Riso, fagioli e tlc

Neoliberismo e pensiero unico. I paesi dell’America Centrale davanti alla crisi mondiale

La crisi odiea nei paesi del Quarto mondo latinoamericano (Centroamerica e Caraibi) iniziò
la sua gestazione almeno 20 anni fa, quando la globalizzazione neoliberista divenne religione e il «Consenso di Washington» – con lo smantellamento dello stato nazionale e il business delle privatizzazioni – i suoi 10 comandamenti.

Lungo la sua storia recente, l’America Centrale ha attraversato un periodo di dittature e movimenti di liberazione conclusosi con gli accordi di pace degli anni Novanta:1990 in Nicaragua (dopo 50 mila morti), 1992 in El Salvador (80 mila morti), 1996 in Guatemala (250 mila morti). A ciò è seguita la globalizzazione neoliberista (con le riforme strutturali e le privatizzazioni dei settori strategici degli stati nazionali) e, infine negli ultimi sei anni, è arrivata la stagione dei negoziati e dei Trattati di libero commercio (Tlc), tra le aristocrazie native allineate con i poteri del Nord. Prima con gli Usa, poi, sulla scia di quei trattati capestro, dall’anno scorso con il suo sosia europeo: l’«Accordo di associazione» tra l’Unione Europea e il Centroamerica (Acuerdo de Asociación entre América Central y la Unión Europea, Ada). Sulla carta questo Tlc europeo include, oltre al commercio, il dialogo politico e l’integrazione regionale e per ciò, secondo i negoziatori europei è un Tlc «dal volto più umano». «Il solito Tlc ma confezionato in carta da regalo», ha chiosato Sigfrido Reyes, deputato salvadoregno del Fronte Farabundo Martì (al governo dal 1 giugno 2009).

I costi (pesanti)
delle privatizzazioni

Il Centroamerica di oggi è il frutto perverso di una serie di cambiamenti, che presero il via con il fallimento economico e politico delle dittature dell’istmo verso la fine degli anni Ottanta. Nel 1989, questa sconfitta economica diede il via libera al cosiddetto «Consenso di Washington», che stabilì in tutta la regione i comandamenti della globalizzazione. Queste riforme strutturali spingevano verso l’accumulazione della ricchezza e lo smantellamento dello stato nazionale con la privatizzazione dei sistemi pubblici di educazione e salute, passando per la svendita delle imprese statali di telefonia, elettricità e acqua, sempre con la promessa di migliorare il servizio. La procedura era consolidata: prima si rendevano deficitarie le imprese pubbliche, per non avere movimenti di piazza al momento della loro privatizzazione, successivamente dividendole in bad and good company, vendendo quest’ultima a prezzo stracciato alle multinazionali «amiche» del governo di tuo.
Il caso del Nicaragua ha visto il governo e la multinazionale spagnola Unión Fenosa (distribuzione elettrica) entrare nel vicolo cieco di una diplomazia legata a doppio filo alla Banca mondiale (che funge da guardia del corpo delle 100 multinazionali che operano nella regione). Facile prevedere che, in caso di un conflitto giudiziale, la vicenda si concluderebbe con un parere favorevole alla multinazionale spagnola (www.unionfenosa.es) e con l’impossibilità del governo sandinista di pagare il prezzo della rinazionalizzazione dell’antico Instituto  nicaraguense de energia (Ine).
Per parte loro, Honduras, El Salvador e Guatemala sono state invase dalla miniera a cielo aperto, con in testa la multinazionale Glamis Gold Ltd. che lavora in tutto il Centroamerica con prestiti della Banca mondiale (www.goldcorp.com). Questa multinazionale, secondo l’organizzazione ambientalista Madreselva, utilizza in un’ora l’acqua che una famiglia utilizzerebbe in 22 anni e in Honduras lavorano con royalties che si aggirano attorno alla cifra ridicola dell’1% (www.madreselvaondg.net).

