Cana (6) A Cana manca la sposa, ma c’è la donna (la «Madre»)

Il racconto delle nozze di Cana (6)

D opo la lunga, eppure incompleta introduzione sul quarto vangelo e alcuni problemi che esso suscita ancora negli studiosi, passiamo al testo del racconto. I nostri lettori comprendono bene che la povera introduzione per quanto possa apparire ampia nel contesto di una rivista come Missioni Consolata, è del tutto insufficiente a delineare la problematica che ruota attorno all’«enigma del quarto vangelo». È appena sufficiente, però, se ci aiuta a capire che mai dobbiamo leggere i vangeli con superficialità, perché essi sono come un iceberg: ciò che vediamo è solo la punta, mentre la massa enorme che la regge, è tutta nascosta sotto l’acqua. Bisogna scendere in profondità se vogliamo scoprire i mille significati che la Parola di Dio porta in sé come una donna incinta pronta a dare la Vita.
Riportiamo il testo delle nozze di Cana (Gv 2,1-11) secondo l’ultima edizione della Bibbia Cei (2008), messa a confronto con una nostra traduzione dal testo greco:

Il testo

Traduzione Cei (2008)
2,1Il terzo giorno vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù.
2Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli.
3Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno vino».
4E Gesù rispose: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora».
5Sua madre disse ai servi: «Fate quello che vi dirà».
6Vi erano là sei giare di pietra per la purificazione dei giudei, contenenti ciascuna due o tre barili (= da 80 a 120 litri ciascuna).
7E Gesù disse loro: «Riempite d’acqua le giare»; e le riempirono fino all’orlo.
8Disse loro (di nuovo): «Ora attingete e portatene al maestro di tavola». Ed essi gliene portarono.
9E come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, il maestro di tavola, che non sapeva di dove venisse (ma lo sapevano i servi che avevano attinto l’acqua), chiamò lo sposo
10e gli disse: «Tutti servono da principio il vino buono e, quando sono un po’ brilli, quello meno buono; tu invece hai conservato fino ad ora il vino buono».
11Così Gesù diede inizio ai suoi miracoli (lett.: Gesù operò questo principio dei segni) in Cana di Galilea, manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui.
Traduzione letterale
2,1Il terzo giorno vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e vi era là la madre di Gesù.
2Fu invitato alle nozze sia Gesù che i suoi discepoli.
3Essendo venuto a mancare il vino, la madre di Gesù dice a lui: «Non hanno vino».
4E Gesù le dice: «Che cosa a te e a me, donna? Non è ancora giunta la mia ora».
5Sua madre dice ai servitori/diaconi: «Fate quello che vi dirà».
6Vi erano poi  là, collocate (per terra), sei giare di pietra, per la purificazione dei Giudei, contenenti ciascuna due o tre barili.
7E Gesù dice loro: «Riempite d’acqua le giare»; e le riempirono fino all’orlo.
8E dice (= ordinò) loro: «Ora cominciate ad attingere e continuate a portare al maestro di tavola». Ed essi cominciarono a portare.
9E come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, il maestro di tavola, che non sapeva di dove (venisse), ma lo sapevano i servitori/diaconi che avevano attinto l’acqua, chiama lo sposo
10e gli dice: «Tutti servono per primo il vino buono e, quando sono un po’ brilli, quello meno buono; tu invece hai conservato il vino buono (lett.: bello) fino ad ora».
11Questo principio dei segni Gesù fece in Cana di Galilea e manifestò la sua gloria e i suoi discepoli cominciarono a credere in lui.
12 Dopo questo fatto, discese a Cafàao lui insieme con sua madre, i (suoi) fratelli e i suoi discepoli e si fermarono là solo non molti giorni.

Una gemma nel NT
In greco il brano si compone di 185 parole nei primi 11 versetti; 209 se si considera il versetto 12 come parte integrante del racconto, passaggio di transizione. Una manciata di parole che formano un capolavoro letterario, ma anche una gemma in tutto il NT: il racconto di Cana infatti è esclusivo di Giovanni. L’autore narra un quasi ordinario della vita di tutti i giorni: anche al tempo di Gesù i matrimoni erano all’ordine del giorno.
Qui però, l’autore riferisce di una festa di nozze non per celebrare il valore del matrimonio, ma per annunciare che la nuova alleanza, portata da Gesù di Nazaret, è una realtà sponsale e realizza la nuzialità descritta nell’AT (Toràh e Profeti) e mai compiuta adeguatamente per l’infedeltà di Israele/sposa (ripudiata con l’esilio).
Al tempo di Gesù, il matrimonio era un evento civile e si svolgeva nelle case con un contratto tra le due famiglie dei nubendi, consacrato dallo scambio della dote. In una società teocratica tutto ciò che accadeva avveniva all’insegna del senso religioso della vita e della società. La presenza di Gesù alle nozze di Cana non santifica alcun matrimonio, ma assume su di sé la dimensione sponsale della storia di Israele e dell’alleanza per annunciarla con maggiore forza e trasparenza.
Giovanni Battista lo aveva già indicato come «colui che viene dopo di me» (Gv 1,15.27.30) che nel linguaggio del tempo indica «lo sposo» il cui arrivo è preceduto dall’amico dello sposo (cf Gv 3,39). Gesù viene per rinnovare l’alleanza a lungo tradita e realizzare l’anelito del profeta Geremia: «Ecco verranno giorni… nei quali con la casa d’Israele e con la casa di Giuda concluderò un’alleanza nuova (ebr.: berît chadashàh; gr.: diathêkēn kainên») (Ger 31,31). Ora nella persona di Gesù, è Dio stesso che assume in sé il progetto della nuzialità e se ne fa garante nell’umanità del Figlio come prospettiva del Regno.

Un fatto, anzi di più: un simbolo
Come si vede dalla traduzione letterale, il racconto abbonda in greco di verbi al presente indicativo, chiamato «presente storico», invece del «passato remoto», tipico della narrazione storica, per dare al racconto vivacità e contemporaneità agli occhi di chi legge. In questo metodo il lettore si sente portato di peso «dentro» il racconto e ne diventa parte integrante. L’edizione della Cei traduce, di regola, con il passato remoto, rendendo così il testo neutro davanti al lettore. Nel brano vi è un continuo passaggio  tra gli 8 verbi al «passato remoto» (in greco chiamato «tempo aoristo») e i 7 verbi che invece sono al «presente indicativo» (chiamato «presente storico» proprio perché prende il posto del «passato remoto/aoristo»). In mezzo vi sono altri verbi secondari (ad es. l’imperfetto) che hanno una funzione di sfondo per chiarire le circostanze e aggiungere elementi di contorno.
Interessante, da questo punto di vista il v. 8 dove secondo la versione ufficiale Gesù ordina ai servitori/diaconi: «Ora attingete e portatene al maestro di tavola. Ed essi gliene portarono». Detto così nessun problema perché è la relazione di una cronaca. Eppure nel testo greco l’autore ragiona in un altro modo attraverso l’uso sapiente dei verbi che possono essere tradotti così: «E dice loro: “Ora cominciate ad attingere e continuate a portare al maestro di tavola”. Ed essi cominciarono a portare».
Nella nostra traduzione mettiamo in evidenza l’intenzione dell’autore che usa un tempo (per noi è il passato remoto, per i greci è l’aoristo) che ha qui un valore «ingressivo», perché descrive un’azione nel suo nascere, nella fase iniziale: «cominciate ad attingere», mentre l’imperativo seguente ha un valore «durativo e continuativo», senza interruzione: «continuate a portare» perché il vino della nuova alleanza non si esaurirà più.
Possono sembrare osservazioni di lana caprina, ma non lo sono: si tratta del «senso della Parola di Dio». Una cosa è «attingete e portatene» e un’altra cosa è «cominciate ad attingere e continuate a portare». A noi pare che in questo modo l’autore voglia sottolineare una pregnanza teologica di altissimo livello: le nuove nozze dell’alleanza, che si realizzano con la presenza di Gesù, cominciano ora (cominciate ad attingere) e non finiranno mai (continuate a portare): inizia una nuova èra che non avrà mai fine.
Sullo stesso piano sta un’altra osservazione: per 6 volte si trova il verbo «dice», al presente, come se le parole di Gesù, i suoi gesti e gli eventi che lo circondano fossero qui davanti a noi che leggiamo: egli parla e agisce «adesso» [= dice], non ieri o l’altro ieri [= disse].
Oltre le apparenze, il livello profondo
Non si tratta solo di un espediente narrativo per rendere più partecipe il racconto, ma noi vogliamo credere che si voglia affermare anche l’attualità della Parola di Dio che resta «presente in modo continuativo» nella nostra storia e nella nostra vita. La Parola di Dio non è un resoconto storico del passato, ma la Vita che è qui, adesso.
Le nozze di Cana non sono un racconto banale chiuso nel passato della vita terrena di Gesù, ma l’occasione propizia (kairòs) qui e adesso per chiunque si lascia interpellare dall’annuncio della nuova alleanza che non è per l’Israele antico, ma è per l’Israele di oggi e di domani che siamo noi. Dio in Gesù si fa nostro contemporaneo e quelle parole dette oltre due mila anni fa, ora, adesso e qui, diventano Parola di salvezza per ciascuno di noi. Ora Gesù «dice»; ora noi ascoltiamo ciò che egli «dice».
Diamo subito alcune informazioni di contorno che ci permettono di semplificare il commento che faremo.
Nel racconto delle nozze di Cana ci troviamo di fronte a due livelli di lettura: quello materiale e quello più profondo che dobbiamo scoprire oltre le parole ovvie. Il primo livello è presto liquidato, perché si tratta di uno sposalizio come tanti, a cui viene invitato Gesù, i suoi discepoli e sua madre. Il testo non dice il motivo di questo invito: se fu per ragioni di parentela o perché la fama del giovane rabbi Gesù era ormai diffusa e la sua presenza avrebbe dato onore e lustro ai partecipanti e a tutto il villaggio.
Al tempo di Gesù il matrimonio si svolgeva sempre di martedì, perché, secondo la Mishnàh (Kethuboth 1; per la datazione e interpretazioni, cf Brown, Giovanni, vol 1,125-126), il matrimonio deve essere celebrato «il terzo giorno» dopo il sabato, per tre motivi, dei quali diamo alcune informazioni estee; nella prossima puntata affronteremo in modo dettagliato la questione del «terzo giorno».

Tre motivi per «il terzo giorno»
I primi due motivi per la scelta del «martedì» come giorno del matrimonio sono di natura teologico-salvifica, mentre il terzo, di origine post-esilica, ha solo una valenza pratica legata alle usanze del tempo di Gesù.

a) La doppia fecondità del terzo giorno della creazione
Nel racconto della creazione, redatto dal circolo dei sacerdoti nel sec. V a.C., dopo la luce, creata nel 1° giorno (Gen 1,3-5) e il firmamento, disteso nel 2° giorno (Gen 1,6-8), nel 3° giorno Dio pone mano a due nuove realtà: terra ferma e germogli che producono semi e alberi da frutto (Gen 1, 9-13). In questo 3° giorno, fatto unico in tutto il racconto, per due volte dice il testo che «Dio vide che era cosa buona» (Gen 1.10.12). Questa affermazione non è solo una constatazione, ma anche un giudizio di valore: si tratta di due approvazioni da parte di Dio.
In altri termini le due affermazioni corrispondono a due benedizioni: alla terra madre creata e ai germogli che la fecondano. La tradizione giudaica stabilì quindi il matrimonio al terzo giorno dopo il sabato per affermare che il matrimonio è sotto la protezione della duplice benedizione di Dio creatore che custodisce la sposa come «vite feconda» (Sal 128/127,3). Il giorno della doppia fecondità della creazione, è il giorno più adatto per celebrare la fecondità dei figli d’Israele.

b) La Toràh è pronta per il terzo giorno
Il secondo motivo per celebrare il matrimonio il terzo giorno sta nel fatto di commemorare la manifestazione del Signore ai figli d’Israele sul Sinai per dare loro la Legge, come è scritto: «Va’ dal popolo e santificalo oggi e domani: lavino le loro vesti e si tengano pronti per il terzo giorno, perché nel terzo giorno il Signore scenderà sul monte Sinai, alla vista di tutto il popolo» (Es 19,10-11.16).
Ai piedi del Sinai, nel terzo giorno Yhwh si è comportato come uno sposo, perché ha acquistato il popolo d’Israele (Es 15,16) come sua sposa, legandosi irreversibilmente attraverso la dote della Toràh. Celebrare il matrimonio il terzo giorno dopo il sabato per Israele ha il significato di «imitare Dio» perché tutti i figli di Israele acquistano una sposa per una discendenza alla promessa di Abramo (cf Manns, Il Giudaismo 85; Jésus 72).
Non è un caso che le nozze sono collocate in un villaggio di nome «Cana», della cui identificazione geografica abbiamo già parlato, trattando della localizzazione del villaggio: Khirbet Qana (Altura di Qana), località probabile, oppure Kefer Kenna (villaggio di Kenna), dove attualmente vanno i pellegrini (cf MC 3/2009). Qui c’interessa sottolineare che in ebraico «Cana/Qana/Kana» deriva dal verbo «qanàh» e significa «acquistare/comprare/creare». Già nel nome del villaggio c’è il segreto del messaggio che Paolo espliciterà in modo formale nella lettera ai Corinzi: «Siete stati comprati a caro prezzo» (1Cor 6,20; 7,23). Gesù viene per prendere possesso d’Israele proprietà di Dio, popolo che egli ha acquistato (Es 15,16).

