo dati con la rubrica della nostra rivista «Così sta scritto», e cioè aiutare i lettori a vincere l’approccio superficiale alla Bibbia con un’attenzione più rispettosa del testo che per noi è Parola di Dio.
Ogni volta che prendiamo in mano la Bibbia dobbiamo avere lo stesso atteggiamento e la stessa sensazione che ebbe Mosè quando vide il roveto di fuoco e scoprì di trovarsi davanti a Dio: si tolse i calzari, abbassò la testa fino a terra e stette in adorazione (Es 3,1-6). Noi invece siamo stati abituati a leggere la Bibbia come un libro di racconti edificanti o come un codice etico, da cui prendere quello che serve all’occasione, perdendo di vista la visione globale del disegno di Dio che la Bibbia descrive: un progetto di alleanza inserito nella storia dell’umanità.
Ne deriva che la Bibbia è una prospettiva di vita e bisogna impararla frequentandola assiduamente e mettendo in connessione tra loro fatti, eventi e parole per potee cogliere la portata unitaria. Nessun fatto narrato nel vangelo o in qualsiasi altra parte della Bibbia può essere preso da solo e staccato dal suo contesto naturale, perché significa sfalsae il senso: vale per le nozze di Cana, le parabole o i miracoli.

In ginocchio davanti al trono della Gloria
Alla luce di quanto appena detto, foiamo di seguito una visione d’insieme dello schema di tutto il vangelo di Giovanni, che ci serve anche come consultazione quando vogliamo leggee un brano o un passo: vedere dove è collocato, quale posto occupa all’interno del progetto dell’autore. In questo modo capiremo meglio e più profondamente. Forse all’inizio ci costerà un po’ di fatica, ma siamo sicuri che i lettori conoscono il proverbio «non c’è rosa senza spine».
Sul IV vangelo sono state fatte molte proposte di divisione e di strutture, segno della complessità e forse anche dell’irriducibilità del testo: possiamo sfiorarlo, ma non possederlo, possiamo intuirlo, ma non dominarlo perché la Parola di Dio è, sì, scritta con parole dell’uomo che usa le regole delle grammatiche delle lingue umane, ma è anche la Parola di Dio che emerge dal limite in tutto il suo splendore superandoci in sovrabbondanza.
Gli stessi disaccordi tra gli studiosi non sono alternativi, ma angolature diverse, di cui ognuno coglie un aspetto che non necessariamente nega gli altri, ma semmai si integra con essi che espongono altri punti di vista. Di fronte alla Parola di Dio bisogna essere «umili» e bisogna stare anche «in ginocchio» perché essa è il trono della gloria del Lògos che diventa fragilità per mettersi al nostro livello: «E il Lògos carne fu fatto» (Gv 1,14).

a)  Cana punto di arrivo e punto di partenza
Tra tutte le proposte di divisione del vangelo di Gv, ci sembra più interessante quella dello studioso Frédéric Manns (cf bibliografia della 1a puntata: L’Évangile 12-17), specialista del vangelo di Gv e di letteratura giudaica che insegna a Gerusalemme allo Studium Biblicum Franciscanum. La particolarità della sua proposta (e di tutta la sua impostazione esegetica) sta nel fatto che egli, più di ogni altro, mette in rapporto il IV vangelo con la letteratura giudaica e i testi di Qumran, con l’obiettivo espresso di ricercare il sottofondo originario della predicazione di Gesù e della presentazione che ne fa l’autore del vangelo.
È vero: poiché noi non conosciamo il giudaismo, non capiamo il 90% del significato del vangelo. Lo schema sintetico del IV vangelo, suggerito da Frédéric Manns, che riportiamo sotto, ci aiuta a rilevare subito che il racconto delle nozze di Cana non è un masso erratico, ma è inserito dentro una visione teologica che ha come epicentro geografico la cittadina di Cana dove Gesù compie «due segni»: uno rivolto ai Giudei con le nozze di Cana (Gv 4,1-12) e l’altro rivolto ai Pagani con la guarigione del figlio del funzionario regio (Gv 4,43-51).

