Una storia fatta da donne

Migranti italiane a Buenos Aires

“Miradas de luz”, una mostra fotografica realizzata da ICEI MERCOSUR nel giugno 2008, racconta alcuni aspetti della migrazione italiana in Argentina mettendo in evidenza il ruolo avuto dalla donna
in questo processo migratorio.

Tra il 1870 e il 1950 circa 2.500.000 persone lasciarono l’Italia per emigrare in Argentina e tentare la grande avventura de «la Merica». Circa 500 mila erano donne, la maggior parte delle quali seguivano i padri e i mariti in cerca di fortuna.
Queste donne non partecipavano attivamente alla decisione di «partire» ed erano costrette a un ruolo di accompagnamento e di cura familiare, tuttavia, nonostante il trauma della lontananza, sono state capaci di portare avanti la propria vita con coraggio e di lottare socialmente per il riconoscimento e la tutela dei propri diritti.
Il tema migratorio non perde la sua attualità, specialmente in questi anni in cui si assiste a una progressiva «femminilizzazione» del fenomeno. Sono sempre più numerose le donne che emigrano sole e si fanno carico del sostentamento della famiglia che resta nel paese d’origine. Al cambio radicale, spesso si accompagna il distacco dai figli e le non sempre facili mansioni lavorative negli ambiti «di cura» domestica.  
ARGENTINA E ITALIA NELLA METÀ DEL SECOLO XIX
La Costituzione del 1853 e la Ley de Inmigración y Colonización del 1876 sono due momenti importanti dell’organizzazione della politica migratoria argentina del secolo XIX.
L’articolo 18 della Ley de Inmigración y Colonización definiva immigranti i lavoratori giornalieri, gli artigiani, industriali, agricoltori e professori minori di sessant’anni che decidevano di stabilirsi in Argentina. La legge stabiliva i vantaggi – estendibili a moglie e figli – cui avevano diritto i nuovi arrivati che mostravano buona condotta e attitudine al lavoro. Tra le altre cose, gli immigrati potevano:
– essere alloggiati e mantenuti a spese della Nazione, durante il tempo stabilito dagli articoli 45, 46 e 47;
– essere inseriti nel mercato del lavoro nazionale, in accordo alle proprie preferenze;
– essere trasferiti con spese a carico dello Stato, nella parte della Repubblica argentina in cui decidevano di vivere.
L’emigrazione italiana fu un esodo complesso e multiforme, che interessò circa 20 milioni di italiani e durò più di un secolo, dalla prima metà dell’800 alla seconda metà del ‘900.
Il processo migratorio della seconda metà del XIX secolo fu la conseguenza di una somma di diversi fattori economici e culturali, che ebbero risvolti particolari nelle differenti regioni: dalla crisi agraria che colpì il nord Italia al collasso economico del sud.
I potenziali emigranti ricevevano notizie dei destini possibili attraverso l’informazione data dal Goveo, dalle Compagnie di colonizzazione o di navigazione. Anche il passaparola era un canale importante che influenzava le scelte di parenti, amici, vicini e delle reti informali che si costituivano. 
Il viaggio iniziava quando i migranti lasciavano il paese natio per raggiungere i diversi porti: Genova, Trieste o Napoli. Molte volte la partenza era un avvenimento collettivo, a cui partecipavano interi gruppi di parenti e conterranei che partivano per l’estero.
In Italia, le realtà regionali erano molto forti. Al momento dell’imbarco gli emigranti liguri, calabresi, napoletani o veneti si scoprivano «italiani», situazione aliena che si rinforzava con lo sbarco, quando si imponeva chiaramente la condizione di «emigrante italiano».
componente migratoria femminile
Secondo il primo censimento, realizzato in Argentina nel 1889, nella prima ondata di immigrati la componente femminile era una percentuale minore: una donna ogni due uomini a Buenos Aires, una ogni tre a Rosario. Dal 1880 in avanti, con l’arrivo massiccio dei piemontesi e dei lombardi, il numero delle donne aumentò.
Nel secondo censimento nazionale del 1895 risultava che la proporzione delle italiane era del 9,5%, la maggior parte delle quali nella città di Buenos Aires.
Raramente le donne emigravano sole. Poche volte decidevano. Spesso viaggiavano con il gruppo familiare come spose, figlie, sorelle, madri o erano «chiamate» a posteriori, molte volte attraverso un matrimonio per procura. In questo caso viaggiavano in compagnia di un parente maschio.
La componente femminile ha permesso di rendere permanente la scelta migratoria.
Hotel de los Inmigrantes
I migranti che arrivavano in Argentina venivano accolti in un’apposita struttura che, tra il 1887 e il 1911, veniva chiamata «La Rotonda». Nel 1911 si inaugurò l’«Hotel de los Inmigrantes», un complesso di quattro piani adiacente al molo di sbarco che comprendeva l’hotel propriamente detto, uffici di lavoro, ospedale, cucina, panetteria e una mensa che ospitava fino a 1.000 persone a tuo.
Una volta sbarcati, i nuovi arrivati alloggiavano gratuitamente per cinque giorni presso l’hotel, tempo che poteva estendersi in caso di necessità. Tutti gli stranieri in possesso dei documenti di viaggio e in buona salute erano ammessi. Nessuno era illegale nell’Argentina dell’immigrazione di massa.
LOS CONVENTILLOS
La migrazione italiana si concentrò in parte nelle principali città del paese, in parte diede origine a centinaia di colonie italiane sparse per tutta l’Argentina. Tra le altre, Humberto 1°, Lago di Como, Garibaldi, Toscana, Bella Italia, Piemonte, Firenze, Rey Humberto, Victor Manuel, Rufino. Nella provincia di Córdoba sorsero più di 400 colonie, alcune delle quali mantengono tuttora intatte le tradizioni di origine.
Gli italiani che si installarono nel Chaco crearono la propria industria del cotone. A Mendoza e San Juan sorsero molte aziende vinicole, a Tucumán fiorì l’industria dello zucchero, mentre nel Rio Negro un imponente lavoro di irrigazione rese possibile la creazione di oasi frutticole, come Villa Regina.
Nelle zone rurali, le donne si occupavano della casa, dell’orto e dell’allevamento di galline e conigli. Spesso lavoravano nei campi, a fianco degli uomini.
Gran parte dell’immigrazione italiana che si stabilì a Buenos Aires, si installò a La Boca e diede al quartiere un’impronta culturale molto forte. Oltre al dialetto della regione di provenienza, i migranti parlavano il cocoliche, un miscuglio di spagnolo e italiano.
Gli uomini lavoravano al porto, scaricavano le navi, lavoravano nei cantieri e costruivano abitazioni precarie di lamiera o legno, i «conventillos» in cui ogni famiglia disponeva di una stanza e condivideva la cucina e il bagno.
Regno indiscusso delle donne, il conventillo accoglieva decine di famiglie. Senza luce e senza aria, le abitazioni erano allineate attorno a un patio comune, dove conviveva una moltitudine di lingue e dialetti. Le donne passavano la maggior parte della giornata lavando, cucinando e badando ai bambini.
Il patio e la strada erano gli spazi di socializzazione e scambio, dove le donne svolgevano le attività domestiche o lavorative.
Lo sciopero delle scope
Le donne e i bambini dei quartieri di La Boca e Barracas furono i protagonisti di una delle proteste più famose di inizio del secolo scorso (1907), conosciuta come «la huelga de las escobas», (lo sciopero delle scope).
Gli inquilini del conventillo «Los cuatro diques», nel quartiere Barracas, rifiutarono l’aumento dell’affitto e in pochi giorni altri 500 conventillos si unirono alla protesta. Gli inquilini elaborarono una lunga lista di reclami che consegnarono ai portinai, incaricati di ritirare le quote mensili.
L’assenza degli uomini per lavoro obbligava le donne e i bambini ad affrontare la polizia e le autorità giudiziarie. Ne «las marchas de las escobas», (le marce delle scope), bambine e bambini di tutte le età manifestarono con le scope in mano lungo le strade del sud di Buenos Aires.
La mobilitazione coinvolse a catena molti conventillos, da cui la polizia venne più volte cacciata a colpi di scopa e secchiate d’acqua bollente.
Gli anarchici e i socialisti appoggiarono politicamente e materialmente gli scioperanti, e misero a disposizione i locali per le assemblee.
Gli scontri con le forze dell’ordine divennero sempre più crudi. Il funerale di un ragazzo di 15 anni, Miguel Pepe, colpito a morte dalla polizia, si trasformò in una marcia di 15 mila persone, capeggiata dalle donne.
Verso la metà del 1907 le ribellioni si spensero, benché nei conventillos coinvolti nella protesta le condizioni di vita fossero addirittura peggiorate. Molti degli scioperanti stranieri vennero espulsi dal paese.
VITA QUOTIDIANA
«No sin esfuerzo me adapté a todo. Aprendí a hablar el español con el trato de la gente, y sola, a leer y escribir en este idioma (…). Nos llevó un tiempo acomodaos a la realidad de este nuevo destino, de un país que no era el nuestro, pero que fue el de nuestros hijos». (Non fu senza sforzo che mi sono adattata a tutto. Ho imparato a parlare spagnolo relazionandomi con la gente e, da sola, a leggere e scrivere in questa lingua. Ci volle un po’ di tempo per abituarci alla nuova realtà di un paese che non era il nostro, ma che diventò quello dei nostri figli). (Maria Rizzoti, in Mujeres Inmigrantes. Historias de vida).
Le donne furono le mediatrici tra la cultura di origine e quella di arrivo. Ebbero un ruolo fondamentale nella trasmissione culturale e nel mantenimento dei tratti identitari, in particolar modo nella preservazione delle tradizioni gastronomiche e della medicina popolare. Le ricette dei piatti regionali passarono da madre a figlia, con l’aggiunta di ingredienti locali. Le donne portarono con sé le spezie usate abitualmente nella cucina italiana, come il rosmarino, la salvia, il timo, l’origano.
Per quanto riguarda il lavoro, alla fine del XIX secolo il mercato femminile offriva poche attività in genere poco qualificate, la maggior parte nel servizio domestico. Le donne lavoravano come cameriere, lavandaie, cuoche, stiratrici, camiciaie o ricamatrici.
Il lavoro femminile era spesso invisibile, dato che le attività domestiche non venivano remunerate e quindi non erano considerate veri lavori. In realtà le donne si occupavano di molte cose, tra le quali le faccende domestiche, i pasti, i bambini, la medicina popolare, le conserve, il pane e il sapone.
Con l’industrializzazione, le donne si incorporano nelle fabbriche tessili della capitale – come Alpargatas e Grafa – e in diverse fabbriche di Barracas che producevano fiammiferi, tabacco, candele e sigarette.
Anche l’industria dei vestiti iniziò ad assumere lavoratrici per le diverse fasi della produzione: disegno di modelli, taglio e cucito, stiratura. La maggior parte lavoravano a domicilio, poiché la macchina da cucire era un investimento accessibile alle famiglie operaie. Negli stabilimenti produttivi il salario femminile era inferiore a quello maschile. Nella fabbrica di Alpargatas, ad esempio, per lo stesso orario di lavoro le donne ricevevano da uno a due pesos e gli uomini da tre a quattro pesos.
Impegno sociale
A partire dal 1896, le donne si dedicarono anche all’attività sindacale. I conflitti iniziarono nei primi anni del XX secolo in alcune industrie di sigarette, fiammiferi e tessuti, dove la mano d’opera femminile immigrata era numerosa e superava la mano d’opera locale del 25%.
Nel 1904 le sarte e le disegnatrici di moda furono protagoniste di un famoso sciopero in cui chiedevano miglioramenti di stipendio e migliori condizioni di lavoro. Nel 1919 ci furono importanti scioperi del personale telefonico per orario abusivo e ambiente di lavoro inadeguato.
Le italiane furono attivamente presenti nei movimenti di lotta per i propri diritti. Tra queste, Carolina Muzzilli, socialista e figlia di italiani, partecipò a varie manifestazioni, assemblee e congressi. Diresse il giornale «Tribuna Femenina» e scrisse articoli sui diritti delle donne e contro lo sfruttamento. Formò parte del «Centro Socialista Femenino» fondato nel 1902, il cui fine era far conoscere alle donne i propri diritti e doveri.
La dottoressa Juliana Lanteri, di origini piemontesi, fu la prima donna a ottenere un titolo universitario in Argentina e lottò a favore del suffragio femminile. Nel 1919 si presentò come candidata deputata e realizzò una simulazione di voto alla quale parteciparono circa 4 mila cittadine. Da quel primo tentativo passarono più di 30 anni perché il voto femminile si convertisse in un diritto reale in tutta l’Argentina.
Il presente
Oggi l’Argentina è un paese di emigrazione e immigrazione.
Dalla fine degli anni ’70 del XX secolo, molti argentini nipoti e bisnipoti di italiani hanno deciso di ripetere il cammino che i loro avi avevano fatto un secolo prima, tornando a migrare. La dittatura militare e la crisi economica degli anni ’80 e del 2001 sono state alcune delle cause fondamentali di questo nuovo esodo.
Tutto ricomincia. Le condizioni di viaggio e le comunicazioni sono altre, però il sentimento di sradicamento è lo stesso. Le radici sono lontane e la lingua è solo un suono familiare.
Terminata l’ondata europea del secondo dopoguerra, in Argentina acquista visibilità il flusso migratorio proveniente dai paesi limitrofi, come Paraguay e Bolivia. Minori ma sempre considerevoli gli arrivi da Cile, Uruguay, Brasile e Perù.
I nuovi venuti si concentrano nelle aree urbane vicine ai grandi centri di consumo. Accanto alle migrazioni «tradizionali», si registra negli ultimi decenni la presenza di nuove comunità di immigrati promossa direttamente dal governo di Menem durante gli anni ’90 – come quella russa e ucraina – e, più recentemente, quella degli africani. Molti sono richiedenti asilo che, non essendo riusciti a raggiungere l’Europa, hanno optato per una destinazione meno richiesta.
Benché la migrazione dai paesi limitrofi sia storica, la società la considera un fenomeno nuovo e sembra dimenticare le caratteristiche in comune con gli esodi europei dei secoli XIX e XX: il predominio delle reti personali nei circuiti di distribuzione dei migranti, i modelli di accompagnamento familiare e l’importanza della comunità di origine come referente culturale e affettivo. Tipiche della migrazione più recente, sono invece le rimesse e la circolarità del fenomeno.
I migranti boliviani si organizzano in maniera analoga a quella degli italiani arrivati a Buenos Aires nel secolo XIX. I boliviani in Argentina hanno dato vita a circa 200 associazioni gestite da giovani tra i 30 e i 45 anni, in prevalenza commercianti. Altri immigrati lavorano nell’industria, nell’agricoltura e nella costruzione edilizia.
Oggi però c’è un’inversione nell’ordine tradizionale della migrazione. In passato, i primi a partire erano gli uomini. Attualmente si assiste a una «femminilizzazione» dei flussi migratori: confermate nel ruolo di gestione familiare, le donne scelgono di lavorare in paesi lontani mantenendo il più possibile il legame con la terra d’origine, dove vogliono ritornare per ricongiungersi con i propri affetti.
Il coraggio e la dignità sono i due elementi che caratterizzano le migranti. La nostalgia rimane sullo sfondo di un presente in costruzione. 