c) La verifica della verginità in tribunale
La scelta del martedì (3°giorno dopo il sabato) come giorno del matrimonio era determinato da un altro motivo di ordine pratico. Il tribunale infatti si riuniva il giorno dopo, cioè il mercoledì, per cui era possibile accedervi subito dopo la prima notte di nozze, in caso che la sposa non fosse stata trovata vergine (cf. Manns, Il Giudaismo 85).
La prima notte di nozze era sempre sotto i riflettori delle due famiglie interessate che erano in agguato di mostrare in pubblico «i segni» della verginità della sposa. Di norma si esponevano in pubblico le lenzuola macchiate di sangue. In caso di contestazione il matrimonio doveva essere subito sciolto e per questo occorreva la possibilità di accedere al tribunale rabbinico, l’unico che poteva dichiarare invalide le nozze. Questa usanza ai nostri occhi è di natura barbara e violenta perché considera la donna come una proprietà «materiale» dell’uomo.
Il riscatto delle donne, apostole degli apostoli
La religione ha molte responsabilità nell’avere indotto una mentalità maschilista che ha sempre visto nella donna il pericolo, il male se non il diavolo in persona; salvo però servirsi della donna a piacimento per i propri ca-pricci e in funzione dei propri istinti. Se da una parte la scelta del «terzo giorno» per celebrare il matrimonio ha un valore simbolico altissimo, perché rappresenta sulla terra l’azione creatrice di Dio che si conclude con «due benedizioni» e afferma quindi la fecondità infinita dell’alleanza, dall’altra parte scegliere il terzo giorno in vista di potere accedere al tribunale, riduce il matrimonio a un rapporto di forza, un contratto mercantile: è la donna che deve dimostrare di essere «vergine», non l’uomo che invece può frequentare le prostitute senza dovere rendere conto a nessuno (cf Gen 38,14-18; Gdc 16,1).
Nella mentalità religiosa del tempo, la donna è colpevole per avere sedotto l’uomo fin dai tempi primordiali e questo la rende inferiore, non-persona, senza diritti, incapace giuridicamente di testimoniare in tribunale: essa è mera proprietà dell’uomo come stabilisce il comandamento: «Non desidererai la casa del tuo prossimo. Non desidererai la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo né la sua schiava, né il suo bue né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo» (Es 20,17).
Gesù romperà questa perversa mentalità e affermerà il diritto della donna di essere «figlia di Abramo» sullo stesso piano degli uomini (Lc 13,16). Alle donne, anzi, affiderà il primo annuncio della sua risurrezione, trasformandole in apostole degli apostoli e testimoni necessarie della sua risurrezione (cf Gv 20,1-18). Nelle nozze di Cana, come vedremo, una dei protagonisti è una donna, «la Madre», che determina gli sviluppi degli eventi e svolge un ruolo significativo di rappresentanza.
Come è strano questo matrimonio! Manca la sposa che non è nemmeno nominata e domina «la Madre» di Gesù, donna che assume su di sé le attese e i travagli del suo popolo Israele per accompagnarlo a varcare la soglia della nuova alleanza. È interessante sottolineare, come faremo a suo tempo, che l’evangelista mette sullo stesso piano «la Madre di Gesù» (v. 1) e le «giare di pietra» (v. 6).
Per tutte e due si usa il tempo imperfetto del verbo essere, tempo secondario che spiega le circostanze di contorno, e per tutte e due usa l’avverbio di luogo «ekèi – là». La corrispondenza non è casuale né occasionale: «Vi era là la madre di Gesù», che corrisponde a «vi erano poi là, sei giare di pietra» e che simboleggiano tutta l’economia dell’antica alleanza; Maria in rappresentanza del suo popolo e le giare per la purificazione dei giudei in rappresentanza della Toràh.
La prospettiva dunque dell’evangelista non si esaurisce nell’angusto confine di uno sposalizio, ma valica i confini di Cana per stagliarsi su tutta la storia della salvezza, specie dell’esodo, di cui il racconto delle nozze di Cana è una ripresa nella forma di un midràsh cristiano. Di questo parleremo la prossima volta.  

di Paolo Farinella

(continua – 6)

Paolo Farinella




L’inferno può attendere

Père Richard Frechette, al secolo Rick: ritratto

Haiti, isola perduta. Realtà inimmaginabile. Eppure c’è. Esiste. Il popolo haitiano continua a soffrire e a morire. Ma c’è anche qualcuno che ha messo la propria vita a fianco di questi fratelli. Storia di un prete e di un medico con la passione.

Tabarre, periferia di Port-au-Prince. In una stanza dell’ospedale Saint Damien due piccoli fagotti: Olivier Beisah e Luvens Bethoven non ce l’hanno fatta, non hanno superato la notte.
La camera è avvolta dal dolore e dal silenzio, spezzato solo dal Salve Regina che padre Rick intona, mentre con le sue grandi mani unge i minuscoli corpi di olio benedetto e li avvolge con cura in un sudario bianco. Sarà lui a garantir loro una sepoltura, un lusso che qui in molti, moltissimi, non si possono permettere. Poveri da vivi e poveri da morti. Per entrambi sono pronte due bare di cartone (il legno è prezioso), costruite riciclando scatoloni.
Le stesse che il sacerdote utilizza quando va all’obitorio dell’ospedale della capitale, ogni giovedì, per donare un funerale ai tanti cadaveri lì abbandonati. Morti di nessuno che vengono pietosamente sottratti alla fossa comune, e portati fuori città, su una collina che funge da cimitero, punteggiata di croci bianche senza nome.

Uragani e mancanza di cibo

«I morti hanno sempre torto», dice un proverbio haitiano. Qui, ad aver il torto di essere nati nel paese più povero e instabile delle Americhe, sono in tanti, soprattutto bambini.
Uno su nove non arriva ai cinque anni, muore di malattie in Europa facilmente curabili. E alle difficoltà di sopravvivenza quotidiana si aggiunge, spesso, anche la violenza della natura: verso la fine del 2008 Haiti è stata sconquassata da Fay, Gustav e Hanna, tre uragani che hanno provocato centinaia di morti  e ingenti danni a una terra già di per sé esausta, incapace di produrre il necessario per i suoi circa 10 milioni di abitanti (con un’aspettativa di vita intorno a 53 anni), la metà dei quali vive con meno di un dollaro al giorno.
Non a caso, nell’aprile dello scorso anno il rincaro del riso ha avuto ripercussioni tali da provocare scontri e morti, e da causare le dimissioni del primo ministro Jacques-Edouard Alexis.
Come denuncia Amnesty Inteational nell’ultimo rapporto sul paese, carenza di cibo, disoccupazione cronica e disastri naturali hanno esacerbato povertà e marginalizzazione, mettendo a rischio diritti minimi essenziali quali casa, sanità e istruzione (secondo fonti ufficiali il 40% della popolazione non ha accesso ad acqua pulita o a sistemi fognari). 
Il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon ha nominato l’ex presidente americano Bill Clinton suo inviato speciale per Haiti. Clinton – ha detto il capo dell’Onu – aiuterà Haiti a riprendersi dopo una serie di gravi uragani e di instabilità. Clinton aveva accompagnato Ban in una visita nel paese all’inizio del 2009.

Il passionista dei bambini

La situazione la conosce bene padre Richard Frechette, semplicemente padre Rick, come lo chiamano tutti. Cinquantacinque anni, sacerdote e medico, da oltre 20 vive e lavora qui in prima linea per l’organizzazione umanitaria Nph, Nuestros Pequeños Hermanos (Nostri piccoli fratelli), fondata nel 1954 da padre William Wasson (1923-2006), sempre dedito, nella sua vita, ai bambini più bisognosi e agli orfani, in particolare nelle aree di maggior emarginazione  dell’America centrale e meridionale.
«Sono stato ordinato nel 1979 presso il monastero dei Passionisti a New York – racconta padre Rick – e ho deciso di vivere la mia chiamata servendo il Signore attraverso l’opera grandiosa di William Wasson, ad Haiti, dove, nella sofferenza e nella miseria di questa popolazione, ma soprattutto in quella dei bambini, ogni giorno contemplo la passione di Cristo».
«Dopo poco tempo trascorso ad Haiti, decisi di rientrare a New York perché sentivo la necessità di studiare per diventare chirurgo, e rendermi ancor più utile nel concreto.
Nel 1987 terminai  i miei studi e la specializzazione e tornai qui. Da allora opero in questi luoghi come prete e come medico».
Una forza della natura questo atletico e instancabile statunitense del Connecticut, che precedentemente ha maturato esperienza lavorando anche come parroco a Baltimora, a New York con i rifugiati cubani, e per cinque anni in Honduras. Ma a colpirlo profondamente, a segnarlo, è l’esperienza ad Haiti.

Quasi un supereroe

Fisico possente, mascella squadrata, potrebbe sembrar uscito da un film di cowboy o apparire come un supereroe, ma non dei fumetti, bensì di una delle realtà più tragiche dei nostri tempi. «Uno dei primi modi in cui la povertà di Haiti è manifestata a noi, nel suo aspetto più drammatico – ricorda il sacerdote – è stata la moltitudine di bambini abbandonati alle porte del nostro orfanotrofio, nel 1987, quando abbiamo aperto la prima clinica.
Non avevamo i mezzi per offrire a tutti quei moribondi la salvezza, e infatti la prima clinica servì ad assistere i bimbi in una morte dignitosa e non per offrire loro una speranza di vita. Presto, comunque, risultò evidente che la maggior parte di quei bambini non sarebbe morta se solo ci fosse stato un posto dove curarli nel modo adeguato».
Il 4 dicembre 2006 segna una data importante in questo percorso: viene inaugurato l’ospedale pediatrico Saint Damien: un unicum nel paese, in grado di assistere gratis 40 mila bambini all’anno, nato nel giro di tre anni grazie ai fondi raccolti dalla Fondazione Rava, che rappresenta in Italia Nph (www.nphitalia.org).
Ogni mattina, già alle 6.30, davanti ai cancelli del St. Damien ci sono tante mamme che sperano di salvare le proprie creature. La struttura è all’avanguardia, offre stanze linde con 350 posti, pronte ad accogliere i piccoli malati, affetti soprattutto da malnutrizione, anemia, meningite, Tbc, Aids. Ci sono anche due nuove sale operatorie, già in funzione, volte anche a potenziare la chirurgia pediatrica sull’isola.
Un altro fiore all’occhiello è la Casa dei piccoli Angeli, aperta lo scorso dicembre, dedicata ai bimbi con handicap fisici e mentali.  Grandi e importanti successi che non fermano il prete «maratoneta» (ha scalato l’Aconcagua per raccogliere fondi per Nph e quando può partecipa alla maratona di New York per dar voce ai suoi bambini): corre in continuazione, padre Rick, tutto il giorno, parlando ora francese, ora inglese, ora creolo, occupandosi di mille aspetti contemporaneamente, ma al tempo stesso infondendo una grande calma.
I suoi occhi sono sempre attenti, vigili. Si capisce che, mentre spiega e racconta, sta pensando alle tante cose da fare, ma riesce ad essere chiaro e a fornire, con poche, precise parole, un quadro della difficile situazione: «Qui il primo problema è rappresentato dalla fame e dalla malnutrizione. A ciò si va ad aggiungere l’impossibilità di accesso alle cure per molti, unita all’assenza di lavoro.
Il paese è provato da una situazione pesante, un’emergenza tristemente continua e c’è necessità di trovare un equilibrio dopo tante tragedie. Bisogna creare delle infrastrutture, dalle strade a tutto ciò che serve per consentire e sostenere lo sviluppo del paese. Ma occorrono anche strutture morali, a partire da un sistema di giustizia che funziona».

Bidonville: incrocio
di tutti i traffici

Si comprendono ancor meglio le sue parole andando in uno dei gironi infeali dove il sacerdote quotidianamente opera: si parte alla volta della bidonville Cité Soleil.
Polvere, fumo, odore acre di pattume bruciato che si mescola al fetore delle fogne a cielo aperto e a quello di montagne di rifiuti; un maiale rovista in un ammasso di immondizia, un bimbo nudo si lava tra le baracche, con i piedi immersi nella melma.
Qui persino le forze dell’ordine hanno paura ad entrare, e i Caschi blu vengono solo se ben armati.  La missione delle Nazioni Unite è stata rinnovata lo scorso ottobre per il quindo anno consecutivo.
Ma con padre Rick presente, le guardie del corpo non servono:  è lui il salvacondotto. A lui non torcono un capello neppure i capi delle gang che qui dettano legge, gestendo il mercato della droga in transito dalla Colombia verso gli Usa, delle armi e dei rapimenti, purtroppo sempre più frequenti e con vittime i bambini,  spesso resi possibili dal coinvolgimento di poliziotti corrotti. «La violenza che nasce dalla disperazione». Così la definisce il sacerdote.
Lui stesso, qualche tempo fa, è stato aggredito: volevano rapirlo, ma quando l’hanno riconosciuto l’hanno pregato di non far parola dell’episodio: se i boss l’avessero saputo, gli autori del gesto l’avrebbero pagata cara.
Qui e nelle altre zone a rischio della capitale, infatti, padre Rick è rispettato da tutti: è riuscito a creare 17 scuole di strada, sottraendo oltre 3mila bambini al giro della prostituzione, della droga e del lavoro minorile, offrendo un’istruzione di base che permetta di imparare un mestiere, e dando lavoro a circa 80 insegnanti, molti dei quali provengono dalla casa orfanotrofio Nph di Kenscoff.
Ha organizzato delle cliniche mobili, per fornire soccorso ai bambini e alle loro famiglie e portare i casi più gravi in ospedale, e con l’auto cisterna distribuisce gratuitamente acqua potabile a circa 2.000 persone. Sta anche mettendo in piedi il progetto mateità sicura, nella bidonville Wharf Jeremy, per garantire assistenza alle donne in gravidanza, spesso giovanissime e impreparate, e ai neonati, per i quali vuole allestire delle sale al St. Damien, mirate alla degenza post parto cesareo e alla terapia intensiva neonatale.

un popolo con
Una grande umanità

Risultati davvero importanti in condizioni di degrado così forte, e ancor più evidente, nella sua crudezza, quando la luce inizia a calare  e il fumo dei falò di spazzatura rende i contorni delle cose e delle persone meno nitidi. La strada diventa tutto un brulichio di voci, risa, traffico, con una miriade di bancarelle che, illuminate dalle fiammelle delle candele, paiono tanti piccoli altari pagani.
Mentre si incrocia un blindato dei Caschi blu, ad attirare l’attenzione è un cartellone pubblicitario su cui campeggia la foto di una donna, con la scritta «M’ap denonce kidnappé» (denuncerò i rapimenti).
La sensazione di impotenza e di sconforto si alterna al desiderio di speranza, anche in chi vede la situazione dall’esterno, e ne viene colpito e travolto, inesorabilmente. Sono ancora le parole di Rick Frechette a offrire un ulteriore spunto di riflessione: «La gente qui ha un’enorme capacità di soffrire, ma anche di reagire e di andare avanti. Ho visto, in tante situazioni tragiche, difficili,  una creatività veramente impressionante. Sono persone con incredibili qualità.
Lo constato ogni giorno, anche in tutti coloro che lavorano con me: sono seri, onesti, fedeli, lavoratori, dotati di grande umanità. E non posso non pensare alle madri che ogni giorno, affrontando difficoltà di ogni genere, vengono qui all’ospedale per cercare di salvare i loro bambini, e stanno loro accanto con un affetto e una dedizione commoventi.
Queste sono qualità enormi. Cosa ci vorrebbe per cambiare la situazione nel paese? Non lo so, forse un miracolo! Ma credo che ci siano molte iniziative e segnali per iniziare a migliorare».
Piccoli grandi miracoli, uno per volta, in questo paese complesso, di contrasti, che rimane nel cuore. Come padre Rick insegna e dimostra, ogni giorno. 