b) Da Cana a Cana: due rivelazioni di una sola Gloria
A Cana quindi avvengono due rivelazioni che riguardano il mondo intero: i giudei e i pagani, i credenti e i non credenti, il mondo biblico e il mondo estraneo alla Bibbia. Questi due segni sottolineano già nel loro stesso annuncio, l’universalità del messaggio di Gesù che l’evangelista mette in evidenza, perché la rivelazione del monte Sion fu riservata al solo popolo ebraico, mentre ora, nell’èra messianica, Dio parla al mondo intero, senza più distinzione di popolo, lingue, tribù e nazioni (cf Ap 7,9). Troviamo pertanto qui un primo velato accenno all’alleanza del monte Sinai che svilupperemo più avanti perché intimamente connesso con il racconto delle nozze di Cana.
I due segni di Cana (nozze e guarigione) sono in relazione tra loro e non solo perché avvengono nello stesso luogo, ma perché è lo stesso autore che li collega anche dal punto di vista letterario. Infatti se guardiamo lo schema, nella sezione «2,1-4,59: I primi due segni ovvero da Cana a Cana», vediamo subito un procedimento circolare o come si suole dire a «chiasmo», cioè a incrocio, dove al 1° punto corrisponde l’ultimo, al 2° il penultimo, al 3° il terzultimo e via di seguito fino a un incrocio che costituisce la parte centrale comune.

Da Cana al monte Sinai
Il punto centrale della sezione che comprende i «due segni di Cana» è un duplice dialogo: il primo quello con Nicodemo riguarda la nuova nascita nello Spirito, mentre il secondo comprende quello di Giovanni Battista con i discepoli sulla identità del Cristo, quasi a dire che per conoscere il Cristo e incontrarlo è necessario «rinascere dallo Spirito Santo». Non basta fare una passeggiata per andare a trovare Gesù, bisogna stare dalla parte dello Spirito, cioè dall’alto, per potere diventare discepoli del messia (cf Gv 3,3).
I due segni di Cana sono una forma di preparazione perché pongono le condizioni per accedere alla nuova rivelazione. Sul monte Sinai Dio rivelò il suo «Nome, Yhwh» e lo affidò a Israele perché lo custodisse e lo testimoniasse nel mondo. A Cana Gesù manifesta la sua gloria, rivelandosi a Israele e a tutte le genti, per riproporre all’umanità il disegno originario della creazione: una sola famiglia, un solo popolo, un solo Dio creatore.
Il racconto delle nozze, cioè il 1° segno di Cana, è dunque il punto di partenza di questo nuovo processo di rinnovamento della creazione intera, mentre la guarigione dalla morte del figlio del funzionario pagano, cioè il 2° segno di Cana, è il punto di arrivo: nelle nozze di Cana si riprende il tema del Monte Sinai, che fonda l’identità attraverso la Legge (le regole), mentre nel segno della guarigione, troviamo il germe della nuova creazione e della nuova vita che risorge, nonostante Adamo: se il peccato di Adam consistette nel rifiutare di somigliare al Lògos, cioè al Figlio, ora il Figlio, il nuovo Adam, accetta di riflettere in sé il volto del Padre e di essergli obbediente, anche fino alla morte, anche oltre la morte (cf Fil 2,8-11).
Di seguito lo schema generale del vangelo di Giovanni, proposto da Frédéric Manns in una nostra traduzione dal francese e con qualche modifica da noi apportata:

Struttura del Vangelo di Giovanni
1,1-51: Introduzione:
1,1-18: prologo
1,19-51: vocazione dei discepoli
2,1-4,59: I due primi segni ovvero da Cana a Cana:
a) 2,11-12: 1° segno: manifestazione della gloria ai Giudei a Cana
  b) 2,13-25: il segno del tempio e l’annuncio del nuovo tempio
   c) 3,1-21: dialogo con Nicodemo: rinascita dall’acqua e dallo Spirito
   c’) 3,22-36: dialogo di Giovanni Battista con i suoi discepoli
  b’) 4,1-42: dialogo con la Samaritana sul nuovo culto
 a’) 4,43-51: 2° segno: manifestazione della gloria ai pagani a Cana
5,1-6,71: Due segni ovvero da Gerusalemme a Cafaao:
5,1-15: guarigione del paralitico
5,16-47: discorsi
6,1-15: moltiplicazione dei pani
6,16-25: transizione
6,26-71: discorso sul pane di vita
7,1-10,42: Dalla festa delle Tende alla festa della Dedicazione:
7,1-53; 8,12-59: festa delle Tende [8,1-11: adultera: aggiunta]
9,1-41: guarigione del cieco nato
10,1-21: Gesù bel pastore e porta delle pecore
10,22-42: l’identità del Cristo
11,1-12,50: Da Betania a Gerusalemme:
11,1-57: resurrezione di Lazzaro
12,1-11: unzione di Betania
12,12-18: ingresso messianico di Gesù a Gerusalemme
12,20-36: Annuncio della glorificazione attraverso la morte
12,37-50: Conclusione
13,1-17,26: Discorsi di addio:
a) 13,1-38: lavanda dei piedi
  b) 14,1-31: primo discorso di addio
   c) 15,1-17: la vite e i tralci
   c’) 15,18-16, 4: persecuzione dei discepoli
  b’) 16,5-33: secondo discorso di addio
a’) 17,1-26: preghiera di Gesù
18,1-20,29: Passione e risurrezione:
a) 18,1-14: arresto al giardino
  b) 18, 28-19,16b: processo davanti a Pilato
a’) 19, 16c-42: morte e sepoltura di Gesù
  c) 20,1-18: Pietro e il discepolo al sepolcro. Apparizione a Maria
  c’) 20,19-29: Apparizioni ai discepoli e a Tommaso
20,30-31: Conclusione
21,1-25: Appendice

La Gloria ricama tutto il vangelo di Giovanni
Questo schema ha il pregio di tenere presente non un solo metodo di lettura, ma di integrare metodologie diverse: lo schema geografico (da Cana a Cana; da Gerusalemme a Cafaao; da Betania a Gerusalemme) s’inserisce in quello liturgico (festa delle Tende e festa della Dedicazione) e questo, a sua volta, in quello tematico (segni, tema della gloria, discorsi di addio, passione, ecc.) e tutti all’interno di un progetto di fondo dell’evangelista, che ruota attorno al termine «gloria» e a quello dell’«ora», due parole che ricorrono da cima a fondo come due tessiture che tengono in piedi tutto l’ordito del vangelo con la loro ricorrenza che potremmo definire «ostinata».
Gv vuole costringere il lettore a prendere coscienza di queste due parole: «gloria» che in greco si dice «dòxa» e «ora» che in greco si dice «hôra». Di ciascuna diamo una breve e sintetica descrizione.

a) Ogni pagina trasuda gloria
La parola «gloria – dòxa» si trova in Gv 1,14 (2 volte), nel racconto delle nozze di Cana (Gv 2,11), a metà del vangelo (Gv 12,41) e alla fine (Gv 17,1.5.22.24), formando così una inclusione, cioè un termine non casuale, ma volutamente immesso (incluso) nel testo per racchiudere tutto ciò che c’è in mezzo e poterlo leggere alla luce del significato di questo termine. Non si può capire il vangelo e tanto meno il racconto delle nozze di Cana se non comprendiamo bene quale sia il significato della parola «gloria – dòxa» che diventa così una chiave d’interpretazione di tutto il vangelo e non solo delle nozze di Cana.
Lo stesso termine infatti, oltre alle 8 volte sopra citate, si trova nel IV vangelo altre 15 volte, costituendo così un mosaico che racchiude tutto il vangelo (Gv 5,41.44 [2x]; 7,18; 8,50; 9,24; 11,4.31.40; 12,23.28.43; 13,32; 16,14; 21,19) per un totale di 23 volte. Si potrebbe dire che non c’è pagina del vangelo di Gv che non riporti la parola «gloria» oppure un verbo che indica l’azione gloriosa del «manifestarsi» (phaneròō: 1,31; 3,21; 9,3; 21,1). È questo che intendiamo dire con  l’espressione «parola ostinata», cioè martellante, ricorrente: una parola senza della quale l’intero disegno del vangelo si perde e si smarrisce.