Contadini senza terra
e senza futuro

Le privatizzazioni sono giunte anche al credito per il settore di piccoli produttori agricoli e allevatori.  In Nicaragua, questo credito una volta era a disposizione di tutti. Oggi è stato dirottato dalla produzione di alimenti al commercio, passando la prima dal 34% nel 1993 al 4% dieci anni dopo, il secondo dal 37% all’84% nello stesso periodo.   
  A distanza di quasi 20 anni questi cambiamenti si sono tradotti nella regione (per la sua natura contadina e produttrice di materie prime) nello smantellamento dell’agricoltura sostenibile, dei sistemi alimentari locali e delle reti sociali su cui essi poggiano. Un modello che ha spinto progressivamente il Centroamerica verso la vulnerabilità alimentare e la dipendenza dalle importazioni di cereali Usa (sovvenzionati da Washington fino al 60% dei costi di produzione).
La conseguenza successiva è stato l’esodo rurale, con una massiccia decontadinizzazione a livello regionale, accompagnata da una controriforma agraria per via dell’insolvenza dei piccoli produttori. Il canovaccio è consolidato: ormai senza credito pubblico ai contadini non resta che ipotecare i loro piccoli appezzamenti di terra come garanzia per l’acquisto di concimi e semi, a cui segue spesso il pignoramento per l’impossibilità di ripagare i prestiti (a causa delle oscillazioni dei prezzi sui mercati inteazionali del Nord o del passaggio di un uragano caraibico che spazza via raccolti e non solo); e il cerchio si chiude con la terra che cade in mano ai nuovi latifondisti tramite le aste delle banche private.
Questi contadini senza più terra sono finiti accalcati nelle città, ingrossando le bidonvilles. In migliaia si sono riciclati come lavoratori informali: venditori ambulanti di caramelle, sigarette e cianfrusaglie varie, che ora vagano per le strade delle capitali centroamericane, portandosi dietro un capitale umano di conoscenze generazionali di agricoltura e allevamento, che si perde in città senza biglietto di ritorno.
Quanto alle donne contadine, in città erano attese dalle multinazionali straniere del subappalto, le fabbriche di assemblaggio tessile, las maquilas, che si sono diffuse con l’inteazionalizzazione della produzione industriale. Questa altro non è che la delocalizzazione dei cicli di produzione, avente l’obiettivo di ridurre fino al 90% i costi di lavorazione manuale manifatturiera, con un salario che si aggira intorno ai 30 centesimi di euro all’ora. Previo all’arrivo delle maquilas però, nel Centroamerica si è compiuto uno metodico smantellamento dei sindacati locali e la creazione di sindicatos blancos agli ordini dei proprietari.
L’emigrazione internazionale è invece riservata di più agli uomini, pochissimi dei quali giungono a destinazione: uno per ogni cento fra gli emigranti honduregni. A coloro che non sono in grado di emigrare è riservato il sottornimpiego, in cui si concentra il 41% della popolazione attiva della regione.

Le classi proletarie
e il «triangolo 80-100-10»

Due decenni di questa globalizzazione hanno provocato una metamorfosi nell’architettura dell’accumulazione nel Centroamerica. Da 3 si è passati ad avere 5 classi sociali di cui una all’estero, los expatriados: in cima un’élite di 10 famiglie (secondo un quotidiano del Guatemala, El Periodico) che controllano la regione; sotto di loro  una classe di 80 milionari (secondo la rivista del Costa Rica, Estrategia & Negocios), queste due classi fanno affari con le 100 transnazionali presenti nella regione (secondo la rivista del Nicaragua, Envio).  Sotto ancora, una classe media ogni volta più povera formata da professionisti, commercianti e impiegati statali. Al di sotto ancora, il 70% dei centroamericani che vivono con meno di tre euro al giorno e in casi come il Nicaragua l’80% che vive con meno di due. All’estero poi ci sono gli espatriati, circa 4,5 milioni di centroamericani su i 37 milioni, di cui il 75% negli Stati Uniti.
Questo modello in Centroamerica a grandi linee funziona così. Le rimesse entrano alla regione e rappresentano circa il 15% del Pil totale (nel caso di El Salvador il 20%, con un incremento del 10% annuo, anche se la tendenza è a diminuire per via della crisi globale). Esse vengono quasi interamente spese dagli impoveriti per acquistare beni e servizi (mentre solo il 10% va in investimento e studio).  Tali merci e servizi sono venduti al dettaglio dai commercianti e dalle 100 transnazionali, che si rifoiscono dai grandi importatori, gli 80 milionari tra cui ci sono anche gli esportatori a loro volta legati alle 100 transnazionali, prevalentemente nordamericane ed europee. Queste, a loro volta, si dotano di capitali dalle 10 famiglie, che controllano le banche private e concentrano questo flusso ascendente di ricchezza per poi utilizzare i guadagni all’estero, perché il Centroamerica non dà garanzie. Insomma, 80-100-10 è un triangolo perfetto…
Altra domanda interessante è la seguente: quanto gli affari di queste 10 famiglie e gli 80 milionari sono intrecciati con il business del narcotraffico in Centroamerica, se la  progressiva de-regolarizzazione dello stato di diritto ha convertito l’Istmo in un paradiso per il lavaggio di narco-dollari e in un passaggio indisturbato della coca verso il Nord? Quale è la percentuale dei suoi capitali che si «contamina» di questo affare, aldilà dei prestanome?
Con la scusa della violenza