Di Paola Babich

Paola Babich




Made in Borda

In manicomio (2) / Il «Borda»

Le borse di plastica costituiscono la produzione più banale. Con i prodotti
artigianali in carta ricilata c’è un bel salto qualitativo. Ma il massimo
lo raggiungono con i mobili restaurati. Gli artefici non sono operai comuni,
ma pazienti dell’ospedale neuropsichiatrico Borda
.

Buenos Aires. Sarebbe facile parlare male o molto male del Borda, ospedale neuropsichiatrico fondato nel 1863 nel barrio di Barracas. Basterebbe descrivere le sue stanze fatiscenti. O le condizioni dei pazienti che vagano sporchi e con i vestiti logori per corridoi bui e deprimenti.
Eppure, in questo luogo triste e degradato, ci sono due isole felici, dove si tenta il riscatto dell’istituzione e soprattutto dove i pazienti sono trattati da esseri umani, con i loro problemi ma anche con le loro ricchezze. La prima isola è Radio La Colifata, un’emittente nata nel Borda e che ogni sabato trasmette dall’ospedale, attraverso l’impegno di pazienti, ex pazienti, amici e volontari. La seconda è relativa ad alcuni programmi lavorativi denominati «emprendimientos en salud mental». I pazienti sono impegnati in differenti attività artigianali: producono buste di plastica, fanno oggetti con carta riciclata, restaurano mobili antichi. Si tratta di progetti piccoli, ma che raggiungono varie finalità: occupano in maniera adeguata i malati che guadagnano in autostima; insegnano una professione a persone che un giorno potrebbero trovare una nuova collocazione nella società; vendendo i prodotti, generano un reddito che consente alle attività di autosostentarsi; infine, producono qualcosa di nuovo partendo dal vecchio (carta usata, mobili antichi, eccetera).

Dei progetti imprenditoriali è responsabile Federico Bejarano, psicologo sociale, dal 1990 operatore presso il Borda. «Le persone che seguiamo – spiega Federico – hanno una doppia vulnerabilità: quella derivante dalle minori capacità (lavorative e socio-familiari) e quella generata dall’esclusione. Noi non crediamo che l’ospedale psichiatrico debba trasformarsi nel destino delle persone e che queste siano costrette a viverci. Proprio per abbattere questi muri stiamo lavorando, da alcuni anni, con alcune iniziative imprenditoriali».
Con la nostra guida saliamo al quarto piano, dove sono ospitate alcune di queste attività. Dapprima, per presentarci e salutare, ci affacciamo nella sala della biblioteca, piccola, ma molto luminosa. Attoo al tavolo ci sono alcuni pazienti intenti nella lettura.  «Abbiamo 3.700 libri – ci raccontano con orgoglio Enrique e Eduardo -. Ogni paziente del Borda può avere un libro in prestito per una settimana. Ecco qui l’elenco…». Eduardo vuole anche regalarci una sua esibizione. Ci canta una ballata di tango.
Nella stanza a lato, è ospitata l’impresa più vecchia, sorta dei primi anni Novanta, che si occupa della produzione di borse in polietilene. «Ne produciamo – spiega Federico – circa100 mila all’anno, che vengono offerte al mercato comune. L’impresa funziona ed è autosufficiente».
Nella prima stanza del corridoio, c’è un altro laboratorio, quello adibito alla produzione di carta. Ci accoglie Dora Manzilla, psicologa sociale: «Non fate foto ai pazienti, per favore». Certo che no. Dora ci mostra qualche prodotto. «Ecco, questo è un biglietto di invito per un matrimonio, quest’altro è il programma di un teatro, questo un biglietto da visita…». La qualità artigianale (e artistica) si nota subito.

Negli anni passati, sulla sanità pubblica dell’Argentina si è abbattuta la scure delle politiche neoliberiste. Il Borda non è rimasto immune. «Un tempo – racconta Federico – questo ospedale è stato un faro della psichiatria latinoamericana. Poi, come tutte le istituzioni dello stato, ha iniziato a soffrire per la riduzione dello spazio di intervento pubblico». Federico ci regala una spilletta con i colori della bandiera argentina, e una scritta: «Defendamos el Hospital público».  Gli domandiamo se esistono normative equiparabili alla legge 180 che in Italia nel 1978 portò alla chiusura dei manicomi. «Non ancora. Tuttavia, qualche progresso è stato fatto. Per esempio, la legge di salute mentale numero 448 della città di Buenos Aires è una legge progressista. Se essa venisse applicata, basterebbe per una trasformazione profonda del sistema. Comunque… venite che andiamo nel nostro laboratorio più impegnativo, quello del restauro».
Dal quarto piano del padiglione centrale dell’ospedale ci spostiamo dunque in un edificio nuovo, dove ci sono anche un moderno ascensore e le scale antincendio. Qui ha trovato uno spazio adeguato il laboratorio di falegnameria, in cui un gruppo di utenti del Borda restaurano vecchi mobili.
Nella stanza, ampia ed ordinata, alcune persone (in camice bianco) sono impegnate nel restauro: una scrivania, un tavolo, delle sedie, un armadio. Qualcuno scambia due parole con Federico, ma poi torna subito al lavoro. C’è un programma di lavoro e di consegne da rispettare, come ricordano gli avvisi scritti sulla lavagna bianca posta su una parete.

di Paolo Moiola

Paolo Moiola




I matti non votano

In manicomio (1) / La «Colonia Montes de Oca»

Visita ad una struttura manicomiale pubblica, in cui il personale tenta
di percorrere strade alternative. Facendo leva sulla propria professionalità
e volontà per superare ostacoli e diffidenze. 

Torres de Lujan. Sul campo di calcio del manicomio «Colonia nacional dr. Manuel A. Montes de Oca» è in pieno svolgimento la partita tra la squadra locale e quella degli ospiti italiani. Mentre i giocatori, tutti pazienti psichiatrici, si danno battaglia senza risparmiarsi,  ci accomodiamo a bordo campo con il piccolo gruppo degli accompagnatori. Di lì a poco siamo avvicinati da un uomo alto, barbetta grigia, camice azzurrino. Sul taschino è riportato un nome: dr. J. M. Romé.  Medico, il dottor José Mario Romé è direttore della riabilitazione a Montes de Oca. Dopo rapide presentazioni, gentile e disponibile, Romé risponde alle domande. «In Argentina – spiega -, il sistema sanitario è diviso in pubblico, privato e quello delle opere sociali. Normalmente, dove si paga, si riceve una migliore attenzione. Tra le opere sociali, che appartengono ai sindacati, alcune sono buone, altre secondo me dovrebbero essere chiuse. Quanto alla sanità pubblica, fa quello che può. Dipende molto da come vengono amministrati i fondi, dipende molto dal luogo». Si intuisce subito che tipo di medico sia il nostro interlocutore: «Io credo – spiega -, che lo stato non può non occuparsi di ciò che riguarda la salute, l‘educazione, la pensione e la sicurezza per il futuro».
 Romé lavora nel manicomio da 25 anni: nessuno meglio di lui può aiutare a capire il luogo. «L’85 per cento degli ospiti – racconta – sono pazienti con ritardo mentale, di varia entità: lieve, moderato, grave. Il resto sono pazienti psicotici, che stanno nel padiglione 3, un edificio per sole donne con una cinquantina di letti, non sempre occupati».
Ci raggiunge anche il dottor Jorge Santiago Rossetto, psicologo e direttore della Colonia Montes de Oca. Lui vuole parlare in italiano perché – spiega – «la mia famiglia  è di origine piemontese, di Novara». Rossetto ricorda che, negli anni Settanta, Franco Basaglia lodò l’Argentina e le sue strutture manicomiali. «La Colonia Montes de Oca ha appena superato il secolo di vita. Aveva un’immagine molto negativa, enfatizzata dai media. Poi, nel 2004, anno del mio arrivo, abbiamo iniziato uno sforzo di trasformazione della struttura manicomiale. Adesso stiamo portando avanti la riconversione del nostro modello di attenzione, passando da un sistema di chiusura ad uno di integrazione comunitaria, dove cioè la comunità partecipa attivamente. Siamo in un momento interessante. Si stanno riducendo i letti nei padiglioni, mentre stanno aumentando i letti in case comuni. Abbiamo, ad esempio, un programma che si chiama “Ritoo a casa”. Ad oggi ne beneficiano 80 persone. Insomma, il processo di cambio procede lento, ma procede».
«Al padiglione 7 – interviene il dottor Romé – abbiamo iniziato a formare gruppi più piccoli. I pazienti cambiano attitudini: si autogestiscono, maneggiano un po’ di denaro, escono con la famiglia, anche se non è facile, perché quelle sono le stesse persone che a suo tempo li cacciarono».

Accompagnati dal dottor Romé, andiamo a visitare alcuni padiglioni. Ce ne sono 11 di funzionanti per un totale di circa 800 pazienti e 850 operatori. Il padiglione n. 1 salta subito agli occhi perché è stato dipinto con accesi colori pastello: giallo, verde, rosa.  Diviso in 3 parti autonome, una per ogni piano, l’edificio ospita donne con ritardo mentale, basso, moderato, profondo. Tutto è molto spartano, ma le stanze sono pulite e le infermiere sembrano avere un buon feeling con le pazienti. Anche il padiglione n.3 appare adeguato.
Padiglioni dignitosi dunque, ma pur sempre all’interno di una struttura manicomiale tradizionale. Per trovare qualcosa di diverso, ci facciamo accompagnare al Centro diuo, che sta fuori della Colonia, anche se poco distante da essa.  Il Centro è una struttura molto semplice, ad un solo piano, con in mezzo un ampio spazio coperto da una tettornia.
Gladys Chutte, Hector Possetto, Romina Caricato e Carina Rebottaro lavorano al Centro diuo e parlano con sincero entusiasmo del loro lavoro. Ognuno con la propria professionalità dà vita alla struttura ed alle attività per gli ospiti. «Questo – racconta Hector – è stato il primo Centro diuo, nato dopo un intervento al padiglione 7, il più problematico. Abbiamo iniziato poco più di 3 anni fa con 30 pazienti. Il modello proposto era articolato su 3 tappe: Colonia, Centro diuo, paese con le case di convivenza».  «Dei nostri utenti, la metà – spiega Gladys – rientra alla Colonia, un’altra metà va nelle due case residenziali che abbiamo in paese. Inoltre, dato che abbiamo diversi laboratori, ci sono anche persone che vengono non per stare qui tutto il giorno ma semplicemente per seguire un corso».
Al Centro la scelta è ampia. Ci sono laboratori artistici (si tesse, si dipinge, si scrive) ed altri dove si cucina e si prepara il dulce de leche, il dolce argentino per antonomasia. C’è l’orto con la serra. Una parte dei prodotti dei laboratori vengono posti in vendita in paese.  

Romé, Rossetto, Gladys, Hector… la Colonia Montes de Oca è un manicomio pubblico che, attraverso il lavoro di persone capaci ed illuminate, sta facendo un percorso importante di  smarcamento dalla struttura manicomiale tradizionale.
Non è un’impresa semplice, anche per questioni di opportunità politica. «La sanità – chiosa il dottor Romé – dovrebbe sempre essere pubblica. Lo stato non dovrebbe mai delegare in questo campo, ma ci sono troppi interessi, come quelli dell’industria farmaceutica, per esempio. Quanto alla locura (pazzia) è sempre stata qualcosa da nascondere. Senza contare che i matti non portano voti, dato che non votano quando ci sono elezioni. Dunque, a chi importa di loro?».

di Paolo Moiola

Paolo Moiola




«Ho viaggiato con i “matti”»

Patasarriba: diario di un viaggio particolare

Avevano già viaggiato in treno fino a Pechino, in Cina.
A fine 2008, in 240 sono andati a Buenos Aires, in Argentina.
Sono i partecipanti a «Patasarriba», un viaggio culturale e sportivo effettuato da utenti, familiari e operatori dei servizi di salute mentale.
Un viaggio contro lo stigma e il pregiudizio che ancora colpisce le persone affette da disagio psichico. Un viaggio per riaffermare la validità della legge Basaglia (Legge 180), che nel 1978 portò alla chiusura dei manicomi italiani.