b) Il peso della Gloria
La parola «gloria – dòxa» traduce il termine ebraico «kabòd» che gli ebrei del tempo di Gesù utilizzavano come sostituto del Nome di Dio «Yhwh», Nome che nessuno poteva pronunciare. Essa è dunque un sinonimo di «Signore», usato nella preghiera e nelle conversazioni, ma c’è dell’altro.
In ebraico la parola «kabòd» deriva dalla radice «k_b_d», che contiene in sé il senso di «peso», per cui una cosa gloriosa è una realtà pesante, in quanto cioè è consistente; «la gloria» infatti esprime il valore e la consistenza esistenziale e sociale di una realtà, di una persona, di una funzione. L’uomo orientale ama «il grasso» perché indica più peso e quindi più consistenza, cioè maggiore autorità, significato, importanza. Dio è «glorioso» perché è l’essere più «pesante» che esista, in quanto è la pienezza stessa dell’esistenza: è il Creatore.
La «Gloria» riferita a Dio non è qualcosa di astratto o di pomposamente rituale, ma indica il «Nome» stesso di Dio, cioè la sua natura e la sua vita, che è solida, consistente, piena. «Dare gloria a Dio» significa riconoscee la «signoria» e la maestà e riconoscersi suoi figli ubbidienti.

c) L’ora della gloria
L’altra parola che abbiamo è «hôra – ora», nel senso di «momento» e quindi riguarda il tempo, che nella Bibbia ha sempre due valenze: una riguarda l’aspetto ordinario ed è la successione degli eventi come capitano e che in genere ognuno di noi subisce (il giorno, la notte, ieri, oggi, ecc.) e che nella Bibbia si chiama «chrònos – tempo»;  l’altra riguarda la «qualità» del tempo, perché mentre scorre porta qualcosa di nuovo e di coinvolgente. Questo secondo aspetto è chiamato da Paolo «kairòs – occasione favorevole» (cf Rm 5,6; 8,18; 9,9; 13,11;Gal 6,10, ecc.). È il tempo che è testimone della conversione; è il tempo in cui si svela lo Spirito come azione di amore; ecc.
Il 1° tempo, il «chrònos», è segnato dal sole, dalla meridiana, dalla clessidra e oggi dall’orologio; mentre il 2° tempo, il «kairòs», è segnato dall’anima che vive gli eventi e di cui si rende conto: è la presenza di sé all’evento di cui si coglie la portata, la qualità e la novità.
Giovanni con il termine «ora» si riferisce a questo secondo aspetto, davanti al quale anche Sant’Agostino s’interroga a modo suo e, in modo magistrale, dà anche la sua risposta: «Che cosa dunque è il tempo? Se nessuno me lo domanda, lo so. Se voglio spiegarlo a chi me lo domanda, non lo so più» (Le Confessioni, XI,XIV,2).
È veramente così, noi viviamo esperienze interiori che possiamo contemplare dentro di noi, ma non possiamo spiegare agli altri, perché ogni tentativo di spiegazione potrebbe banalizzarle.
L’«ora» di Gesù, che nelle nozze di Cana «non è ancora giunta» (Gv 2,4), è il tempo della rivelazione nuova, il tempo che svela la luce e per contrasto le tenebre (cf Gv 1,4.5.8.9), l’occasione favorevole per fare una scelta di fondo: «Chi crede in lui non è condannato; chi non crede in lui è già stato condannato» (Gv 3,18.36). L’«ora in-compiuta» delle nozze di Cana giunge a compimento, a maturazione nel momento della morte: «Padre è venuta l’ora: glorifica il Figlio tuo perché il Figlio glorifichi te» (Gv 17,1).
In poche parole l’autore unisce l’ora (il tempo) e la gloria (il peso consistente della rivelazione). Per Gv, l’ora della morte è l’occasione, il «kairòs» di una duplice «gloria»: del Padre verso il Figlio e del Figlio verso il Padre. L’uno e l’altro rivelano la propria consistenza di vita: il Figlio nella risurrezione vissuta come obbedienza al Padre e il Padre perché nel Figlio rivela la nuova Toràh che è lo Spirito Santo, cioè la sua stessa vita, perché nel momento in cui il Figlio muore come uomo, vive da risorto e in tutti coloro che accettano il dono del suo Spirito di risorto: «E, chinato il capo, consegnò lo Spirito» (Gv 19,30).    (continua-5)