Di Paola Cereda

Paola Cereda




Migrazione di ritorno

La comunità polacca di Pomaretto (To)

Dalle miniere di carbone polacche a quelle del talco in Piemonte, con minore fatica e maggiore guadagno; ma molte cose stanno cambiando e gli immigrati polacchi aspettano solo l’occasione della migrazione di ritorno.

«I primi polacchi sono arrivati in galleria nel 2000 – racconta Ezio Sanmartino, capo servizio presso la cava di talco della Rio Tinto-Luzenac di Rodoretto, da 30 anni al lavoro nel sottosuolo -. L’azienda non trovava più persone locali disposte a scendere nelle gallerie e ha contattato un’agenzia polacca: sono arrivati in 26 in un colpo solo». Tutti assunti a tempo indeterminato. «All’inizio non è stato facile – continua il capo servizio, ormai prossimo alla pensione – perché i minatori polacchi provenivano da cave di carbone. Dove l’attività estrattiva è completamente diversa. Inoltre la lingua era un vero problema».
I responsabili della gestione dell’impianto hanno subito messo a disposizione dei nuovi arrivati una professoressa di italiano, e organizzato tui in galleria in modo che ci fossero sempre coppie formate da un italiano e un polacco. «Questo sicuramente ha aiutato l’integrazione sul posto di lavoro – spiega Sanmartino -, anche se ormai i polacchi sono in maggioranza, 21 su 29, ed è diventato impossibile rispettare il criterio della “coppia mista”. Bisogna comunque dire che “loro” sono più disciplinati dei “nostri giovani”, sono arrivati con esperienza in galleria e lavoravano di più. Una volta. Perché oggi, direi, si sono abbastanza omologati ai ritmi italiani… E hanno giustamente eletto un loro delegato sindacale».
Al signor Ezio capita spesso di accettare l’invito dei colleghi polacchi, che non mancano mai di offrirgli vodka, insaccati artigianali e caffè portati direttamente dal loro paese: «Si può dire che sono ben visti in valle – sottolinea Ezio Sanmartino -, si vedono spesso in giro la domenica e c’è addirittura un ragazzo che va a suonare l’organo nella parrocchia di Perrero, facendo cantare tutti in polacco».
Anche se, ammette il capo servizio, hanno lasciato tutti la famiglia al paese d’origine e appena possono tornano a passare i periodi di vacanza in Polonia. «Addirittura qualcuno dice di voler tornare a vivere nel paese d’origine – spiega -, perché ormai la differenza di salario si è praticamente annullata».
Gli arrivi di polacchi si sono effettivamente fermati. E la proprietà è nuovamente in difficoltà nel reperire mano d’opera: «Le gallerie saranno di sicuro attive ancora per 6 o 7 anni – spiega Sanmartino – e nel frattempo stanno facendo campionamenti per cercare altri filoni. Hanno messo degli annunci di ricerca personale sui giornali specializzati, ma per ora ancora nulla. Perché la miniera è un lavoro che ha il suo fascino, ma poi bisogna fare i conti con la fatica, il fango, lo sporco. E ai giovani oggi tutto questo non piace. Finirà che arriveranno da qualche altro paese in difficoltà, e tra poco non ci sarà più un italiano impiegato nella cava di talco. Pensi che già i miei due nonni e mio padre hanno lavorato a Rodoretto. All’inizio io mi son detto “mai in miniera”. Poi compiuti i 18 anni sono stato come attratto. E oggi, dico la verità, non mi dispiacerebbe se uno dei miei due figli seguisse le mie tracce. Anche se penso sia difficile: uno è diventato ingegnere informatico, l’altro ha 14 anni e sicuramente continuerà anche lui gli studi».

«S ono in Italia da quattro anni – dice Rafael Kubanda -. Vengo da Bielsko Biala, 60 km da Katoviza, zona mineraria. Mio padre e mio fratello sono minatori e sono venuti qui in Italia a lavorare nella cava della Rio Tinto-Luzenac in Val Germanasca otto anni fa. Poi hanno chiamato anche me».
In Polonia Rafael aveva un buon posto di lavoro, faceva consegne con un furgone e aveva uno stipendio considerato «alto» per i parametri polacchi di allora. «Il lavoro è molto diverso – spiega -. Qui sono più tranquillo, faccio le mie 8 ore per 5 giorni la settimana. In Polonia ero costretto a lavorare 13 ore al giorno, dalle 5 e 30 alle 22».
E inizialmente c’era anche una certa differenza di stipendio. «Quattro anni fa un euro valeva 4,20 sloti, ora ne vale solo più 3,40 – continua Rafael Kubanda -. E dicono che salga ancora di qui al 2011, anno in cui anche noi adotteremo l’euro. Alla fine, tra qualche anno, guadagnerò tanto quanto guadagnavo a casa mia».
Rafael Kubanda ha moglie e un figlio, e all’inizio della sua esperienza lavorativa in Italia si era trasferito da Bielsko Biala a Perrero in Val Germanasca, unico caso tra i minatori polacchi, con tutta la famiglia: «Avevamo deciso di venire tutti – ricorda il minatore -, mia moglie avrebbe imparato la lingua e trovato un lavoro anche lei. Dopo un anno ci siamo spostati a Pomaretto, dove mio figlio ha cominciato l’asilo. Ma purtroppo nel 2007, dopo un anno e mezzo, mia moglie ha deciso di tornare in Polonia con mio figlio. Non si trovava bene, non è riuscita ha trovare un lavoro che le piacesse e pativa la lontananza dai parenti».

A desso, appena può, Rafael  torna a Bielsko Biala: «Ogni due mesi cerco di mettere insieme i giorni liberi e vado una settimana dalla mia famiglia. Spesso in macchina con gli altri colleghi per spendere meno. Oppure con il pullman da Torino o con i voli low cost».
Un cambiamento netto di prospettiva. Da aspirare a diventare cittadino italiano a lavoratore «in trasferta». «Non abbiamo molti rapporti con i locali – spiega il polacco -. Ogni tanto andiamo alle feste di paese, ma non frequentiamo molto le famiglie. Nemmeno quando c’era qui mia moglie; anche se in quel periodo vivevamo in modo diverso: facevamo più giri, uscivamo di più. Andavamo anche qualche volta al mare. Ora non più. Non ho nemmeno più l’auto. E qui senza macchina è difficile vivere. Anche le montagne, che mi piacciono tanto, le vedo dalla finestra, ma arrivarci a piedi è lunga. Per cui preferisco stare con i connazionali. E piuttosto di andare a spendere in giro, ci compriamo della birra e ce la beviamo a casa. Con questo non posso dire di aver mai avuto problemi con i locali: vado d’accordo con tutti, sono gentili e conviviamo benissimo. Poi magari chissà cosa pensano di noi…».
La giornata di Rafael si svolge tra il magazzino della Rio Tinto-Luzenac e l’alloggio di Pomaretto. In attesa di maturare i giorni per tornare a casa dalla famiglia. «Da un anno niente più sottosuolo, lavoro in magazzino – spiega -. Ho avuto un infortunio in galleria e quando sono tornato dalla mutua mi hanno offerto questo posto. Il mio infortunio era il primo dopo due anni, perché la sicurezza in miniera è la prima cosa».
La sera Rafael Kubanda, quando torna a casa, passa più di un’ora a parlare con moglie e figlio: «Uso skype, perché Inteet costa molto meno delle schede telefoniche». Poi si mette a tavola con il collega polacco, con cui divide l’alloggio, per la cena: «Mangiamo cucina italiana – spiega – che ci piace molto. Da noi si mangia molta carne e patate. E il pane è un po’ diverso. Qui è dolce, da noi è all’aceto. Ma l’unica cosa che qui manca veramente è la salsiccia speziata, come la facciamo noi. Non sapete proprio farla! In compenso sapete fare bene tante altre cose, come pasta e formaggi, che da noi non ci sono».
La prospettiva della famiglia Kubanda è sicuramente quella di tornare a vivere al più presto a Bielsko Biala: «Mia moglie abita a casa dei suoceri – spiega Rafael -. E penso che la ristruttureremo per il futuro. Sicuramente non investiamo in Italia ma in Polonia. Appena trovo un altro lavoro nel mio paese, in cui mi paghino più o meno come qui too. Ma so che più a lungo rimango in Italia e più difficile diventa tornare in Polonia. Oggi ho 33 anni, e in Polonia chiedono lavoratori al massimo di 36 o 37. Sono gli ultimi anni in cui possiamo riorganizzare la nostra vita». 

Di Maurizio Dematteis

Maurizio Dematteis




Due culture ma… senza patria

Gli ivoriani di Dronero (Cn)

Ottenere la cittadinanza del paese ospitante è il primo passo per l’integrazione con la società locale… Ma rimane incancellabile la nostalgia per il paese di origine.

«N el 2008, la comunità ivoriana di Dronero (piccolo comune montano in provincia di Cuneo, ndr) è stata colpita da un lutto molto sentito: è morta una donna con un bambino di un mese. In paese si sono riversati centinaia di connazionali per assistere al funerale. Era impressionante: sono arrivati fin da Milano e Perugia. Insieme al Comitato per gli immigrati di Dronero hanno raccolto i soldi per mandare la salma al loro paese».
Elda Gottero, insegnante di scuola media in pensione, presidente della locale associazione «Voci del mondo» e animatrice dei corsi serali di alfabetizzazione per stranieri, ricorda con commozione l’evento. È sicuramente la persona più informata sulle comunità straniere in paese. Perché ha seguito l’arrivo dei primi ivoriani, la nascita della numerosa comunità e i suoi sviluppi.
«Oggi a Dronero abbiamo 750 stranieri residenti, su una popolazione di poco più di 7.000 abitanti. E la comunità ivoriana, con i suoi 220 membri registrati, è sicuramente la realtà più grossa». Era il 1992 quando si cominciò a vedere i primi uomini di colore nella zona. «Erano ivoriani irregolari – continua la professoressa – attirati dall’opportunità di lavorare nel corso dei quattro mesi della raccolta della frutta. E venivano a risiedere a Dronero per via dei costi di soggiorno più bassi rispetto a Cuneo».
In seguito alcuni di loro trovarono lavoro anche in inverno presso le piccole fabbriche della zona. «Perché qui da noi i neri sono molto meglio visti di magrebini e balcanici – continua la Gottero -. La gente dice: “I neir a sun pì bun. E a travaiu ad’pì” (i neri sono più buoni e lavorano di più, ndr)».
Nel 1998 viene approvata la Legge sull’immigrazione Turco-Napolitano, e gli extracomunitari possono mettersi in regola con un contratto di lavoro regolare. «In quel periodo arrivarono molti ivoriani dal Sud Italia – ricorda la professoressa – perché, mi dicevano, che in meridione nessuno gli avrebbe mai fatto un contratto. Qui da noi invece, con un po’ di fatica, riuscivano a ottenerlo. Sono nate in quel periodo molte cornoperative, che chiamavano i soci stranieri nel periodo di gran lavoro per poi lasciarli a casa quando non servivano. Una volta sistemati i documenti, comunque, gli immigrati hanno chiamato a Dronero amici e parenti». Ed è così che è nata la comunità ivoriana più grossa della provincia di Cuneo, nonché una delle più numerose in Piemonte.
«Una vera integrazione tra le persone di origine ivoriana e gli abitanti di Dronero è ancora al di là da venire – spiega Elda Gottero con rassegnazione -. I nuovi arrivati stanno prevalentemente tra loro e anche i ragazzi che frequentano le scuole faticano a legare con i compagni».
Da qualche anno la comunità ospite ha allestito un centro culturale presso un capannone affittato poco fuori dal centro di Dronero. «Organizzano feste, celebrano matrimoni e si ritrovano per le preghiere durante il ramadan. Qualche volta invitano imam illustri che arrivano da altri comuni limitrofi».
E proprio l’elemento religioso sembra essere un forte collante per la comunità ivoriana, per la stragrande maggioranza di fede musulmana. «Siamo ormai abituati a vedere, in occasione delle feste, le donne ivoriane nei loro vestiti tradizionali dai colori sgargianti – spiega Elda Gottero -. Ma da qualche tempo a questa parte hanno cominciato a fare la loro comparsa anche i veli islamici. Che prima, almeno a Dronero, non esistevano. Mi dicono che la componente religiosa in Italia è molto più accentuata che al loro paese. Perché la stragrande maggioranza delle donne in Costa d’Avorio non ha mai messo il velo. Molte di loro arrivate a Dronero, dopo qualche mese, cominciano a metterlo».
Gli ivoriani a Dronero sono in costante aumento, e il comune continua a ricevere iscrizioni di stranieri all’anagrafe. I cambiamenti in paese si notano, secondo la professoressa. Anche se in realtà, tolto il call center del signor Bakary Dembelé in centro paese, non esistono ancora esercizi commerciali o attività gestite da ivoriani.

