Cana (5) Un vangelo, moltissime prospettive: dall’ora alla gloria

Il racconto delle nozze di Cana (5)

Facciamo ancora un passo avanti per raggiungere l’obiettivo che ci siamo dati con la rubrica della nostra rivista «Così sta scritto», e cioè aiutare i lettori a vincere l’approccio superficiale alla Bibbia con un’attenzione più rispettosa del testo che per noi è Parola di Dio.
Ogni volta che prendiamo in mano la Bibbia dobbiamo avere lo stesso atteggiamento e la stessa sensazione che ebbe Mosè quando vide il roveto di fuoco e scoprì di trovarsi davanti a Dio: si tolse i calzari, abbassò la testa fino a terra e stette in adorazione (Es 3,1-6). Noi invece siamo stati abituati a leggere la Bibbia come un libro di racconti edificanti o come un codice etico, da cui prendere quello che serve all’occasione, perdendo di vista la visione globale del disegno di Dio che la Bibbia descrive: un progetto di alleanza inserito nella storia dell’umanità.
Ne deriva che la Bibbia è una prospettiva di vita e bisogna impararla frequentandola assiduamente e mettendo in connessione tra loro fatti, eventi e parole per potee cogliere la portata unitaria. Nessun fatto narrato nel vangelo o in qualsiasi altra parte della Bibbia può essere preso da solo e staccato dal suo contesto naturale, perché significa sfalsae il senso: vale per le nozze di Cana, le parabole o i miracoli.

In ginocchio davanti al trono della Gloria
Alla luce di quanto appena detto, foiamo di seguito una visione d’insieme dello schema di tutto il vangelo di Giovanni, che ci serve anche come consultazione quando vogliamo leggee un brano o un passo: vedere dove è collocato, quale posto occupa all’interno del progetto dell’autore. In questo modo capiremo meglio e più profondamente. Forse all’inizio ci costerà un po’ di fatica, ma siamo sicuri che i lettori conoscono il proverbio «non c’è rosa senza spine».
Sul IV vangelo sono state fatte molte proposte di divisione e di strutture, segno della complessità e forse anche dell’irriducibilità del testo: possiamo sfiorarlo, ma non possederlo, possiamo intuirlo, ma non dominarlo perché la Parola di Dio è, sì, scritta con parole dell’uomo che usa le regole delle grammatiche delle lingue umane, ma è anche la Parola di Dio che emerge dal limite in tutto il suo splendore superandoci in sovrabbondanza.
Gli stessi disaccordi tra gli studiosi non sono alternativi, ma angolature diverse, di cui ognuno coglie un aspetto che non necessariamente nega gli altri, ma semmai si integra con essi che espongono altri punti di vista. Di fronte alla Parola di Dio bisogna essere «umili» e bisogna stare anche «in ginocchio» perché essa è il trono della gloria del Lògos che diventa fragilità per mettersi al nostro livello: «E il Lògos carne fu fatto» (Gv 1,14).

a)  Cana punto di arrivo e punto di partenza
Tra tutte le proposte di divisione del vangelo di Gv, ci sembra più interessante quella dello studioso Frédéric Manns (cf bibliografia della 1a puntata: L’Évangile 12-17), specialista del vangelo di Gv e di letteratura giudaica che insegna a Gerusalemme allo Studium Biblicum Franciscanum. La particolarità della sua proposta (e di tutta la sua impostazione esegetica) sta nel fatto che egli, più di ogni altro, mette in rapporto il IV vangelo con la letteratura giudaica e i testi di Qumran, con l’obiettivo espresso di ricercare il sottofondo originario della predicazione di Gesù e della presentazione che ne fa l’autore del vangelo.
È vero: poiché noi non conosciamo il giudaismo, non capiamo il 90% del significato del vangelo. Lo schema sintetico del IV vangelo, suggerito da Frédéric Manns, che riportiamo sotto, ci aiuta a rilevare subito che il racconto delle nozze di Cana non è un masso erratico, ma è inserito dentro una visione teologica che ha come epicentro geografico la cittadina di Cana dove Gesù compie «due segni»: uno rivolto ai Giudei con le nozze di Cana (Gv 4,1-12) e l’altro rivolto ai Pagani con la guarigione del figlio del funzionario regio (Gv 4,43-51).

b) Da Cana a Cana: due rivelazioni di una sola Gloria
A Cana quindi avvengono due rivelazioni che riguardano il mondo intero: i giudei e i pagani, i credenti e i non credenti, il mondo biblico e il mondo estraneo alla Bibbia. Questi due segni sottolineano già nel loro stesso annuncio, l’universalità del messaggio di Gesù che l’evangelista mette in evidenza, perché la rivelazione del monte Sion fu riservata al solo popolo ebraico, mentre ora, nell’èra messianica, Dio parla al mondo intero, senza più distinzione di popolo, lingue, tribù e nazioni (cf Ap 7,9). Troviamo pertanto qui un primo velato accenno all’alleanza del monte Sinai che svilupperemo più avanti perché intimamente connesso con il racconto delle nozze di Cana.
I due segni di Cana (nozze e guarigione) sono in relazione tra loro e non solo perché avvengono nello stesso luogo, ma perché è lo stesso autore che li collega anche dal punto di vista letterario. Infatti se guardiamo lo schema, nella sezione «2,1-4,59: I primi due segni ovvero da Cana a Cana», vediamo subito un procedimento circolare o come si suole dire a «chiasmo», cioè a incrocio, dove al 1° punto corrisponde l’ultimo, al 2° il penultimo, al 3° il terzultimo e via di seguito fino a un incrocio che costituisce la parte centrale comune.

Da Cana al monte Sinai
Il punto centrale della sezione che comprende i «due segni di Cana» è un duplice dialogo: il primo quello con Nicodemo riguarda la nuova nascita nello Spirito, mentre il secondo comprende quello di Giovanni Battista con i discepoli sulla identità del Cristo, quasi a dire che per conoscere il Cristo e incontrarlo è necessario «rinascere dallo Spirito Santo». Non basta fare una passeggiata per andare a trovare Gesù, bisogna stare dalla parte dello Spirito, cioè dall’alto, per potere diventare discepoli del messia (cf Gv 3,3).
I due segni di Cana sono una forma di preparazione perché pongono le condizioni per accedere alla nuova rivelazione. Sul monte Sinai Dio rivelò il suo «Nome, Yhwh» e lo affidò a Israele perché lo custodisse e lo testimoniasse nel mondo. A Cana Gesù manifesta la sua gloria, rivelandosi a Israele e a tutte le genti, per riproporre all’umanità il disegno originario della creazione: una sola famiglia, un solo popolo, un solo Dio creatore.
Il racconto delle nozze, cioè il 1° segno di Cana, è dunque il punto di partenza di questo nuovo processo di rinnovamento della creazione intera, mentre la guarigione dalla morte del figlio del funzionario pagano, cioè il 2° segno di Cana, è il punto di arrivo: nelle nozze di Cana si riprende il tema del Monte Sinai, che fonda l’identità attraverso la Legge (le regole), mentre nel segno della guarigione, troviamo il germe della nuova creazione e della nuova vita che risorge, nonostante Adamo: se il peccato di Adam consistette nel rifiutare di somigliare al Lògos, cioè al Figlio, ora il Figlio, il nuovo Adam, accetta di riflettere in sé il volto del Padre e di essergli obbediente, anche fino alla morte, anche oltre la morte (cf Fil 2,8-11).
Di seguito lo schema generale del vangelo di Giovanni, proposto da Frédéric Manns in una nostra traduzione dal francese e con qualche modifica da noi apportata:

Struttura del Vangelo di Giovanni
1,1-51: Introduzione:
1,1-18: prologo
1,19-51: vocazione dei discepoli
2,1-4,59: I due primi segni ovvero da Cana a Cana:
a) 2,11-12: 1° segno: manifestazione della gloria ai Giudei a Cana
  b) 2,13-25: il segno del tempio e l’annuncio del nuovo tempio
   c) 3,1-21: dialogo con Nicodemo: rinascita dall’acqua e dallo Spirito
   c’) 3,22-36: dialogo di Giovanni Battista con i suoi discepoli
  b’) 4,1-42: dialogo con la Samaritana sul nuovo culto
 a’) 4,43-51: 2° segno: manifestazione della gloria ai pagani a Cana
5,1-6,71: Due segni ovvero da Gerusalemme a Cafaao:
5,1-15: guarigione del paralitico
5,16-47: discorsi
6,1-15: moltiplicazione dei pani
6,16-25: transizione
6,26-71: discorso sul pane di vita
7,1-10,42: Dalla festa delle Tende alla festa della Dedicazione:
7,1-53; 8,12-59: festa delle Tende [8,1-11: adultera: aggiunta]
9,1-41: guarigione del cieco nato
10,1-21: Gesù bel pastore e porta delle pecore
10,22-42: l’identità del Cristo
11,1-12,50: Da Betania a Gerusalemme:
11,1-57: resurrezione di Lazzaro
12,1-11: unzione di Betania
12,12-18: ingresso messianico di Gesù a Gerusalemme
12,20-36: Annuncio della glorificazione attraverso la morte
12,37-50: Conclusione
13,1-17,26: Discorsi di addio:
a) 13,1-38: lavanda dei piedi
  b) 14,1-31: primo discorso di addio
   c) 15,1-17: la vite e i tralci
   c’) 15,18-16, 4: persecuzione dei discepoli
  b’) 16,5-33: secondo discorso di addio
a’) 17,1-26: preghiera di Gesù
18,1-20,29: Passione e risurrezione:
a) 18,1-14: arresto al giardino
  b) 18, 28-19,16b: processo davanti a Pilato
a’) 19, 16c-42: morte e sepoltura di Gesù
  c) 20,1-18: Pietro e il discepolo al sepolcro. Apparizione a Maria
  c’) 20,19-29: Apparizioni ai discepoli e a Tommaso
20,30-31: Conclusione
21,1-25: Appendice

La Gloria ricama tutto il vangelo di Giovanni
Questo schema ha il pregio di tenere presente non un solo metodo di lettura, ma di integrare metodologie diverse: lo schema geografico (da Cana a Cana; da Gerusalemme a Cafaao; da Betania a Gerusalemme) s’inserisce in quello liturgico (festa delle Tende e festa della Dedicazione) e questo, a sua volta, in quello tematico (segni, tema della gloria, discorsi di addio, passione, ecc.) e tutti all’interno di un progetto di fondo dell’evangelista, che ruota attorno al termine «gloria» e a quello dell’«ora», due parole che ricorrono da cima a fondo come due tessiture che tengono in piedi tutto l’ordito del vangelo con la loro ricorrenza che potremmo definire «ostinata».
Gv vuole costringere il lettore a prendere coscienza di queste due parole: «gloria» che in greco si dice «dòxa» e «ora» che in greco si dice «hôra». Di ciascuna diamo una breve e sintetica descrizione.

a) Ogni pagina trasuda gloria
La parola «gloria – dòxa» si trova in Gv 1,14 (2 volte), nel racconto delle nozze di Cana (Gv 2,11), a metà del vangelo (Gv 12,41) e alla fine (Gv 17,1.5.22.24), formando così una inclusione, cioè un termine non casuale, ma volutamente immesso (incluso) nel testo per racchiudere tutto ciò che c’è in mezzo e poterlo leggere alla luce del significato di questo termine. Non si può capire il vangelo e tanto meno il racconto delle nozze di Cana se non comprendiamo bene quale sia il significato della parola «gloria – dòxa» che diventa così una chiave d’interpretazione di tutto il vangelo e non solo delle nozze di Cana.
Lo stesso termine infatti, oltre alle 8 volte sopra citate, si trova nel IV vangelo altre 15 volte, costituendo così un mosaico che racchiude tutto il vangelo (Gv 5,41.44 [2x]; 7,18; 8,50; 9,24; 11,4.31.40; 12,23.28.43; 13,32; 16,14; 21,19) per un totale di 23 volte. Si potrebbe dire che non c’è pagina del vangelo di Gv che non riporti la parola «gloria» oppure un verbo che indica l’azione gloriosa del «manifestarsi» (phaneròō: 1,31; 3,21; 9,3; 21,1). È questo che intendiamo dire con  l’espressione «parola ostinata», cioè martellante, ricorrente: una parola senza della quale l’intero disegno del vangelo si perde e si smarrisce.

b) Il peso della Gloria
La parola «gloria – dòxa» traduce il termine ebraico «kabòd» che gli ebrei del tempo di Gesù utilizzavano come sostituto del Nome di Dio «Yhwh», Nome che nessuno poteva pronunciare. Essa è dunque un sinonimo di «Signore», usato nella preghiera e nelle conversazioni, ma c’è dell’altro.
In ebraico la parola «kabòd» deriva dalla radice «k_b_d», che contiene in sé il senso di «peso», per cui una cosa gloriosa è una realtà pesante, in quanto cioè è consistente; «la gloria» infatti esprime il valore e la consistenza esistenziale e sociale di una realtà, di una persona, di una funzione. L’uomo orientale ama «il grasso» perché indica più peso e quindi più consistenza, cioè maggiore autorità, significato, importanza. Dio è «glorioso» perché è l’essere più «pesante» che esista, in quanto è la pienezza stessa dell’esistenza: è il Creatore.
La «Gloria» riferita a Dio non è qualcosa di astratto o di pomposamente rituale, ma indica il «Nome» stesso di Dio, cioè la sua natura e la sua vita, che è solida, consistente, piena. «Dare gloria a Dio» significa riconoscee la «signoria» e la maestà e riconoscersi suoi figli ubbidienti.