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella




La cultura scaccia la droga

Medellin: città traformata e riqualificata, a partire dalla cultura

Fino a una decina di anni fa, Medellín (quasi 2,5 milioni di abitanti) era capitale mondiale della violenza e del narcotraffico; oggi, grazie a una nuova amministrazione, è diventata un laboratorio di progetti sociali urbani e di sviluppo, con la partecipazione di tutti i cittadini, diventando un modello di convivenza… da esportare nel resto del paese e nel mondo.

Parques biblioteca: bastano queste due parole per riassumere la rivoluzione in atto a Medellín, seconda città della Colombia: da ex capitale del narcotraffico e della violenza a città dell’educazione per tutti e della democrazia partecipata. Due parole che esprimono un unico concetto: la nascita di influenti biblioteche, oggi frequentatissime, nei quartieri più poveri della città, dove molta gente non era mai andata a scuola e viveva fisicamente separata (da muri invisibili o dalla mancanza di collegamenti) dai luoghi cittadini dove si produceva cultura.
Non è una favola; e nemmeno un volo pindarico creato ad arte per giustificare un buon reportage giornalistico, sia chiaro: di sicuro ha dell’incredibile quello che accade da quasi un decennio a Medellín, ma è tutto vero. Pregasi cancellare dalla memoria, quindi, le immagini di stragi, assassinii mirati in mezzo alla strada, scorrerie di paramilitari legati a doppio filo ai cartelli della droga: tutto ciò oggi non avviene più.
Ecco il primo indizio per capire che la nuova Medellín ha nulla da spartire con quella che nel 1991 viveva 381 omicidi ogni 100 mila abitanti: 16 anni dopo, a fine 2007, quel numero è sceso a meno di un decimo, con 26 morti violente all’anno.
È morto Pablo Escobar, certo. Il «re del terrore», che nel 1989 era, secondo la celebre rivista Forbes, il settimo uomo più ricco del mondo, grazie al controllo dell’80% del mercato globale della cocaina, è stato ucciso nel 1993. Da allora, la gente ha ricominciato a uscire di casa, a smettere di avere paura.
Allora, la guerra veniva combattuta casa per casa; molte persone, soprattutto dei quartieri poveri, si erano unite a Escobar in cambio della sicurezza economica per la propria famiglia, come avviene per le mafie nostrane. Ora, come reazione opposta ad anni di violenza quotidiana, è scaturita, quasi dal nulla, un’enorme forza di volontà cittadina per interessarsi del «bienestar» comunitario, il benessere della collettività.
Un interesse che è convogliato nella creazione, nel 1999, di un movimento della società civile, poi diventato un partito politico inedito, perché totalmente indipendente dai «soliti» due schieramenti al potere: i liberali e i conservatori. Compromiso ciudadano è il suo nome, che in italiano suona come «Impegno di cittadinanza». L’anno dopo la nascita, il movimento-partito ottiene un buon risultato, ma non riesce a vincere; stravince nel 2004, quando il candidato sindaco, il professore di matematica Sergio Fajardo, ottiene il 46% delle preferenze degli ammessi al voto tra i 2,4 milioni di abitanti della metropoli colombiana, contro il 22% del rivale.
A dicembre 2007, alla tornata successiva, Compromiso ciudadano vince ancora, con il nuovo sindaco Alonso Salazar, fondatore del movimento assieme al suo predecessore.