«A vevo 19 anni quando son partito da Abidjan, in Costa d’Avorio. Ho preso un aereo e sono venuto in Italia per trovare lavoro, perché da noi era impossibile campare. La scelta è stata casuale, non conoscevo l’Italia, ma era il paese più comodo da raggiungere tra quelli in cui non c’era bisogno di visto d’entrata».
Bakary Dembelé, 37 anni, sposato con tre figli, racconta la scelta più importante della sua vita seduto al bancone del call center aperto nel centro di Dronero nel 2003. «Ad Abidjan ho studiato presso la scuola coranica e in seguito ho cominciato quella francese. Sono partito prima di finire il percorso di studi, e arrivato in Italia, trascorsi i primi tre mesi con un permesso di soggiorno da turista, sono diventato clandestino».
Il primo periodo di residenza in Italia il signor Dembelé l’ha passata a Napoli, dove un gruppo di connazionali gli ha trovato un lavoro in nero. «Dopo qualche anno sono andato a lavorare a Cuneo – ricorda l’ivoriano -, mi sono regolarizzato, e sono tornato ad Abidjan per sposarmi».
Bakary Dembelé oggi, oltre ad aver aperto con la moglie il call center, è operaio presso una ditta metalmeccanica di Dronero, che realizza parti per veicoli speciali Fiat. «Da quando sono nati gli ultimi due figli non siamo più tornati in Costa d’Avorio – spiega l’ivoriano -. I parenti li sentiamo per telefono e le notizie le vediamo al computer o in tv con la parabola».
Bakary non nasconde che qualche volta, dopo una telefonata con un parente, viene preso dalla nostalgia: «La cultura italiana mi piace molto, ma è come se stessi vivendo in un universo parallelo – spiega -: mi manca il mio paese natale, la mia terra, ma quando ci vado, dopo pochi giorni mi viene la nostalgia dell’Italia. Perché ormai in Costa d’Avorio è tutto cambiato. Capita anche agli italiani che vivono per un po’ in Costa d’Avorio, quando tornano in Italia hanno problemi a reintegrarsi. E lo chiamano mal d’Africa…».
Non più ivoriano, non ancora italiano. Il signor Dembelé si sente ormai un «senza patria». «Sicuramente l’accoglienza in Italia per noi è stata buona – spiega l’ivoriano -. Dronero è uno dei paesi della provincia di Cuneo con più extracomunitari: gli ivoriani nella zona oggi sono quasi un migliaio, e dal 1990 al 2008, in concomitanza con la crisi politica del nostro paese, sono praticamente raddoppiati. Siamo davvero tanti, e capita a volte di trovarsi a cena con famiglie di Dronero. Mi sembra un sintomo di buona integrazione».
Anche se, fa capire Bakary, gli incontri «misti» non sono certo la regola. E i membri della comunità locale ivoriana continuano a trovarsi tra loro in occasione delle feste tradizionali o religiose. Inoltre la moglie Tagarigbé Dembelé «parla meno l’italiano – spiega il marito -, perché essendo una mamma con tre figli ha meno tempo per badare all’integrazione. Per lei è dura, non ha i parenti vicini e, anche se io cerco di fare la mia parte, non è facile. Perché i figli danno la felicità ma sono anche un bell’impegno…».

C on due lavori, tre figli e tanta voglia di migliorare la loro condizione perché, dice il capofamiglia: «Ho sempre la tendenza a crescere. E se mi viene in mente un’altra attività come quella del call center per soddisfare nuove esigenze dei migranti, la farò».
La famiglia Dembelé ha sicuramente dovuto affrontare grossi cambiamenti. «In Africa vivi in un altro mondo, dal cibo ai comportamenti, ai rapporti – continua Bakary -. Se sei abituato a vivere qui, giù ti trovi malissimo, ma se in Africa ci sei nato e cresciuto te la “fai andare”. Da noi c’è più il senso dell’amicizia, mentre in Italia sono tutti più distaccati a causa della vita frenetica. Ma se si parla ad esempio di sanità, non c’è paragone. In Costa d’Avorio la sanità pubblica è pessima».
Il vero grosso problema per la comunità ivoriana, come per quasi tutti gli immigrati extracomunitari sul nostro territorio nazionale, è quello della burocrazia: «Per fare un documento valido tre mesi chiedono un sacco di cose e lo aspetti anche un anno – spiega Bakary -. E se ti chiamano per un lavoro vogliono il permesso di soggiorno, che se non ti è ancora arrivato ti fa perdere l’opportunità».
Ma nonostante tutto, la famiglia Dembelé è ormai sicura della scelta fatta: «Penso di aver fatto la scelta giusta – spiega il capofamiglia -. Il nostro futuro è questo. I miei figli stanno crescendo qui, e se decidessimo di rientrare per loro sarebbe davvero difficile. C’è qualche mio connazionale che alleva i figli in Costa d’Avorio presso i parenti. Ma io penso che loro debbano stare con i genitori, e un domani avere una doppia cittadinanza. Che è sempre una cosa in più: imparano la cultura italiana a scuola e quella ivoriana da me e mia moglie». 

Di Maurizio Dematteis

Maurizio Dematteis




Tra nostalgia e integrazione

I turchi di Pietrabruna (Im)

La comunità turca nella provincia di Imperia è consistente; le amministrazioni locali cercano di offrire opportunità di integrazione, ma non è sempre facile, sia per mancanza di mezzi che per la resistenza degli immigrati, specie tra i più anziani. 

«Quando hai oltre 100 cittadini stranieri residenti su 390 abitanti si pone un problema di tenuta. Non si tratta assolutamente di razzismo o intolleranza, è un problema di numeri: problemi con le scuole, con i parcheggi ecc.: 100 nuovi cittadini che si aggiungono ai residenti rischiano di mandare in tilt tutti i servizi». Riccardo Giordano, sindaco di Pietrabruna, piccolo comune di 591 abitanti sparso in diverse borgate nell’entroterra della provincia di Imperia, non usa mezzi termini per spiegare la trasformazione vissuta dal suo piccolo comune.
«Abbiamo ben 148 stranieri residenti nel comune, di 14 paesi diversi, in maggioranza, 94, di origine turca. E questi ultimi sono tutti concentrati nella borgata centrale di Pietrabruna». Era la seconda metà degli anni ‘90 quando la vecchia polveriera militare dismessa, che si trova sulla strada d’accesso al piccolo comune imperiese, viene trasformata in un centro di accoglienza per profughi kurdi, in fuga dalla persecuzione subita nella loro regione d’origine. Il piccolo centro arriva ad ospitare fino a 2.500 persone. Alcune delle quali riescono a trovare lavoro e stabilirsi a Pietrabruna.
«Nel 2000, quando sono diventato sindaco, i turchi non erano più di una decina – ricorda Riccardo Giordano -. Poi è successo che famiglia chiama famiglia, e pochi mesi fa abbiamo raggiunto il top. E si, perché più di così non ci possono stare fisicamente, non ci sono più case disponibili». E nonostante le periodiche proteste di alcuni residenti che si sentono «assediati», il primo cittadino cerca di gestire la situazione.
«Se dal punto di vista culturale l’atteggiamento di alcuni abitanti è “fuori dalle scatole”, dal punto di vista economico è “belin che gli affitto la casa”. Poi c’è la maggioranza silenziosa, che non si esprime. In mezzo, noi del comune, che cerchiamo di fare da mediatori».
Ma l’arrivo dei turchi ha anche permesso al comune di mantenere attivi alcuni servizi, che altrimenti sarebbero stati dismessi. «La scuola ad esempio, la manteniamo aperta a tutta la popolazione grazie ai bambini turchi – spiega il primo cittadino -. Nel 2008 infatti su sei bambini nati, cinque sono turchi e uno italiano».
Ma l’altra faccia della medaglia è che alcuni scolari stranieri arrivano durante l’anno, senza conoscere la lingua, e ci vorrebbe il sostegno di un insegnante d’appoggio. Che l’Istituto comprensivo scolastico non riesce a garantire. E finisce che l’amministrazione comunale deve farsi carico del servizio. «Tuttavia non dobbiamo preoccuparci più di tanto – tranquillizza il sindaco -. Qui fortunatamente non abbiamo mai avuto problemi di ordine pubblico. Guai, diventerebbe difficile amministrare la situazione. I turchi sono molto tranquilli, tutti occupati nell’edilizia. Molti magari lavorano in nero, ma altrettanti hanno aperto partita iva, lavorano onestamente e pagano le tasse». Sono specializzati in muri in pietra.

Il vero problema da affrontare in un futuro prossimo, secondo Riccardo Giordano, è quello dell’integrazione della nuova comunità. «Qui integrazione non ce n’è, perché loro non la cercano. Forse ci sarà in un’altra generazione, ma oggi in paese non c’è nessuna visibilità della comunità turca, non hanno aperto negozi né creato nulla di loro. È tutto come prima. Le donne velate le vedi solo quando vanno a fare la spesa. Altrimenti stanno in casa. I turchi si frequentano tra loro ed escono poco».
La giunta comunale ha organizzato corsi di italiano per le donne turche realizzati da una maestra madre lingua. «Non so se il prossimo anno riusciremo a riproporre il servizio – continua il primo cittadino – perché dobbiamo ancora trovare le risorse economiche. L’Ici non c’è più e le spese aumentano. Bisognerebbe anche costruire delle occasioni di confronto, qualche festa assieme per promuovere l’integrazione. Ma non ce la facciamo a far tutto da soli».

«Alle olimpiadi io tifo per l’Italia e non per la Turchia. Perché ormai il mio posto è questo. Sono arrivato a Pietrabruna nel ’99 da Sorgum, provincia di Yozgat, vicino alla capitale Ankara, che avevo 12 anni. Insieme a me tutta la famiglia: padre, madre, quattro fratelli maschi e due sorelle». Questa la confessione di Karaman Ismail, che insieme a tre cugini turchi racconta la sua storia seduto al dehor del bar, nella piazza del paese.
«Partito dalla Turchia – racconta il giovane – sono venuto subito qui. Mio padre lavorava a Pietrabruna come muratore dal 1996, e io, dopo qualche anno di studio, ho aperto una ditta edile con mio fratello. Mio padre aveva conosciuto un connazionale in Germania che gli parlò della provincia di Imperia, dicendo che si trovava lavoro. Abbiamo deciso di venirci tutti».
La comunità turca della provincia di Imperia, secondo Karaman, conta oggi circa 2.500 persone. Di cui ben 94 residenti nel piccolo comune di Pietrabruna. «Il grosso problema per chi arriva qui è trovare casa – spiega -. Giù ad Imperia per una stanza ti chiedono anche 800 euro al mese. Per questo molti sono venuti a stare qui a Pietrabruna, dove si trova anche per 250».
Altro problema, ammette il giovane, è quello della lingua. Anche se, dice: «L’italiano è più facile di tedesco e inglese. E tutto sommato è stato facile impararlo. Chi non lo parla, e purtroppo sono ancora molti, è perché non vuole integrarsi. E questo non è giusto; alcuni vengono qui esclusivamente per lavorare e fare i soldi con la sola idea di tornare in Turchia. Vogliono prendere in giro la gente. Ma a me, come a tanti della mia generazione, non va. Io tra qualche mese prendo la cittadinanza, almeno sono tranquillo di poter rimanere».
Karaman è amico di tutti, parla con i connazionali e i liguri indifferentemente. Suo papà, invece, appartiene a un’altra generazione, non parla ancora molto l’italiano, e tra qualche anno vorrebbe tornare in Turchia. «Mio padre adesso lavora meno, ha cominciato a 12 anni e oggi ne ha 48. Arrivato in Italia ha lavorato per ditte locali, poi appena ottenuto il permesso di soggiorno ne ha aperta una sua. Ma ora è vecchio e tocca a noi provvedere alla famiglia; penso che tra tre o quattro anni toerà a Sorgum».
L’idea di tornare in Turchia al giovane turco invece proprio non va. «A volte mi viene la nostalgia del mio paese – spiega – ma mi va via in fretta. Quando too per le vacanze trovo sempre tutto cambiato. La gente mi guarda in un modo diverso, e anche la mentalità ormai non mi appartiene più. Mi sento a posto più qui che al mio paese, e in Turchia non riuscirei più a viverci. Noi giovani non ce la facciamo più a tornare».