Roma, 21 novembre 2008. Aeroporto Leonardo da Vinci. L’articolo fatica a prendere forma. Non riesco a concentrarmi. Troppo rumore. C’è un folto gruppo di persone che, in attesa di imbarcarsi sul volo per Buenos Aires, parlano, ridono, scherzano, si rincorrono. Insomma, si divertono.
Ma chi saranno?, mi domando, forse un po’ invidioso di tanta vitalità. Provo a darmi delle risposte: una squadra in trasferta con i propri tifosi; un gruppo di Avventure nel mondo, la nota agenzia turistica; una gita aziendale. No, osservando i partecipanti, non sembra che alcuna delle mie ipotesi possa trovare conferma. Qualcuno, notando che sto osservando quello che accade, mi si avvicina e mi chiede se voglio firmare anch’io la bandiera.
Posso farlo, ma di che si tratta?, chiedo. Guardo la bandiera che dovrei firmare: «Italia-Argentina, Patasarriba, Un viaggio contro ogni pregiudizio, per un mondo senza manicomi». Patasarriba mi rammenta un saggio di Eduardo Galeano. Ma è il resto dello slogan che aiuta a capire. «Apparteniamo ad alcune associazioni che si occupano di salute mentale», mi spiega Daniele Benfenati, operatore sanitario a Bologna. Le associazioni sono l’Anpis (Associazione nazionale polisportive per l’integrazione sociale) e l’Unasam (Unione nazionale associazioni per la salute mentale).
«È un viaggio contro il pregiudizio a 30 anni dal varo della Legge Basaglia, una legge di civiltà giustamente famosa in tutto il mondo. Patasarriba, sottosopra in italiano, è il termine spagnolo che abbiamo scelto per sottolineare l’urgenza di un ribaltamento nelle politiche di salute mentale in Argentina», aggiunge Ennio Sergio, operatore ad Imola, tenendo stretta tra le mani la sua videocamera. Franco Basaglia, psichiatra veneziano promotore della Legge 180, che nel 1978 portò alla chiusura dei manicomi italiani, è molto conosciuto in America Latina, dove tenne una serie di seminari e conferenze.
Ma quante persone voleranno a Buenos Aires?, domando. «In tutto quasi 240 delle quali circa 150 sono affette da disagio psichico», mi risponde Rita Lambertini, operatrice a Bologna. Per organizzare una settimana fitta di incontri, attività e spettacoli, le associazioni italiane hanno trovato aiuto e appoggio in una associazione argentina similare, l’Adesam, Asociacion por los derechos en salud mental. 

Benvenuti all’Università

Buenos Aires, 24 novembre. Per una strana coincidenza anch’io, come il gruppo di Patasarriba, ho previsto una visita alla sede di Buenos Aires dell’Università di Bologna. Per capire se le dure accuse di sprechi mosse da il Gioale, siano vere o mero frutto di una ovvia scelta filogovernativa del quotidiano berlusconiano. Quella in calle Rodriguez Peña 1778, nell’elegante quartiere della Recoleta, è l’unico esempio di università italiana con una sede operativa all’estero, ma fare cultura costa e spesso non dà profitti immediati. E questo, nell’Italia delle veline, del Grande fratello, dell’Isola dei famosi, della Fattoria, non è un fatto bensì un mero delitto… 
La gente di Patasarriba ha preso posto nella piccola ma bella aula convegni dell’Università, dove il professor Giorgio Alberti, direttore dell’istituto, fa gli onori di casa. Assieme a lui, Stefania Costanza dell’ambasciata italiana, Roberto Grelloni, presidente di Anpis, e Carmen Mercedes Cáceres, presidente di Adesam. 
Io mi perdo ad osservare le persone, cercando di capire chi possa essere un utente affetto da disagio psichico, chi un operatore sanitario, chi un familiare o un amico. Difficile capirlo, a volte impossibile. E per fortuna è così. Anzi, forse sta proprio in questo la filosofia di Franco Basaglia: fare sì che i matti (termine improprio ma dai più ancora utilizzato) siano soltanto persone tra le persone, indistinguibili e dunque non catalogabili o etichettabili. 

La pazzia nel pallone

Giovedì 27 novembre. La località Torres de Lujan dista circa 90 chilometri da Buenos Aires. Qui sorge Montes de Oca, un manicomio statale con quasi 800 degenti.
La squadra italiana che sosterrà una partita di calcio contro una squadra di pazienti argentini è già in viaggio, seguita dalla piccola troupe televisiva guidata da Paula Kleiman, la regista che sull’evento girerà un documentario.
Il manicomio intitolato al dottor Manuel Montes de Oca è una struttura con più edifici immersa in un grande parco. Il sole picchia forte, ma gli alberi secolari leniscono la calura. Il dottor José Mario Romé, responsabile dell’area riabilitazione, ci fa da guida e ci accompagna al campo di calcio, dove le squadre sono già schierate. Fin dalle prime battute, si nota che gli argentini sono forti e il portiere della squadra italiana si arrabbia molto con i suoi difensori che non riescono a fermare gli attaccanti avversari. Il tutto si svolge sotto l’occhio elettronico delle due telecamere di Paula. Vince di misura la squadra di casa, ma gli italiani si sono battuti bene.
Una piccola delegazione di Patasarriba, guidata da Ennio Sergio, si ferma per visitare alcuni degli 11 padiglioni del manicomio che, pur nella penuria delle risorse finanziarie, sta tentando di rendere più umana la condizione di vita dei propri pazienti. A dimostrare questa filosofia, ci sono le strutture alternative, aperte fuori dall’istituto, come le case famiglia o il Centro diuo. Prima di riprendere la strada per Buenos Aires, Jorge Santiago Rossetto, psicologo e direttore di Montes de Oca, ci invita nel suo studio per uno scambio di opinioni. In mostra, in una vetrina della stanza, c’è anche una vecchia macchina per l’elettroshock. Per fortuna, oggi è soltanto un cimelio.

La «Bombonera»
di Maradona

Venerdì 28 novembre. Come il Matadero, visitato mercoledì, anche La Boca è un quartiere difficile, ma a differenza del primo è famoso, soprattutto tra i calciofili.
Franca Aceti, docente di neuropsichiatria a La Sapienza, Marcella Venier, psicologa, e Marco D’Alema, psichiatra a Frascati, oggi non sono qui come terapeuti, ma soltanto come spettatori. I protagonisti sono nelle accoglienti palestre del Club Atletico Boca Juniors, che è mondialmente conosciuto per le imprese della propria squadra di calcio, ma che in primis è una società polisportiva fondata nel 1905 da alcuni immigrati genovesi.
Cinque squadre italiane (che includono anche donne) stanno disputando partite di calcetto contro le squadre locali. Ai bordi dei campi e sugli spalti il tifo è incessante, accompagnato da cori, tamburi e sventolio di bandiere. L’entusiasmo è palpabile.
Gli organizzatori hanno pensato a tutto. Infatti, mentre nelle palestre si svolgono le partite, piccoli gruppi vengono accompagnati  a visitare la Bombonera, il mitico stadio del Boca, con la sua forma particolare, i colori sgargianti (giallo e blu), il museo multimediale, le foto e le storie dei giocatori, Diego Armando Maradona in primis.
Al termine degli incontri, il folto gruppo di Patasarriba a piedi si sposta nella parte turistica de La Boca, quella che si è sviluppata attorno a Calle Caminito e al Riachuelo, fiume (ora inquinatissimo) che confluisce nel Rio de La Plata e che un tempo ospitò il porto di Buenos Aires. E dove, nell’Ottocento, approdarono gli immigrati genovesi. Ma la storia del quartiere oggi passa in secondo piano. Pazienti, operatori, familiari si perdono tra bancarelle e ristorantini. E locali di tango, dove alcuni non esitano ad esibirsi al fianco dei ballerini professionisti.

La poesia di Marta

Domenica 30 novembre: per Patasarriba è il giorno del rientro in Italia. Marta, una paziente con cui ho stretto amicizia, vuole lasciarmi un suo ricordo sul quaderno degli appunti. Scrive: «La gioia entra in te/ a poco a poco invade il tuo essere/ e diventa veramente tua/ nella misura in cui tu sai donare agli altri».
Per un puro caso, ho incontrato e conosciuto la gente di Patasarriba. È stato bello provare orgoglio nell’essere italiano. Non mi capita spesso. 

di Paolo Moiola

Paolo Moiola




Riso, fagioli e tlc

Neoliberismo e pensiero unico. I paesi dell’America Centrale davanti alla crisi mondiale

La crisi odiea nei paesi del Quarto mondo latinoamericano (Centroamerica e Caraibi) iniziò
la sua gestazione almeno 20 anni fa, quando la globalizzazione neoliberista divenne religione e il «Consenso di Washington» – con lo smantellamento dello stato nazionale e il business delle privatizzazioni – i suoi 10 comandamenti.

Lungo la sua storia recente, l’America Centrale ha attraversato un periodo di dittature e movimenti di liberazione conclusosi con gli accordi di pace degli anni Novanta:1990 in Nicaragua (dopo 50 mila morti), 1992 in El Salvador (80 mila morti), 1996 in Guatemala (250 mila morti). A ciò è seguita la globalizzazione neoliberista (con le riforme strutturali e le privatizzazioni dei settori strategici degli stati nazionali) e, infine negli ultimi sei anni, è arrivata la stagione dei negoziati e dei Trattati di libero commercio (Tlc), tra le aristocrazie native allineate con i poteri del Nord. Prima con gli Usa, poi, sulla scia di quei trattati capestro, dall’anno scorso con il suo sosia europeo: l’«Accordo di associazione» tra l’Unione Europea e il Centroamerica (Acuerdo de Asociación entre América Central y la Unión Europea, Ada). Sulla carta questo Tlc europeo include, oltre al commercio, il dialogo politico e l’integrazione regionale e per ciò, secondo i negoziatori europei è un Tlc «dal volto più umano». «Il solito Tlc ma confezionato in carta da regalo», ha chiosato Sigfrido Reyes, deputato salvadoregno del Fronte Farabundo Martì (al governo dal 1 giugno 2009).

I costi (pesanti)
delle privatizzazioni

Il Centroamerica di oggi è il frutto perverso di una serie di cambiamenti, che presero il via con il fallimento economico e politico delle dittature dell’istmo verso la fine degli anni Ottanta. Nel 1989, questa sconfitta economica diede il via libera al cosiddetto «Consenso di Washington», che stabilì in tutta la regione i comandamenti della globalizzazione. Queste riforme strutturali spingevano verso l’accumulazione della ricchezza e lo smantellamento dello stato nazionale con la privatizzazione dei sistemi pubblici di educazione e salute, passando per la svendita delle imprese statali di telefonia, elettricità e acqua, sempre con la promessa di migliorare il servizio. La procedura era consolidata: prima si rendevano deficitarie le imprese pubbliche, per non avere movimenti di piazza al momento della loro privatizzazione, successivamente dividendole in bad and good company, vendendo quest’ultima a prezzo stracciato alle multinazionali «amiche» del governo di tuo.
Il caso del Nicaragua ha visto il governo e la multinazionale spagnola Unión Fenosa (distribuzione elettrica) entrare nel vicolo cieco di una diplomazia legata a doppio filo alla Banca mondiale (che funge da guardia del corpo delle 100 multinazionali che operano nella regione). Facile prevedere che, in caso di un conflitto giudiziale, la vicenda si concluderebbe con un parere favorevole alla multinazionale spagnola (www.unionfenosa.es) e con l’impossibilità del governo sandinista di pagare il prezzo della rinazionalizzazione dell’antico Instituto  nicaraguense de energia (Ine).
Per parte loro, Honduras, El Salvador e Guatemala sono state invase dalla miniera a cielo aperto, con in testa la multinazionale Glamis Gold Ltd. che lavora in tutto il Centroamerica con prestiti della Banca mondiale (www.goldcorp.com). Questa multinazionale, secondo l’organizzazione ambientalista Madreselva, utilizza in un’ora l’acqua che una famiglia utilizzerebbe in 22 anni e in Honduras lavorano con royalties che si aggirano attorno alla cifra ridicola dell’1% (www.madreselvaondg.net).

Contadini senza terra
e senza futuro

Le privatizzazioni sono giunte anche al credito per il settore di piccoli produttori agricoli e allevatori.  In Nicaragua, questo credito una volta era a disposizione di tutti. Oggi è stato dirottato dalla produzione di alimenti al commercio, passando la prima dal 34% nel 1993 al 4% dieci anni dopo, il secondo dal 37% all’84% nello stesso periodo.   
  A distanza di quasi 20 anni questi cambiamenti si sono tradotti nella regione (per la sua natura contadina e produttrice di materie prime) nello smantellamento dell’agricoltura sostenibile, dei sistemi alimentari locali e delle reti sociali su cui essi poggiano. Un modello che ha spinto progressivamente il Centroamerica verso la vulnerabilità alimentare e la dipendenza dalle importazioni di cereali Usa (sovvenzionati da Washington fino al 60% dei costi di produzione).
La conseguenza successiva è stato l’esodo rurale, con una massiccia decontadinizzazione a livello regionale, accompagnata da una controriforma agraria per via dell’insolvenza dei piccoli produttori. Il canovaccio è consolidato: ormai senza credito pubblico ai contadini non resta che ipotecare i loro piccoli appezzamenti di terra come garanzia per l’acquisto di concimi e semi, a cui segue spesso il pignoramento per l’impossibilità di ripagare i prestiti (a causa delle oscillazioni dei prezzi sui mercati inteazionali del Nord o del passaggio di un uragano caraibico che spazza via raccolti e non solo); e il cerchio si chiude con la terra che cade in mano ai nuovi latifondisti tramite le aste delle banche private.
Questi contadini senza più terra sono finiti accalcati nelle città, ingrossando le bidonvilles. In migliaia si sono riciclati come lavoratori informali: venditori ambulanti di caramelle, sigarette e cianfrusaglie varie, che ora vagano per le strade delle capitali centroamericane, portandosi dietro un capitale umano di conoscenze generazionali di agricoltura e allevamento, che si perde in città senza biglietto di ritorno.
Quanto alle donne contadine, in città erano attese dalle multinazionali straniere del subappalto, le fabbriche di assemblaggio tessile, las maquilas, che si sono diffuse con l’inteazionalizzazione della produzione industriale. Questa altro non è che la delocalizzazione dei cicli di produzione, avente l’obiettivo di ridurre fino al 90% i costi di lavorazione manuale manifatturiera, con un salario che si aggira intorno ai 30 centesimi di euro all’ora. Previo all’arrivo delle maquilas però, nel Centroamerica si è compiuto uno metodico smantellamento dei sindacati locali e la creazione di sindicatos blancos agli ordini dei proprietari.
L’emigrazione internazionale è invece riservata di più agli uomini, pochissimi dei quali giungono a destinazione: uno per ogni cento fra gli emigranti honduregni. A coloro che non sono in grado di emigrare è riservato il sottornimpiego, in cui si concentra il 41% della popolazione attiva della regione.