CITTADINI AL POTERE
«Eravamo una ventina di persone speranzose in un mondo migliore possibile» esordisce Geovanny Celis, 50 anni, uno degli uomini di punta nel cambio radicale che il nuovo partito ha impresso nella mentalità della gente di Medellín. Un passato di educatore di strada a favore del reinserimento di prostitute, senzatetto, ragazzi di strada, Celis è stato assessore allo sviluppo economico e sociale fino all’inizio del 2009; ora ha lasciato il posto per appoggiare l’ex sindaco Fajardo alle prossime elezioni parlamentari. Nessuno meglio di lui, dati socio-economici alla mano, può quindi spiegare come sia avvenuto il Renacimiento, la stupefacente rinascita della sua città.
«Nessuna formula magica, piuttosto una coincidenza di due cambiamenti epocali: da una parte lo smantellamento della rete del narcotraffico, grazie al governo nazionale, che ha permesso l’estradizione degli elementi più pericolosi negli Stati Uniti e la riqualificazione dei paramilitari implicati nel giro di droga – spiega Celis -, dall’altra il risveglio della popolazione, che nel 1989 ha ottenuto l’elezione diretta del sindaco e da allora si è sempre più impegnata nella politica locale, per cambiare le cose».
Da qui si è sviluppato Compromiso ciudadano, che ha conquistato la fiducia dei cittadini con una potente arma bianca: la trasparenza assoluta. «Fin dall’inizio, ogni nostra riunione è stata pubblica, abbiamo cercato di riunire e far discutere fra loro più persone possibili, nelle sale pubbliche, nei centri parrocchiali – riprende Celis – e anche oggi è così, ogni comunità ha i suoi incontri aperti, e incide per davvero sulle politiche del comune. Basti pensare che il 26% delle spese comunali è deciso direttamente dalle stesse comunità, per legge».
Una scelta che funziona anche a livello economico, visto che, come recita uno dei principi dello stesso assessore uscente, «la plata no se puede perder»: vietato sprecare denaro. «Se sa di poter incidere sul proprio tenore di vita, la popolazione si rimbocca le maniche». Nel giro di soli quattro anni, dal 2003 al 2007, i negozi in città sono quasi triplicati, passando da 5.943 a 15.220. E la disoccupazione, dal 2001 a oggi, è passata dal 18,2% al 13,6%, una delle più basse di tutto il continente latinoamericano.
In tempi di recessione mondiale, l’esempio di Medellín è una luce che buca l’oscurità. «In tutto questo, la presenza dell’istituzione rimane comunque alta: il comune gestisce, con aziende municipalizzate, la rete idrica, il gas, le fogne, società che rendono molto, fatturando sei volte tanto il budget municipale» specifica Celis. Ovvero milioni di dollari da potere spendere subito.
«Ma quello che conta è il modo in cui vengono reinvestite queste cifre: il 30% degli utili, infatti, viene destinato a spese per due settori fondamentali: scuola e salute». Il motivo di questa scelta è legato a una linea d’indirizzo ben precisa. «Ci si è detti: la priorità è lo sviluppo umano, bisogna mettere ai primi livelli dell’agenda cittadina le necessità di chi è più bisognoso, includendo nella vita sociale gli indigenti, i disabili, oppure i molti rifugiati interni della guerra civile, spesso poveri e senza appoggi familiari allargati» argomenta Celis.
Detto fatto. Oggi Medellín è all’avanguardia nella parità di diritti sia nell’educazione pubblica che in campo sanitario; e per quanto riguarda l’accessibilità sta facendo passi da gigante, nonostante l’altitudine, attorno ai 1.500 metri, e la disposizione di interi quartieri sulle pendici di sette colline.