c) L’ora della gloria
L’altra parola che abbiamo è «hôra – ora», nel senso di «momento» e quindi riguarda il tempo, che nella Bibbia ha sempre due valenze: una riguarda l’aspetto ordinario ed è la successione degli eventi come capitano e che in genere ognuno di noi subisce (il giorno, la notte, ieri, oggi, ecc.) e che nella Bibbia si chiama «chrònos – tempo»;  l’altra riguarda la «qualità» del tempo, perché mentre scorre porta qualcosa di nuovo e di coinvolgente. Questo secondo aspetto è chiamato da Paolo «kairòs – occasione favorevole» (cf Rm 5,6; 8,18; 9,9; 13,11;Gal 6,10, ecc.). È il tempo che è testimone della conversione; è il tempo in cui si svela lo Spirito come azione di amore; ecc.
Il 1° tempo, il «chrònos», è segnato dal sole, dalla meridiana, dalla clessidra e oggi dall’orologio; mentre il 2° tempo, il «kairòs», è segnato dall’anima che vive gli eventi e di cui si rende conto: è la presenza di sé all’evento di cui si coglie la portata, la qualità e la novità.
Giovanni con il termine «ora» si riferisce a questo secondo aspetto, davanti al quale anche Sant’Agostino s’interroga a modo suo e, in modo magistrale, dà anche la sua risposta: «Che cosa dunque è il tempo? Se nessuno me lo domanda, lo so. Se voglio spiegarlo a chi me lo domanda, non lo so più» (Le Confessioni, XI,XIV,2).
È veramente così, noi viviamo esperienze interiori che possiamo contemplare dentro di noi, ma non possiamo spiegare agli altri, perché ogni tentativo di spiegazione potrebbe banalizzarle.
L’«ora» di Gesù, che nelle nozze di Cana «non è ancora giunta» (Gv 2,4), è il tempo della rivelazione nuova, il tempo che svela la luce e per contrasto le tenebre (cf Gv 1,4.5.8.9), l’occasione favorevole per fare una scelta di fondo: «Chi crede in lui non è condannato; chi non crede in lui è già stato condannato» (Gv 3,18.36). L’«ora in-compiuta» delle nozze di Cana giunge a compimento, a maturazione nel momento della morte: «Padre è venuta l’ora: glorifica il Figlio tuo perché il Figlio glorifichi te» (Gv 17,1).
In poche parole l’autore unisce l’ora (il tempo) e la gloria (il peso consistente della rivelazione). Per Gv, l’ora della morte è l’occasione, il «kairòs» di una duplice «gloria»: del Padre verso il Figlio e del Figlio verso il Padre. L’uno e l’altro rivelano la propria consistenza di vita: il Figlio nella risurrezione vissuta come obbedienza al Padre e il Padre perché nel Figlio rivela la nuova Toràh che è lo Spirito Santo, cioè la sua stessa vita, perché nel momento in cui il Figlio muore come uomo, vive da risorto e in tutti coloro che accettano il dono del suo Spirito di risorto: «E, chinato il capo, consegnò lo Spirito» (Gv 19,30).    (continua-5)

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella




La cultura scaccia la droga

Medellin: città traformata e riqualificata, a partire dalla cultura

Fino a una decina di anni fa, Medellín (quasi 2,5 milioni di abitanti) era capitale mondiale della violenza e del narcotraffico; oggi, grazie a una nuova amministrazione, è diventata un laboratorio di progetti sociali urbani e di sviluppo, con la partecipazione di tutti i cittadini, diventando un modello di convivenza… da esportare nel resto del paese e nel mondo.

Parques biblioteca: bastano queste due parole per riassumere la rivoluzione in atto a Medellín, seconda città della Colombia: da ex capitale del narcotraffico e della violenza a città dell’educazione per tutti e della democrazia partecipata. Due parole che esprimono un unico concetto: la nascita di influenti biblioteche, oggi frequentatissime, nei quartieri più poveri della città, dove molta gente non era mai andata a scuola e viveva fisicamente separata (da muri invisibili o dalla mancanza di collegamenti) dai luoghi cittadini dove si produceva cultura.
Non è una favola; e nemmeno un volo pindarico creato ad arte per giustificare un buon reportage giornalistico, sia chiaro: di sicuro ha dell’incredibile quello che accade da quasi un decennio a Medellín, ma è tutto vero. Pregasi cancellare dalla memoria, quindi, le immagini di stragi, assassinii mirati in mezzo alla strada, scorrerie di paramilitari legati a doppio filo ai cartelli della droga: tutto ciò oggi non avviene più.
Ecco il primo indizio per capire che la nuova Medellín ha nulla da spartire con quella che nel 1991 viveva 381 omicidi ogni 100 mila abitanti: 16 anni dopo, a fine 2007, quel numero è sceso a meno di un decimo, con 26 morti violente all’anno.
È morto Pablo Escobar, certo. Il «re del terrore», che nel 1989 era, secondo la celebre rivista Forbes, il settimo uomo più ricco del mondo, grazie al controllo dell’80% del mercato globale della cocaina, è stato ucciso nel 1993. Da allora, la gente ha ricominciato a uscire di casa, a smettere di avere paura.
Allora, la guerra veniva combattuta casa per casa; molte persone, soprattutto dei quartieri poveri, si erano unite a Escobar in cambio della sicurezza economica per la propria famiglia, come avviene per le mafie nostrane. Ora, come reazione opposta ad anni di violenza quotidiana, è scaturita, quasi dal nulla, un’enorme forza di volontà cittadina per interessarsi del «bienestar» comunitario, il benessere della collettività.
Un interesse che è convogliato nella creazione, nel 1999, di un movimento della società civile, poi diventato un partito politico inedito, perché totalmente indipendente dai «soliti» due schieramenti al potere: i liberali e i conservatori. Compromiso ciudadano è il suo nome, che in italiano suona come «Impegno di cittadinanza». L’anno dopo la nascita, il movimento-partito ottiene un buon risultato, ma non riesce a vincere; stravince nel 2004, quando il candidato sindaco, il professore di matematica Sergio Fajardo, ottiene il 46% delle preferenze degli ammessi al voto tra i 2,4 milioni di abitanti della metropoli colombiana, contro il 22% del rivale.
A dicembre 2007, alla tornata successiva, Compromiso ciudadano vince ancora, con il nuovo sindaco Alonso Salazar, fondatore del movimento assieme al suo predecessore.

CITTADINI AL POTERE
«Eravamo una ventina di persone speranzose in un mondo migliore possibile» esordisce Geovanny Celis, 50 anni, uno degli uomini di punta nel cambio radicale che il nuovo partito ha impresso nella mentalità della gente di Medellín. Un passato di educatore di strada a favore del reinserimento di prostitute, senzatetto, ragazzi di strada, Celis è stato assessore allo sviluppo economico e sociale fino all’inizio del 2009; ora ha lasciato il posto per appoggiare l’ex sindaco Fajardo alle prossime elezioni parlamentari. Nessuno meglio di lui, dati socio-economici alla mano, può quindi spiegare come sia avvenuto il Renacimiento, la stupefacente rinascita della sua città.
«Nessuna formula magica, piuttosto una coincidenza di due cambiamenti epocali: da una parte lo smantellamento della rete del narcotraffico, grazie al governo nazionale, che ha permesso l’estradizione degli elementi più pericolosi negli Stati Uniti e la riqualificazione dei paramilitari implicati nel giro di droga – spiega Celis -, dall’altra il risveglio della popolazione, che nel 1989 ha ottenuto l’elezione diretta del sindaco e da allora si è sempre più impegnata nella politica locale, per cambiare le cose».
Da qui si è sviluppato Compromiso ciudadano, che ha conquistato la fiducia dei cittadini con una potente arma bianca: la trasparenza assoluta. «Fin dall’inizio, ogni nostra riunione è stata pubblica, abbiamo cercato di riunire e far discutere fra loro più persone possibili, nelle sale pubbliche, nei centri parrocchiali – riprende Celis – e anche oggi è così, ogni comunità ha i suoi incontri aperti, e incide per davvero sulle politiche del comune. Basti pensare che il 26% delle spese comunali è deciso direttamente dalle stesse comunità, per legge».
Una scelta che funziona anche a livello economico, visto che, come recita uno dei principi dello stesso assessore uscente, «la plata no se puede perder»: vietato sprecare denaro. «Se sa di poter incidere sul proprio tenore di vita, la popolazione si rimbocca le maniche». Nel giro di soli quattro anni, dal 2003 al 2007, i negozi in città sono quasi triplicati, passando da 5.943 a 15.220. E la disoccupazione, dal 2001 a oggi, è passata dal 18,2% al 13,6%, una delle più basse di tutto il continente latinoamericano.
In tempi di recessione mondiale, l’esempio di Medellín è una luce che buca l’oscurità. «In tutto questo, la presenza dell’istituzione rimane comunque alta: il comune gestisce, con aziende municipalizzate, la rete idrica, il gas, le fogne, società che rendono molto, fatturando sei volte tanto il budget municipale» specifica Celis. Ovvero milioni di dollari da potere spendere subito.
«Ma quello che conta è il modo in cui vengono reinvestite queste cifre: il 30% degli utili, infatti, viene destinato a spese per due settori fondamentali: scuola e salute». Il motivo di questa scelta è legato a una linea d’indirizzo ben precisa. «Ci si è detti: la priorità è lo sviluppo umano, bisogna mettere ai primi livelli dell’agenda cittadina le necessità di chi è più bisognoso, includendo nella vita sociale gli indigenti, i disabili, oppure i molti rifugiati interni della guerra civile, spesso poveri e senza appoggi familiari allargati» argomenta Celis.
Detto fatto. Oggi Medellín è all’avanguardia nella parità di diritti sia nell’educazione pubblica che in campo sanitario; e per quanto riguarda l’accessibilità sta facendo passi da gigante, nonostante l’altitudine, attorno ai 1.500 metri, e la disposizione di interi quartieri sulle pendici di sette colline.

CULTURA PER TUTTI
Medellín, città natale di Botero (il famoso scultore colombiano, oggi residente in Italia), al quale è dedicata la piazza omonima in cui si ergono ben 23 delle sue «rotonde» sculture, è oggi un ottimo esempio di accesso culturale garantito a tutta la popolazione. Gran parte del merito è proprio di Compromiso ciudadano e del suo primo sindaco Sergio Fajardo, in prima linea nel cambiamento, che ha finito il suo mandato nel dicembre 2007, con il 90% del gradimento popolare: sue le decisioni, concordate con i cittadini, di convertire decine di edifici in disuso o poco valorizzati in nuove occasioni di coesione sociale, perché posti in luoghi strategici della città.
L’esempio più impressionante (anche a livello visivo) è l’enorme biblioteca pubblica España, inaugurata all’inizio del 2007 e collocata all’ingresso del quartiere Santo Domingo Savio, a lato di una delle più grandi baraccopoli della città. Una scelta non a caso, quella di avvicinare la cultura nei luoghi più poveri della città: ecco concretizzata l’inclusione sociale di cui parlava Celis.
Una mossa azzeccata: la España è frequentatissima, con un boom di iscrizioni ai vari percorsi educativi, soprattutto da parte dei residenti, per i quali la biblioteca è diventata un vero e proprio bene collettivo. Così come lo è diventata l’ultramodea teleferica inaugurata poco dopo la biblioteca, la linea K del Metrocable, che collega Santo Domingo Savio, posto su una collina, al centro della città. In pochissimi minuti.
La España è uno dei cinque Parques bibliotecas, così chiamati anche perché le biblioteche popolari sono circondate da una consistente area verde; le altre sono: Tomás Carrasquilla nel quartiere Quintana, Leon de Grieff nel Ladera, Presbitero José Luis Arroyave a San Javier, Belén nella zona sudoccidentale di Medellín. Tutte inaugurate tra il 2006 e il 2007 e, oggi, veri e propri melting pot di Medellín. «Vivo da queste parti da 54 anni. Prima qui era tutto violenza, desolazione e paura. Con l’arrivo della biblioteca, il panorama è mutato in modo radicale: ora guardiamo alla nostra zona con occhi di speranza» afferma José Alvarez, rappresentante di uno dei comitati cittadini di San Javier.
Non solo biblioteche: negli ultimi anni si sono rinnovati musei e parchi, come quelli di Pies Descalzos o Llera, ora pieni di giovani e famiglie; si sono costruiti ponti tra zone collinari confinanti, che prima non avevano alcun collegamento fra loro. Si sono aperte scuole popolari di musica: oggi se ne contano 97.
Per non parlare della spinta all’educazione scolastica: le iscrizioni sono aumentate del 10% in tre anni e, grazie anche alle borse di studio per migliaia di giovani provenienti da situazioni di povertà, l’accesso alla scuola secondaria è dell’87%, ovvero studiano quasi 9 ragazzi su 10. E con il programma «Pace e riconciliazione», dedicato ai giovani paramilitari sottratti al narcotraffico, almeno 4 mila persone hanno potuto frequentare corsi di formazione, la metà dei quali ha oggi un impiego.
All’impegno comunale, inoltre, si affianca in piena armonia quello della Pastorale sociale della Caritas diocesana, soprattutto promuovendo azioni a favore delle famiglie di desplazados (rifugiati interni), i cui figli spesso hanno difficoltà a inserirsi a scuola, e stimolando la responsabilità sociale del settore privato, anche attraverso incontri pubblici, l’ultimo dei quali si è tenuto il 12 maggio 2009.