Le classi proletarie
e il «triangolo 80-100-10»

Due decenni di questa globalizzazione hanno provocato una metamorfosi nell’architettura dell’accumulazione nel Centroamerica. Da 3 si è passati ad avere 5 classi sociali di cui una all’estero, los expatriados: in cima un’élite di 10 famiglie (secondo un quotidiano del Guatemala, El Periodico) che controllano la regione; sotto di loro  una classe di 80 milionari (secondo la rivista del Costa Rica, Estrategia & Negocios), queste due classi fanno affari con le 100 transnazionali presenti nella regione (secondo la rivista del Nicaragua, Envio).  Sotto ancora, una classe media ogni volta più povera formata da professionisti, commercianti e impiegati statali. Al di sotto ancora, il 70% dei centroamericani che vivono con meno di tre euro al giorno e in casi come il Nicaragua l’80% che vive con meno di due. All’estero poi ci sono gli espatriati, circa 4,5 milioni di centroamericani su i 37 milioni, di cui il 75% negli Stati Uniti.
Questo modello in Centroamerica a grandi linee funziona così. Le rimesse entrano alla regione e rappresentano circa il 15% del Pil totale (nel caso di El Salvador il 20%, con un incremento del 10% annuo, anche se la tendenza è a diminuire per via della crisi globale). Esse vengono quasi interamente spese dagli impoveriti per acquistare beni e servizi (mentre solo il 10% va in investimento e studio).  Tali merci e servizi sono venduti al dettaglio dai commercianti e dalle 100 transnazionali, che si rifoiscono dai grandi importatori, gli 80 milionari tra cui ci sono anche gli esportatori a loro volta legati alle 100 transnazionali, prevalentemente nordamericane ed europee. Queste, a loro volta, si dotano di capitali dalle 10 famiglie, che controllano le banche private e concentrano questo flusso ascendente di ricchezza per poi utilizzare i guadagni all’estero, perché il Centroamerica non dà garanzie. Insomma, 80-100-10 è un triangolo perfetto…
Altra domanda interessante è la seguente: quanto gli affari di queste 10 famiglie e gli 80 milionari sono intrecciati con il business del narcotraffico in Centroamerica, se la  progressiva de-regolarizzazione dello stato di diritto ha convertito l’Istmo in un paradiso per il lavaggio di narco-dollari e in un passaggio indisturbato della coca verso il Nord? Quale è la percentuale dei suoi capitali che si «contamina» di questo affare, aldilà dei prestanome?
Con la scusa della violenza

La criminalità organizzata che martella il «triangolo del Nord» (Guatemala, El Salvador e Honduras) è aumentata a dismisura negli ultimi anni e frattura l’unione fra stato di diritto e politica. Il Centroamerica si trova stretto fra i più grandi produttori (Colombia) e consumatori di cocaina (Stati Uniti). Per ogni grammo di cocaina che viene spostato fra Colombia e Stati Uniti, il 90% del suo prezzo si gioca sul trasporto attraverso il Centroamerica. Situazione che ha provocato lo scoppio della violenza in questi tre paesi, accelerata dal fuggire verso il triangolo del nord delle reti di crimine organizzato messicane per via dell’intensificarsi della lotta al narcotraffico in Messico.
Il mercato delle droghe illecite si sa, è un alibi di vecchia data per il controllo militare di paesi e regioni. Allo stesso modo che il Plan Colombia nel paese andino, si è creato promosso dagli Usa un suo alias per il Messico e il Centroamerica: il Plan Merida, messo a punto nell’ottobre 2007 dal senato nordamericano e venduto come un’iniziativa per combattere il crimine e il traffico di stupefacenti nella regione. Ma questa iniziativa con alla base una logica repressiva, non tiene conto che la criminalità organizzata e la violenza nel triangolo del Nord è il frutto storico di un sistema economicamente diseguale. Infatti la situazione madre che l’aveva provocata è rimasta pressoché  intatta e nel frattempo la violenza nell’Istmo continua ad allargarsi.
Per qualche anno si sono promossi, con scarsi risultati, programmi repressivi per combattere la violenza, puntando il dito soprattutto sulle maras (gruppi delinquenziali di giovani). Tra questi programmi, ricordiamo: la strategia Cero tolerancia (Honduras, 2001), il Plan Escoba (Guatemala, 2003), e il Plan Mano Súper Dura (El Salvador, 2004). Le maras, infatti, sono state criminalizzate e utilizzate come capro espiatorio della situazione politica ed economica che si vive nel triangolo del Nord, dove più della metà della sua popolazione ha meno di 24 anni. Questi programmi repressivi sono andati avanti ad oltranza, ignorando studi che affermavano cose diverse: secondo il Pnud, in Honduras, solo l’11% dei crimini del 2007 era  attribuibile alle maras; in Guatemala, un 14% secondo uno studio della polizia e in El Salvador il 12%, secondo l’Istituto di medicina legale.
Questa campagna si è fermata solo nelle ultime elezioni dell’Honduras in cui il candidato Porfirio Lobo Sosa del Partido de la Innovaciòn y la Unidad ha perso le elezioni contro Zelaya del Partido Liberal per i toni alti del suo discorso di repressione alle bande giovanili. Allo stesso modo, in Guatemala, Otto Perez Molina del Partido Patriota ha perso con la sua campagna elettorale della mano dura (alla violenza) contro Alvaro Colom.
La delinquenza è stata un riflesso sociale della globalizzazione centroamericana, che – pur con una crescita media annua del 5% – negli ultimi anni ha visto crescere la povertà delle popolazioni.

Rimesse e cooperazione,
ancore (incerte) di salvezza

Vent’anni di neoliberismo hanno attirato in questa parte del mondo la cooperazione internazionale, per sopperire agli effetti collaterali del modello. Il Guatemala, l’Honduras e il Nicaragua si trovano tra i 9 paesi a livello globale che ricevono più cooperazione internazionale. Inoltre, il 60% della cooperazione internazionale dell’Ue per l’America Latina viene data al Centroamerica, pur rappresentando solo il 7% della popolazione latinoamericana.
Nel Centroamerica, escluso il Costa Rica, la cooperazione internazionale  rappresenta in media il 15% del Pil.
Simile è la percentuale delle rimesse degli espatriati, di cui El Salvador detiene il primato nell’Istmo. Con la minore spesa sociale della regione 6,6% del Pil (la metà della media latinoamericana), eredità dei due decenni di governo di Arena, partito di ultradestra. Il costo sociale lo hanno pagato gli espulsi, un terzo della popolazione del paese: 2 milioni e mezzo di salvadoregni che vivono attualmente all’estero, prevalentemente negli Usa, mentre in patria il 70%  sopravvive grazie alle rimesse. Le rimesse e la cooperazione (nonostante la crisi abbia fatto diminuire queste voci d’entrata) costituiscono ancora oggi il motore dell’economia di questi paesi, insieme rappresentano circa il 30% del Pil, con il quale i governi dell’Istmo tengono a galla l’economia della regione in una versione (pericolante) della globalizzazione (alla) centramericana.
Ora che questo modello economico sta franando, sono le stesse fasce vulnerabili di questi popoli a pagare la fattura sociale, con la disoccupazione che sale, le rimesse che crollano e gli espatriati che ritornano a casa, grazie all’inasprimento delle leggi migratorie nel Nord del mondo. Se nei paesi industrializzati la maggioranza della popolazione utilizza il 10-15% dello stipendio in alimenti, nei paesi centroamericani, fra riso e fagioli, tortillas e ogni tanto un po’ di carne, si arriva all’80%, e molto probabilmente sono queste le proporzioni che alla fine della crisi (fra 5 anni nel Nord e 10 nel Sud secondo gli esperti) pagherà il ricco e povero mondo.

 Strumenti alternativi:
Alba e Petrocaribe

Il nuovo quadro geopolitico nell’Istmo viene modellato dal diffondersi della crisi negli Stati Uniti, che aumenta la disoccupazione per via del rallentamento della domanda globale. Nei paesi dell’Istmo ciò si traduce in crollo delle esportazioni e nella riduzione delle rimesse. Dalla sponda opposta, tentando di contenere i danni della crisi, si assiste all’aumento dell’influenza di Petrocaribe, «il braccio energetico» dell’Alteativa bolivariana delle Americhe (Alba), che ha spinto i governi di Alvaro Colom (Guatemala) e Zelaya (Honduras), entrambi socialdemocratici, verso l’Alba, alter-ego dei Tlc proposti dal Nord del mondo.
Petrocaribe è nato il 29 di giugno del 2005 e vedeva la partecipazione del Venezuela e di 13 paesi dei Caraibi. Oggi i paesi sono diventati 17. Petrocaribe è stato creato su proposta del presidente del Venezuela Hugo Chávez con l’intenzione di dare sicurezza energetica e contrastare gli effetti negativi che con la crisi si abbattono sulle popolazioni più vulnerabili del Sud del mondo.
Contraddicendo la logica neoliberista, Petrocaribe fonda le sue basi nella cooperazione energetica orizzontale e la solidarietà tra i popoli, tenendo conto delle asimmetrie degli stati e con l’obiettivo di creare progetti  sociali e d’infrastrutture. Inoltre cerca il cornordinamento di politiche energetiche, cooperazione tecnologica, e potenziamento di fonti alternative.
Dei paesi centroamericani, il primo membro ad entrare a Petrocaribe è stato il Nicaragua, nell’agosto 2007 durante il terzo Summit di Petrocaribe. Il seguente paese è stato l’Honduras del governo Zelaya nel corso del quarto Summit e nel quinto il Guatemala. Il Costa Rica per ora ha sollecitato l’ingresso formale. Manca solo El Salvador, dove però dal 1 giugno ha assunto la presidenza Mauricio Funes, uomo  del Fronte Farabundo Martì (Fmln).
A luglio dell’anno scorso,  nel quinto Summit di Petrocaribe, a Maracaibo in Venezuela, si decise la creazione di una impresa mista Grannacional de energia. In controtendenza all’operato delle multinazionali, si invitano i paesi membri a partecipare fin dalla estrazione del greggio nella Faja del Orinoco nel Venezuela e in questo modo acquisire conoscenze e benefici fin dalle basi.
Petrocaribe agisce però su un Centroamerica con paesi sostanzialmente non produttori di petrolio e con una dipendenza di idrocarburi che dal 1990 ad oggi si è incrementata del 557%, insieme a problemi alimentari storici:  «tra il 1940 e il 2004 si sono prodotte più di 2,6 milioni di morti associate alla denutrizione nella regione centroamericana, questo numero di morti è molto maggiore al totale delle vittime dei conflitti armati  in quei decenni», secondo l’informe del 2007 del Cepal («Commissione economica per l’America Latina»).

I pesanti numeri
della povertà

Oggi la povertà tocca in Honduras il 75% della popolazione, in Guatemala il 51%,  in Nicaragua il 60% , in El Salvador il 40%, in tutti i casi con una forte causale esogena data dall’inflazione importata. Con l’attuale crisi alimentare c’è il rischio che altri 800 mila centramericani entrino a ingrossare le fila dell’indigenza, perché si calcola che per ogni 5 tonnellate di cereali che ingessano a uno dei paesi dell’Istmo, un contadino diventa candidato all’emigrazione.
Per combattere questa crisi è stato creato un fondo chiamato prima Petroalimentos e poi, a partire dalla riunione dei ministri dell’agricoltura all’Avana a metà agosto 2008, Alba-alimentos. Con l’intenzione di cornordinare le politiche in ambito agro-alimentare, composto da un consiglio con i ministri di agricoltura dei paesi membri. Questo fondo si sta utilizzando per la produzione di alimenti, tramite la donazione di concimi e semi migliorati unicamente per i piccoli e medi produttori. Con esso si intende anche promuovere tecnologie agricole sostenibili, con una serie di programmi sociali in tutta la regione a beneficio della maggioranza impoverita. 

Di José Carlos Bonino

José Carlos Bonino




Il coraggio di dire «No»

Refusenik: obiettori di coscienza israeliani

Più di 700 militari dell’esercito israeliano, arruolati e riservisti, hanno scelto di rifiutarsi di prestare servizio nei territori palestinesi occupati e obbedire a ordini di natura repressiva e aggressiva contro civili: una scelta pagata con umiliazioni e carcere.