La famiglia Ismail, che ha da poco comprato casa nel piccolo comune ligure, ha comunque conservato la casa di famiglia in provincia di Yozgat. Dove il padre sta addirittura costruendo due alloggi per le vacanze ai figli maggiori. «Oggi tutto sommato non possiamo proprio lamentarci – continua il giovane turco -. Siamo andati via dalla Turchia per motivi economici e da quel punto di vista va molto meglio. Qui possiamo addirittura festeggiare le ricorrenze musulmane nel nostro centro a Porto Maurizio, dove abbiamo un imam e dove ci rechiamo a comprare i prodotti per la nostra cucina. Come la carne alal, proveniente dalla Francia. Sempre a Imperia, poi, c’è un foo e un bar gestiti da turchi. E stanno pensando di aprire un negozio con i nostri prodotti. Tutte notizie positive, perché penso sia un bene che oggi i turchi non facciano più solo i muratori».
Certo Karaman non nasconde che rimangono alcuni problemi, primo fra tutti quello dei documenti. «Il sistema qui da voi proprio non funziona. Possibile che se uno temporaneamente non lavora e non ha la busta paga, per avere il rinnovo del permesso in questura debba iscriversi all’artigianato? E se poi non riesce a pagare le tasse? Gli ritirano immediatamente il permesso di soggiorno».
Inoltre, spiega Karaman tra i gesti di consenso degli amici, il vero problema che deve affrontare la comunità turca di Pietrabruna è la crisi economica. Perché da un anno a questa parte nel piccolo comune gli immigrati faticano a vivere: «C’è poco lavoro e le tasse continuano a salire, tanto che dalla Turchia non arriva più nessuno – conclude Karaman Ismail -. Anzi qualcuno comincia a tornare indietro ed altri emigrano in Francia. In Germania meno, perché lì vive bene chi è andato qualche anno fa. Ora è difficile entrare, fanno il test della lingua. Dicono che vogliono farlo anche in Italia, e secondo me sarebbe giusto, perché chi vuole venire a lavorare qui dovrebbe saperla. Poi come se non bastasse sono arrivati anche i rumeni, che lavorano quasi gratis». 

di Maurizio Dematteis

Maurizio Dematteis




Da  spaccapietre a imprenditore tessile

La comunità cinese di Barge (Cn)

Le tradizioni familiari e i legami clanici sono ancora forti nelle comunità cinesi; ma qualcosa sta cambiando tra i giovani, che rompono con il passato, avviandosi sulla strada dell’integrazione con l’ambiente in cui lavorano.

«Le prime famiglie cinesi in valle sono arrivate verso la fine degli anni ’90. Richiamate da un mercato del lavoro carente di operai che lavorassero nelle cave di pietra dei piccoli comuni di Barge e Bagnolo, in provincia di Cuneo». Ricorda bene quel periodo Pietro Schwarz, responsabile di progetto del Consorzio Monviso solidale, associazione costituita dai 52 comuni dell’area cuneese compresa tra Fossano, Saluzzo e le Comunità Montane Valle Varaita e Valle Po, Bronda e Infeotto, per la gestione dei servizi socio-assistenziali.
«Abbiamo subito aperto due sportelli a servizio degli immigrati a Barge e Bagnolo – continua Pietro Schwarz -, i luoghi in cui si è concentrata la comunità cinese. Che oggi conta più di 800 persone». Su 12.700 abitanti (rispettivamente 7.000 a Barge e 5.700 a Bagnolo), secondo i dati ufficiali, vivono ben 801 cinesi – rispettivamente 495 a Barge e 306 a Bagnolo. Ma gli impiegati comunali non nascondono che in realtà ce ne sono molti di più. E presso gli sportelli, un giorno a settimana gli operatori del Consorzio accolgono gli immigrati, aiutandoli nelle operazioni più disparate: dal disbrigo di una pratica burocratica alla lettura e comprensione di una contravvenzione; dalla presa in carico di problemi nati sul posto di lavoro, spesso a causa della scarsa conoscenza della lingua italiana, all’ascolto dei possibili problemi interni alla stessa comunità cinese.
«Il nostro lavoro, che possiamo definire “di comunità” – continua l’operatore – è nato all’indomani di alcune segnalazioni del Tribunale dei minori di Milano. Perché sebbene a Barge e Bagnolo non si siano mai verificati problemi con la giustizia minorile, è sempre meglio prevenire i problemi lavorando per l’integrazione tra italiani e cinesi».
Il Consorzio non si limita agli sportelli, ma promuove laboratori didattici nelle scuole elementari e medie. «Nel complesso scolastico di Barge i ragazzini cinesi sono ormai il 17,82% – spiega Pietro Schwarz -, mentre in quello di Bagnolo il 19,44%. Numeri rilevanti da cui partire per promuovere fin da subito un corretto percorso di integrazione». Perché se, come spiegano gli operatori del Consorzio, con adulti e anziani l’integrazione praticamente non esiste, e i rapporti con gli italiani si limitano alla coabitazione all’interno del paese, è sui giovani e giovanissimi, fino ai 16/17 anni, che si gioca la vera partita.
«Con i giovani, se si propongono delle attività, si può legare tranquillamente – continua il responsabile di progetto -. E in un luogo come Barge e Bagnolo, dove c’è pochissimo fermento culturale, è molto semplice agganciare i ragazzi». E grazie al paziente lavoro della scuola, delle associazioni come il Consorzio Monviso solidale e alla buona accoglienza da parte della popolazione locale, anche all’interno della conservatrice comunità cinese, dove i clan familiari hanno ancora la loro influenza, oggi qualcosa sta cambiando: «Gli esempi di rottura con il passato sono ancora pochi – conclude Pietro Schwarz -, ma cominciano a nascere. E non mi riferisco agli otto magazzini di lavorazione della pietra gestiti da imprenditori cinesi, che comunque lavorano sempre per conto terzi. Ma ad esempio alla nuova gestione del ristorante cinese in valle o al laboratorio tessile aperto recentemente a Bricherasio. Tutte attività nate per volere di giovani imprenditori cinesi desiderosi di migliorare la loro condizione di vita, sganciandosi dalla tradizione familiare della lavorazione della pietra».

«Sono arrivato a Barge dalla Cina cinque anni fa. Oggi ho 19 anni, che per l’Italia sono solo 17 (l’età anagrafica in Cina viene calcolata in maniera differente rispetto al resto del mondo, nda), e da sei mesi lavoro nel laboratorio tessile di mio fratello maggiore Chen Rongqian, di 21 anni italiani, a Bricherasio».
Chen Rongyong, originario del villaggio di Yuhu, nei pressi di Wenzhou, provincia dello Zijang, oggi lavora dalle 12 alle 15 ore al giorno nel laboratorio di famiglia. Si fa chiamare Davide, perché dice: «Mi serve per lavoro: il nome italiano è più semplice da ricordare per i clienti». Oltre a cucire e stirare, infatti, Davide cura i rapporti con i fornitori. «Arrivato in Italia – spiega – ho continuato gli studi di economia aziendale. E anche se non mi sono diplomato, perché ho preferito andare a lavorare prima, mi è servito per imparare la lingua. Oggi tengo i contatti con i clienti che foiscono i capi da cucire. Ditte importanti come Armani o altre simili».
Il padre di Davide è arrivato a Barge con il fratello maggiore Rongqian nel 1998 per lavorare in una cava di pietra. Dopo tre anni è arrivata la mamma, poi la sorella maggiore e infine, nel 2003, Davide. «Sono contento della scelta che ho fatto – spiega il ragazzo -. Un anno fa ho smesso di studiare, ho fatto un po’ di esperienza presso laboratori tessili di Padova e Rovigo e sei mesi fa sono tornato per aprire il primo laboratorio tessile della zona con mio fratello».
Certo, ammette Davide, prima aveva molto più tempo libero, «mentre ora insieme ai miei colleghi (tutti rigorosamente cinesi, nda) lavoro almeno 12 ore al giorno. Io, mia sorella di 25 anni e mio cognato arriviamo anche a lavorae 15. Perché quando c’è tanta merce da cucire passiamo anche le notti in laboratorio. E non esiste sabato e domenica».
Ma la contropartita è il guadagno. Un buon mensile che permette alla famiglia Chen di sperare in un futuro migliore. «Mia mamma ora lavora con noi, tutti i giorni ci prepara il pranzo che consumiamo in laboratorio – spiega Davide -. Prima faceva le stagioni nella raccolta della frutta, si svegliava tutte le mattine alle 5 e lavorava fino alle 20. Ora è più tranquilla e si può svegliare più tardi. Mio padre invece lavora la pietra, si alza tutte le mattine alle sei».

Davide, quando è partito dalla Cina, aveva solo 12 anni. Sono stati i genitori a decidere per lui. «A Yuhu non stavamo male e avevamo buone scuole – ricorda il ragazzo -. Ma si guadagnava poco e la vita diventava ogni giorno più cara. E in definitiva non mi è dispiaciuto lasciare il mio paese. Da quando sono arrivato in Italia mi son sempre trovato bene, ben accolto da tutti».
In Italia, secondo Davide, oltre al tempo libero non manca nulla. E continua: «Oggi posso dire che vorrei rimanere per sempre in Italia. In Cina c’è troppa confusione, mentre in Italia si vive più tranquilli, si fanno le cose con più calma». Con buona pace dei suoi genitori, che vorrebbero un giorno riportare a Yuhu tutta la famiglia.
«I miei genitori vorrebbero che tornassi con loro. Ma io non voglio. Ormai qui in Italia ho i miei amici, vado al bowling o in altri luoghi di svago. In Cina, in questi cinque anni, non ci sono mai tornato. Non mi interessa più. Anche se questo, sono convinto, non fa molto piacere ai miei genitori». 

Di Maurizio Dematteis

Maurizio Dematteis




Dalle navi dei disperati alle nevi delle Alpi

La comunità albanese di Sestriere (To)

Sbarcato a Brindisi nel 1991 e raggiunto Sestriere, il signor Vebi Zeneli ha trovato lavoro nei cantieri edili, d’estate, e nelle cucine dei ristoranti d’inverno, finché si è messo in proprio, come gestore di un bar.

«I primi lavoratori albanesi arrivarono da noi una quindicina di anni fa – spiega Luca Paparozzi, vice sindaco del comune montano di Sestriere, in provincia di Torino, 886 abitanti -. Erano per lo più lavoratori stagionali, impiegati nel campo dell’edilizia».
Correva l’anno 1991 quando, per risolvere l’emergenza delle migliaia di albanesi sbarcati sulle coste pugliesi, le autorità italiane organizzarono decine di centri di prima accoglienza in tutte le regioni. Uno di questi venne realizzato a Susa, a pochi chilometri da Sestriere. E proprio da quell’esperienza è nata l’attuale comunità albanese di Sestriere, che ormai conta 47 residenti regolarmente registrati.
«C’è voluta una decina di anni prima che i lavoratori albanesi diventassero stanziali – continua Luca Paparozzi – ma oggi vivono a Sestriere con le famiglie e sono sicuramente la comunità straniera più numerosa in paese. Oltre il 50% di tutti gli stranieri residenti».
Una comunità coesa, che si ritrova spesso presso il bar Le cafè creme, gestito dal connazionale Vebi Zeneli. «L’arrivo di queste famiglie, in numero non eccessivo, è stato da noi accettato e percepito come una risorsa positiva» spiega il sindaco di Sestriere Andrea Maria Colarelli.