IMPEGNO PER IL SOCIALE
Il programma di sviluppo di Compromiso ciudadano non ha tralasciato l’economia locale, destinandole incentivi pubblici per milioni di pesos con il programma Cultura E («E» sta per Emprendimiento, impresa). Grazie alla fine degli anni di violenza, molti imprenditori, anche stranieri, hanno ricominciato a investire in città, soprattutto nel settore del tessile e della tecnologia, e si prevede, da qui al 2020, la creazione di 7 mila nuove imprese e 700 mila posti di lavoro.
L’amministrazione del movimento-partito di cittadini, inoltre, ha un occhio di riguardo speciale per tutto quello che riguarda il bienestar social (benessere sociale), soprattutto di chi è in difficoltà: ecco allora nascere, nel 2007, il programma Medellín solidaria, che mira a ottenere l’uscita dalla povertà di 45 mila famiglie tra le più indigenti della città, attraverso servizi agli anziani, giovani disagiati, appoggio psicologico, educativo, anche economico.
C’è grande attenzione alle persone diversamente abili, «che sono almeno 117 mila, il 5,1% della popolazione, molti dei quali lo sono diventati durante la guerra civile» spiega Marta Sierra, 44 anni, oggi viceassessore ai servizi sociali, ma da 18 anni impegnata come tecnico comunale nel settore sociale. «Dal 2001 ogni edificio nuovo deve essere accessibile a tutti. Ma non basta – continua Sierra -. Nel 2007 abbiamo avviato un progetto decennale per garantire loro la parità di diritti; entro il 2010 almeno 3.500 persone disabili saranno inserite nel mondo del lavoro; ma ancora più importante è il fatto che delle loro esigenze se ne parli in incontri pubblici, come succede di questi tempi, per la prima volta in assoluto».
Il Comune, in questo senso, riceve l’aiuto di un partner italiano: il Consorzio Sir («Solidarietà in rete»), che collabora con Medellín dal 2005 e ha avviato, in agosto 2008, la creazione di un sistema di servizi integrato, che opera per la promozione delle persone disabili (almeno 810 i beneficiari diretti, più le loro famiglie) attraverso progetti educativi, di riabilitazione e di inserimento socio-lavorativo.
Il Consorzio, che ha base a Milano, offre inoltre sostegno tecnico alla cooperazione sociale cittadina, in particolare alla Promotora de empresarismo social, l’agenzia di sviluppo locale per l’impresa sociale, nata alla fine del 2007 e diretta da una giovane energica colombiana, la 30enne Catalina Pacheco: «A Medellín, il mondo associativo e cornoperativistico è in fermento, da progetti assistenzialistici si è passati in pochi anni a un “fare impresa” che sia sostenibile a livello umano» spiega la direttrice della Promotora.
In città sono concentrati almeno 1.500 enti del terzo settore, il 25% di tutta la Colombia. «La nostra esperienza sta facendo scuola, ci chiedono consigli da molte altre regioni del paese». A ben vedere, è tutto il «modello Medellín», che dovrebbe fare scuola ad altre metropoli mondiali.
Nella città in cui, nel 1968, la seconda Conferenza dell’episcopato latinoamericano aveva gettato le basi di una nuova chiesa sociale, si rivive oggi, dal basso, uno spirito di cambiamento concreto. In poco più di un decennio, a Medellín, una violenza terrificante ha lasciato il passo a una sete di cultura senza precedenti. Alla base, una scommessa di un gruppo di cittadini, vinta in partenza: quella dell’educazione alla convivenza, alla parità di diritti. Per tutti. 

Di Daniele Biella

Daniele Biella




Interrogarsi sull’aiuto

L’Osservatorio italiano sulla salute globale (Oisg), nel suo 3° rapporto, presenta lo stato del mondo letto attraverso uno dei diritti umani più basilari: la salute. Speciale attenzione è riservata agli aiuti umanitari, che alleviano i danni senza rimuovee le cause, e agli aiuti inteazionali, che spesso finiscono in tasche sbagliate o servono a fini diversi.

C ooperazione internazionale, diritto alla salute, salute globale, aiuti allo sviluppo, sistemi sanitari, quadro delle malattie, strategie, analisi critiche, possibili strade. Sono alcuni degli argomenti e degli spunti di riflessione che trovano spazio nelle oltre 350 pagine del 3° Rapporto dell’Osservatorio italiano sulla salute globale (Salute globale e aiuti allo sviluppo. Diritti, ideologie, inganni, Edizioni ETS, Pisa 2008).
«L’aiuto allo sviluppo in campo sanitario dovrebbe intervenire per fare fronte alle impressionanti diseguaglianze “globali” nella salute», si legge nelle prime righe della prefazione al volume. Diseguaglianze cui era stato dedicato il secondo Rapporto dell’Osservatorio italiano sulla salute globale e che trovano nuovamente spazio in questo terzo libro, dando un significato, rappresentando un obiettivo (la loro eliminazione) e impregnando i diversi aspetti dell’aiuto allo sviluppo e della situazione sanitaria mondiale, questa volta protagonisti del volume.

Lo sguardo alla storia
per capire
L’Osservatorio italiano sulla salute globale (Oisg, http://www.saluteglobale.it) è una rete di operatori e ricercatori che promuove il diritto alla salute a livello globale e fornisce strumenti di analisi e valutazione, quali, per esempio, i rapporti pubblicati periodicamente. Già nella prefazione al terzo Rapporto, a firma di Gavino Maciocco (Dipartimento di Sanità Pubblica, Università di Firenze) e Adriano Cattaneo (Istituto per l’Infanzia Burlo Garofolo, Trieste), vengono toccati diversi aspetti della salute mondiale e proposti elementi di stimolo alla riflessione, grazie anche a una veloce panoramica storica della situazione sanitaria nel mondo.
Questo a partire dal 1978, anno della Dichiarazione di Alma Ata, documento che, «sottoscritto da quasi tutti i paesi del mondo, segnava una svolta per le politiche sanitarie globali». Una svolta che avrebbe dovuto portare a buon fine l’impegno per una salute accettabile per tutti, con una scadenza prefissata e ben precisa (il 2000), con un risultato definito raggiungibile.
Così non è stato e, a 30 anni da tale Dichiarazione, il terzo Rapporto dell’Oisg traccia un quadro della situazione sanitaria e cooperazione in ambito sanitario; un quadro che, nelle speranze di quel documento di Alma Ata, avrebbe dovuto essere assai diverso e già da qualche anno: «Così, se nel 1978 appariva realistico l’obiettivo di garantire entro l’anno 2000 a tutti gli abitanti del pianeta il libero accesso ai servizi sanitari essenziali, poco tempo dopo ciò divenne un semplice miraggio per almeno l’80% della popolazione mondiale», scrivono ancora Maciocco e Cattaneo.
Ecco quindi che lo sguardo sul passato è di stimolo a muovere passi efficaci e adeguati da subito e a programmare il futuro. Non dunque, scorrendo i diversi capitoli del Rapporto, una carrellata disfattista della situazione attuale di salute globale e degli interventi di aiuto allo sviluppo posti in atto nel corso degli anni, ma un invito a conoscere la realtà del passato e quella presente e ad agire senza aspettare.
«Il destino di molte delle inaccettabili diseguaglianze nella salute globale, e dei sistemi sociali e sanitari che le sostengono, dipenderà dalle politiche che adotteranno negli anni a venire i paesi ad alto reddito» si legge ancora nella prefazione che, a partire da un articolo pubblicato sulla rivista medica Lancet (Stckler D, McKee M. Five metaphors about global-health policy. Lancet 2008; 372: 95), riporta subito dopo le «cinque possibili metafore sulla salute globale», con cinque possibili diverse impostazioni nell’aiuto allo sviluppo: una salute globale vista come politica estera, sicurezza, carità, investimento, salute pubblica. Gli autori pongono una domanda: «E se riuscissimo a far muovere il pendolo della salute globale verso la quinta metafora e la salute pubblica?».

Un tema,
tante declinazioni,
diversi autori
Il libro è il risultato del lavoro di 39 autori, che ha portato alla stesura dei diversi capitoli, suddivisi in due parti principali. Una prima sezione è espressamente dedicata al tema che dà il titolo alla pubblicazione, l’aiuto allo sviluppo in campo sanitario; la seconda parte presenta un aggioamento della situazione sanitaria mondiale, dal punto di vista delle politiche messe in atto, di alcune malattie e dei sistemi sanitari di quattro nazioni.
Nella prima parte, il tema dell’aiuto allo sviluppo in ambito sanitario viene affrontato nei suoi diversi aspetti, a partire ancora una volta, e prima di tutto, dall’evoluzione delle politiche sanitarie a 30 anni dalla Dichiarazione di Alma Ata. Nello scorrere delle pagine, attraverso aspetti storici, numeri, descrizioni, elementi economici, esempi, vengono approfonditi temi quali i livelli essenziali di assistenza, l’aiuto pubblico allo sviluppo, la cooperazione sanitaria.
In questi ultimi due ambiti, per esempio, viene fornito il quadro di «proliferazione e frammentazione nella cooperazione internazionale», ovvero l’aumento negli anni del numero di donatori (proliferazione) e delle attività finanziate da un donatore (frammentazione), e di come questi due aspetti abbiano reso maggiormente complicato lo scenario generale.
Ma vengono riportati anche dati sulle promesse non mantenute da parte dei paesi donatori, o sull’importanza della valutazione dell’efficacia degli interventi. A quest’ultimo tema viene dedicato, nelle pagine successive, un intero capitolo, che si occupa proprio dei possibili sistemi di valutazione degli interventi effettuati, considerando, per esempio ma non solo, la rilevanza, l’efficacia, l’efficienza, l’impatto e la sostenibilità.
Sezioni con panorami generali sulla situazione e sulle note dolenti o da migliorare si alternano dunque ad altre con possibili risvolti pratici, il tutto sempre con il supporto della letteratura. Inoltre, nel susseguirsi dei diversi capitoli, temi comuni vengono ripresi, approfonditi da altri punti di vista, allargati con prospettive differenti, con l’aiuto pubblico allo sviluppo come filo conduttore, su cui si agganciano e intrecciano i diversi elementi, presentati e poi ripresi nelle singole situazioni e contestualizzati nei vari ambiti.
Da un quadro generale della cooperazione sanitaria si passa, per esempio, a situazioni concrete quali la cooperazione italiana o quella cinese; dalle questioni in sospeso dell’aiuto allo sviluppo ai possibili esempi di valutazione prima accennati; dalle diseguaglianze nella distribuzione delle malattie sul pianeta e delle forze messe in campo come operatori sanitari all’approfondimento sulle migrazioni di personale sanitario, completato dal panorama del personale infermieristico straniero in Italia.
A proposito di tali diseguaglianze, si legge nel Rapporto, citando come fonte l’Organizzazione mondiale della sanità, come le Americhe con il 10% del carico mondiale di malattie abbiano il 37% di operatori sanitari del mondo e oltre il 50% della spesa sanitaria mondiale, mentre l’Africa, con il 24% del carico di malattie, abbia il 3% di operatori sanitari e meno dell’1% della spesa sanitaria mondiale.

Una visione complessiva:
dal generale al particolare
e ritorno
Tante informazioni, come si diceva, di tipo numerico, economico, di efficacia o meno, successo e insuccesso che mostrano la complessità dell’aiuto umanitario, di come questo abbia diverse sfaccettature e diversi elementi da tenere presenti, per trovare la strada per proseguire.
Nel capitolo intitolato Gli aiuti umanitari: tra carità, ideologia, inganno, si legge che «l’aiuto umanitario è per definizione un indicatore di insuccesso, perché arriva sempre quando il disastro ha già avuto luogo; il suo unico obiettivo è alleviare e ridurre il danno, a volte solo a breve termine». Un capitolo che conclude sottolineando: «Gli aiuti tendono gradualmente a rendere i paesi che ne dipendono incapaci di affrontare le proprie crisi. Inoltre, l’aiuto umanitario si focalizza spesso sul diritto alla sopravvivenza, dimenticandosi del diritto alla vita… L’aiuto umanitario infatti tende a soccorrere le popolazioni senza interrogarsi troppo sulla complessa rete di cause che portano alla crisi umanitaria. Non agisce, cioè, sui meccanismi che danno origine al bisogno di aiuti umanitari».
Una complessa rete di cause che le diverse pagine del libro desiderano approfondire, con i contributi, sia generali sia particolari, che si addentrano nelle realtà di paesi o di malattie, da cui emerge l’importanza di una visione globale, complessiva, che tenga conto dei diversi elementi e fattori in gioco. Una visione che, ritornando alla domanda provocazione posta nella prefazione, pensi alla salute globale come salute pubblica.
Il legame con la realtà di cui si sta parlando emerge poi forte dall’alternarsi di capitoli di approfondimento dei quadri generali e globali con quelli sia di applicazione a situazioni concrete sia di testimonianza di chi vive in prima persona l’aiuto allo sviluppo da ambo le parti. Vi sono infatti pagine dedicate alla visione di interventi sanitari, progetti da parte di chi li riceve, con esempi di esperienze in Nicaragua, Nepal, Guinea Bissau, Afghanistan, Mongolia. E subito dopo si succedono tre capitoli che riportano l’esperienza sul campo di tre organizzazioni non governative impegnate in ambito sanitario (Medici senza frontiere, Medici con l’Africa Cuamm ed Emergency), in cui viene espresso il loro punto di vista sull’aiuto allo sviluppo.
Ancora una volta esempi concreti cui il volume si richiama, accanto alle analisi, ai numeri presentati, alla realtà sanitaria nel mondo e alle possibilità di intervento.