Sono i rivoluzionari d’Israele. Pochi ma coraggiosi, e soprattutto nonviolenti, «Pacifisti» con la maiuscola: sono le svariate centinaia di cittadini israeliani, in gran parte giovani, che hanno deciso di rifiutare il servizio militare obbligatorio del proprio paese. Si chiamano refusenik, e si battono per uno scopo ben preciso: evitare di combattere laddove lo scopo non è più «difendere la patria», ma «attaccare la popolazione palestinese», ovvero nei Territori occupati, dove lo stato di Israele si è insediato dalla sua nascita, nel maggio 1948.
Quindi non rifiutano in toto le armi e la divisa di Tsahal (l’esercito israeliano, chiamato anche Idf, acronimo di Israeli defense forces), questi obiettori di coscienza sui generis: piuttosto, esercitano il loro patriottismo prendendo le distanze da quelle che considerano pratiche oppressive: l’invasione di villaggi palestinesi per scopi militari, ma soprattutto la continua avanzata delle colonie israeliane.
Tali insediamenti, sempre più grandi e numerosi (a fine 2008 erano 121, per 2.600 unità abitative e mezzo milione di abitanti), stanno via via erodendo il Territorio della Palestina originaria, oggi ridotta al 22% rispetto a 61 anni fa: quando, oltre alla fondazione di Israele, avveniva quella che viene definita da molti la nakba, la «catastrofe», termine arabo che si riferisce alla cacciata degli abitanti palestinesi dalle terre dove avevano vissuto fino a quel momento.
Il servizio militare obbligatorio in Israele occupa una parte considerevole della crescita di tutta la popolazione. Dai 18 anni in poi (è previsto il rinvio fino alla fine degli studi), i ragazzi lo devono compiere per tre anni consecutivi, le ragazze due. È un periodo davvero lungo, che non ha eguali in nessun altro stato del mondo. Ma non è finita qui: dopo questi anni, si diventa «riservisti», e lo si rimane fino a 40 anni d’età.
Tutti gli anni, ogni cittadino israeliano riservista deve prestare almeno due settimane di esercitazioni nell’esercito. Perché in caso di una guerra in cui non bastassero le forze regolari, chiunque potrebbe essere richiamato alle armi: è successo nell’estate 2006 nello scontro con il Libano, ma soprattutto è accaduto tra la fine del 2008 e l’inizio di quest’anno, nelle tre settimane dell’operazione «Piombo fuso» dell’esercito israeliano nella Striscia di Gaza.
Una guerra vera e propria, condotta senza tregua via cielo, mare e terra da Tsahal contro Hamas, il partito palestinese al potere nella Striscia, che ha però provocato almeno 1.300 vittime fra i civili (30% bambini) e la distruzione di centinaia di case ed edifici pubblici.

Una guerra che, come in passato, ha provocato però il netto rifiuto da parte di nuovi refusenik, una ventina in tutto, che si sono aggiunti ai circa 700 che, soprattutto dal 2000, con l’inizio della seconda intifada (la «rivolta», guerra civile che nei primi anni del nuovo secolo ha causato almeno 5mila vittime palestinesi e mille israeliane), hanno rifiutato di servire il proprio paese se impiegati nei Territori palestinesi.
Facendo il passo del «rifiuto motivato», questi ragazzi e ragazze sono diventati oggetto di furenti accuse, soprattutto da parte dei propri marescialli, che non hanno esitato a trascinarli davanti a una corte militare. Come è successo, più volte, a uno dei refusenik più famosi d’Israele, uno dei pochi che, oltre ad aver detto no ai propri superiori, si è esposto anche all’opinione pubblica. Finendo più volte alla gogna.
È questa la storia di Noam Livne, nato 34 anni fa in uno dei tanti kibbutz (una sorta di comunità di famiglie basata sulla vita agreste) d’Israele e residente tuttora a Tel Aviv, la città più «progressista» e tecnologicamente all’avanguardia dello stato ebraico. Negli ultimi anni Noam ha girato università e centri culturali del proprio paese e (forse in misura maggiore) all’estero, per far conoscere al mondo la realtà dei refusenik israeliani: «Una realtà fatta di coerenza, di lotta per affermare i propri ideali, per convincere altri giovani a “uscire dal guscio” e dall’incessante propaganda militare».
Il giovane israeliano, che ci parla mentre passeggia per la città con il suo cane Doobie, in una calda giornata di maggio 2009, è una persona che ha imparato a dosare bene ogni parola, perché sa che c’è molto in gioco, soprattutto per quanto riguarda la sfera personale.
Il suo ennesimo rifiuto a imbracciare le armi come riservista per l’Idf, durante la guerra di Gaza, gli è costato a fine gennaio tre giorni di carcere preventivo, ma soprattutto l’apertura di un nuovo processo di cui non sa ancora le conseguenze.
Quando aveva detto il primo «no» nel 2001, durante, appunto, la seconda intifada, Noam era stato condannato a scontare 22 giorni di prigione. Questa volta potrebbe andare peggio, e di molto. «Mi è stato detto che rischio il processo civile e che la pena può arrivare fino a due anni, mentre quella militare è al massimo un mese», spiega l’obiettore, che attualmente sta svolgendo un dottorato in Matematica all’università di Tel Aviv.
«Non capisco le ragioni di questa minaccia, ma sono pronto ad affrontare il verdetto, perché ho la coscienza pulita. Anche se suppongo che, a quattro mesi dalla fine dell’attacco su Gaza, all’esercito convenga “dimenticarsi” di me, piuttosto che condannarmi con il rischio di scatenare un putiferio mediatico senza precedenti» commenta Noam.

Infatti, proprio questo è il punto: il tenente Livne (prima del rifiuto del 2001, il giovane aveva servito Tsahal per ben sette anni, salendo nei gradi), grazie alla sua azione di disobbedienza civile, nel tempo è diventato celebre in tutto il suo paese. Soprattutto dal 2002, quando, con altri riservisti come lui, ha fondato l’associazione Courage to refuse (Coraggio di rifiutare, Ometz Le’sarev in ebraico), pubblicando su vari mezzi d’informazione nazionali il proprio manifesto politico, ovvero la Lettera dei combattenti, testo in 10 punti che ribadiva le ragioni del «no» alle armi.
Eccone un estratto: «Noi, che abbiamo visto le sanguinose conseguenze dell’occupazione, in entrambe le società, israeliana e palestinese (…) riteniamo l’ordine di combattere nei Territori come la distruzione di tutti i valori con i quali siamo cresciuti; (…) dichiariamo che non parteciperemo mai a guerre per la difesa delle colonie; ma serviremo comunque l’esercito in ogni missione che sia di natura difensiva, quindi non quelle riguardanti l’occupazione e l’oppressione del popolo palestinese».
Una presa di posizione forte, inedita per la società israeliana, che, inaspettatamente, ha riscosso un enorme successo: sono stati ben 628, nel corso degli anni, i soldati o i riservisti che hanno firmato la Lettera dei combattenti. «Ci hanno chiamato traditori, vigliacchi, oppure egoisti. Tentano spesso di convincerci a fare marcia indietro, a ritornare a combattere. Ma io, come gli altri, quando ho scelto la via illegale dell’obiezione di coscienza, e non quella medica (l’esenzione dopo aver sostenuto una visita psichiatrica per cui si veniva considerati alla stregua di “pazzi”, ndr), l’ho fatto perché ero stufo di mentire a me stesso sulle azioni del mio esercito. Per questo ho rifiutato e sono diventato attivista per la pace» chiarisce con voce risoluta Noam.

M a non c’è solo l’associazione Courage to refuse nell’universo dei coraggiosi obiettori israeliani: sono almeno altri tre (ognuno con il proprio sito internet anche in inglese, vedi link sotto) i gruppi molto attivi nel sensibilizzare la gente sull’importanza di non combattere nelle operazioni militari volte a rafforzare l’occupazione dei Territori palestinesi.
C’è, infatti, Breaking the silence (rompere il silenzio), organizzazione di veterani dell’esercito nata nel 2004. Essa si occupa di provvedere un’informazione più trasparente possibile su quanto accade nei Territori. In particolare, gli attivisti di Breaking the silence raccolgono testimonianze dei soldati dal fronte, che poi pubblicano ogni anno in un report omonimo, per far capire l’assurdità delle azioni militari israeliane e l’altro prezzo morale che la popolazione continua a pagare, mandando a combattere giovanissimi in situazioni la cui violenza porterà loro traumi successivi.
Un altro gruppo molto noto anche all’estero, Italia compresa, è Combatants for peace (combattenti per la pace), la cui particolarità è la presenza di entrambi gli «schieramenti»: da una parte soldati israeliani che hanno combattuto nei Territori occupati e che sono oggi obiettori, dall’altra palestinesi che hanno preso parte in passato alla lotta armata di resistenza.
«Oggi siamo uniti nel rifiuto di ogni violenza: siamo comunque rimasti combattenti, ma per la pace, che significa la creazione di due stati indipendenti: uno stato palestinese accanto a Israele» dicono nella loro dichiarazione d’intenti.
Ancora, c’è Yesh Gvul, (in ebraico significa «C’è un limite»), i cui volontari si occupano di supportare sotto tutti i punti di vista ogni refusenik. Tutti questi gruppi possono infine contare su una grossa rete di scambio di informazioni, la Rsn (Refuser solidarity network, rete di solidarietà per obiettori), nata nel 2002 e ancora oggi, soprattutto dopo i bombardamenti di Gaza, molto attiva nell’organizzare momenti di sensibilizzazione («il semplice rifiuto, se passivo, non basta: bisogna agire» recita un motto della Rsn) e nel tenere alta l’attenzione su cosa accade a ogni singolo soldato che dichiara la propria obiezione e che quindi, andando contro l’obbligatorietà del servizio, compie un atto fuorilegge.

Essere refusenik in Israele, oggi, significa essere disprezzato in patria, ma rispettato più che mai altrove. L’appoggio estero alla causa di questi giovani obiettori è enorme, e lo stesso Noam Livne ne è cosciente, in quanto è stato più volte invitato in Europa e Stati Uniti a tenere incontri.
In Italia, in particolare, l’associazione che più lo segue è Mondo senza guerre, che durante l’assedio della Striscia di Gaza ha diffuso via web un video (con i sottotitoli in italiano) in cui Noam spiegava «il no di noi refusenik a una guerra bieca, moralmente inaccettabile. Così come lo è il muro di separazione in Cisgiordania»; lo stesso muro che nel viaggio dello scorso maggio in Israele e nei Territori palestinesi lo stesso papa Benedetto XVI ha definito «sbagliato, destinato a non durare, a essere abbattuto».
Noam si dice contento delle parole del papa, così come dei mezzi di informazione stranieri, «che riescono a dire molte più cose di quelli israeliani, spesso poco obiettivi e manipolatori». Basti pensare che l’appoggio della società israeliana all’offensiva di Gaza è stato riportato attorno al 95%.
Di fronte a questo dato, anche la cifra dei 700 refusenik sembra irrimediabilmente piccola. «La maggior parte di noi, giovani compresi, non vuole vedere la realtà delle cose» aggiunge il tenente obiettore. Ne è un valido esempio il fatto che non abbiano avuto nessun seguito rilevante le tremende dichiarazioni, diffuse ad aprile, di soldati di leva mandati a combattere per le strade della Striscia pochi mesi prima: «Abbiamo sparato a civili inermi, distrutto case, compiuto atti vandalici e di umiliazione verso i palestinesi» dicevano questi militari.
Ma né episodi sconcertanti come questo, né il risultato delle ue, che ha visto trionfare la destra del premier Benjamin Netanyiahu, ostile alla concessione di uno stato palestinese e favorevole al proseguimento dell’avanzata delle colonie (nonostante la richiesta di sospensione del presidente degli Usa, Barack Obama), spezzano la forza di volontà e la lotta nonviolenta di Noam e compagni.
«Ci rendiamo conto che è difficile essere obiettori di coscienza in Israele, oggi più che mai. Ma noi continuiamo il nostro lavoro, perché vogliamo arrivare a vivere un’esistenza normale, non dominata dalla paura e dall’odio, fatta di rispetto reciproco tra noi e i palestinesi: crediamo profondamente che tutte le persone nascono uguali e meritano uguali diritti» afferma Noam.
Una voce dissonante la sua in patria, ma che l’esercito teme più che mai, forse ritenendola troppo «libera». Per questo, la sua storia e quella degli altri giovani refusenik israeliani va conosciuta e, perché no? diffusa. Dopotutto, la scelta della nonviolenza, nel mondo d’oggi, può ancora provocare «miracoli»: il Mahatma Gandhi, Martin Luther King, Nelson Mandela (oggi 91enne), sono profeti recenti, del secolo scorso. E se uno di quelli del XXI secolo arrivasse proprio dalla Terra promessa, dandole la pace vera e quindi avvicinando la Gerusalemme terrena a quella celeste? Perché no?

di Daniele Biella

Daniele Biella




Democraticamente castigati

Intervista al dottor Ahmed Elkurd

Tre settimane di attacchi a Gaza non hanno provocato solo morte e macerie, ma anche tanti e diversi problemi sociali: ce lo spiega il dott. Ahmed Elkurd, ministro degli Affari sociali della Striscia di Gaza.

Signor ministro, ci spieghi qual è il bilancio della guerra.
Innanzitutto, è necessario premettere che i confini della Striscia sono molto ridotti, è lunga solo 50 km, ma vi abitano 1,5 milioni di persone, di cui un milione sono rifugiati provenienti dai Territori palestinesi del ‘48. Io stesso provengo da un villaggio nei pressi di Ashkelon. I campi profughi sono 8.
In secondo luogo, voglio ricordare che da tre anni siamo sotto embargo e assedio. Ciò ha provocato una grave crisi umanitaria che è precipitata con i 22 giorni di bombardamenti israeliani.
Gaza è chiusa. Questo perché nel gennaio del 2006, elezioni libere e democratiche, chieste dall’Occidente intero e monitorate da osservatori inteazionali, hanno assegnato la vittoria a Hamas. Ecco che il mondo ci ha puniti, soffocandoci con un feroce embargo.
Come se non bastassero tre anni di assedio israelo-internazionale, si è scatenata la guerra che ha portato una devastazione molto grande: oltre 1.300 morti e più di 5.000 feriti, 5.000 famiglie senza casa, 20 mila appartamenti distrutti. La centrale elettrica funziona solo poche ore al giorno. Il bilancio economico è di 3 miliardi di dollari di danni. Ci sono tante persone che dormono nelle tende; 10 mila famiglie necessitano di sostegno immediato: casa, vestiti, cibo.

La Striscia di Gaza vive grazie agli aiuti umanitari, ma con i valichi chiusi, come fate?
Da quando siamo sotto embargo, siamo costretti a sopravvivere con gli aiuti umanitari. Tuttavia, essi possono passare solo attraverso i valichi israeliani, e quando sono chiusi per noi è una catastrofe.
Per la ricostruzione delle infrastrutture e delle abitazioni avremmo bisogno di attrezzature, di cemento, di materiali per l’edilizia, di pezzi di ricambio, ma non lasciano passare nulla. Gli israeliani non fanno entrare benzina, gasolio, gas. È difficile lavorare, in questo modo.