«Sestriere ormai non la lascio più. Sono 15 anni che ci vivo e mi trovo bene. Questa ora è casa mia». Non ha più dubbi Vebi Zeneli, gestore del bar Le cafè creme, in via Pinerolo 23/b, dove ogni settimana arrivano una ventina di copie di Bota Shiptare, il giornale degli albanesi in Italia.
È arrivato nel 1991, sbarcato in Puglia dalle «navi dei disperati», che ogni sera ci venivano proposte dalle immagini dei telegiornali.
«Era primavera – ricorda Vebi Zeneli -. E con il mio vicino di casa abbiamo comprato una bicicletta per andare in due da Tirana, mia città natale, al porto di Durazzo, a 40 chilometri, sulla costa. Avevo 25 anni e lavoravo in una miniera. Arrivati sul molo il mio amico ha dato l’orologio e un mese di stipendio a un poliziotto che ci ha fatto salire sulla “carretta” ormeggiata, carica all’inverosimile, che batteva bandiera panamense».
Dopo 12 ore arrivavano a Brindisi, dove le autorità italiane smistavano gli sbarcati presso i campi di prima accoglienza organizzati in tutte le regioni italiane per affrontare l’emergenza. «Ci hanno subito dato acqua e cibo. E latte per i bambini – continua Zeneli -. Sono finito nel campo di Ostuni, e dopo poco ho cominciato a uscire durante il giorno in cerca di lavoro. Davano 25 mila lire al giorno. Che non era una gran cifra. Ma d’altra parte eravamo sbarcati in 30 mila. E devo dire che i pugliesi ci hanno davvero aiutato, in tutti i modi».
Un giorno un amico chiama il signor Zeneli dal piccolo comune piemontese di Sestriere. Anche lui un boat people del 1991, sbarcato a Brindisi era stato trasferito presso il campo di prima accoglienza di Susa, in provincia di Torino. «Lavorava a Sestriere dove viveva con la famiglia – spiega Zeneli -. Mi disse che se lo raggiungevo mi avrebbe trovato lavoro». Ed è così che il signor Zeneli arriva finalmente a Sestriere.
«Nel 1993 eravamo una ventina di albanesi a Sestriere – ricorda -. Molti hanno lavorato per anni nella costruzione dell’autostrada del Frejus. Io ho cominciato a lavorare in un cantiere edile. E finita la stagione estiva sono andato a fare il lavapiatti al ristorante Alpette, sulle piste da sci». D’estate nei cantieri e d’inverno in cucina. Prima da clandestino, poi ottenuti i documenti, con contratti stagionali.
Poi, un giorno, la svolta: il vecchio gestore del bar Le cafè creme decide di lasciare l’attività. E il signor Zeneli si fa avanti: «Ho chiesto a un amico ristoratore di Sestriere – ricorda -. Ho lavorato anni per lui, e siamo diventati buoni amici. Mi ha consigliato di provarci. Così sono andato dal padrone dei muri e ho detto: lo prendo. Non lo conoscevo, e mi ha subito detto che per lui non c’erano problemi. Albanesi, americani o cinesi, per lui l’importante era che pagassero l’affitto».
Da ormai 5 anni la famiglia Zeneli gestisce l’esercizio commerciale. Aperto dal mattino alle 6 alla sera alle 21; 365 giorni all’anno. Diventando un punto di riferimento sia per gli abitanti locali che per la comunità albanese. «Penso di non aver fatto male a prendere il bar – spiega Vebi Zeneli -. Riesco a viverci con la famiglia». E riesce a mandare il figlio di 10 anni allo sci club. Che è un’attività costosa, ma praticamente l’unico sport esistente a Sestriere.
«Certo trasferirsi in Italia non è stata una passeggiata – racconta Vebi Zeneli -. Di difficoltà ne abbiamo incontrate. E il problema più grosso è sempre stato il rinnovo dei documenti. Ogni quattro anni. Ora che ho il bar ho ottenuto il permesso di soggiorno decennale. E spero vada meglio. Anche se per chiedere la cittadinanza ci vogliono i documenti albanesi: certificato di nascita ecc. Ma da noi è difficile ottenere i propri diritti. Bisogna pagare per qualsiasi cosa. Per questo non ho ancora fatto domanda».

I l signor Zeneli, quando parla del suo paese natale, si incupisce: «Le scuole non funzionano – spiega -. Gli ospedali neppure. La situazione dal 1991 è molto peggiorata. E mi spiace veramente vederlo in questo stato, perché il paese è molto bello». Ma la tristezza dura poco.
Appena entra un cliente nel locale il suo volto è di nuovo sorridente: «Qui ho ottimi rapporti con tutti – spiega -. L’ex sindaco Franco Giaime, ad esempio, viene spesso a giocare a carte da me con gli amici, e mi ha insegnato un gioco locale di nome Belot. Ho imparato la lingua lavorando: e oggi capisco anche patornis e piemontese. Alle feste locali andiamo sempre. E anche se io non so ballare, i balli occitani non sono poi tanto differenti dai nostri. Persino la questione religiosa non è mai stata un problema: siamo musulmani, ma siccome fino al ‘91 le moschee in Albania erano chiuse, siamo abituati a fae a meno. Mio figlio è felice di frequentare la chiesa cattolica».
E anche se la prospettiva della famiglia è quella di rimanere a vivere a Sestriere, con le rimesse verso il suo paese il signor Zeneli ha comunque ristrutturato la vecchia casa di famiglia. Perché non si sa mai: «Quando William finirà la scuola – conclude – potrà liberamente decidere se tornare in Albania o meno. È per questo motivo che in casa parliamo albanese, così ha l’opportunità di conoscere due lingue. Inoltre gli parlo spesso dell’Albania, e quando andiamo a trovare i nonni gli faccio vedere i luoghi della mia infanzia. Ma sarà comunque molto difficile che torni. Perché ormai amici e interessi li ha a Sestriere. Ho deciso di trasferirmi qui per stare meglio, per migliorare la mia vita. E così è stato. Lavoriamo tanto, è vero, ma con la stessa fatica giù non riuscirei a fare questa vita». 

Di Maurizio Dematteis

Maurizio Dematteis




Migrazione spinta, migrazione attratta

Migranti dal mondo all’Italia

Milioni di persone nel mondo lasciano ogni anno la propria patria per migrare in altri paesi in cerca di un futuro migliore. L’Italia è tra i primi paesi di immigrazione nell’Unione europea e il fenomeno è destinato a crescere, anche perché a causa della crisi demografica cresce il bisogno di manodopera straniera in tutti i settori della nostra società. Un fenomeno necessario e positivo, quindi, ma deve essere accompagnato da politiche aperte e lungimiranti, che favoriscano l’integrazione, il passaggio da immigrati a cittadini. I «nuovi italiani» non sono numeri e statistiche, ma persone con storie di vita, portatori di nuovi valori culturali, che è  necessario conoscere, per la convivenza interculturale e la pace religiosa.

O ggi i migranti nel mondo sono arrivati a quota 200 milioni, pari a quasi il 3% dei 7 miliardi di esseri umani sulla terra, con un incremento annuale di 3 milioni di persone.
Di questi 200 milioni, nonostante il crescente numero di richiedenti asilo e sfollati denunciato annualmente dalle Nazioni Unite, la parte più consistente rimane costituita da lavoratori in cerca di un futuro migliore. Lavoratori immigrati che secondo l’Inteational labour organization arrivano a rappresentare nei paesi industrializzati circa il 12% dell’intera forza lavoro.
Migranti: produttori di ricchezza
La spinta ad abbandonare il proprio paese per cercare condizioni di vita migliori è dettata dal fatto che la ricchezza mondiale è sempre più concentrata nei Paesi a sviluppo avanzato (Psa) a scapito del resto del mondo. Sulla base di una serie di elaborazioni teoriche, si calcola che nel corso del 2007 nel mondo si siano prodotti 65.200 miliardi di dollari di ricchezza, una cifra che sarebbe in grado di assicurare a ogni abitante della terra un reddito annuo pari a 9.768 dollari.
In realtà la forte sperequazione nell’accesso alle risorse tra le diverse aree del mondo fa sì che appena il 13% della popolazione mondiale residente in America settentrionale e negli stati membri dell’Unione europea detenga la metà del Prodotto interno lordo (Pil) mondiale. Mentre Africa, America Latina e Asia, che rappresentano la metà della popolazione mondiale, raggiungano appena un quarto del Pil dell’intero pianeta terra.
Per contrastare la crescente povertà nel mondo, l’Onu, nel corso del 2000, ha lanciato gli Obiettivi del millennio. Si tratta di otto obiettivi finalizzati al contrasto della povertà estrema, delle malattie, dell’inquinamento ambientale e all’impegno nell’innalzamento della qualità della vita di ogni essere umano che abita il pianeta, che tutti i 191 stati membri si sono impegnati a raggiungere per l’anno 2015.
Ma oggi, a causa del rallentamento della crescita economica globale, il raggiungimento di tali obiettivi resta incerto. E non è un caso che il 2008 sia da ricordare per il fallimento dei negoziati presso l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) per la liberalizzazione del commercio dei prodotti alimentari, misura che avrebbe dovuto apportare concreti benefici in termini di competitività internazionale per le economie prevalentemente agricole dei paesi in via di sviluppo (Pvs).
I pochi dati economici globali presentati bastano a far capire quali sono i principali flussi delle immigrazioni nel mondo, che vedono milioni di persone abbandonare i propri paesi del Sud del mondo verso quelli del Nord. Storie di speranza, ma anche di fatiche e sofferenze, qualche volta di disperazione. E proprio per quanto riguarda «l’immigrazione disperata», quella che spesso finisce nelle mani di trafficanti di uomini senza scrupoli, il bilancio è impressionante: nei primi 7 mesi del 2008, tra coloro che hanno cercato di raggiungere Italia e Spagna via mare, si contano 399 morti accertati nel Canale di Sicilia e 188 sulla rotta verso le isole Canarie. Dal 1988 oltre 12.566 persone, per rimanere alle morti accertate, sono annegate nel tentativo di raggiungere l’Europa.
Il caso Italia
«Molti immigrati nel nostro paese trovano impiego nell’ambito dei servizi alla persona – spiega Tiziana Caponio, del Forum internazionale ed europeo di ricerche sull’immigrazione -, soprattutto agli anziani. Perché l’Italia si presenta con una grossa domanda di servizi di cura per anziani non autosufficienti in assenza di strutture residenziali adeguate. Abbiamo un sistema di welfare debole sul lato dei servizi, che viene compensato con il trasferimento dei redditi delle famiglie a badanti straniere».
Nel nostro paese l’équipe del Dossier Caritas/Migrantes stima che a fine 2007 fossero 4 milioni i cittadini stranieri presenti, che su una popolazione totale di 59.619.290 abitanti è uguale al 6,7% del totale, ben al di sopra della media europea. L’Italia infatti si colloca oggi tra i primi paesi di immigrazione dell’Unione europea, subito dopo Germania e Spagna, con un incremento annuo di immigrati di 350 mila unità. E se continuerà questo ritmo l’Italia è avviata a superare la presenza di 10 milioni di stranieri ben prima di metà del secolo, diventando il primo paese europeo per numero di immigrati insieme alla Spagna.
Uno scenario preoccupante?
Al contrario: se si calcola che nel nostro paese il saldo tra nascite e morti è ormai negativo da anni, per l’esiguo numero di nuovi nati e l’aumento esponenziale dei decessi; che l’età media è in continuo aumento e la popolazione attiva in costante diminuzione, il futuro non è pensabile senza gli immigrati che, essendo persone più giovani d’età, diventano indispensabili per abbassare l’età media della popolazione complessiva.
«L’immigrazione in Italia comincia nel ‘74 – spiega Francesco Ciafaloni, ricercatore dell’Ires Lucia Morosini di Torino -. Ma la vera immigrazione importante parte solo 4 anni fa, quando diventa evidente l’effetto della transizione demografica del nostro paese: il passaggio da natalità alta a bassa e da mortalità bassa ad alta».
A quel punto il sistema economico nazionale, non trovando più manodopera nel paese, ha avuto bisogno di importae dall’estero. «Questo aumento di immigrati – continua Francesco Ciafaloni – non è quindi dovuto al degrado del mondo, ma al fatto che il sistema produttivo italiano richiede forza lavoro. Mentre fino a 25 anni fa si parlava di immigrazione spinta, cioè persone arrivate in fuga da guerre e carestie, oggi si può parlare di immigrazione attratta dal lavoro».
Un fenomeno che presenta delle positività per il nostro paese, ma che allo stesso tempo necessita di essere governato e accompagnato da politiche ad hoc. «Si impone la necessità di una politica positiva – scrivono gli specialisti Guerino Di Tora, Vittorio Nozza e Piergiorgio Saviola nell’introduzione al XVIII Rapporto Dossier statistico 2008 immigrazione di Caritas/Migrantes – a favore della maggioranza degli immigrati, investendo in idee e risorse. […] L’ambito delle politiche di integrazione è il banco di prova della capacità della classe dirigente di un paese chiamato ad affrontare il tema delle migrazioni. La reiterazione di provvedimenti sicuritari o emergenziali non mostra la forza nell’affrontare il tema, ma la sua debolezza nell’impostare politiche lungimiranti e illuminate capaci di costruire percorsi di cittadinanza, che siano nello stesso tempo inclusivi e anche esigenti nei confronti delle persone immigrate».
Chi sono questi immigrati
«Sono badanti, muratori, agricoltori – spiega Francesco Ciafaloni -. Ma anche operai e infermieri. Perché se le cose che si possono trasportare, in periodo di globalizzazione e con i trasporti a basso costo, si fanno dove costa poco per portarle dove costano tanto, rimangono alcune cose che bisogna necessariamente fare qui. E infatti le cose che si fanno gli immigrati sono le cose che non si possono trasportare: case, strade, buchi per terra e servizi alla persona. O le infrastrutture per le Olimpiadi di Torino 2006, che, se non ci fosse stata la comunità rumena, non si sarebbe riusciti a fare».
Ma per andare oltre alla professione, se a livello statistico non mancano i dati sui «nuovi italiani» provenienti da paesi esteri, pochi sono gli studi in profondità, la raccolta delle cosiddette «storie di vita» delle famiglie immigrate, per capire chi sono, cosa pensano e quali prospettive hanno i nuovi abitanti della penisola.
Si tratta di una realtà in espansione e soggetta a molti cambiamenti. Dove ad esempio alcune famiglie, a causa dei bassi prezzi degli immobili e dell’alta qualità della vita, decidono di lasciare la città per trasferirsi in provincia. Andando a ripopolare quel «Mondo dei vinti», per citare Nuto Revelli, quelle zone «di confine» abitate da contadini e montanari. Nuovi abitanti impiegati in servizi alla persona, nella ristorazione, nell’edilizia ecc. Intere famiglie trasferite in piccoli comuni per costruirsi una nuova vita. Una nuova identità frutto della mediazione tra la loro cultura d’origine e quella del luogo eletto a nuova dimora.
Grazie a questo fenomeno in questi luoghi si vengono a creare reti lunghe tra piccoli comuni e regioni estese, fino alla creazione di consistenti comunità straniere, provenienti da paesi dell’Africa, dal Sud America, dai paesi dell’Est Europa o da paesi orientali.
«In genere gli immigrati arrivano nei grandi centri urbani – continua Ciafaloni – per poi spostarsi lentamente verso le periferie e creare delle catene migratorie minori. Nei piccoli comuni delle zone marginali, come nei comuni montani ad esempio, si possono creare nicchie che si sostituiscono allo svuotamento. Perché se c’è una nicchia ecologica, in cui si può vivere, lavorare e magari riattarsi una casa a poco prezzo, allora gli immigrati arrivano. Cosa capita poi in provincia con i nuovi arrivi è una cosa che bisogna andare a scoprire sul posto. Perché per cercare di indovinare il futuro bisogna tenere un occhio al mondo e andare a parlare con quelli che ci stanno».
E proprio al fine di conoscere meglio queste nuove realtà artefici, insieme alle comunità originarie, della trasformazione del tessuto socio-economico delle zone di provincia italiane, insieme al collega fotografo Davide Casali, abbiamo avviato un lavoro di raccolta testimonianze nel corso del 2008. Attraverso una serie di interviste in profondità, condotte con lo strumento sociologico dell’«intervista discorsiva guidata», si è raccolta la testimonianza di oltre 12 comunità straniere numericamente rilevanti residenti in altrettante zone di provincia italiane (alcune delle quali presentate di seguito). 