L’aggioamento
sulla salute globale
Un quadro della salute e delle malattie che trova spazio anche nella seconda parte del Rapporto, specificamente dedicata ad attualità e aggioamenti sulla salute globale. In questa parte vi sono dunque informazioni sulla situazione sanitaria mondiale attuale, suddivise in tre ambiti ben definiti: le politiche di salute globale, lo stato di salute del mondo (con capitoli in particolare su: malaria, tubercolosi, e Aids; malattie dimenticate; malattie della bocca e dei denti; malattie cardiovascolari) e infine i sistemi sanitari (con un aggioamento sulla situazione in Stati Uniti, Cina, Cuba e Brasile).
Il quadro è complesso, ricco d’informazioni, spunti, stimoli, critiche, provocazioni, inviti. Materiale su cui riflettere in modo costruttivo, da cui partire per elaborare nuove strategie e progetti. Questo terzo Rapporto dell’Oisg, concludono nella prefazione Maciocco e Cattaneo, è dedicato agli studenti universitari di svariati corsi di laurea: non solo discipline sanitarie in genere, ma anche per esempio scienze politiche o sociologia, perché il tema è globale e, come si diceva, l’invito è ad affrontarlo da tutti i suoi punti di vista, con la salute e le malattie inserite nel contesto della vita, della società, del mondo e non disgiunte da tutti i fattori che le influenzano.
Il messaggio finale è positivo, e vuole ancora una volta fornire nuove spinte, nuovi impulsi, a partire proprio anche dagli studenti, in prima persona promotori di iniziative e interessati ai temi di salute globale: «Questa crescente sensibilità verso i temi della salute pubblica e della giustizia sociale è un segnale di speranza e un forte stimolo per la nostra associazione a proseguire e, se possibile, a incrementare, l’attività di analisi, di studio, di disseminazione e promozione». Una sensibilità e un’attenzione che portano ad aprire gli occhi sulla realtà. Una apertura che può portare allo studio e alla realizzazione di un aiuto allo sviluppo efficace, sostenibile e condiviso.

Di Valeria Confalonieri

Valeria Confalonieri




G8, non basti più

C’è un altro modo di pensare, e agire

L’incontro del G20 a Londra non è stato così negativo.
   Almeno a parole. Intanto la Commissione speciale
     delle Nazioni Unite propone un gruppo G192.
       Per togliere il monopolio decisionale al G8.

Poteva andare peggio, invece il G20, che si è svolto a Londra all’inizio di aprile, ha segnato, almeno nelle parole, un cambio di rotta.
Un invitato eccellente come il Segretario Generale dell’Onu Ban Ki Moon si è detto impressionato dal forte senso di unità e di solidarietà che ha caratterizzato l’incontro.
Il G20 è composto dai governi dei venti paesi più potenti del mondo: quelli che dalla seconda guerra mondiale guidano il sistema economico e quelli che sono entrati nel club in anni recenti, in virtù dei loro strepitosi tassi di crescita.
I primi non hanno saputo prevenire la crisi, i secondi non la sanno bloccare.
Finora i vari incontri dei «grandi» (G20, G7, G8) non hanno preso decisioni vere sull’economia e la finanza: i sorrisi e le foto di gruppo hanno mascherato a malapena la distanza delle posizioni e l’assenza di soluzioni condivise.
Un vuoto decisionale reso ancora più grave dalla presunzione di proporsi come l’unico luogo deputato a trattare i problemi economici del mondo.
Il G7 (allora G5) è stato inventato a metà degli anni Settanta, proprio quando le Nazioni Unite stavano mettendo a punto il progetto di un «Nuovo ordine economico internazionale».
La crisi petrolifera scoppiata nel 1973 aveva fatto vacillare il  modello di crescita senza limiti e messo in discussione i rapporti di forza tra paesi produttori di materie prime e paesi industrializzati.
I paesi più potenti, vedendo minacciata la loro posizione dominante, hanno deciso di avocare a sé ogni negoziato sulle questioni economiche e finanziarie. Il Fondo Monetario e la Banca Mondiale, governati da quegli stessi paesi, hanno avallato la decisione.
Il confronto e le decisioni sulla finanza e l’economia sono state definitivamente sottratti all’Onu e alle sue agenzie sul commercio (Unctad), il lavoro (Ilo), lo sviluppo (Undp), l’ambiente (Unep).
Il disastro in cui ci troviamo comprova che quella scelta non fu né efficace né lungimirante, ma proprio una congiuntura così drammatica ci impone di andare oltre le recriminazioni.
È in gioco la «stabilità e l’equità» delle relazioni economiche e finanziarie inteazionali, come ha ben intuito la Commissione speciale, costituita lo scorso gennaio dal presidente dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite e presieduta dal premio Nobel Joseph Stiglitz.
Il G8 rappresenta solo il 13% della popolazione mondiale e non può decidere per tutti i popoli del pianeta. Bisogna cambiare metodo, per questo la Commissione fa riferimento al G192, vale a dire a tutti i paesi membri dell’Onu: solo una proposta di riforma allargata e condivisa, infatti, può produrre un cambiamento reale e profondo.

La Commissione ha un programma di lavoro serrato che prevede il confronto con il G20 e il G8, l’interlocuzione con le principali istituzioni inteazionali, il dialogo con il settore privato e la consultazione della società civile.
Si stanno analizzando quattro grandi filoni:  regole finanziarie, questioni multilaterali, questioni macroeconomiche e riforma dell’architettura finanziaria globale, al fine di sottoporre una proposta di riforma all’high-level conference che si terrà al palazzo di vetro dall’1 al 4 giugno.
Lo scopo di questo processo – secondo il documento iniziale – è quello di «riportare la finanza alla sua funzione originaria per sostenere l’economia reale e gestire i rischi in modo più equo; modificare i sistemi e le strutture di regolazione verso meno speculazione e maggiore stabilità, sostenere con la finanza gli obiettivi dell’occupazione dignitosa e dell’economia verde».
Anche Banca Etica ha preso parte alla consultazione della società civile, a cui hanno partecipato circa cento grandi reti e organizzazioni inteazionali.
Il documento conclusivo di tale consultazione contiene, per così dire, le ricette della società civile per uscire dalla crisi; molte sono le questioni sollevate e altrettante le proposte avanzate: dall’abolizione del sistema bancario ombra, al divieto di utilizzare i derivati per beni vitali come il cibo e l’energia, dalla canalizzazione delle rimesse degli immigrati  per progetti sostenibili all’introduzione di tasse globali per finanziare gli obiettivi del millennio.

I suggerimenti di Banca Etica riguardano, in particolare, l’inclusione nella valutazione del rischio degli aspetti sociali ed ambientali (come fa la banca con il proprio modello di rating), prevedere negli accordi di Basilea un regime specifico per le imprese sociali e le cornoperative, ridurre la portata del segreto bancario, sostenere con una normativa adatta il microcredito e la microfinanza.
Non possiamo prevedere l’esito del processo in corso: navighiamo a vista in un mare in tempesta, ma l’incontro del G20 a Londra sembra andare nella giusta direzione:  maggiori controlli sui mercati finanziari, un limite ai paradisi fiscali, investimenti straordinari non solo per soccorrere le banche, ma per salvare i lavoratori e i cittadini più deboli. La stessa idea di un governo pubblico dell’economia, è rivoluzionaria dopo venticinque anni di liberismo selvaggio. 
Speriamo che il G8 che si terrà in Italia il prossimo luglio non faccia marcia indietro.

Di Sabina Siniscalchi

Sabina Siniscalchi




Consumare o essere?

Neoliberismo e pensiero unico / Riflessioni

Il pensiero unico, propagandato dai media, ha magnificato il sistema neoliberista («la follia spacciata per virtù») ed affossato ogni alternativa. Un sistema ingiusto e distruttivo, fondato sul libero mercato
e sul consumo privato, oggi chiede aiuto allo stato. E lo ottiene…

Abbiamo incontrato un economista e un operaio, due persone molto diverse per estrazione sociale, professione e percorso esistenziale.
Quello con Domingo Cavallo (vedi articolo) è stato un incontro con una persona di vasta cultura e preparazione, un fedelissimo dell’economia neoliberista, cioè di un’economia in cui domina il mercato con le sue leggi della domanda e dell’offerta e in cui lo stato deve limitarsi a svolgere poche e definite funzioni, senza interferire con la libera iniziativa dell’individuo. Marcelo Ruarte (vedi articolo), l’altra persona incontrata, è l’esatto contrario: un lavoratore, che ha lottato contro questo sistema neoliberista che, prima della sua ribellione, già lo aveva destinato alla disoccupazione o comunque ad una esistenza ai margini.

Partendo dalle loro risposte e dalle loro esperienze personali abbiamo cercato di offrire spunti di riflessione sul modello di economia e società che è in crisi profonda. E lo è ben da prima dello scoppio della bolla finanziaria, anche se fino a ieri la follia «era spacciata per virtù».
«Un banchiere è uno che vi presta l’ombrello quando c’è il sole e lo rivuole indietro appena incomincia a piovere». Parafrasando questa lapidaria ma azzeccatissima definizione di Mark Twain, avremmo potuto dire che il libero mercato e i suoi corollari (dogmi di fede, sarebbe più corretto dire) sono perfetti finché c’è espansione economica, mentre non vanno più bene quando c’è recessione. Ma la perifrasi non va bene. Perché la globalizzazione neoliberista in realtà ha funzionato soltanto per una piccola parte dell’umanità, checché ne dicano i commentatori dei giornali mainstream. 
«Nel capitalismo – ha scritto Frei Betto nell’Agenda Latinoamericana (1) -, l’appropriazione individuale, familiare e/o corporativa della ricchezza è un diritto protetto dalla legge. E l’aritmetica e il buon senso insegnano che quando uno si appropria, molti sono espropriati. L’opulenza di pochi dipende dalla povertà di molti. La storia della ricchezza nel capitalismo è una sequenza di guerre, oppressioni colonialiste, saccheggi, furti, invasioni, annessioni, speculazioni».
La crisi globale attuale non è una normale fase del ciclo economico (boom, stagnazione, recessione, ripresa). Non è uno squilibrio passeggero, ma strutturale (2).
«Il fondamentalismo del credo mercantile – ha scritto Paolo Cacciari – porta all’integralismo: non solo ogni oggetto, ma anche ogni creatura della Terra e ogni singolo processo vitale deve avere un padrone, deve essere asservito al processo produttivo, altrimenti il processo produttivo si inceppa» (3).
«Il nostro modello di sviluppo – scrivono Armaroli e Balzani – è fondato sulla circolarità forzata produzione-consumo: si producono merci per soddisfare bisogni, ma si producono anche bisogni per garantire la continuità della produzione delle merci. Queste devono essere rapidamente consumate per essere sostituite» (4).
Ora è tornato di moda lo stato, reclamato a gran voce. «Negli ultimi trent’anni – ha sintetizzato benissimo il sociologo portoghese Boaventura de Sousa Santos (5) -, si è consolidato il consenso attorno all’idea che lo stato è il problema e il mercato la soluzione; che l’attività economica è tanto più efficiente quanto più priva di regole; che i mercati globali sono sempre preferibili al protezionismo; che nazionalizzare è anatema, mentre privatizzare e liberalizzare è la norma. Intrigante è la facilità con cui (…) si passa da un’idea ad un’altra totalmente opposta. Negli ultimi mesi stiamo assistendo ad una di queste trasformazioni. All’improvviso lo stato è diventato la soluzione e il mercato il problema». In verità, una delle regole auree di questo capitalismo senza etica è sempre stata quella di «socializzare le perdite» (dopo aver incamerato i profitti – magari nascondendoli in qualche paradiso fiscale -, a danno dei lavoratori, dell’ambiente e della collettività).