La criminalità organizzata che martella il «triangolo del Nord» (Guatemala, El Salvador e Honduras) è aumentata a dismisura negli ultimi anni e frattura l’unione fra stato di diritto e politica. Il Centroamerica si trova stretto fra i più grandi produttori (Colombia) e consumatori di cocaina (Stati Uniti). Per ogni grammo di cocaina che viene spostato fra Colombia e Stati Uniti, il 90% del suo prezzo si gioca sul trasporto attraverso il Centroamerica. Situazione che ha provocato lo scoppio della violenza in questi tre paesi, accelerata dal fuggire verso il triangolo del nord delle reti di crimine organizzato messicane per via dell’intensificarsi della lotta al narcotraffico in Messico.
Il mercato delle droghe illecite si sa, è un alibi di vecchia data per il controllo militare di paesi e regioni. Allo stesso modo che il Plan Colombia nel paese andino, si è creato promosso dagli Usa un suo alias per il Messico e il Centroamerica: il Plan Merida, messo a punto nell’ottobre 2007 dal senato nordamericano e venduto come un’iniziativa per combattere il crimine e il traffico di stupefacenti nella regione. Ma questa iniziativa con alla base una logica repressiva, non tiene conto che la criminalità organizzata e la violenza nel triangolo del Nord è il frutto storico di un sistema economicamente diseguale. Infatti la situazione madre che l’aveva provocata è rimasta pressoché  intatta e nel frattempo la violenza nell’Istmo continua ad allargarsi.
Per qualche anno si sono promossi, con scarsi risultati, programmi repressivi per combattere la violenza, puntando il dito soprattutto sulle maras (gruppi delinquenziali di giovani). Tra questi programmi, ricordiamo: la strategia Cero tolerancia (Honduras, 2001), il Plan Escoba (Guatemala, 2003), e il Plan Mano Súper Dura (El Salvador, 2004). Le maras, infatti, sono state criminalizzate e utilizzate come capro espiatorio della situazione politica ed economica che si vive nel triangolo del Nord, dove più della metà della sua popolazione ha meno di 24 anni. Questi programmi repressivi sono andati avanti ad oltranza, ignorando studi che affermavano cose diverse: secondo il Pnud, in Honduras, solo l’11% dei crimini del 2007 era  attribuibile alle maras; in Guatemala, un 14% secondo uno studio della polizia e in El Salvador il 12%, secondo l’Istituto di medicina legale.
Questa campagna si è fermata solo nelle ultime elezioni dell’Honduras in cui il candidato Porfirio Lobo Sosa del Partido de la Innovaciòn y la Unidad ha perso le elezioni contro Zelaya del Partido Liberal per i toni alti del suo discorso di repressione alle bande giovanili. Allo stesso modo, in Guatemala, Otto Perez Molina del Partido Patriota ha perso con la sua campagna elettorale della mano dura (alla violenza) contro Alvaro Colom.
La delinquenza è stata un riflesso sociale della globalizzazione centroamericana, che – pur con una crescita media annua del 5% – negli ultimi anni ha visto crescere la povertà delle popolazioni.

Rimesse e cooperazione,
ancore (incerte) di salvezza

Vent’anni di neoliberismo hanno attirato in questa parte del mondo la cooperazione internazionale, per sopperire agli effetti collaterali del modello. Il Guatemala, l’Honduras e il Nicaragua si trovano tra i 9 paesi a livello globale che ricevono più cooperazione internazionale. Inoltre, il 60% della cooperazione internazionale dell’Ue per l’America Latina viene data al Centroamerica, pur rappresentando solo il 7% della popolazione latinoamericana.
Nel Centroamerica, escluso il Costa Rica, la cooperazione internazionale  rappresenta in media il 15% del Pil.
Simile è la percentuale delle rimesse degli espatriati, di cui El Salvador detiene il primato nell’Istmo. Con la minore spesa sociale della regione 6,6% del Pil (la metà della media latinoamericana), eredità dei due decenni di governo di Arena, partito di ultradestra. Il costo sociale lo hanno pagato gli espulsi, un terzo della popolazione del paese: 2 milioni e mezzo di salvadoregni che vivono attualmente all’estero, prevalentemente negli Usa, mentre in patria il 70%  sopravvive grazie alle rimesse. Le rimesse e la cooperazione (nonostante la crisi abbia fatto diminuire queste voci d’entrata) costituiscono ancora oggi il motore dell’economia di questi paesi, insieme rappresentano circa il 30% del Pil, con il quale i governi dell’Istmo tengono a galla l’economia della regione in una versione (pericolante) della globalizzazione (alla) centramericana.
Ora che questo modello economico sta franando, sono le stesse fasce vulnerabili di questi popoli a pagare la fattura sociale, con la disoccupazione che sale, le rimesse che crollano e gli espatriati che ritornano a casa, grazie all’inasprimento delle leggi migratorie nel Nord del mondo. Se nei paesi industrializzati la maggioranza della popolazione utilizza il 10-15% dello stipendio in alimenti, nei paesi centroamericani, fra riso e fagioli, tortillas e ogni tanto un po’ di carne, si arriva all’80%, e molto probabilmente sono queste le proporzioni che alla fine della crisi (fra 5 anni nel Nord e 10 nel Sud secondo gli esperti) pagherà il ricco e povero mondo.