Finita la tregua, è esplosa la guerra…
E noi non avevamo che modesti mezzi per difenderci da un esercito super-tecnologizzato. Mentre avanzavano via terra, distruggevano tutto ciò che incontravano. Hanno devastato tutto. Non c’era scampo neanche nelle strutture dell’Onu, bombardate come tutte le altre.
Durante le settimane di guerra, sono stati compiuti veri e propri eccidi, come quello della famiglia As-Samouni, rinchiusa in un palazzo che è stato bombardato subito dopo con gli F16. In altri casi, hanno sparato a un’intera famiglia, lasciando vivo un bimbo solo.

Dall’Europa cosa vi aspettate?
Chiedo invece: cosa abbiamo fatto noi all’Europa? Perché contribuisce all’embargo israelo-americano? Perché Unione europea e Francia mandano le loro navi per chiudere ulteriormente il mare di Gaza? Vogliono inviare un contingente che garantisca la «sicurezza»: quella di Israele, non la nostra. Inizino con il far aprire i valichi, allora.
 
Metà delle vittime dell’ultima guerra erano bambini. Molti hanno assistito a scene devastanti. Che ne sarà del loro equilibrio psichico? Avete attivato dei progetti speciali?
Le fasi previste sono tre.
Primo: aiuto psicologico rivolto a chi è stato ferito o è stato testimone di massacri. Sostegno generale a tutti i minori, per permettere loro di scaricare la tensione nervosa, lo stress psichico. In tutte le scuole abbiamo previsto programmi di intervento psicologico.
Secondo: terapie di riabilitazione per chi ha subito ferite o è rimasto handicappato.
Terzo: sostegno economico alle famiglie con figli feriti o resi disabili.

Di Angela Lano

Angela Lano




Armi vecchie e nuove

Uranio impoverito e informazione impoverita

L a guerra è sempre un dramma, l’uccisione dei propri simili non dovrebbe mai trovare una giustificazione, ma quando si passa da un confronto tra guerrieri, che utilizzano armi convenzionali, all’utilizzo di armi insidiose e devastanti, che colpiscono anche la popolazione civile e i bambini, le persone, che sono a conoscenza di questi eventi, non dovrebbero restare indifferenti o, peggio, nascondere i fatti, siano essi recenti o passati.
Non possiamo dimenticare, ad esempio, i bombardamenti delle nostre città ad opera dei cosiddetti «alleati»: suonava l’allarme e si correva in cantina, sperando di non fare la fine del topo. Finiti i bombardamenti, se si usciva vivi, come minimo si trovavano i vetri rotti, le case senza luce né acqua, niente da mangiare… Venivano utilizzate anche bombe incendiarie e le città erano in fiamme.
Gli strateghi pensavano che questo fosse un sistema per demoralizzare le truppe al fronte, che temevano che fosse successo qualcosa di grave alle loro famiglie. Nessun tribunale internazionale si è mai occupato di questi fatti, che hanno riguardato i nostri genitori e i nostri nonni.
Anche i vari tipi di armi, utilizzate nel tempo, meritano una valutazione sui loro meccanismi di azione, perché alcune sono molto efficaci, ma particolarmente crudeli.
Andando indietro nel tempo ricordiamo, ad esempio, che a volte i cannoni venivano riempiti di chiodi e altri frammenti metallici, per ferire gli avversari prima degli assalti. Poi l’evoluzione della tecnica ha consentito di utilizzare delle granate piene di pallini metallici, definite shrapnel, che mediante un innesco a tempo, potevano esplodere nel punto desiderato sparando i pallini in tutte le direzioni. Più recentemente sono state realizzate armi ancora più devastanti. Ricordo soltanto la bomba atomica, che oltre al danno immediato, causa danni letali anche a distanza di tempo per via delle radiazioni.

S i è parlato anche delle radiazioni dell’uranio impoverito, ma in questo caso il meccanismo di azione è più complesso. L’uranio impoverito viene usato nelle munizioni delle armi modee ed è stato associato con gravi malattie non solo dei soldati, ma anche delle persone che vivono in aree di guerra o vicino ai poligoni militari.
L’uranio impoverito è un’arma formidabile, perché riesce a perforare anche le corazze più robuste per via della grande forza di penetrazione e del fatto che esplode a 3.000 gradi, «polverizzando» i bersagli. È verosimile che le gravi malattie riscontrate, soprattutto tra i militari, siano causate non solo dalle radiazioni dell’uranio, ma anche dalle nanopolveri, che entrano nell’organismo e determinano reazioni non del tutto prevedibili e, in ogni caso, sicuramente non benefiche.
L’uranio impoverito emette una modesta quantità di radiazioni alfa, che sono le più pericolose per l’organismo. Gli esperti dicono che basterebbe un foglio di carta per fermare queste radiazioni e che si potrebbe dormire tranquilli con un proiettile di uranio impoverito nel cassetto del comodino. Il fatto grave, però, è che dopo l’esplosione anche l’uranio si trova disperso nell’aria sotto forma di nanopolveri e può raggiungere il sangue e gli organi interni, dove le radiazioni possono fare danni non trovando nessuna barriera.
Tutta la questione che riguarda l’uranio impoverito è ancora oggetto di studio e le uniche tragiche certezze sono i tumori dei soldati e le malformazioni dei loro figli.
Danni devastanti sono stati descritti anche per gli effetti delle bombe a grappolo (cluster bomb), che praticamente sono un numero variabile di piccole bombe racchiuse in un ordigno principale, che quando esplode le lancia in tutte le direzioni (evoluzione della granata shrapnel).

I giornali di questi giorni hanno parlato delle bombe al fosforo, che secondo alcune testimonianze, sono state usate nella Striscia di Gaza. I proiettili al fosforo bianco creano spesse cortine fumogene, ma possono anche causare terribili ustioni, perché le gocce di fosforo bruciano al contatto con la pelle. Tra i militari il fosforo bianco viene chiamato Willy Pete (le iniziali di White Phosphorus) fin dalla prima guerra mondiale ed è stato utilizzato, secondo alcune fonti, dagli Usa nel Vietnam e in Iraq.
Il fosforo bianco viene conservato sott’acqua o in azoto, perché a contatto con l’ossigeno presente nell’aria produce anidride fosforica generando calore. L’anidride fosforica reagisce violentemente con composti contenenti acqua (come il corpo umano) e li disidrata producendo acido fosforico. Il calore sviluppato da questa reazione brucia la parte restante del tessuto molle. Il risultato è la distruzione completa del tessuto organico. Sono reperibili in rete le testimonianze di alcuni medici che descrivono lesioni analoghe tra i feriti della Striscia di Gaza.
Alcuni recenti articoli riferiscono l’utilizzo, da parte dell’esercito israeliano, di bombe Dime (Dense Inert Metal Explosive). Si tratta di un tipo innovativo di bomba, con una testata di fibra di carbonio e resina epossidica integrata con acciaio e tungsteno. Queste armi hanno un enorme potere esplosivo, che si dissipa molto rapidamente: il raggio interessato non è molto lungo, forse dieci metri; le persone travolte da questa esplosione per effetto dell’onda d’urto, vengono letteralmente fatte a pezzi.
Secondo Massimo Zucchetti (professore al Politecnico di Torino e membro del Comitato scienziati contro la guerra) le ferite che si vedono oggi all’ospedale Shifa di Gaza rendono assodato che sia stato fatto uso di armi Dime da parte degli israeliani in questa guerra.
Anche in questo caso, come per l’uranio impoverito, bisogna tener presente che le nanopolveri, non solo del tungsteno e dell’uranio, inalate durante e dopo le esplosioni, sono in grado di raggiungere il sangue e depositarsi nei vari tessuti. Si tratta di polveri non biodegradabili e non biocompatibili, che sono in grado di penetrare addirittura all’interno del nucleo delle nostre cellule. Studi recenti stanno confermando la presenza di nanopolveri di origine antropica (non solo dovute alle esplosioni) all’interno di tessuti tumorali anche di neonati, in questi casi le nanopolveri hanno raggiunto i feti tramite il sangue della madre e la placenta. Chi non resta ucciso dalle esplosioni rischia, a distanza di tempo, di ammalarsi di tumore o veder ammalare i propri figli.
Non dimentichiamo, infine, che anche i modei inceneritori di rifiuti producono nanopolveri simili, sia pure in forma più diluita, e che i danni ipotizzabili riguardano i bambini  soprattutto. È la strage degli innocenti dei nostri giorni e non riguarda solo le aree di guerra.
E l’informazione? Impoverita pure quella!

di Roberto Topino

Roberto Topino




Prigione a cielo aperto

Gaza: 10 giorni dopo il cessate il fuoco

Una campagna militare, presentata all’opinione mondiale come operazione di «legittima difesa», in 22 giorni di bombardamenti aerei e incursioni di carri armati ha ridotto la Striscia di Gaza a un cumulo di macerie, distruggendo case, scuole, alberghi, ospedali e altre infrastrutture, provocando soprattutto morti, feriti e profughi, riducendo la popolazione palestinese alla miseria più nera, senza tuttavia cancellae la dignità e la voglia di ricostruire il proprio futuro, in attesa della pace.