Il dottor Domingo Felipe Cavallo e Marcelo Ruarte (e i lavoratori del Bauen) sono la personificazione di due modi opposti di guardare all’economia. Il primo vede nel sistema neoliberista l’unico dei modelli possibili; il secondo – come tanti – ha provato sulla propria pelle l’iniquità e la crudeltà dello stesso. Si è ribellato e ha tentato di percorrere nuove strade. Strade diverse che, dopo essere state a lungo demonizzate e ridicolizzate, l’attuale crisi globale potrebbe anche rivalutare.
«Viviamo in un sistema – scrive il Centro Nuovo modello di sviluppo -, che osanna la ricchezza come scopo di vita. A livello individuale le parole d’ordine sono carriera, eleganza, lusso. A livello di sistema produttivo l’imperativo è crescere, crescere, crescere. Contro ogni logica continuiamo a voler produrre di più e consumare di più. È la follia spacciata per virtù» (6).
L’attuale momento storico offre l’opportunità unica per ripensare il sistema e per operare una scelta di campo tra consumare o essere. Pur nella consapevolezza che il pensiero unico (secondo il quale «non c’è alternativa»), veicolato dalla maggior parte dei mass-media (7), è lungi dall’essere defunto.

Paolo Moiola


Note:
(1)  L’Agenda Latinoamericana 2009 di José Maria Vigil e Pedro Casaldáliga, vescovo emerito di São Félix do Araguaia (Brasile), è uscita con un titolo che fa storcere il naso (eufemismo) alle persone più tradizionaliste (o meno progressiste): Verso un socialismo nuovo. L’utopia continua.
(2)  Tonino Pea, A recessione estrema, rimedi radicali, settimanale Carta, 3 aprile 2009.
(3)   Paolo Cacciari, Pensare la decrescita. Sostenibilità ed equità, Edizioni Intra Moenia 2006, pagina 62.
(4)  Nicola Armaroli-Vincenzo Balzani, Energia per l’astronave Terra, Zanichelli 2008, pagina 6.
(5)  Riportato in Adista n. 44 del 25 aprile 2009.
(6)  Centro Nuovo modello di sviluppo, Guida al consumo critico, Emi, Bologna 2008.
(7)  C’è qualcuno che non si è mai unito alla vasta platea dei cantori del pensiero unico neoliberista e che oggi potrebbe farsi vanto delle proprie posizioni. Due nomi su tutti, uno italiano e l’altro straniero, con i loro ultimi lavori: Luciano Gallino, Con i soldi degli altri, Einaudi 2009; Ronald Dore, Finanza pigliatutto, Il Mulino 2009.

Paolo Moiola




Il sistema è sbagliato: meno mercato, più solidarietà

Neoliberismo e pensiero unico
Buenos Aires 2 / Incontro con i lavoratori dell’Hotel Bauen

Negli anni Novanta e successivamente allo scoppio della crisi, sotto lo sguardo del mondo finanziario internazionale (prima vestale, poi arpia), centinaia
di fabbriche argentine chiusero i battenti, buttando sulla strada migliaia
di persone con le rispettive famiglie.  Molte non si ripresero più, altre cercarono occupazioni diverse, altre ancora attesero tempi migliori. Una importante minoranza si ribellò al sistema e rimise in attività le imprese abbandonate dai proprietari. Nacque allora il fenomeno delle «fabbriche recuperate».
L’Hotel Bauen ed i suoi lavoratori sono protagonisti di una di quelle storie…

Buenos Aires. A poche centinaia di metri dal Congresso, affacciato sulla centrale Avenida Callao, sorge un palazzo di venti piani, tutto vetro e metallo verde scuro.  Quel palazzo ospita l’Hotel Bauen.
Entriamo in una hall spaziosa, elegante senza essere sfarzosa. Sulla parete che separa il bancone della reception dalla caffetteria è appesa una targa, molto sobria, che ricorda una tappa fondamentale nella storia recente di questo hotel. Leggiamo: «Empresa recuperada por sus trabajadores, 20 de marzo de 2003». Insomma, l’Hotel Bauen è un’impresa chiusa dai proprietari e riaperta dai lavoratori licenziati. Un avvenimento inconsueto nel mondo, ma abbastanza diffuso nell’Argentina post-2001.
Sotto la targa storica sta un quadro che raccoglie poesie di Juan Gelman, poeta e giornalista nato a Buenos Aires. Le liriche di Gelman sono una scelta azzeccata, non soltanto per la loro intrinseca bellezza, ma anche perché l’autore è stato una vittima della dittatura militare.
L’Hotel Bauen fu costruito sotto gli auspici di quel regime. Correva l’anno 1978 e la giunta militare argentina aveva organizzato i Campionati mondiali di calcio, come vetrina per legittimarsi agli occhi (colpevolmente distratti) del mondo. Un impresario vicino ai militari, Marcelo Iurcovich, approfittò delle proprie amicizie politiche e del momento favorevole per ottenere un prestito (mai più restituito) da una banca statale (Banco nacional de desarrollo, Banade) con il quale costruire l’hotel. Questo assunse il nome di Bauen, dall’acronimo della impresa del signor Iurcovich (Buenos Aires Una Empresa Nacional, Bauen). 
Venduto ad un gruppo cileno, a fine dicembre 2001, nel pieno della crisi economica argentina, il Bauen chiuse per fallimento. Ma qualcuno degli oltre 100 lavoratori gettati sulla strada non si arrese…

Come si lavora senza…
padroni
Marcelo Ruarte, un uomo distinto e con la barba grigia tenuta a pizzetto, è uno di loro. Ci accoglie in una stanza luminosa tappezzata di manifesti. Alcuni ricordano momenti della storia del Bauen e di altre imprese recuperate; altri ritraggono personaggi del presente (Hugo Chávez, Evo Morales, Fidel Castro) e del passato (Che Guevara).

Marcelo, all’entrata abbiamo letto una targa che celebra la nascita del nuovo Bauen. Ma l’inizio è stato un altro…
«Il Bauen fu propiziato dalla dittatura durante i mondiali di calcio. La manifestazione sportiva faceva parte di una strategia dei militari per far dimenticare la repressione e la tortura».

La storia di questo hotel ha avuto parecchi momenti drammatici…
«Quando il 28 dicembre del 2001 l’hotel chiuse: erano 21 anni che lavoravo nel Bauen. Il 21 marzo del 2003 occupammo l’hotel con l’aiuto del “Movimento delle fabbriche recuperate”, il cui slogan era “occupare, resistere, produrre”. Fu molto dura. Nessuno di noi era un militante. Eravamo lavoratori imprigionati da meccanismi che venivano da fuori: il neoliberismo, la globalizzazione. Una politica selvaggia e crudele che i nostri governanti adottarono a scatola chiusa».

Il Bauen ha quasi 200 camere e 500 posti letto… Riuscite ad essere competitivi sul mercato?
«A Buenos Aires ci sono le grandi catene alberghiere che hanno un altro progetto e un altro target. Noi dobbiamo fare leva sulla nostra storia di impresa recuperata».

In Argentina, le imprese recuperate sono oltre 200. Possiamo parlare di  una storia di successo?
«A noi va bene. Ma non è così per tutte le imprese recuperate. Il compagno che deve produrre un bene deve pagare le materie prime e non è facile se non ottieni credito sul mercato capitalista.
Per questo noi cerchiamo di creare un’altra economia: un’economia solidale, che rispetti la dignità delle persone. Ma non si tratta di un’economia per poveri, come qualcuno pensa».
Nel Bauen oggi lavorano 150 persone, riunite in cornoperativa di lavoro. È una impresa senza padroni, come dite orgogliosamente. I rapporti tra voi lavoratori come sono?
    «Non tutto funziona. Quando ci sono le assemblee, ci sono compagni che dicono: “io sono padrone di questo”. Inoltre, molti, nella quotidianità, non fanno il loro lavoro e il collega deve lavorare anche per lui.
Perché accade questo? È un problema di cultura del lavoro che si è instillata in molti: secondo costoro, niente si poteva fare senza padrone. Invece, il Bauen è la dimostrazione che si può fare e che si può fare addirittura senza capitale, se c’è la volontà. In questi tempi (e non sto parlando di Argentina) non c’è altro modo per riuscire».

Le imprese recuperate sono nate all’epoca della crisi argentina. Con le due presidenze Kirchner, prima Nestor ed ora Cristina, le cose sono migliorate?
«Le imprese recuperate nascono dalla caduta di De la Rúa, quando il presidente scappò in elicottero. Il governo di Kirchner non è il governo di Menem o il governo della dittatura, ma la legge di espropriazione non è ancora stata approvata (ha passato una sola commissione su 3).  Però noi siamo ancora qui e abbiamo dimostrato di saper generare occupazione e capitale».

Oggi il Bauen è un punto di riferimento anche per molti altri lavoratori, giusto?
«Sì, cerchiamo di aiutare. Per esempio, quando arriva un compagno a dire:  “non ci stanno pagando”, “vogliono portare via i mezzi di produzione”…, noi gli suggeriamo di… “aggrapparsi ai macchinari”. Perché spesso occorre una soluzione immediata e concreta. Non la burocrazia dei politici o la complicità dei sindacalisti».

Quando si parla di occupazione e di espropri, si corre il rischio di incappare nei rigori della legge, che salvaguarda sempre il diritto di proprietà privata. È stato così anche nel vostro caso?
«Infatti, noi non siamo titolari dell’immobile: davanti alla legge siamo illegali. Per questo chiediamo allo stato che diventi proprietario di questo edificio e ci permetta di continuare con i nostri progetti. Abbiamo investito oltre un milione di dollari, ma nelle assemblee qualcuno sempre domanda: perché continuiamo ad investire in un luogo che non è nostro? Adesso, per esempio, stiamo ristrutturando la piscina e l’esterno che, essendo di vetro e metallo, si è ossidato».

Nel luglio del 2007, il tribunale vi ha dato torto. Come spiega questa sconfitta?
«La giudice commerciale Paula Hualde che ha deciso sul Bauen ha fatto esclusivo riferimento alla proprietà privata: secondo la legge, la Mercoteles è la proprietaria dell’immobile. Alla giudice non importa che gli Iurcovich, proprietari della Mercoteles, costruirono l’hotel con i soldi dello stato, con la corruzione, l’amoralità.
Ricordo che, quando eravamo seduti attorno a questo tavolo, lei parlava del diritto alla proprietà privata previsto dalla Costituzione argentina (articolo 17) e noi  rispondavamo con il diritto al lavoro previsto dalla stessa Costituzione (articolo 14)».
A pochi passi da qui, su Avenida Corrientes, c’è il Bauen Suite Hotel appartenente alla Mercoteles della famiglia Iurcovich. Quella del Bauen sembra una telenovela con la famiglia Iurcovich  sempre protagonista…
«Il maggiore creditore del Bauen è lo stato, che prestò il denaro alla famiglia Iurcovich per costruirlo.  Quel credito iniziale, ricevuto dal Banco Banade, di proprietà statale, non fu mai restituito.
Una storia di complicità, corruzione, negligenza. Basti pensare che sono passati 30 anni dalla nascita del Bauen, 30 anni di clandestinità, perché non è mai stato abilitato come hotel!».

Oggi tutto il mondo si dibatte in una crisi economica che sembra una crisi strutturale e non ciclica come nel passato, che pensa al riguardo?
«Penso che la nostra debba essere una lotta per un sistema diverso, distinto da quella capitalista, trasparente, umano. Per questo noi cerchiamo di creare un’altra economia: un’economia solidale, che rispetti la dignità delle persone. Ma non si tratta di un’economia per poveri, come qualcuno pensa.
Il capitalismo non aveva altro destino se non quello che sta capitando».

E gli Stati Uniti?
«Spero che il presidente Obama abbia la forza e possibilità per agire diversamente dal suo predecessore».

In Argentina, la disoccupazione e la sottoccupazione rimangono alte, ma durante la crisi del 2001 si respirava aria peggiore, no?
«Ma Tucuman e Salta stanno combattendo contro la fame. La fame! E non occorre andare mille chilometri a nord. Basta muoversi qui, in periferia. Ci sono famiglie che sopravvivono nella precarietà. Con i figli che non possono avere un’assistenza medica adeguata perché gli ospedali pubblici sono al collasso, senza farmaci, senza strumenti. E lo stesso dicasi per l’educazione».
Dunque, voi siete fortunati perché almeno avete un lavoro. A casa portate un salario adeguato?
«No, ovviamente non abbiamo un salario sufficiente, ma sono soldi generati dal nostro lavoro, senza padroni. Tutti riceviamo la stessa cifra: circa 400 dollari al mese. Dobbiamo sempre ricordarci che siamo lavoratori e in quanto tali non possiamo sfruttare altri lavoratori. Dobbiamo salvaguardare la nostra origine. Altrimenti non ha ragione di esistere questa lotta.
Me entiendes?». 

Di Paolo Moiola

Storia dell’Hotel Bauen:
diritto di proprietà Vs diritto al lavoro

1978 – In occasione dei Campionati mondiali di calcio, viene costruito un hotel in Avenida Callao a poche centinaia di metri dal Congresso della Repubblica. L’Hotel assume come nome l’acronimo della impresa – B.A.U.E.N. che sta per «Buenos Aires Una Empresa Nacional» -, guidata da Marcelo Iurcovich, un impresario legato alla dittatura militare.