Di Maurizio Dematteis

Maurizio Dematteis




Viaggio nel più grande paese dei Balcani

Paese dai mille volti

Chiuso per decenni dietro il muro    del   comunismo,  il popolo rumeno  ha conservato il suo spirito e cultura, che neppure  l’ex dittatore Ceausescu è mai riuscito a distruggere. Varietà di etnie con relativa ricchezza di tradizioni ed arte, storia millenaria intrecciata di leggende e di misteri, gente ospitale  e operosa… la Romania è questo e altro ancora, un paese tutto da esplorare,  per vincere tanti pregiudizi nostrani.

La strada che dall’aeroporto conduce in centro è bloccata dal traffico: sta per iniziare un rally automobilistico intorno al Palazzo del Popolo, l’immensa costruzione voluta dal dittatore Ceausescu e costruita radendo al suolo interi quartieri storici, già danneggiati da un terremoto. Passiamo davanti alla nuova show room della Ferrari, che pare non riesca a soddisfare le richieste dei nuovi ricchi rumeni. Le auto di lusso, anche i suv, sono numerose in città e sovente alla guida vedo giovani donne.
Ho trovato una sistemazione nel cuore antico di Bucarest, chiuso al traffico per via dei radicali restauri in corso. Tra gli edifici di fascino del quartiere vi è un caravanserraglio del ‘600, che tuttora ospita viandanti e barboni. Ha un alto tetto spiovente, ricoperto da tegole di legno, e si affaccia sul santuario di sant’Antonio abate e su una zona archeologica. Una fila ininterrotta di pellegrini, tra cui molti giovani, attendono il loro tuo per presentare grazie e voti al santo. Con il cero in mano sostano in preghiera, toccando le icone, poi accendono altri ceri nelle celle dedicate ai vivi e ai morti, come si usa nelle chiese ortodosse.
Questo è un paese dalle molte anime e dalle tradizioni forti. L’unità tra le  regioni di diversa cultura, lingua e tradizioni, fu raggiunta solo dopo la prima guerra mondiale. Durante il nostro viaggio noteremo che in ogni villaggio o città, la piazza principale è dedicata all’Unità nazionale.

Transilvania
Brasov è una bella città, ma solo nel centro storico. La periferia industriale, con i tristi palazzi in stile sovietico, deve aver umiliato questa popolazione: ovunque in Romania si nota l’amore per la casa individuale, il colore e l’artigianato artistico.
Sighisoara è altrettanto suggestiva, ma molto più piccola e raccolta. Oggi è festa patronale e in piazza si esibiscono gruppi folkloristici. Qui incontro alcuni italiani, che mi danno informazioni per proseguire il viaggio. «Ci sono 27 mila imprese italiane che operano nel paese – mi dice Stefano, arrivato in Romania 15 anni fa con la sua azienda -. Ora però i soldi si fanno con l’immobiliare, ma non più a Bucarest, dove i prezzi sono troppo alti. Conviene comprare terreni nelle vicinanze delle città, sempre con un socio rumeno, la legge lo impone. Con l’aiuto dei politici i terreni diventano edificabili, si lottizza e si rivende con forti guadagni». Tutto il paese è in fermento, si costruisce, si restaura, e i lavori stradali rallentano il traffico nelle regioni più popolate e industriali.
Da Sighisoara ci inoltriamo nelle vallate sassoni, con le curiose chiese- fortezze, costruite nei secoli in cui il paese subiva invasioni e dotate di alloggi per la popolazione. I villaggi sono belli, ma alcuni sono in pieno degrado perché, dopo la caduta del comunismo, sono stati abbandonati dagli abitanti, emigrati in Germania, e occupati dagli zingari.
Questi sono numerosi in tutto il paese: oltre due milioni. Durante il regime comunista, che negava l’esistenza delle etnie, subirono un’assimilazione forzata, costretti a vivere nelle città, in quartieri loro riservati. Mentre i Rom sono tenacemente nomadi e li si vede viaggiare su carri foiti di tutto per vivere, in condizioni molto misere, i Lantar e i Gabor oramai sono stanziali, continuano la tradizione del canto in occasione di feste e della lavorazione del ferro. Molti si sono integrati ed esercitano varie professioni e alcuni si possono permettere abitazioni esagerate, lussuose.

BAIA MARE
Finalmente a Baia Mare, dopo aver attraversato in auto il paese fino all’estremo nord ovest. Questa è una città in lento rinnovamento, dopo anni di degrado ambientale dovuto alle industrie pesanti e miniere. Gli edifici antichi sono in via di restauro e rivelano un passato storico e artistico, umiliato nei lunghi anni del comunismo.
«Sono felice di incontrarvi»: Mariana, impiegata nella birreria in piazza dell’Unità, si avvicina sentendoci parlare italiano e, visibilmente commossa, ci offre una buona chorba e un bel piatto di patate. «Ho lavorato per cinque anni a Milano e mi trovavo bene, ma la bambina era rimasta a casa con mio marito. Quando sono tornata, lui aveva un’altra donna».
Mariana ha le lacrime agli occhi, ammette di essere in difficoltà perché è sola, ma vuole dare alla figlia una buona educazione. «Vivo in periferia, perché il centro è caro; mando la bambina a scuola privata – ci confida – ma la paga è molto bassa, la vita durissima».
In queste regioni del nord, che hanno conosciuto un forte esodo verso l’Europa, non avremo problemi a farci capire. I giovani conoscono l’italiano perché molti di essi sono stati in Italia per lavoro; passano le vacanze estive a lavorare, aiutando la famiglia nei campi e nella costruzione o restauro delle case, molto belle, decorate a vivaci colori.

Maramures
Anche qui, nel cuore d’ Europa, si può fare un viaggio nel tempo. La regione di Maramures mi ha dato l’emozione di vivere per qualche giorno in un paesaggio fiabesco, dove gli abitanti sono immersi in una dimensione agreste di sapore medievale: trasporto su carri trainati da cavalli, lavoro nei campi fatto a mano con attrezzi di legno, villaggi raccolti intorno a splendide chiese di legno dai campanili alti e sottili, tra pruni, viti e alberi carichi di frutta. L’interno è decorato da pitture o ricami appesi alle pareti; all’esterno sono le tombe con croci di latta dipinta.
La devozione di questa gente è profonda. La domenica mattina donne e uomini sono in raccoglimento in piedi o in ginocchio, durante lunghissime cerimonie. Alla fine, gli uomini passano al bar, con il loro curioso cappellino di paglia; le donne invece, il fazzoletto in testa, ampie camicie bianche inamidate con le maniche a sbuffo, spesse calze di lana, si siedono a chiacchierare sotto il portico di legno scuro, finemente intagliato. Pare che Ceausescu abbia subito il fascino del luogo e incoraggiato gli abitanti del Maramures a difendere le proprie tradizioni, contrariamente alla sua politica di assimilazione forzata delle diverse culture nel paese.
Le terre di questa regione del nord, isolate e protette da una serie di monti, un tempo facevano parte dell’ impero austro-ungarico. Ne parliamo con Giulio, il proprietario dell’edificio in cui alloggiamo nell’antica cittadina di Sighetu Marmatiei, detta Sighet, ai confini con l’Ucraina.
Con problemi di vista e deambulazione a causa di un grave incidente, Giulio ha una gran voglia di raccontarci la sua storia e lo fa in un buon italiano. I suoi genitori furono deportati in Polonia dai nazisti; ma anche durante il regime comunista la vita non era facile per gli ebrei.
«Avevamo case comode, oro e giornielli, ma venivamo vessati continuamente da funzionari del regime comunista, che volevano le nostre cose e ci requisivano le stanze per sistemare chi non aveva un’abitazione. Così un giorno decisi di raggiungere i miei parenti italiani. Prima mi recai in Svizzera, presso amici, poi presi una funivia e scesi dal versante italiano con gli sci. Da Venezia, dove tuttora vivono i parenti di mio padre, andai a Roma, ma avevo bisogno di un passaporto».
Giulio pare orgoglioso della sua vita avventurosa, che lo ha portato in giro per l’Europa, attraverso l’esperienza della legione straniera, aiutato da un medico ebreo. «Sono poi riuscito ad avere due passaporti» spiega; e quando gli chiedo di quale paese, mi dà una risposta vaga: «Oggi ne ho diversi, sono cittadino d’Europa».
Con la caduta del comunismo è ritornato a Sighetu Marmatiei per prendere possesso delle proprietà di famiglia, case e terreni confiscati dal regime. «Avete mai visto un ebreo lavorare?» mi chiede con ironia. Poi mi consiglia di visitare l’unica sinagoga rimasta aperta a Sighet, la cui popolazione, prima della seconda guerra mondiale, era composta per il 40% da ebrei.
Marcus è il capo della comunità israelitica. Busso alla porta del suo ufficio accanto alla vecchia sinagoga e lo trovo al lavoro. Non è ora di visita, ma l’accoglienza che ricevo è calorosa. Delle otto antiche sinagoghe di questa cittadina sul confine con l’Ucraina, ne sono rimaste solo 2 e questa è l’unica aperta. La visita, come sempre in questi luoghi, è commovente. Qui viveva una grossa comunità e qui nacque Eli Wiesel, premio Nobel, che fu deportato ma riuscì a salvarsi e raccontò dello sterminio nei campi di concentramento. Fu il primo a parlare di olocausto: 400 mila furono gli ebrei rumeni che persero la vita nei campi di concentramento; una cifra spaventosa.

MONTAGNE
Da Sighet a Borsa, una stazione turistica montana, con impianti per lo sci, ma che d’estate offre un aspetto desolato. Rallentati dai lavori in corso lungo la strada che permette di superare la catena di monti, raggiungiamo la Bucovina, regione affascinante per le tradizioni e l’arte delle chiese e monasteri ortodossi.  
In un villaggio vicino a Suceava, a pochi minuti di strada da alcuni dei più bei monasteri dipinti della regione, siamo accolti con calore da Ana e Joan nella loro casa, ingrandita negli anni mentre cresceva la famiglia: hanno infatti 11 figli, sei dei quali vivono e lavorano a Torino: Maria e Lidia sono le tate dei miei nipotini, poi c’è Dina, Ana, Nicolai e Petru. A casa sono rimasti i più piccoli, che frequentano ancora le scuole: Aspasia, Adriana, Viorica, Lenutsa e Stefan.
Mamma Ana ha preparato per noi le polpette di agnello, formaggio fresco, fatto con il latte della mucca, peperoni e succo di lampone. Siamo invitati a fermarci per la notte, ci sono tanti posti letto, le stanze sono luminose, oate da vasi di fiori: quando ci lasciamo Ana mi abbraccia e mi stringe forte. Non ha parole, ma sento da parte sua affetto e apprensione, per quelle sue figlie lontane.