R afah, 28 gennaio 2009. Dopo un viaggio di diverse ore lungo la costa settentrionale del Sinai, arriviamo al valico egiziano. La guerra israeliana contro la popolatissima Striscia è terminata il 18 e l’Egitto ha riaperto, con il contagocce, il passaggio. Ne approfittiamo per presentarci alle autorità egiziane di confine, che, da quasi tre anni, contribuiscono all’assedio di Gaza.
Ci disponiamo ad attendere diverse ore, in coda all’ufficio passaporti, in compagnia di decine di altre persone: un simpatico e creativo gruppo di ingegneri egiziani con tanto di elmetto giallo, due parlamentari marocchini, attivisti greci e feriti palestinesi di ritorno dagli ospedali del Cairo.
Mentre aspettiamo più o meno pazientemente, osserviamo alcuni ragazzi con arti ingessati o amputati. Sono stati feriti dalle bombe lanciate da Israele, poche settimane prima, durante l’operazione «Piombo fuso»: dal 27 dicembre al 18 gennaio.
Storie di umanità ferita
Hamid ha 30 anni, ma ne dimostra molti di meno. Ha passato diversi giorni in un ospedale del Cairo, dove è stato sottoposto a quattro interventi. Ci indica le ferite: sono sparse in tutto il corpo. È un giovane padre di famiglia, residente a Beit Lahiya, nel nord della Striscia: è uno delle centinaia e centinaia di «terroristi» che Israele ha fatto a pezzi. La sua colpa, infatti, è stata quella di uscire in strada, una mattina – il primo giorno di invasione di terra israeliana – per comprare un po’ di dolci ai figlioletti terrorizzati dai bombardamenti nottui. Mentre era al supermercato, un missile dell’aviazione si è abbattuto su di lui e su altri cittadini, uccidendone sei. Lui si è salvato, ma è rimasto gravemente ferito.
Thaer ha 18 anni e anche lui viene da Beit Lahia. I medici egiziani gli hanno amputato una gamba, spappolata dai cannoni dell’artiglieria israeliana. Pure lui, a quanto pare, era un «terrorista», come le sue nove sorelle e il fratellino disabile. La loro casa era stata rasa al suolo 25 giorni prima. Suo papà lo guarda con gli occhi pieni di lacrime, accarezzandogli il capo: «Grazie a Dio» ci dice. È l’unico figlio che gli è rimasto…
Dopo un numero interminabile di ore, un solerte ufficiale ci spiega che non potremo procedere verso i Territori palestinesi. Nonostante le lettere di «remissione di responsabilità» rilasciateci dalla Faesina e dall’ambasciata italiana al Cairo, necessarie per recarci a Gaza, ci manca ancora qualcosa: una presentazione ufficiale dei dirigenti dell’Ordine dei giornalisti d’Egitto.
Nonostante i proclami di fratellanza e solidarietà con una popolazione stremata da quasi 3 anni di embargo e 22 giorni di attacchi da cielo, terra e mare, le autorità del Cairo permettono solo raramente l’entrata e l’uscita dalla Striscia. A nord e a est, ci pensa Israele a sigillare gli altri valichi.
Ci ripresentiamo il giorno successivo con la lettera dei colleghi egiziani, determinati a passare. Con noi valicheranno il confine ingegneri giordani, palestinesi feriti, diversi medici e altri giornalisti.
L’armageddon
La Rafah palestinese ci appare in tutta la sua devastazione: case rase al suolo dai missili e carri armati israeliani, campi spianati dai bulldozer. «Hanno fatto un deserto di macerie e distruzione e l’hanno chiamato “legittima difesa”» ci viene subito da pensare, parafrasando una celebre espressione.
Pochi chilometri più avanti, a Khan Younes, vedremo abitazioni, scuole, sedi della polizia cittadina, ufficio postale e altri luoghi pubblici ridotti a cumuli di detriti. In questa cittadina le vittime dei bombardamenti per niente selettivi di Israele sono state 120 e i feriti 150.
La Striscia di Gaza è larga 7 km e lunga poco più di 50. Percorrerla da sud a nord – Rafah, Khan Younes, Abasan, Deir al-Balah, al-Bureij, an-Nuseirat, Gaza City, Jabaliya, Beit Lahiyah – necessita di poche ore. Dovunque, ora, c’è morte e distruzione.
Nuseirat è dislocata nei pressi di Deir al-Balah, nella regione centrale: fermiamo l’auto davanti a una barriera di lamiera. C’è scritto: «Centro di polizia di Nuseirat»; ma di quella che fino a poche settimana fa era una caserma rimangono solo i blocchi di cemento fracassati dai missili israeliani e crollati sopra i poliziotti che vi prestavano servizio. I morti sono stati 70, tutti giovani fatti a pezzi dall’esplosione o schiacciati da pesanti lastroni.
«Missili contro covo di terroristi» hanno tuonato i nostri media. In realtà, si trattava degli omologhi dei nostri vigili urbani. Molti di loro, con ogni probabilità, non erano né di Hamas né di Fatah né di altri partiti.
Proseguiamo il viaggio dell’orrore lungo la strada Salah ed-Din, che collega l’intera, piccola, Striscia: a destra e a sinistra scorrono cittadine, campi profughi, terreni agricoli. Nulla è stato risparmiato dalla furia devastatrice dell’artiglieria e dell’aviazione israeliane: intere palazzine, edifici di 15-18 piani, aziende, serre, completamente distrutti. Sotto quei massi scagliati qua e là dalla forza delle bombe, i soccorritori hanno estratto intere famiglie massacrate. Cittadini comuni. Non terroristi. 
I crateri lasciati dai missili sono ovunque: nei villaggi, nei terreni, nelle strade.
Neanche le scuole sono state risparmiate. Entriamo nel cortile di un complesso scolastico costruito dall’Unrwa, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati. I bombardamenti hanno sventrato intere aule, distrutto edifici. I ragazzi ora fanno lezione all’aperto.
Ritorniamo a Khan Younes: siamo ospiti di un albergo della Mezzaluna Rossa palestinese. È un’ampia costruzione di nove piani, con centinaia di stanze, molte delle quali destinate a famiglie rimaste senza tetto.
Siamo subito colpiti da un particolare, banale e scontato in altre occasioni: nei bagni ci sono asciugamani puliti, sapone e shampoo confezionati. Come in un qualsiasi hotel. Solo che non siamo in un qualsiasi hotel, ma in una sorta di ostello per scampati ai bombardamenti. Ecco, questo sforzo di «normalità» e dignità nell’accoglienza ci commuove.
Questa fierezza, questa forza d’animo la noteremo continuamente, sia negli adulti sia nei bambini. «Andremo avanti – ci dicono – con l’aiuto di Dio». Forse proprio la determinazione e uno spirito indomito hanno permesso al popolo palestinese di sopravvivere a 60 anni di pulizia etnica.
Nella cittadina visitiamo un centro caritativo islamico, dove ogni giorno tantissime persone si recano a chiedere aiuto in denaro e in viveri. Sono circa 800 gli orfani assistiti e tantissime le famiglie indigenti che vengono sostenute. I responsabili dell’associazione, finanziata da organizzazioni arabe e occidentali, tra cui l’Associazione benefica di solidarietà con il popolo palestinese (Abspp) di Genova, ci mostrano le foto dei bimbi rimasti orfani e poi quelle dei loro genitori – papà o mamma – uccisi durante i quotidiani bombardamenti di Israele.
La Striscia di Gaza sopravvive grazie alla carità che giunge dall’estero. Qui, infatti, manca tutto: cibo, acqua, vestiario, medicine, libri, quadei, combustibile, materiale sanitario e per l’igiene e la pulizia. L’embargo israelo-internazionale e la chiusura di tutti i valichi di entrata e uscita l’hanno resa un immenso carcere a cielo aperto. A ciò si sono sommati gli «effetti collaterali» di «Piombo fuso», con i 1.366 morti e gli oltre 5.000 feriti, le migliaia e migliaia di edifici distrutti e i danni alla salute e all’ambiente provocati dalle armi di distruzione di massa usate dall’aviazione e dall’artiglieria di Israele.
Scelta «sbagliata» dei palestinesi
Ora la maggior parte dei palestinesi di Gaza è costretta a vivere di aiuti umanitari, ma prima non era così. In questa striscia di terra c’erano industrie alimentari e di abbigliamento, cementifici, aziende per la lavorazione del ferro, ditte di edilizia, distese di serre per le produzioni agricole, allevamento di bestiame. Non era certo la Svizzera, ma non c’erano la fame e la miseria attuali. La popolazione della Striscia, e del resto della Palestina, infatti, sta subendo una punizione collettiva, come è stata definita da inviati dell’Onu e personaggi inteazionali come Desmond Tutu e Jimmy Carter, per aver compiuto la scelta elettorale «sbagliata», durante le votazioni del 25 gennaio del 2006, le prime veramente democratiche e monitorate da osservatori inteazionali.
I palestinesi, in quell’occasione, diedero in massa il voto a Hamas, snobbando Fatah, ritenuta da molti corrotta e collaborazionista. Da lì, dall’esito di quella decisione presa dalla maggioranza assoluta di un popolo, è scaturito un disumano embargo e la chiusura di tutta la Striscia, e poi bombardamenti e morte.
Paradossalmente, quelle elezioni furono incoraggiate e sostenute proprio dall’Europa e dagli Stati Uniti, certi del fatto che avrebbe vinto il partito dell’amico Abu Mazen, il presidente dell’Autorità nazionale palestinese, e non il movimento di resistenza islamica. Questo è ciò che i palestinesi di Gaza rinfacciano a chiunque rivolga loro domande «politiche». È difficile riuscire a dimostrare il contrario, vista la storia degli ultimi tre anni.
Distruggere il futuro
Ciò che balza subito agli occhi, in qualsiasi cittadina o villaggio gazese, è la presenza di moltissimi bimbi, di tutte le età. Affollano le strade, i vicoli, i campi. I loro piedini nudi affondano nella sabbia e le manine sono protese a salutare. Si avvicinano fiduciosi e sorridenti. Si presentano. Vogliono conoscere i nostri nomi e poi, prima di tornare a giocare, con l’indice e il medio fanno il segno della vittoria.
Sono vivi, loro, ma hanno visto i loro cari, i vicini, gli amici dilaniati dalle bombe «intelligenti» di Israele. A livello psicologico, spiegano medici e psichiatri, il trauma li segnerà per sempre. Da grandi, la rabbia e il dolore impotente, che ora hanno il sopravvento, potranno trasformarli in violenti.
Nonostante si sforzino di dichiarare il contrario, i generali e ministri israeliani lo sanno benissimo: colpire la Striscia significa fare macelleria di questi piccoli. Semplicemente, ogni qual volta un missile dell’aviazione o dell’artiglieria si abbatte sulla Striscia densamente popolata, fa strage di bambini. È impossibile non centrarli. Sono in ogni luogo, tantissimi.
Certo, per giustificarsi agli occhi ciechi del mondo, lo stato israeliano ci ha raccontato che Hamas ha usato scudi umani, ma questa versione deve ancora essere provata dalle indagini che condurranno le Nazioni Unite. Documentate oltre ogni ragionevole dubbio e denunciate da diverse organizzazioni inteazionali, dall’Onu, dal Phr (Physicians for Human Rights, Medici per i diritti umani), da testimoni oculari e dalle testimonianze degli stessi soldati1, sono invece le stragi compiute dall’esercito.
Gaza City: paesaggi lunari
Attraversiamo interi quartieri rasi al suolo o con palazzi trasformati in tanti scheletri. Sembra di essere atterrati su Marte o su una terra del futuro post-guerra nucleare.
Il compound dei ministeri (Finanze, Esteri e Inteo) e il Parlamento ci appaiono in tutta la loro imponente distruzione. Proviamo a pensare alle sedi delle nostre istituzioni, a Roma, e a un qualche Attila che le bombardi, senza rispetto alcuno per ciò che esse rappresentano per un intero popolo.
Qui, anche l’assurdo diventa possibile. Non molto lontano, alla faccia di qualsiasi convenzione di Ginevra e diritto umanitario, vedremo anche l’ospedale al-Quds annerito e ridotto a una semplice carcassa vuota.
Nonostante fossimo preparati al peggio, ciò che vediamo ci lascia impietriti. Proviamo puro sgomento e vergogna, in quanto cittadini di un’Europa completamente incapace di prendere la parte dei deboli, degli oppressi, e di far applicare anche solo un barlume di giustizia.
La morte dell’informazione
Le tre settimane di guerra contro la Striscia di Gaza hanno provocato anche un’altra vittima: l’informazione. Come giornalisti, ci sentiamo mortificati per il modo in cui i nostri media hanno raccontato ai nostri connazionali i massacri israeliani. Tv di stato e private, quotidiani e riviste, ci hanno fornito, senza sostanziali differenze, le stesse notizie, quelle passate loro da Tsahal (Forze di difesa israeliane) e dal governo di Tel Aviv. Il leit motiv che accomunava tutti era: «Israele ha diritto a difendersi dai razzi di Hamas»; «Hamas ha rotto la tregua»2; «negli ospedali/scuole/case si nascondono terroristi di Hamas».
A fronte di tali affermazioni, non vi è stato alcun tentativo di verificare le notizie, di scoprire i fatti, la realtà. A un certo punto, è emerso pure il caso dell’inviato di un importante quotidiano nazionale che, più realista del re, ha scritto che i morti nella Striscia erano 600 e non 1.300, ma è stato prontamente smentito dall’esercito israeliano, il giorno dopo.
La guerra contro Gaza è stata un esperimento, riuscito, di manipolazione delle coscienze attraverso un uso spregiudicato e scorretto dell’informazione. Almeno, fino a quando in internet non hanno iniziato a circolare i video girati dagli operatori della tv satellitare Al-Jazeera, che hanno rivelato al mondo i crimini commessi da Tsahal, e denunciati, appunto, da numerose organizzazioni inteazionali, arabe e israeliane.
Vittorio, il palestinese
A Gaza City incontriamo l’ormai famoso attivista dell’Inteational solidarity movement (Ism), scampato a 22 giorni di guerra e unico testimone italiano della mattanza: Vittorio Arrigoni, il gazawi d’Italia. Ci racconta delle giornate e delle nottate di bombordamenti israeliani, del suo lavoro di «scudo umano volontario» sulle ambulanze cariche di feriti, nel tentativo di impedire che i soldati israeliani le colpissero, come da documentata abitudine. Ci narra delle telefonate che l’esercito faceva alle famiglie, annunciando bombardamenti imminenti, e dei bambini morti d’infarto, per la paura, il primo giorno di guerra.
Durante le settimane di attacchi continui, Vittorio è stato l’unico corrispondente occidentale: la sua eccezionale testimonianza è stata raccolta in «Gaza, restiamo umani», edita dal Manifesto.
Shifa hospital e tenda degli orrori
Domenica primo febbraio, alle 9, abbiamo appuntamento con il dott. Ashur, direttore dell’ospedale Shifa, il più grande della Striscia di Gaza. Nel cortile è allestita una tenda con foto delle vittime. Sui tavoli, al centro, sono disposti frammenti delle armi usate da Israele. L’odore è pesante: ci sono pezzi di bombe al fosforo e a frammentazione, e proiettili all’uranio impoverito.
I cittadini entrano, osservano ammutoliti, piangono. Mentre scattiamo foto e prendiamo appunti, ascoltiamo le testimonianze di chi ha perso tutto: figli, marito o moglie, genitori, parenti, casa.
Hanan, una signora sulla cinquantina, ci viene incontro e ci mostra la foto della sua abitazione demolita, sbriciolata dagli F16. Uno dei suoi figli è rimasto senza gambe. Abita a Sudania, un quartiere di Gaza City. Zakya, un’anziana, ci indica la foto dei suoi cinque figli uccisi. È disperata, perché è vedova e senza più casa.
Entriamo nell’ospedale sovraffollato. Ci accoglie il dott. Ashur. «Dopo il cessate il fuoco – racconta -, annunciato il 19 gennaio, Israele ha ucciso almeno altri 13 civili. Nei giorni di bombardamento indiscriminato abbiamo ricoverato 1.926 feriti e ricevuto 658 cadaveri. Il primo giorno di guerra, il 27 dicembre, sono arrivate, in mezz’ora, ben 200 persone. Il totale delle vittime, su tutta la Striscia, è di 1.366, di cui 430 bambini e 111 donne, ovvero il 40% dei morti. I feriti sono 5.360, di cui 1.870 bambini e 800 donne. Anche qui, donne e bambini costituiscono il 50% del bilancio complessivo. Il resto sono civili maschi adulti, e una minima parte di combattenti.
Nonostante i tanti aiuti ricevuti da tutto il mondo, ci mancano molte attrezzature per la cura del cancro e diagnostiche, di cui Israele impedisce l’entrata nella Striscia».
Armi di distruzione di massa
«Nel primo attacco contro i civili – continua il dott. Ashur – sono state usate armi Dime3. Tutti i feriti portati in ospedale presentavano arti amputati. Inoltre, molti avevano gravi ferite, una colorazione della pelle sospetta. Un altro elemento che dimostra l’uso di armi non convenzionali è il fatto che gli alberi, intorno alle aree colpite, non sono stati distrutti. Le bombe non hanno avuto effetti sul pavimento, sul selciato, ma solo sui corpi, sulla massa corporea».
Usciamo dall’ospedale ash-Shifa, e, attraversata la strada piena di auto, ci troviamo di fronte alle macerie dell’omonima moschea, completamente distrutta.
I bombardamenti riprendono. Nel pomeriggio, ci fermeremo qualche ora a scrivere nel bel giardino dell’Hotel Maa, nel centro di Gaza City. A lavorare, seduti ad altri tavoli, ci sono alcuni giornalisti stranieri. In giro per la città ci sono un reporter di Rai34 e una giornalista di un’agenzia stampa italiana. Per il resto, oltre a noi, sembra non ci siano altri cronisti italiani.
Sono le 16, quando Israele riprende a bombardare la Striscia. Il giardino dell’hotel è scosso da un sussulto. Pochi istanti dopo, sentiamo nel cielo il macabro sorvolo degli F16. Sarà l’inizio di una nuova serie di attacchi contro diverse aree della Striscia, sebbene, per il momento, non segni l’avvio di una nuova guerra.

S i chiudono le porte dell’inferno di Gaza. Il nostro «permesso» di visita alla prigione di Gaza è scaduto. Lunedì 2 febbraio faremo ritorno in Egitto. Alle spalle ci lasciamo 1,5 milioni di persone intrappolate nella più grande prigione del mondo. All’interno, rimangono i nostri amici, i nostri colleghi, i nostri fratelli e sorelle, abbandonati dai governi del mondo civile e democratico. 

Di Angela Lano

Angela Lano