1997-2001 – L’hotel viene acquistato e gestito dal gruppo Solari, di origine cilena.

2001, 28 dicembre – Il Bauen viene chiuso per fallimento. Oltre 100 lavoratori rimangono senza lavoro.

2003, 21 marzo – Con l’aiuto del «Movimento nazionale delle imprese recuperate» – Movimiento nacional de empresas recuperadas, Mner -, un gruppo di lavoratori del Bauen occupa l’hotel ed inizia il suo recupero.

2004, giugno – Il Bauen viene riaperto al pubblico ed inizia l’attività.

2007, 20 luglio – La giudice commerciale Paula Hualde stabilisce che l’hotel deve essere sgombrato dalla cornoperativa di lavoratori che lo gestisce e deve passare alla società Mercoteles della famiglia Iurcovich.

2008-2009 – Il Bauen continua ad operare sotto la cornoperativa dei lavoratori, mentre la deputata Victoria Donda si è fatta promotrice di una Ley de expropiación (Legge di espropriazione), che affidi definitivamente l’hotel a chi lo ha salvato e dal 2003 lo gestisce.

Fonti: Diego Ruarte, responsabile Prensa trabajadores del Bauen; Elisabet Contrera, Negocio cinco estrellas, pubblicato in 2 puntate – 21 agosto e 22 agosto 2007 – sul quotidiano argentino Página 12.
Sito: www.bauenhotel.com.ar

Paolo Moiola

Paolo Moiola




Il sistema è giusto: mercato sì, stato no

Neoliberismo e pensiero unico
Buenos Aires 1 / Incontro con l’ex ministro Domingo Cavallo

A Buenos Aires, abbiamo incontrato Domingo Felipe Cavallo, economista di scuola neoliberista, plurilaureato, per tre volte ministro dell’Argentina. In questa intervista, Cavallo difende le scelte fatte nel suo passato di ministro, attacca i politici di oggi e conferma la validità delle tesi economiche neoliberiste, che mettono il libero mercato al centro di tutto. Nelle sue risposte non manca neppure qualche riferimento
ai bonos dello stato argentino, tristemente famosi anche tra migliaia
di risparmiatori italiani…

Vuoi ascoltare il reportage?
Un resoconto audio di questo incontro è disponibile sul sito
www.rivistamissioniconsolata.it. sezione “Ascolta”.
La trasmissione fa parte del programma radiofonico «Cartoline dall’Altra America»,
trasmesso dall’emittente Radio Flash di Torino e curato da Paolo Moiola.


Buenos Aires. Sui giornali si parla dell’ultimo libro di Domingo Felipe Cavallo. Proprio lui: l’ex ministro dell’economia divenuto famoso, nel bene e nel male, prima (1991) per la legge che istituiva la parità tra la valuta argentina e il dollaro statunitense e poi (2001) per aver bloccato nelle banche i soldi di tutta una nazione. Scriviamo al suo blog per chiedere un incontro. Qualche ora dopo siamo contattati dal solerte ufficio stampa che ci invita per il tardo pomeriggio nella sua casa alla Recoleta, uno dei quartieri più eleganti di Buenos Aires.
L’indirizzo al quale dobbiamo presentarci corrisponde a quello di una elegante villa.
Ci apre e ci dà il benvenuto un collaboratore del padrone di casa. Dopo pochi minuti veniamo accompagnati al primo piano. Entriamo in uno studio alle cui pareti fanno bella mostra di sé i diplomi di laurea di svariate università del mondo, tra cui ben 3 italiane: Bologna, Genova e Torino.
«Sono quasi tutte lauree honoris causa – ci spiega il nostro ospite appena entrato nello studio -. Quelle guadagnate sul campo – ce le indica con un cenno della mano – sono appese lì: Università di Harvard e Università di Cordoba».
Di ascendenze piemontesi, Domingo Felipe Cavallo è un personaggio che ha segnato – e non c’è timore di smentita al riguardo – la storia recente dell’Argentina e sul cui operato ancora oggi il dibattito è accesissimo, anche se i giudizi negativi o molto negativi sembrerebbero prevalere.
Faccia sveglia, voce decisa e squillante, modi cortesi, l’ex ministro ci fa sedere davanti alla sua scrivania, carica di libri e di qualche oggetto ricordo, come una statuetta del «toro rampante» simbolo della città di Torino.

Da Carlos Menem
a Feando De la Rúa

Dottor Cavallo, lei è un professore di economia, ma è diventato famoso come politico. Come preferisce essere chiamato?
«Sono prima di tutto un economista, attivo in ambito accademico».

La sua fama è però dovuta ai suoi periodi come ministro di questo paese. Qual è il suo consuntivo?
«Con De la Rúa non andò bene, soprattutto perché, all’epoca, ci fu molta gente che mi incolpò di tutti i mali dell’Argentina.
Però, con Menem – prima come ministro degli esteri e poi come ministro dell’economia – ho favorito un cambio che era assolutamente necessario per l’Argentina.
Con Menem fu un periodo di grandi riforme, in politica estera e in materia di organizzazione del sistema economico argentino. Con De la Rúa fu un periodo di crisi, dovuto a circostanze inteazionali sfavorevoli e con il paese che aveva accumulato una serie di problemi, che condizionarono molto il modo di affrontare la situazione. Inoltre, con la coalizione De la Rúa la mia posizione era molto debole, mentre con Menem fu il contrario, perché la sua coalizione di centrodestra appoggiava compattamente le riforme che si volevano introdurre.
Visto in prospettiva storica, il mio lavoro ha prodotto buoni risultati».

Lei parla con orgoglio del suo (lungo) periodo come ministro dell’economia durante la presidenza di Carlos Menem. Quali considera i suoi successi?
«È abbastanza semplice. Con Menem passammo da un’economia chiusa al mondo ad un’economia aperta con investimenti, commercio, buone relazioni inteazionali. Prima avevamo problemi non soltanto con la Gran Bretagna (per le Malvinas), ma anche con il Brasile, il Paraguay, la Bolivia, il Cile. Risolvemmo tutti questi conflitti. L’Argentina si integrò al mondo e questo fu il primo grande cambio.
Il secondo fu l’eliminazione dell’inflazione che era un problema cronico del paese e ultimamente si era trasformata in iperinflazione. Fino al 5.000 per cento all’anno! Dal 1991 in avanti inaugurammo un periodo di stabilità, simile alla stabilità europea e nordamericana, che durò 11 anni, precisamente fino al 2001.
Questi successi economici furono possibili anche perché avevo preparato il terreno durante l’anno e mezzo come ministro degli esteri».

Oggi un dollaro Usa vale oltre 3,5 pesos. All’epoca di Menem, la misura più famosa fu la parità cambiaria tra dollaro Usa e peso argentino. È ancora convinto della giustezza di quella decisione?
«Naturalmente sono convinto della sua giustezza! Ma è improprio spiegarla con l’equivalenza – 1 a 1 -del peso con il dollaro. La convertibilità consisteva nel fatto che gli argentini potevano convertire liberamente il peso in altre monete e utilizzare liberamente nei contratti e nelle transazioni la moneta che volevano. La parità del peso con il dollaro durò 11 anni, ma doveva terminare prima.  Infatti, quando nel 2001  entrai nel governo De la Rúa cercai di formalizzare un paniere monetario in cui entrasse anche l’euro. Ma ormai era tardi».

È abbastanza naturale chiedersi come si può avere una moneta nazionale di valore identico al dollaro (o altra valuta) quando un’economia è molto più debole dell’altra…
«Questo non ha niente a che vedere, perché la moneta è una convenzione. Non c’entra nulla con i livelli di produttività di un paese. Comunque, la convertibilità non avrebbe dovuto essere abbandonata.   Avendolo fatto, oggi l’Argentina si ritrova con un’inflazione annuale che supera il 20 per cento».

L’Istituto nazionale di statistica e censo (Indec) parla di un’inflazione ben inferiore…
 «È una delle tante barbarie commesse da questo governo. Ha distrutto quel prestigioso istituto, mettendolo in mano a funzionari che invece di fare statistiche corrette mentono per nascondere l’inflazione».

La crisi delle banche di questi mesi fa ricordare la crisi argentina del 2001, quando lei introdusse una misura altamente impopolare conosciuta come corralito. Ci furono manifestazioni di piazza e gli istituti di credito erano sotto assedio…
«Il corralito fu una misura necessaria per frenare la corsa al ritiro dei depositi bancari. Precisiamo una cosa, però: la gente non poteva ritirare il contante, ma poteva disporre dei propri risparmi con altri strumenti, come carte di debito, assegni, trasferimenti bancari. Sarebbe stato peggio se si fossero chiuse le banche. Poi, Duhalde e i suoi fecero cadere il governo di De la Rúa e instaurarono il corralón con l’obiettivo di appropriarsi del risparmio della gente, per alleggerire il debito pubblico e soprattutto quello privato dei grandi gruppi economici».

Può spiegarci in parole semplici in cosa si tradusse praticamente il corralón introdotto dal governo di Duhalde?
«Con la pesificazione dei depositi e la svalutazione del peso rubarono ai risparmiatori per avvantaggiare i grandi gruppi industriali, tra cui i principali gruppi editoriali del paese, che per questo tornaconto si prestarono all’operazione del governo, confondendo l’opinione pubblica e demonizzando il sottoscritto». 

Lei si riferisce al gruppo che fa capo al Clarín (il più grande quotidiano argentino, ndr)?
«Preferisco non fare nomi».

Quelle decisioni influirono anche sui bonos (bonds, in inglese, ndr) dello stato che erano stati venduti in tutto il mondo, in primis in Italia?
«Certo. Rubarono non soltanto agli argentini, ma a tutti quegli stranieri  che avevano confidato nell’Argentina. Insomma, agli italiani o agli altri stranieri che avevano investito i loro risparmi in bonos argentini decisero di restituire soltanto il 30 per cento del valore. Queste ragioni economiche furono il vero motivo del golpe istituzionale del dicembre 2001».

È difficile capire come mai un paese tanto ricco come l’Argentina abbia conosciuto (e conosca) la povertà…
«Inizialmente perché, dal 1940 agli anni Novanta, l’Argentina si isolò dal mondo. C’erano bassi salari e il loro valore era deteriorato dall’inflazione, che è il metodo ideale per fabbricare poveri. Con le riforme che noi facemmo nella decade del Novanta il panorama cambiò molto e in positivo.
Dal 1998 la povertà aumentò di nuovo, raggiungendo il massimo nel 2002, dopo la svalutazione di Duhalde. Poi si abbassò per fattori inteazionali, come il boom dei prezzi della soia, di cui l’Argentina è una grande esportatrice. Il problema è che il governo cominciò a distribuire i maggiori introiti non per investimenti produttivi o per occupare la gente, ma per motivi patealistici. Nestor Kirchner guadagnò in popolarità e riuscì anche a far eleggere la moglie come presidenta degli argentini. Adesso però la situazione è di nuovo grave, perché abbiamo recessione con inflazione».

Lei è conosciuto come uno strenuo neoliberista. Volendo essere sintetici, possiamo dire che le parole d’ordine del neoliberismo sono: molto mercato e poco stato?
«Guardi, questi non sono termini adeguati. Le economie possono essere di due tipi: o economie aperte (come sono quasi tutte le economie del mondo, Cina inclusa) o economie dove interviene lo stato. Per le prime non si può parlare di neoliberismo o liberismo, si tratta di economie di mercato, aperte, competitive, integrate al mondo, che cercano la stabilità dei prezzi, perché considerano che inflazione e deflazione siano eventi negativi per il funzionamento dell’economia.
Poi ci sono economie in cui lo stato – in maniera arbitraria ed imprevedibile – senza stabilire regole del gioco, ma attraverso decisioni autoritarie, tende a prendere la maggior parte delle decisioni economiche. Un caso estremo, storicamente finito, è stato quello del comunismo della Russia e della Cina all’epoca di Mao.
Sfortunatamente hanno adottato questo sistema dell’economia di stato molti paesi arretrati del mondo, tra cui molti latinoamericani: Venezuela, Bolivia, Ecuador, Nicaragua, Cuba (che è stata la prima). E purtroppo anche l’Argentina, che va nella direzione dello statalismo e dell’economia chiusa, invece di seguire l’esempio di Cile, Brasile, Perù, Uruguay e della maggior parte dei paesi centroamericani.
Riassumendo senza andare troppo lontani: in America Latina ci sono due classi di paesi. Quelli che avanzano verso il futuro e  quelli che stanno tornando al passato con il protezionismo e l’isolamento».

Lei è molto critico verso il suo paese e in particolare verso la gestione dei Kirchner. Perché?
«In primis, è compito dello stato fissare le regole del gioco dell’economia; quindi, occorre creare un regime monetario e farlo funzionare. In Argentina, oggi non si sa come si determina il valore della moneta e nessuno può trattare liberamente valute straniere (se non nei limiti fissati dal Banco centrale). Nessuno poi ha fiducia nella moneta nazionale, perché abbiamo un’inflazione annua del 20 per cento. In tutto questo lo stato argentino è assente. Come è assente nella difesa del diritto di proprietà. Così è stato, nel 2002,  per i risparmiatori argentini e per i detentori stranieri, in primis italiani, dei bonos, i titoli pubblici. Lo stato è dunque assente in una questione fondamentale.
 Al contrario, lo stato si intromette nelle decisioni di investimento delle imprese private, imponendo tasse distorsive ad un soggetto per favorire un altro. Questo tipo di statismo crea occasioni di corruzione e di privilegio. Purtroppo, è la filosofia che si sta imponendo in Argentina».
   