DELTA
Dal nord alla regione del Delta, nel sud della Romania, attraverso la regione della Moldavia, facciamo sosta a Iasi, città famosa per le sue università. In pieno centro noto la chiesa cattolica, modea e di forma circolare; vi incontro il parroco, che mi mostra lo splendido mosaico che oa le pareti intee della chiesa e mi parla della sua attività, legata alla stampa cattolica in lingua rumena.
Il proseguo del viaggio offre un paesaggio monotono, con rari villaggi e campagna inaridita dalla siccità, finché raggiungiamo il Danubio e lo attraversiamo in traghetto per raggiungere il porto fluviale di Tulcea, la capitale del Delta. 
Quando al mattino ci presentiamo all’imbarco, il traghetto per Sulina, cittadina al confine estremo del delta, sul Mar Nero, è già partito. Non mi resta che chiedere un passaggio. Mi informo presso la capitaneria di porto e trovo un gruppo di preti ortodossi diretti proprio a Sulina, per celebrare la solennità di sant’Alessandro. Sono fortunata: Astarion, vescovo ortodosso di Tulcea, accetta di averci a bordo con lui.
Il comandante vede in questo gesto l’occasione per guadagnare soldi in nero, mi chiede una cospicua mancia, di nascosto dal prelato.
Il gruppo è formato da sei giovani parroci, che non parlano altra lingua che il rumeno, mentre il vescovo dopo le preghiere si intrattiene con noi, parlando del suo paese e dei rapporti con l’Italia e la chiesa cattolica. «Sono stato diverse volte in Italia, il vescovo di Cremona è mio caro amico». Poi chiarisce: «Sono un vescovo sinceramente ecumenico!».

LIPOVENI
Joan è un uomo aitante, bello nella sua divisa blu di marinaio della capitaneria di porto. Ci offre la sua barca, per fare un giro nei canali, ovviamente a pagamento. La guiderà il figlio, che si chiama come lui. Studente in odontorniatria nella lontana città di Arad, dove vivono i parenti della mamma, Joan jr vuole guadagnare qualcosa durante la stagione estiva. Ci porta in giro nei canali più remoti, ricoperti di ninfee fiorite e bordati da canneti. Ci spingiamo verso la costa del mare, dove vivono numerose colonie di pellicani. Lo spettacolo del volo di grandi stormi è ancora più bello verso il tramonto, quando ritorniamo a Sulina. 
La mattina seguente lasciamo il canale principale per raggiungere in lancia il cuore del delta, dove pare sia rimasta un’antica foresta di querce e arbusti. Sbarchiamo nei pressi di un villaggio e restiamo in vana attesa di un mezzo per spostarci lungo le polverose piste del delta, finché decido di incamminarmi a piedi tra le case di pescatori, che scopro essere Lipoveni, cioè, gli ortodossi fedeli agli antichi riti, perseguitati sin dal tempo dello zar Pietro il grande. Li avevo incontrati l’anno scorso in Alaska, dove sono noti come old believers (vecchi credenti) e ora li ritrovo qui, regione altrettanto remota.
È domenica. Le donne vestono come le contadine rumene, il fazzoletto sul capo; gli uomini hanno calzoni a sbuffo e tunica allacciata da un cordone, come i personaggi dell’opera Kovancina; i carri sono fermi per il riposo dei cavalli, la strada è lunga. Ma ecco un vecchio fuori strada, guidato da Claudio che, tutto allegro, ci fa salire sull’automezzo.
Dell’antica foresta rimane qualche vecchia quercia, corrosa e circondata da una boscaglia fatta di arbusti, interessanti perché endemici del delta. Infatti, un gruppetto di visitatori ci ha appena preceduto, guidato da un professore che ci dà conto delle varie specie botaniche e delle piante medicinali che ricoprono le alte dune di sabbia lungo le coste del Mar Nero. Oggi si tenta di proteggere parte della regione del Delta, pesantemente sfruttata in epoca comunista e ancora con problemi di inquinamento.

È stato un viaggio che mi ha emozionata e incantata. Un paese che mi incuriosiva, la Romania, per quello che si sente dai media, molto negativo, e per le esperienze, sempre positive, che ho avuto con i rumeni conosciuti a Torino. Qui trovo conferma della mia idea: sono in maggioranza persone educate, fiere e laboriose.
Purtroppo il viaggio termina con una brutta esperienza. Al momento di consegnare la vettura a nolo, in condizioni perfette, non mi viene restituita la cauzione. Chiedo di parlare col titolare dell’agenzia e scopro che è un italiano, calabrese. Allora mi  indigno, gli dico che mi vergogno per lui, che racconterò, scriverò di questo connazionale trasferito in Romania per insegnare i trucchi malavitosi a questa gente. E allora l’uomo cede e mi restituisce il denaro. 

Di Claudia Caramanti

Claudia Caramanti




Il cielo sulla terra

Inculturazione della liturgia in Asia

Padre Giorgio e suor Lucia hanno partecipato al «Convegno per la promozione della liturgia in Asia», tenuto in Sri Lanka, nel settembre 2008: è stata per loro un’esperienza arricchente; ma hanno pure portato il contributo di chiesa giovane e dinamica.

Parlare di cielo in Mongolia è qualcosa di più che un semplice discorrere del tempo. L’immensità del cielo che sovrasta gli spazi vuoti delle pianure dell’Asia centrale è un’allusione istintiva a ciò che ci trascende, agli spiriti, direbbe uno sciamano, a Dio, diciamo noi. Per noi della Mongolia ha assunto perciò un significato particolare partecipare al convegno organizzato dalla Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, intitolato: «Liturgia come un affacciarsi del Cielo sulla terra».
L’espressione è di Benedetto xvi, quando nell’esortazione apostolica post-sinodale Sacramentum Caritatis al n. 35 parla di «bellezza e liturgia», specificando che non si tratta di «mero estetismo», ma di una «modalità con cui la verità dell’amore di Dio in Cristo ci raggiunge, ci affascina e ci rapisce, facendoci uscire da noi stessi e attraendoci così verso la nostra vera vocazione: l’amore» (35).
La liturgia come partecipazione al mistero della rivelazione dell’amore di Dio e motore del dinamismo dell’evangelizzazione fa parte del nostro Dna di missionari della Consolata e siamo contenti di poter servire una chiesa nascente, come quella mongola, anche in questo campo.
In qualità di cornordinatore (padre Giorgio) e membro attivo (suor Lucia) della Commissione liturgica della Prefettura apostolica di Ulaanbaatar, siamo stati infatti inviati dal vescovo e iniziatore della missione a rappresentare la Mongolia al convegno che si è recentemente svolto in Sri Lanka. L’iniziativa portava il sottotitolo di «Convegno per la promozione della sacra liturgia in Asia» ed è stato un bellissimo momento di formazione e conoscenza reciproca, per delegati di 20 paesi asiatici, che si sono dati appuntamento alla periferia di Colombo nei giorni dal 16 al 21 settembre scorso per riflettere, insieme ai vertici della Congregazione per il culto divino, sulla situazione attuale della liturgia nel panorama asiatico.
L’idea di un convegno asiatico sulla liturgia s’inserisce in un generale orientamento della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti di animare a livello continentale le chiese locali su temi liturgici. Il primo di questi incontri si era tenuto in Ghana nel 2006, cui era seguita una consultazione dei vescovi asiatici sull’opportunità di un simile incontro nel contesto orientale; la positiva reazione alla proposta per l’Asia aveva convinto gli organizzatori a passare alla fase conclusiva con la settimana di Colombo.
La scelta dello Sri Lanka come paese ospitante si è rivelata vincente, non solo per la perfetta organizzazione e il grande spirito di accoglienza della popolazione, ma anche per un significato simbolico: qui infatti si compone in miniatura quel mosaico di culture e religioni che caratterizza tutta l’Asia e qui la chiesa è chiamata a testimoniare l’amore e la riconciliazione, in un contesto di grande sofferenza, per il protrarsi delle tensioni etniche tra tamil e cingalesi.
I lavori prevedevano sempre un momento formativo al mattino, con due relazioni accademiche da parte di esperti; quindi i lavori di gruppo, sulla base di domande e approfondimenti legati al tema affrontato. Ad accompagnare questo ritmo di riflessione e confronto le relazioni delle commissioni liturgiche nazionali, il tutto in un clima di preghiera, alimentato dalla liturgia delle ore, celebrata insieme e incentrato sull’eucaristia, presieduta a tuo dai numerosi vescovi e arcivescovi che hanno testimoniato il cammino delle rispettive chiese locali.
I temi analizzati vanno dall’inculturazione alla formazione liturgica, con ampio spazio a questioni come le traduzioni, il ruolo delle commissioni diocesane e nazionali e la collaborazione con la Congregazione.

Per noi della Mongolia è stato molto arricchente ascoltare gli esperti e partecipare alle discussioni nei gruppi, avendo accanto personaggi del calibro del cardinale Zen di Hong Kong, o provenienti da situazioni limite come padre Son Un della Cambogia, che ha raccontato la sua odissea di rifugiato ai tempi dei khmer rossi.
A noi che stiamo lavorando alla compilazione dei libri liturgici per la Mongolia, è stato soprattutto utile conoscere da vicino la dinamica che intercorre tra chiesa locale e Congregazione per il culto divino, nei suoi aspetti ecclesiologici e anche in quelli più pratici.
Preparare un testo per la liturgia è un lavoro di équipe molto esigente: innanzitutto la traduzione dalla editio typica (che è in latino) nella lingua corrente, con conseguente problema di competenza linguistica; poi la discussione della traduzione in sede locale e successivamente l’invio della bozza con le dovute spiegazioni e possibili adattamenti alla Congregazione, che prende in esame il testo (la cosiddetta recognitio) e lo restituisce con le eventuali precisazioni o correzioni per la pubblicazione finale.
Ad alcuni questo processo sembra un po’ forzato; ci si chiede: esistono davvero le condizioni reali per una valutazione competente di testi in tante lingue diverse? Durante il convegno è stato ampiamente mostrato che, oltre all’effettiva disposizione presso la Congregazione di esperti di alto livello, il significato di questa recognitio è piuttosto ecclesiologico: la liturgia celebrata anche nel più remoto villaggio esprime la fede della chiesa universale, e dunque è giusto che il relativo libro liturgico venga emanato dall’autorità suprema; in tal modo, pregando con quel testo la comunità locale saprà di essere in comunione piena con tutta la chiesa, che si identifica con quelle parole e quei gesti per vivere il mistero di Cristo.
La nostra presentazione della realtà mongola ha molto colpito i presenti, per l’originalità del contesto e la vivacità della fede vissuta. In una realtà così nuova è fondamentale partire col piede giusto, creando le condizioni necessarie per il lavoro sulle traduzioni dei testi liturgici. Un esempio molto apprezzato sono i lezionari che siamo riusciti a preparare in questi anni e il dizionario inglese-mongolo sulla terminologia cristiana, preparato dal missionario francese padre Pierre Palussiere.
Rappresentanti di chiese ormai fondate e stabili come quella dell’India hanno confessato di non avere ancora preparato un simile strumento di base, mentre noi che viviamo agli inizi della chiesa in Mongolia siamo già riusciti ad averlo!
Il card. Arinze, prefetto della Congregazione, al termine del rapporto, ci ha avvicinati per complimentarsi e augurare che la comunità credente da 5cento passi a 5mila e fino a 5milioni, persino più di quanti siano tutti gli abitanti della Mongolia!

Il convegno ha offerto la possibilità di riflettere sulla distintiva individualità della liturgia della chiesa, sedimentata in due millenni di storia, nel suo incontrarsi con le culture via via interessate nel processo di evangelizzazione; culture che godono di una natura organica che va conosciuta e rispettata e che non sopporterebbero facili appropriazioni indebite. Arte e musica sacra, così come gesti e posture sono l’espressione più evidente della fede incarnata e si sviluppano armoniosamente solo in un contesto di collaborazione reciproca tra pastori e fedeli, con l’aiuto di esperti e leaders, ma sempre in attento ascolto del sensus fidei del popolo di Dio.
L’Asia a questo riguardo conosce già molti successi che innalzano il cuore dei fedeli e li fanno sentire più partecipi dei misteri celebrati in sintonia con la propria sensibilità culturale; ma esistono anche esperienze meno felici che, pur nascendo spesso da genuino desiderio di inculturazione, finiscono talvolta col confondere, se non ferire la fede dei credenti.
I risultati di questo profondo scambio, ascolto reciproco e preghiera vissuti al Convegno sono condensati nel cosiddetto «Colombo statement», ossia la «Dichiarazione di Colombo», dove si legge tra l’altro un auspicio «che i valori asiatici di contemplazione, misticismo e silenzio possano trovare più forte espressione nella liturgia cristiana» (n. 6).  Il documento ricorda inoltre che «il senso del sacro sta al cuore dei valori culturali, ai quali tutti i popoli asiatici sono molto attaccati. Ci si aspetta che un’aura di santità circondi ogni elemento legato al culto» (n. 2).
Noi della Mongolia vorremmo che questo si verifichi a ogni eucaristia, così da sperimentare quella attrazione esercitata dalla liturgia, come confessano le persone che incontriamo e che spesso poi seguono l’ispirazione di continuare il cammino intraprendendo il catecumenato.
Proprio come avviene nella nostra cappella di Arvaiheer, dove ogni domenica celebriamo con persone per le quali tutto ciò che è cristiano è assolutamente nuovo; nella speranza che attraverso i divini misteri si aprano i cuori, perché si realizzi anche nel «Paese dell’eterno cielo blu» il miracolo del «Cielo che si affaccia sulla terra». 