 Strumenti alternativi:
Alba e Petrocaribe

Il nuovo quadro geopolitico nell’Istmo viene modellato dal diffondersi della crisi negli Stati Uniti, che aumenta la disoccupazione per via del rallentamento della domanda globale. Nei paesi dell’Istmo ciò si traduce in crollo delle esportazioni e nella riduzione delle rimesse. Dalla sponda opposta, tentando di contenere i danni della crisi, si assiste all’aumento dell’influenza di Petrocaribe, «il braccio energetico» dell’Alteativa bolivariana delle Americhe (Alba), che ha spinto i governi di Alvaro Colom (Guatemala) e Zelaya (Honduras), entrambi socialdemocratici, verso l’Alba, alter-ego dei Tlc proposti dal Nord del mondo.
Petrocaribe è nato il 29 di giugno del 2005 e vedeva la partecipazione del Venezuela e di 13 paesi dei Caraibi. Oggi i paesi sono diventati 17. Petrocaribe è stato creato su proposta del presidente del Venezuela Hugo Chávez con l’intenzione di dare sicurezza energetica e contrastare gli effetti negativi che con la crisi si abbattono sulle popolazioni più vulnerabili del Sud del mondo.
Contraddicendo la logica neoliberista, Petrocaribe fonda le sue basi nella cooperazione energetica orizzontale e la solidarietà tra i popoli, tenendo conto delle asimmetrie degli stati e con l’obiettivo di creare progetti  sociali e d’infrastrutture. Inoltre cerca il cornordinamento di politiche energetiche, cooperazione tecnologica, e potenziamento di fonti alternative.
Dei paesi centroamericani, il primo membro ad entrare a Petrocaribe è stato il Nicaragua, nell’agosto 2007 durante il terzo Summit di Petrocaribe. Il seguente paese è stato l’Honduras del governo Zelaya nel corso del quarto Summit e nel quinto il Guatemala. Il Costa Rica per ora ha sollecitato l’ingresso formale. Manca solo El Salvador, dove però dal 1 giugno ha assunto la presidenza Mauricio Funes, uomo  del Fronte Farabundo Martì (Fmln).
A luglio dell’anno scorso,  nel quinto Summit di Petrocaribe, a Maracaibo in Venezuela, si decise la creazione di una impresa mista Grannacional de energia. In controtendenza all’operato delle multinazionali, si invitano i paesi membri a partecipare fin dalla estrazione del greggio nella Faja del Orinoco nel Venezuela e in questo modo acquisire conoscenze e benefici fin dalle basi.
Petrocaribe agisce però su un Centroamerica con paesi sostanzialmente non produttori di petrolio e con una dipendenza di idrocarburi che dal 1990 ad oggi si è incrementata del 557%, insieme a problemi alimentari storici:  «tra il 1940 e il 2004 si sono prodotte più di 2,6 milioni di morti associate alla denutrizione nella regione centroamericana, questo numero di morti è molto maggiore al totale delle vittime dei conflitti armati  in quei decenni», secondo l’informe del 2007 del Cepal («Commissione economica per l’America Latina»).

I pesanti numeri
della povertà

Oggi la povertà tocca in Honduras il 75% della popolazione, in Guatemala il 51%,  in Nicaragua il 60% , in El Salvador il 40%, in tutti i casi con una forte causale esogena data dall’inflazione importata. Con l’attuale crisi alimentare c’è il rischio che altri 800 mila centramericani entrino a ingrossare le fila dell’indigenza, perché si calcola che per ogni 5 tonnellate di cereali che ingessano a uno dei paesi dell’Istmo, un contadino diventa candidato all’emigrazione.
Per combattere questa crisi è stato creato un fondo chiamato prima Petroalimentos e poi, a partire dalla riunione dei ministri dell’agricoltura all’Avana a metà agosto 2008, Alba-alimentos. Con l’intenzione di cornordinare le politiche in ambito agro-alimentare, composto da un consiglio con i ministri di agricoltura dei paesi membri. Questo fondo si sta utilizzando per la produzione di alimenti, tramite la donazione di concimi e semi migliorati unicamente per i piccoli e medi produttori. Con esso si intende anche promuovere tecnologie agricole sostenibili, con una serie di programmi sociali in tutta la regione a beneficio della maggioranza impoverita. 

Di José Carlos Bonino

José Carlos Bonino

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