Secondo lei, cosa deve fare uno stato?
«Lo stato deve finanziare la scuola primaria e secondaria e buona parte dell’università. Deve provvedere un’assicurazione sanitaria a tutti i cittadini. Deve organizzare un sistema pensionistico e contro la disoccupazione. E soprattutto deve offrire ai cittadini un sistema di sicurezza, perché uno stato dove c’è crimine, si ruba e si uccide, dove non hai sicurezza fisica, è uno stato che non esiste.
Queste sono le funzioni su cui uno stato dovrebbe concentrarsi. Quando invece vuole sostituirsi al soggetto privato nelle decisioni economiche, sbaglia».
Ai tempi di Carlos Menem, in questo paese si privatizzò di tutto. Le privatizzazioni sono uno strumento adeguato?
«Dipende da ciò che si privatizza. Responsabilità dello stato è di finanziare un sistema di salute. Poi le prestazioni sanitarie possono essere foite dal pubblico o dai privati. Se lo stato proibisse di avere ospedali privati, commetterebbe un gravissimo errore, perché in genere questi offrono livelli di prestazioni migliori rispetto agli ospedali pubblici. La competizione tra pubblico e privato è importante. L’importante è che la popolazione abbia una copertura sanitaria.
Identicamente per l’istruzione: ci sono scuole pubbliche e scuole private. Quella pubblica è finanziata dallo stato, mentre quella privata può avere dei contributi se tiene basse le rette d’ingresso».

In Argentina, esiste una tradizione pubblica sia per il sistema educativo che per il sistema sanitario. Peccato che per scuole ed ospedali manchino sempre i fondi…
«Perché si stanno spendendo 10 mila milioni di dollari all’anno per sussidiare il trasporto urbano, l’energia, una marea di attività, indipendentemente dal costo di produzione. Sottraendo risorse finanziarie alla salute, all’educazione, alla sicurezza. C’è un cattivo utilizzo delle risorse pubbliche, cosa che non accadde nel decennio degli anni Novanta, quando lo stato si concentrò sui propri compiti fondamentali.
All’epoca, chi fece investimenti nei trasporti, nell’elettricità, nella comunicazione, nel petrolio? Il settore privato. Per questo vennero molti investitori dall’estero.
Dal 2002 non ci sono più stati investimenti e lo stato ha dovuto iniziare a costruire centrali elettriche, a sovvenzionare le perforazioni per il gas. Intervenendo sempre in maniera inefficiente ed ingiusta in settori che dovrebbero essere di competenza del mercato e dell’economia privata. Se non fosse intervenuto, oggi avrebbe molte più risorse da destinare alla salute, alla sicurezza, alla giustizia».

Dottor Cavallo, dal settembre 2008 paesi ultraliberisti come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna stanno intervenendo massicciamente nell’economia. Questo è un dato di fatto innegabile…
«Sì, sta avvenendo, ma non ha niente a che vedere con un cambio di organizzazione economica, di sistema. Semplicemente, quando c’è una recessione è ovvio che lo stato debba tentare di aumentare la domanda effettiva attraverso l’applicazione di politiche fiscali e monetarie».

Se non si tratta di una revisione de facto del capitalismo, si tratta però di politiche  keynesiane, fino a poco tempo fa neglette dalla maggioranza degli economisti e dei governi…
«Quando le politiche keynesiane sono buone? Lo sono quando, in momenti di auge, di boom, sono ristrettive mentre sono espansive in momenti di recessione. Sono politiche compensatorie rispetto al ciclo economico.
Sfortunatamente quelli che si fanno chiamare keynesiani (e che io chiamo invece statalisti-populisti) applicano in periodi di boom politiche espansive, accumulando debiti invece che avanzi di bilancio con quelle fiscali, e producendo inflazione con quelle monetarie. Quando arriva la recessione, ovvero il momento in cui dovrebbero applicare politiche espansive, non le possono applicare, perché non hanno più credito e non possono creare moneta per non alimentare altra inflazione.
Oggi nel mondo – in Europa, Stati Uniti, Giappone, Cina, Brasile, Messico, Cile – è ragionevole che lo stato finanzi aumenti della spesa pubblica, diminuzione delle imposte e allentamento delle politiche monetarie. Ma non da parte di quei paesi che lo hanno fatto in periodi di boom, quando le politiche avrebbero dovuto essere di segno opposto. Ebbene, oggi questi paesi non possono affrontare la recessione, perché non hanno credito e hanno troppa inflazione. Ad esempio, Argentina e Venezuela, per rimanere qui in America Latina».

Dottor Cavallo, non ci ha spiegato le cause che, secondo lei, hanno prodotto questa crisi…
«Per le stesse ragioni per cui si sono prodotte le crisi finanziarie. Per un eccesso di ottimismo, soprattutto da parte dei banchieri.
Il mondo lo supererà in uno o due anni. Per l’Argentina sarà più lungo recuperare per colpa dell’attuale governo».

Nessun potere pubblico ha controllato le banche, il sistema finanziario, gli intermediari, gli speculatori…
«Sì, è mancata una regolazione.  Si doveva chiedere alle banche e agli intermediari finanziari di essere molto più conservatori di quanto non siano stati, pretendendo dai clienti maggiori garanzie, tassi più alti, periodi di credito meno lunghi.  Insomma, essere meno generosi. Però, in epoche di ottimismo generalizzato, i politici non vanno a porre freni alle banche. Al contrario, le spingono. Com’è successo negli Stati Uniti: gli stessi politici che oggi criticano, ieri spingevano il sistema ad offrire più credito e condizioni più favorevoli per comprare case. Insomma, in questo gioco di assegnare responsabilità per la crisi finanziaria, c’è moltissa ipocrisia».

Lei cosa dice ai suoi studenti di economia?
«Che studino. Che guardino alla storia e alla geografia. L’economia non si può studiare come una cosa matematica. È una materia sociale, complessa, in cui occorre guardare all’uomo nel suo contesto storico e geografico».

Corsi, conferenze, libri. Significa che lei non toerà più alla politica attiva?
«No, non vedo alcuna possibilità di tornare alla politica. Almeno per il momento». 

Di Paolo Moiola         

Domingo Cavallo,
ascesa e caduta di un profeta del neoliberismo     

1946, 21 luglio – Nasce a San Francisco, nella provincia di Córdoba.

1967-1977 – Si laurea in economia prima all’Universidad Nacional de Córdoba e successivamente all’Università di Harvard (PhD in Economics), negli Stati Uniti.

1978-1987 – È fondatore e direttore dell’«Instituto de Estudios económicos de la Fundación Mediterránea».

1982 – Viene designato presidente del «Banco Central de la República argentina».

1987 – Alle elezioni viene eletto deputato nazionale per provincia di Córdoba nelle fila peroniste.

1989-1991 – Il presidente Carlos Menem lo nomina ministro degli esteri, incarico che ricopre per circa un anno e mezzo.

1991-1996 – Sono gli anni – quasi 6 – come ministro (superministro) dell’economia del governo Menem.

1991, 27 marzo – Come nuovo ministro dell’economia fa votare la «ley de convertibilidad», in base alla quale si stabilisce un cambio fisso tra il dollaro Usa e la valuta nazionale (prima l’austral, poi il peso, la nuova moneta argentina). Inizia il periodo conosciuto come «el uno a uno». La legge rimane in vigore per oltre 10 anni azzerando l’inflazione ma producendo effetti alla lunga devastanti sul sistema industriale del paese.

1991, ottobre/novembre – Il governo Menem-Cavallo vara un programma di privatizzazioni, deregolazione economica e di flessibilizzazione del lavoro.

1997 –  Crea una propria formazione politica, «Acción por la República», e si candida come deputato, risultando eletto.

1999, novembre –  Si candida alla presidenza, ottenendo 2 milioni di voti e arrivando al terzo posto. Viene nominato presidente Feando De la Rúa.

2001, marzo – Il nuovo presidente Feando de la Rúa lo nomina ministro dell’economia.

30 novembre 2001 – Annuncia il «corralito», misura in base alla quale vengono stabilite severissime restrizioni al prelevamento di denaro dai depositi bancari. La misura produce una ribellione generalizzata, con manifestazioni di piazza («cacerolazos»).

19 dicembre 2001 – Dopo violente proteste di piazza si dimette da ministro. Il giorno dopo si dimette anche il presidente De la Rúa, che fugge ignominiosamente in elicottero dalla Casa Rosada.

2002-ad oggi – Professore visitante in alcune università degli Usa, si dedica alla pubblicazione di libri. E tiene conferenze in giro per il mondo.

FONTI: Domingo Cavallo con Juan Carlos de Pablo, Pasion por crear, Editorial Planeta, Buenos Aires 2001; per altre informazioni legate all’attualità si vada sul blog personale del protagonista: www.cavallo.com.ar

Paolo Moiola

Paolo Moiola




Intrecci di solidarietà

Italia

La storia di un lungo viaggio attraverso i sentirneri di carte bollate e di cavilli burocratici, raccontato da chi, per lunghi anni, è stata una presenza di consolazione nell’Ufficio di Pastorale Migrantes (Upm) di Torino. Un breve racconto a lieto fine, pieno di luci ed ombre, pregiudizi, paura, ma anche tanta tenacia e incrollabile speranza.

Conobbi Sandra nel luglio 2007; era venuta al nostro Centro, incinta di due gemelli, per chiedere un sostegno e un aiuto. Nigeriana, 28 anni di età, conviveva con un connazionale dal quale aveva avuto una bimba riconosciuta da entrambi.
Quando si trovò incinta di due gemelli, il convivente voleva che Sandra abortisse, ma lei rifiutò e lui se ne andò. 
La nuova vita che attendeva, per lei, donna africana, non poteva che essere portatrice di speranza e gioia: «La vita è di Dio e nessuno può toglierla», mi disse. Le sue convinzioni culturali e religiose non le consentivano di abortire. Per questo Sandra, ormai sola, con una bimba di due anni, al quinto mese di gravidanza, si rivolse al Centro Migranti.
Mentre si avvicinava la data del parto, oltre ai problemi della sopravvivenza si aggiunse anche quello dell’abitazione: doveva lasciare l’appartamento perché non poteva più pagare l’affitto!
Cominciammo le ricerche e, finalmente, trovammo per Sandra una sistemazione provvisoria, segnalando immediatamente il caso anche all’«Ufficio stranieri minori» del Comune di Torino che riuscì ad inserirla in una comunità nei dintorni del capoluogo: era il primo ottobre del 2007. Il 25 novembre, nacquero Daniel e David!
La gioia per la nascita dei bimbi fu grande, ma per Sandra i problemi si moltiplicarono: le era scaduto il permesso di soggiorno che aveva ottenuto a Brescia, dove aveva lavorato prima della gravidanza.
Incredibile, ma vero, per uno sbaglio nella compilazione dei moduli, la questura bresciana rifiutò il rinnovo. Si tentò il ricorso, ma l’avvocato non se ne interessò. I ricorsi costano e se non si possono pagare…! Tutto si arenò. Coinvolsi l’Ufficio Diocesano Migrantes di Brescia, che ci aiutò moltissimo, riuscendo a far accettare l’integrazione dei documenti.
Nel maggio del 2008, Sandra ebbe di nuovo tra le mani il sogno di ogni emigrante: il permesso di soggiorno, valido però solo fino a luglio del 2008.
Il rinnovo era condizionato dall’avere un lavoro sicuro, regolarizzato, che dimostrasse che l’interessata aveva un reddito compatibile per il mantenimento suo e dei figli: 10.300 euro all’anno, richiesto dalla legge.
Come poteva, questa donna nigeriana trovare un lavoro in breve tempo con tre bimbi, due dei quali di pochi mesi? Inoltre, di lì a poco avrebbe dovuto lasciare la comunità che la ospitava.
Furono momenti di desolazione per tutti. Dove e come trovare una struttura che accogliesse la famigliola, dal momento che era impossibile per la donna trovare un lavoro a tempo pieno, che rendesse diecimila euro? Dopo molte ricerche trovammo un’Associazione che se ne fece carico.
Ma il calvario di Sandra non era ancora finito. Purtroppo, la soluzione non fu ottimale per la carenza ed inefficienza nella gestione della struttura.
Sorsero altre difficoltà, sì da far pensare, che la cattiva sorte perseguitasse Sandra e i suoi piccoli. Il ritardo nel rilascio del permesso di soggiorno della questura di Brescia, generò un errore anagrafico nei documenti dei gemelli. Nati nel torinese, risultavano residenti in Nigeria, perché la madre è nigeriana e non aveva ancora la residenza a Brescia. Questo disguido impedì a Sandra di inserire i bimbi all’asilo nido municipale e di conseguenza di poter cercare e trovare un lavoro. L’irregolarità della sua situazione civile impediva anche all’assistente sociale di venirle incontro, visto che i quattro non risultavano residenti.
La situazione era veramente drammatica e Sandra era esasperata al punto da decidere di cercare qualcuno che portasse i bambini in Nigeria, presso la sua famiglia di origine, anche se poverissima, affinché lei potesse trovare un lavoro che le consentisse di vivere e di mandare parte dei soldi nel suo paese per il mantenimento dei figli. Cercai, senza sosta, un’altra struttura che potesse accoglierla e aiutarla. La Caritas di Asti rispose all’appello, capì la gravità della situazione e decise di farsene carico, accogliendo Sandra e i figli nella sua struttura: la sostenne e l’aiutò a risolvere i problemi burocratici negli uffici dell’anagrafe e in quelli della questura.
L’Associazione Amici Missioni Consolata di Torino da alcuni anni devolve un’offerta all’Ufficio Pastorale Migranti, per le donne in difficoltà; il mio pensiero corse immediatamente a Sandra, per cui presentai la sua situazione. L’Associazione accolse con entusiasmo e con tanta sensibilità la situazione di questa ragazza e se ne fece carico.
I vari interventi consentirono a Sandra di far fronte alle spese più urgenti per lei e per i bambini. Alcuni amici di Asti, poi, riuscirono a trovarle un lavoro, come badante, presso una famiglia. Anche qui, però, sorse una difficoltà: i datori di lavoro non volevano regolarizzarla. La regolarizzazione per Sandra era fondamentale, era la sola condizione posta dalla questura per poterle rinnovare il permesso di soggiorno.
Un intervento della responsabile della Caritas sbloccò la pratica e si riuscì ad ottenere la legalizzazione lavorativa. Per Sandra iniziò una nuova vita.
La nuova situazione le fece accantonare il progetto di rimpatriare i bambini. Inoltre, comprese che non era più sola, ma aveva una rete di persone, che Sandra chiama «famiglia allargata», che si occupava di lei e dei suoi figli.
La storia di Sandra è simile a quella  di centinaia di donne che si presentano al nostro Centro.
Quando la donna straniera non è guardata come «l’altra» o «la donna che sbaglia», quando c’è sinergia tra il pubblico e il privato e gli interventi di carità e di solidarietà s’intrecciano; quando sorgono persone disposte a dare voce a chi non ce l’ha, allora la speranza si riaccende e si comprende che un mondo diverso è possibile.
Dio, oggi come nei tempi antichi, sente il grido del suo popolo oppresso e sfruttato, se ne prende cura: lo libera, lo guida, lo protegge, lo consola e lo sostiene con la sua Provvidenza. Oggi, come ieri, non interviene da solo ma si affida a noi per continuare a compiere le sue grandi opere nello scorrere del quotidiano.