CULTURA PER TUTTI
Medellín, città natale di Botero (il famoso scultore colombiano, oggi residente in Italia), al quale è dedicata la piazza omonima in cui si ergono ben 23 delle sue «rotonde» sculture, è oggi un ottimo esempio di accesso culturale garantito a tutta la popolazione. Gran parte del merito è proprio di Compromiso ciudadano e del suo primo sindaco Sergio Fajardo, in prima linea nel cambiamento, che ha finito il suo mandato nel dicembre 2007, con il 90% del gradimento popolare: sue le decisioni, concordate con i cittadini, di convertire decine di edifici in disuso o poco valorizzati in nuove occasioni di coesione sociale, perché posti in luoghi strategici della città.
L’esempio più impressionante (anche a livello visivo) è l’enorme biblioteca pubblica España, inaugurata all’inizio del 2007 e collocata all’ingresso del quartiere Santo Domingo Savio, a lato di una delle più grandi baraccopoli della città. Una scelta non a caso, quella di avvicinare la cultura nei luoghi più poveri della città: ecco concretizzata l’inclusione sociale di cui parlava Celis.
Una mossa azzeccata: la España è frequentatissima, con un boom di iscrizioni ai vari percorsi educativi, soprattutto da parte dei residenti, per i quali la biblioteca è diventata un vero e proprio bene collettivo. Così come lo è diventata l’ultramodea teleferica inaugurata poco dopo la biblioteca, la linea K del Metrocable, che collega Santo Domingo Savio, posto su una collina, al centro della città. In pochissimi minuti.
La España è uno dei cinque Parques bibliotecas, così chiamati anche perché le biblioteche popolari sono circondate da una consistente area verde; le altre sono: Tomás Carrasquilla nel quartiere Quintana, Leon de Grieff nel Ladera, Presbitero José Luis Arroyave a San Javier, Belén nella zona sudoccidentale di Medellín. Tutte inaugurate tra il 2006 e il 2007 e, oggi, veri e propri melting pot di Medellín. «Vivo da queste parti da 54 anni. Prima qui era tutto violenza, desolazione e paura. Con l’arrivo della biblioteca, il panorama è mutato in modo radicale: ora guardiamo alla nostra zona con occhi di speranza» afferma José Alvarez, rappresentante di uno dei comitati cittadini di San Javier.
Non solo biblioteche: negli ultimi anni si sono rinnovati musei e parchi, come quelli di Pies Descalzos o Llera, ora pieni di giovani e famiglie; si sono costruiti ponti tra zone collinari confinanti, che prima non avevano alcun collegamento fra loro. Si sono aperte scuole popolari di musica: oggi se ne contano 97.
Per non parlare della spinta all’educazione scolastica: le iscrizioni sono aumentate del 10% in tre anni e, grazie anche alle borse di studio per migliaia di giovani provenienti da situazioni di povertà, l’accesso alla scuola secondaria è dell’87%, ovvero studiano quasi 9 ragazzi su 10. E con il programma «Pace e riconciliazione», dedicato ai giovani paramilitari sottratti al narcotraffico, almeno 4 mila persone hanno potuto frequentare corsi di formazione, la metà dei quali ha oggi un impiego.
All’impegno comunale, inoltre, si affianca in piena armonia quello della Pastorale sociale della Caritas diocesana, soprattutto promuovendo azioni a favore delle famiglie di desplazados (rifugiati interni), i cui figli spesso hanno difficoltà a inserirsi a scuola, e stimolando la responsabilità sociale del settore privato, anche attraverso incontri pubblici, l’ultimo dei quali si è tenuto il 12 maggio 2009.