Di Giorgio Marengo e Lucia Bartolomasi

Giorgio Marengo e Lucia Bartolomasi




DENTRO LE MURA

16 febbraio – festa del beato Giuseppe Allamano

L’impegno sociale di Giuseppe Allamano nella Torino del suo tempo rivela un impegno missionario a 360 gradi, fatto di curiosità, conoscenza della realtà, passione per l’umanità, tanta fede e un aspetto meno conosciuto del fondatore dei missionari e missionarie della Consolata.

Il beato Giuseppe Allamano trascorse quasi tutta la sua vita a Torino, spostandosi dai suoi abituali paraggi soltanto in poche circostanze. Eppure, ciò che lo caratterizza, tra i santi piemontesi dell’800 e ‘900, è soprattutto l’apertura alla missione della chiesa presso altri popoli, concretizzatasi attraverso la fondazione degli Istituti dei Missionari (1901) e delle Missionarie (1910) della Consolata. Una missione iniziata in Africa, dove l’Allamano intendeva continuare l’attività del grande vescovo missionario piemontese e frate cappuccino Guglielmo Massaia, e successivamente estesa anche all’America e più recentemente all’Asia.
Tale dimensione universale nasce dalla considerazione che l’Allamano ebbe della propria chiesa di Torino, ricca, come egli stesso ebbe modo di scrivere, di tante istituzioni caritative e di promozione sociale, ma priva di un’iniziativa esclusivamente rivolta al di fuori dei suoi confini territoriali. La realtà ecclesiale piemontese, infatti, a differenza di altre regioni dell’Italia era sprovvista di istituzioni missionarie specificatamente ad gentes. L’idea di fondo dell’Allamano era quella di dare un apporto concreto alla missione universale della chiesa, allargando nel contempo gli orizzonti delle diocesi del Piemonte, offrendo loro la possibilità di superare il provincialismo interessandosi alle sorti di popoli geograficamente lontani.
Lo spirito con cui l’Allamano persegue questo obiettivo riflette uno stile da lui già vissuto  in ambito torinese, stile che nasce dall’attenzione con cui osservava la realtà che lo circondava.
I suoi contemporanei, infatti, lo ricordano come persona attenta alle situazioni ed emergenze, al nuovo da accogliere: «Teneva l’occhio e l’orecchio attenti e vigili a quanto accadeva al di fuori, immergendosi totalmente nella realtà che lo circondava e manifestando un’intuizione precisa dei bisogni del suo tempo». Tantomeno si accontentò del semplice rendersi conto dei problemi. Al «vedere» fece seguire l’intervento, perché, diceva, non basta lamentarsi solamente per le cose che non vanno, senza al contempo muovere un dito per cambiarle. A tal riguardo, si diede da fare per promuovere, incoraggiare, sostenere nuove forme, anche ardite, di presenza cristiana nel contesto cittadino.

Quello in cui l’Allamano visse fu un periodo marcato da un forte incremento dell’industrializzazione e dalla conseguente migrazione di molte persone dalle campagne alla città. Sono anche tempi in cui cominciano a emergere i problemi inerenti il mondo del lavoro, a quel tempo ancora carente di una legislazione appropriata che difendesse i diritti dei lavoratori. Al santuario della Consolata, di cui era rettore, fece confluire varie categorie di persone a cui impartire una formazione umana e cristiana, ma anche per dar loro sostegno e promuovere la difesa dei loro diritti sindacali, favorendo l’organizzazione di associazioni o cornoperative di lavoratori e lavoratrici, come quella delle tessitrici della fabbrica «Brass e Abrate»; delle operaie della Manifattura Tabacchi del quartiere di Regio Parco, dei tranvieri, delle erbivendole e delle sarte. Queste ultime, nella sola Torino erano circa 20 mila, spesso sottopagate, sottoposte a orari inumani, prive di qualunque assistenza sociale; per esse fu fondato il «Laboratorio della Consolata», di cui l’Allamano, per il sostegno dato, venne considerato confondatore. Tra I’altro incoraggiò pure le cornoperative contadine a meglio organizzarsi.
Determinante fu anche il suo intervento in favore della stampa. In questo campo sostenne e fondò egli stesso varie testate cattoliche compresa «La voce dell’operaio», giornale fondato dal Murialdo e divenuto poi con il tempo «La voce del popolo», attuale settimanale di informazione della diocesi di Torino. Insieme al suo collaboratore di una vita, il canonico Giacomo Camisassa, fondò la rivista «La Consolata», per informare sulle iniziative del santuario e, in seguito, sull’attività dei Missionari della Consolata che, dall’anno 1902, si trovavano in Kenya e iniziavano a far conoscere persone e culture da essi incontrate nella loro attività evangelizzatrice.
L’Allamano sostenne e incoraggiò l’impegno di quanti, laici ed ecclesiastici, si impegnavano con entusiasmo nell’azione sociale e, a causa di ciò, erano molte volte guardati con diffidenza. Nel Convitto Ecclesiastico, in cui i giovani sacerdoti terminavano la preparazione teologico-pastorale dopo l’ordinazione, promosse anche la formazione sociale dei preti, grazie all’istituzione di corsi di sociologia teorica e pratica. Queste lezioni, per disposizione dell’Allamano, divennero parte integrante della formazione impartita al Convitto.

Lo stesso atteggiamento di apertura verso il sociale sperimentato nella diocesi di Torino fu da lui suggerito ai missionari inviati in Kenya.  Tale approccio divenne norma della loro azione pastorale, che aveva come componenti essenziali tanto l’annuncio del vangelo quanto l’impegno di «elevare» l’ambiente con la promozione umana, per migliorare le condizioni di vita attraverso la formazione delle persone, la promozione di servizi, la difesa dei diritti umani e la promozione della giustizia e della pace.
In sintesi: i suoi missionari, scriveva, dovevano impegnarsi per «fare felici» le persone («Ameranno una religione che, oltre le promesse dell’altra vita, li rende più felici su questa terra…»). Il vangelo è per la promozione integrale delle persone. Giuseppe Allamano l’aveva capito molto bene, tanto da fae un principio ispiratore della sua opera missionaria; ma era altresì convinto che per fare questo occorreva conoscere il contesto. Esortava, quindi, i suoi missionari a iniziare con l’osservazione della realtà, perlustrando la zona dove erano presenti per rendersi conto della situazione, delle idee, delle consuetudini, delle necessità della gente: «Osservate e annotate», era il suo imperativo.

Questo principio di fondo vale anche oggi se si vuole che l’azione missionaria abbia un impatto sulla realtà. Anche qui, in Italia, occorre  stimolare un confronto con la città e i suoi ritmi, le sue opportunità e i suoi problemi. Interessarsi delle realtà odiee, dell’analisi congiunturale che crea fenomeni sociali ben precisi è in sintonia con lo stile dell’Allamano, che riflette il comportamento anche di altre ben note personalità di rilievo di Torino e del Piemonte, come Don Bosco per i giovani, il Cottolengo per i malati e handicappati, il Cafasso per gli spazzacamini, i carcerati e i condannati a morte, il Murialdo per gli operai, Faa di Bruno per la cultura, e così via.
I santi non sono persone lontane dalla realtà, fuori del mondo. Uno degli insegnamenti del Cafasso, fatto proprio anche dall’Allamano, era che «la politica dei preti è la salvezza delle anime», per ribadire che non si dovevano immischiare in lotte partitiche. Ma se la politica, nel suo significato più autentico, è interessamento concreto per la polis, cioè per la gente, i santi torinesi questa politica l’hanno fatta, a volte anche più efficacemente di coloro che se ne occupavano professionalmente stando al governo o nelle amministrazioni locali.
Da tale atteggiamento emerge anche un altro punto che vale la pena di sottolineare. Oggi come oggi, in questa realtà che si rivela in tutta la sua complessità, occorre approfondire la conoscenza di un mondo che sta radicalmente cambiando per meglio comprenderne la complessità e scrutare il futuro, senza paure, allarmismi, segregazioni.
Da questo confronto vengono pure impulsi e stimoli per migliorare o anche cambiare metodi tradizionali di azione, magari considerati irrinunciabili. Le indicazioni che verranno da studiosi, ricercatori e conoscitori delle attuali componenti antropologiche, sociologiche e di pensiero, aiutano a impostare comportamenti e attività corrispondenti alla situazione e alle necessità di oggi per infondere speranza e contribuire a una convivenza non solo pacifica tra le diverse componenti etniche, culturali, sociali e religiose ma anche arricchente.
Ciò stimolerà pure a ripensare e reinterpretare l’ispirazione dell’Allamano, per essere fedeli alle sue intuizioni e proposte, alla sua apertura all’universalità, senza disattendere le situazioni mondiali di impoverimento, fame, malattie, istruzione carente, senza dimenticare la dimensione locale ma, anzi, partendo da essa. 

Di Gottardo Pasqualetti

LE FRONTIERE ROVESCIATE DELLA
MISSIONE AD GENTES

La Torino in cui l’Allamano ha esercitato il suo ministero sacerdotale per più di mezzo secolo, era una città in forte evoluzione demografica, soggetta a mutamenti di carattere economico e sociale che ne avrebbero segnato in maniera profonda il volto che l’ha caratterizzata fino ai nostri giorni.
Era una città che lavorava e produceva, in preda alla grande espansione del settore industriale che avrà il suo picco all’inizio del XX secolo grazie a un microcosmo di piccole attività artigianali e industriali il cui sviluppo iniziava ad attrarre sempre più persone in città. Il processo di industrializzazione, infatti, andava di pari passo a un rapido e a volte incontrollato fenomeno di urbanizzazione, processo che era già iniziato dopo la metà del 19° secolo con la crisi della mezzadria e la prima grande migrazione verso Torino dell’epoca modea o contemporanea. La rapidità con cui si verificò l’espansione portò gravi conseguenze da un punto di vista urbanistico e sociale. La marea di gente che si riversò nella città cercando lavoro e migliori prospettive di vita iniziò ad ingrossare le fila dei tanti emarginati che ne riempirono i quartieri.
Il lavoro si trovava, ma sovente era lavoro sottopagato, illegale, con orari e tui massacranti tanto per gli uomini quanto, soprattutto nel settore tessile, per le donne. Inutile dire che lo sfruttamento minorile era prassi abituale. Questa fu la Torino di cui si presero cura i grandi santi sociali del XIX secolo: dal Cottolengo al Cafasso, da Don Bosco al Murialdo, ecc.
L’Allamano, pur sognando l’Africa e il mondo lontano ancora da evangelizzare, aveva però nel santuario della Consolata un osservatorio privilegiato che gli permetteva di penetrare nelle pieghe più recondite del disagio torinese grazie alle tante persone che incontrava nel suo ministero di consolazione, uomini e donne che esprimevano di fronte alla Vergine Maria tutta la loro fragilità, il bisogno di aiuto, la loro grande vulnerabilità.
Di lui e della sua attenzione alla realtà in funzione dell’attività pastorale, il sacerdote e sociologo biellese Don Alessandro Cantono ebbe a dire: «Teneva l’occhio e l’orecchio vigili e attenti a quanto accadeva al di fuori, aspirava a vedere il clero preparato alla vita, armato di tutte le armi che possono rendere proficuo e redditizio il suo santo ministero».
Oggi, poco più di un secolo dopo, il volto della migrazione ad intra presenta nuove sfide missionarie che non si esauriscono sul piano della promozione della giustizia e della pace, ma sfiorano terreni come quelli dell’interculturalità e del dialogo interreligioso. Curiosamente, quelle che ci ritroviamo in casa sono in molti casi persone provenienti dalle terre in cui l’Allamano e i suoi successori hanno inviato missionari. Non solo, ci sono situazioni oggi, qui a Torino, che sono molto più ad gentes di quelle che potremmo trovare in alcune nostre comunità in luoghi considerati tradizionalmente di missione.
Chiedersi che cosa l’Allamano farebbe di fronte a un contesto come il nostro sarebbe uno sterile esercizio di fantastoria. Rileggere però con attenzione il suo stile di approccio alla realtà sociale in cui si è prodigato sono sicuro che indicherebbe un cammino e spunti di iniziativa per arrivare a farci riconoscere anche qui in Italia per quello che si è: missionari. 

di Ugo Pozzoli

Gottardo Pasqualetti