di Suor Maresa Sabena

Maresa Sabena




Volti, storie e speranze

Italia

Storie brevi, quasi delle istantanee di sofferenza e disperazione di donne in cerca di consolazione.

Mercy, nigeriana, viene portata in Italia a 14 anni e venduta da uno zio a trafficanti di esseri umani; messa sulla strada, viene recuperata dalla polizia ed è accolta in una comunità per minori; perde i contatti con la famiglia che ritrova solo dopo 6 anni, grazie all’interessamento e al lavoro di rete tra le congregazioni religiose. Ritrova la mamma e la famiglia che la credevano morta, sparita nel nulla. Commovente è stato il contatto telefonico tra madre e figlia dove le lacrime hanno dato spazio ad una profonda riconoscenza al Signore che veglia sui suoi figli come una madre.
Joy, 19 anni, primogenita di 8 figli, lascia la famiglia per aiutare i fratellini a frequentare la scuola. Durante il lungo ed estenuante viaggio attraverso il deserto del Sahara è violentata da tante persone dalle quali non può sottrarsi: rimane incinta.
Per sei mesi lavora sulla strada per pagare il grosso debito di 60 mila euro contratto, senza saperlo, con l’organizzazione criminale. Nessuno sa della sua gravidanza, tranne alcune persone di una «unità di strada» che la seguono e la convincono a lasciare la strada. Finalmente, viene accolta in una delle case-famiglia gestite da religiose e accompagnata con amore ad accogliere, se pur faticosamente, il dono della vita, frutto di  violenza e  umiliazione. È stata questa nuova vita che ha dato a questa donna consolazione e gioia. Ricordo il suo commento dopo la nascita della bimba: «Senza il vostro aiuto, non solo ora non ci sarebbe la mia bambina, ma non ci sarei più nemmeno io, perché la vita per me non aveva più senso».
Sonia, 18 anni appena compiuti, viene presa dalla strada, durante un controllo della polizia e portata al Cpt (Centro di Permanenza Temporaneo) di Roma, perché priva di documenti; in 15 mesi aveva fruttato alle sue tre sorellastre che l’avevano portata in Italia la somma di 55 mila Euro. Sulla strada, per la sua giovane età, era molto ricercata.  A Ponte Galeria incontra le suore che ogni sabato visitano il Centro e che, conosciuta la sua storia, cercano di aiutarla ad uscire dal giro. Viene accolta in una casa-famiglia e segue un programma di reintegrazione sociale. Quale consolazione più bella e più grande di quella di dare ad una giovane morta e distrutta dentro, la gioia e la voglia di vivere e di sperare?
Gloria, 22 anni appena compiuti, lavora sulla strada per pagare il grosso debito contratto con i trafficanti e sanzionato con i riti «voodoo», davanti allo stregone, prima di lasciare la Nigeria. Sulla strada uno dei «clienti» la vuole portare in casa, la ragazza rifiuta e l’uomo si vendica gettandola da un ponte: il suo corpo senza vita viene ritrovato il giorno dopo. Nonostante non abbia documenti attraverso i contatti con alcune suore nigeriane e l’interessamento delle medesime riusciamo a contattare la famiglia e a comunicare la triste notizia. Per l’anziano padre insieme alla grande sofferenza è stato di grande conforto e consolazione  sapere che qualcuno si era preso cura della figlia uccisa e l’ha sepolta in un paesino di montagna.
Jennifer, giovane donna di 27 anni e madre di due bambini lasciati in Nigeria, ha toccato profondamente la mia vita e il mio servizio missionario in Italia. Viene in Italia ed è costretta a vendere il suo corpo come oggetto di piacere  diventa una fonte di guadagno per i trafficanti.
Jennifer lavora in diverse città italiane e una notte, durante l’attesa dei clienti, lungo una delle tante strade dove sostava un’arma da fuoco la colpisce; rimane in coma per diverse settimane ed al risveglio si ritrova paralizzata agli arti inferiori perché un proiettile le aveva perforato il midollo spinale. Durante i lunghi mesi di degenza e di riabilitazione la visito sovente e la seguo. Jennifer chiede di ritornare a casa per rivedere i suoi bambini. Ritorna in Nigeria su di una sedia a rotelle.
L’anno seguente ero in Nigeria e andai a trovarla nella sua capanna, dove l’anziana madre l’assisteva. Non dimenticherò, la gioia, la sua sorpresa nel vedermi, ma soprattutto il sorriso carico di riconoscenza per la consolazione che la mia presenza portava in quella casa: non riusciva a credere che fossi proprio io!
Jennifer è mancata due mesi dopo la mia visita, il giorno di Pasqua: ha terminato di soffrire.
I miei racconti potrebbero continuare e disegnare gli anelli che formano la lunga catena della nuova schiavitù del 21º secolo, che imprigiona tante persone, ma che, come Missionaria della Consolata, cerco di spezzare offrendo ad ogni donna il dono della consolazione vera, della gioia di vivere e di amare, di cantare e danzare alla vita.
Termino questa condivisione accennando alle settimanali visite al Cpt di Ponte Galeria fatte insieme ad un gruppo di 15 religiose provenienti da 13 paesi diversi, che offrono un’assistenza pastorale e religiosa alle donne straniere, in attesa di espulsione, perché senza i documenti.
Il Centro ha una capienza di 180 posti letto e le donne che incontriamo ogni sabato vivono questa esperienza con sofferenza e a volte con disperazione; infatti, tutti i loro progetti per aiutare la famiglia vanno in frantumi perché vengono rimandate a casa a mani vuote e con l’umiliazione di essere state vendute, comperate e scambiate come merce.
La nostra presenza settimanale in questo Centro vuole donare a queste donne la possibilità di condividere un momento di preghiera e di riflessione affinché attraverso la ricchezza della parola di Dio, forza e sorgente di ogni consolazione, possano trovare il coraggio di sperare e, nonostante l’umiliazione e il fallimento, aprirsi a nuove opportunità che la vita può loro offrire.
La triste esperienza che hanno vissuto non può e non deve essere la fine, ma al contrario, deve mostrare loro che un avvenire di serenità e prosperità è ancora possibile.
Il nostro impegno e servizio ci chiede di donare la vera consolazione a quanti incontriamo nel nostro cammino quotidiano e toccare, così, il cuore e la vita di tante donne e dire: “La vostra schiavitù” è finita, anche voi siete consolate dall’amore di Dio e dalla nostra solidarietà e vicinanza.

Di suor Eugenia Bonetti



Eugenia Bonetti




Fine settimana a Castel Volturno

Italia

Missionaria della Consolata, di origine polacca, da più di quattro anni, presta il suo servizio apostolico a Castel Voltuo nella Parrocchia di Santa Maria dell’Aiuto, per gli immigrati. Qui operano i Missionari Comboniani affiancati dalle Suore Nigeriane del Sacro Cuore e alcuni laici volontari.

Arrivai a Castel Voltuo il sabato pomeriggio e cominciai a camminare lungo la strada principale. Scorto un mercatino improvvisato sul marciapiede della via Domitiana, mi avvicinai a quattro donne e altrettanti uomini, di nazionalità polacca, che vendevano oggetti di artigianato. Mi dissero che da due mesi giravano in questa zona, con la merce, ed abitavano nel loro piccolo furgone. Mi raccontarono come la crisi economica li aveva costretti a fare questa vita per guadagnare qualche euro: tutti speravano di poter tornare al più presto in Polonia. Toando verso la parrocchia incontrai tre giovani donne polacche: Elisabeth, Margherita ed Evelina. Erano arrivate il giorno prima dalla Polonia, con il solito pulmino settimanale. Mi raccontarono di aver letto su di un giornale, in Polonia, del viaggio-offerta che assicurava anche un lavoro, in Italia, il tutto per 200 euro. Una volta arrivate a destinazione, però, vennero «scaricate» a Castel Voltuo in una casa gestita da una «mediatrice» del lavoro, alla quale avrebbero dovuto versare un’altra somma di denaro per saldare il debito contratto per arrivare in Italia a inseguire il proprio sogno.
Questa è la storia del mio primo fine settimana passato per le strade della mia nuova missione. Castel Voltuo, in provincia di Caserta, è un paese che si estende per ventisette chilometri lungo il mare, attraversato in tutta la sua lunghezza dalla via Domitiana. Qui, vivono alcune migliaia di immigrati, la maggioranza proveniente dalla Nigeria e dal Ghana. La loro situazione è difficile, perché non riuscendosi a mettere in regola e trovare un lavoro, cadono molto spesso nelle mani della malavita organizzata che li usa come mano d’opera a basso prezzo nel traffico della droga e della prostituzione. Negli ultimi anni, dall’Est Europa, c’è stato un forte e costante afflusso di immigrati, tra cui parecchi polacchi, che settimanalmente arrivano in cerca di lavoro. In Polonia si pubblicizza che in Italia c’è la possibilità di lavorare e di guadagnare tanti soldi. Chi organizza questi viaggi fa pagare molto, sia il trasporto, sia l’indirizzo del presunto datore di lavoro. Queste promesse molte volte finiscono male a causa di tanti «imbroglioni» polacchi e italiani, che guadagnano a spese di chi è in cerca di un lavoro.
La Parrocchia di Santa Maria dell’Aiuto, gestita dai Missionari Comboniani costituisce un punto di riferimento per i Polacchi: qui si ritrovano e ricuperano la loro identità cristiana e nazionale, le principali festività religiose Natale e Pasqua sono celebrate secondo le tradizioni e diventano momenti di aggregazione e frateità. Molti immigrati polacchi, inoltre, chiedono di preparare i figli nati a ricevere il sacramento del Battesimo e di amministrare la Cresima a quelli che sono venuti con loro dalla Polonia. Non mancano poi, le giovani coppie, che chiedono di celebrare il matrimonio in chiesa. Qui vengo il fine settimana per prestare un servizio di pastorale missionaria tra le donne, le ragazze e i lavoratori del mio paese.
Oltre alle attività propriamente religiose, il mio compito è quello d’incontrare e ascoltare le persone che incontro lungo la strada, in parrocchia o nelle famiglie.
Sì, anche qui, c’è la missione «ad gentes», che ci spinge ad aprire gli occhi e il cuore e ad andare incontro alle persone accettando la loro realtà culturale, linguistica, religiosa e, soprattutto, a farsi carico della loro sofferenza, pronti ad accogliere e a consolare coloro che incontriamo sul nostro cammino.

di suor Krystyna Jaciow

Krystyna Jaciow