IMPEGNO PER IL SOCIALE
Il programma di sviluppo di Compromiso ciudadano non ha tralasciato l’economia locale, destinandole incentivi pubblici per milioni di pesos con il programma Cultura E («E» sta per Emprendimiento, impresa). Grazie alla fine degli anni di violenza, molti imprenditori, anche stranieri, hanno ricominciato a investire in città, soprattutto nel settore del tessile e della tecnologia, e si prevede, da qui al 2020, la creazione di 7 mila nuove imprese e 700 mila posti di lavoro.
L’amministrazione del movimento-partito di cittadini, inoltre, ha un occhio di riguardo speciale per tutto quello che riguarda il bienestar social (benessere sociale), soprattutto di chi è in difficoltà: ecco allora nascere, nel 2007, il programma Medellín solidaria, che mira a ottenere l’uscita dalla povertà di 45 mila famiglie tra le più indigenti della città, attraverso servizi agli anziani, giovani disagiati, appoggio psicologico, educativo, anche economico.
C’è grande attenzione alle persone diversamente abili, «che sono almeno 117 mila, il 5,1% della popolazione, molti dei quali lo sono diventati durante la guerra civile» spiega Marta Sierra, 44 anni, oggi viceassessore ai servizi sociali, ma da 18 anni impegnata come tecnico comunale nel settore sociale. «Dal 2001 ogni edificio nuovo deve essere accessibile a tutti. Ma non basta – continua Sierra -. Nel 2007 abbiamo avviato un progetto decennale per garantire loro la parità di diritti; entro il 2010 almeno 3.500 persone disabili saranno inserite nel mondo del lavoro; ma ancora più importante è il fatto che delle loro esigenze se ne parli in incontri pubblici, come succede di questi tempi, per la prima volta in assoluto».
Il Comune, in questo senso, riceve l’aiuto di un partner italiano: il Consorzio Sir («Solidarietà in rete»), che collabora con Medellín dal 2005 e ha avviato, in agosto 2008, la creazione di un sistema di servizi integrato, che opera per la promozione delle persone disabili (almeno 810 i beneficiari diretti, più le loro famiglie) attraverso progetti educativi, di riabilitazione e di inserimento socio-lavorativo.
Il Consorzio, che ha base a Milano, offre inoltre sostegno tecnico alla cooperazione sociale cittadina, in particolare alla Promotora de empresarismo social, l’agenzia di sviluppo locale per l’impresa sociale, nata alla fine del 2007 e diretta da una giovane energica colombiana, la 30enne Catalina Pacheco: «A Medellín, il mondo associativo e cornoperativistico è in fermento, da progetti assistenzialistici si è passati in pochi anni a un “fare impresa” che sia sostenibile a livello umano» spiega la direttrice della Promotora.
In città sono concentrati almeno 1.500 enti del terzo settore, il 25% di tutta la Colombia. «La nostra esperienza sta facendo scuola, ci chiedono consigli da molte altre regioni del paese». A ben vedere, è tutto il «modello Medellín», che dovrebbe fare scuola ad altre metropoli mondiali.
Nella città in cui, nel 1968, la seconda Conferenza dell’episcopato latinoamericano aveva gettato le basi di una nuova chiesa sociale, si rivive oggi, dal basso, uno spirito di cambiamento concreto. In poco più di un decennio, a Medellín, una violenza terrificante ha lasciato il passo a una sete di cultura senza precedenti. Alla base, una scommessa di un gruppo di cittadini, vinta in partenza: quella dell’educazione alla convivenza, alla parità di diritti. Per tutti. 

Di Daniele Biella

Daniele Biella