Donna delle Ande

Ruolo femminile tradizionale di fronte alla modeità

L’impatto con la modeità ha messo in crisi le comunità indie delle Ande, travolgendo anche il ruolo che la tradizione culturale assegna alla donna indigena nell’organizzazione della vita domestica e sociale. Eppure è possibile aprirsi alle novità conservando i valori umani e spirituali tradizionali.

La celebrazione della Giornata mondiale della donna mi riporta la mente e il cuore a una realtà ai più sconosciuta e al tempo stesso affascinante: la realtà della donna india delle Ande sudamericane. È un ricordo che provoca un sentimento di ammirazione e rispetto per le tante figure femminili che ho incontrato nella mia esperienza pastorale in Ecuador e Colombia.
La saggezza semplice e profonda, il senso del dovere e della responsabilità, l’incredibile forza impiegata nel lavoro duro della terra andina e nel non facile tran tran familiare quotidiano, la fede radicata in molte di loro mi hanno impressionato e, non posso negarlo, sovente aiutato nell’attività pastorale che ho avuto la fortuna di condurre in quei paesi.
Per comprendere la realtà della donna indigena delle Ande, è necessario fare due premesse che mi sembrano importanti. Prima di tutto, quando si parla di cultura indigena andina si fa riferimento, in realtà, a un insieme di culture che si sono sviluppate nelle vallate che intagliano questa lunghissima catena mon-tuosa. Un groviglio di montagne che emerge dai due oceani all’estremo Sud del continente americano, prosegue sinuoso per migliaia di chilometri segnando il confine fra Argentina e Cile, forma la spina dorsale di un immenso paese come il Perù e dell’Ecuador, si triforca in Colombia, andando a morire dolcemente verso le piane del Venezuela. Sembra evidente, quindi, che sarebbe meglio parlare di «culture» andine, piuttosto che di una sola cultura.
Nello stesso tempo, molti autori hanno sottolineato l’esistenza di un’unica radice che accomuna sotto molti aspetti le popolazioni indigene delle Ande; radice che si fonda sul comune ambiente montano, sull’origine comune di molte popolazioni che hanno poi trovato per ragioni storiche una diversa collocazione sullo scacchiere andino e su un pensiero originale che esprime una visione dell’universo, della morale e della società molto simile. A questi elementi comuni cercherò di rifarmi per raccontare la donna andina nel suo contesto.
Una seconda premessa va invece fatta in merito al metodo. Si può parlare dell’indio delle Ande delineandone i tratti che emergono da un libro di antropologia o lo si può fare raccontandone la vita quotidiana sulla base dell’esperienza diretta che si è avuta. Entrambi i metodi hanno pregi e limiti, per cui cercherò, forse sbagliando, di tenerli presente entrambi.
Da una parte c’è la donna india che appartiene alla tradizione, con i suoi caratteri tipici che si fondano sulla storia e nella cultura della gente dei paesi andini; dall’altra c’è la donna reale, oggi, che vive le contraddizioni proprie della persona che vede il suo mondo arcaico messo in discussione dall’avvento prepotente della modeità globalizzata in cui viviamo. È importante, a mio vedere, che entrambi questi elementi vadano tenuti in considerazione.

Innanzitutto cominciamo con il dire che nella maggior parte dei miti dell’origine del mondo delle culture andine la donna è presente. È presente come elemento femminile all’atto della creazione, nel simbolo della Pachamama (terra-madre) e come dimensione femminile dell’essere vivente e, in modo speciale, dell’essere umano.
Nel mito delle origini degli indios Nasa (Ande colombiane), l’universo creato dal Grande Spirito viene ordinato da una coppia di Abuelos (nonni). Maschile e femminile sono alle radici della creazione dando vita a un elemento fondamentale della filosofia india: quello della complementarietà. Gioo e notte, sole e luna, terra e acque… ciascuno di questi elementi ha un carattere maschile o femminile e non può esistere se non in rapporto all’altro.
La terra (per estensione il mondo in cui si vive) è un elemento femminile. Viene vista come madre protettiva e feconda. Per questa ragione, l’azione dell’aratura e della semina hanno un valore molto profondo nella spiritualità andina, quasi sacrale e paragonabile all’atto riproduttivo. Il seme gettato nei solchi della Madre Terra genera nuova vita, capace di garantire la sopravvivenza della gente.
Complementarietà significa dare a ciascun elemento il posto che gli spetta nell’universo, un posto che appartiene a lui solo e sempre in relazione con l’altro. Dove questa relazione di complementarietà viene rispettata si ha l’«armonia», lo stato perfetto delle origini, al quale bisogna ritornare attraverso riti di purificazione ogni qual volta questa viene rovinata da un’azione contraria dell’uomo o della natura.
Il concetto di famiglia, e per estensione quello di società, trova il suo compimento dove questa relazione tra maschio e femmina viene rispettata. A ciascuno il suo ruolo, nel rispetto dello spazio e dei compiti assegnati all’altro. La donna, quindi, gode tradizionalmente di una sua autonomia nella conduzione della casa (che comprende la crescita dei figli, la loro educazione e l’organizzazione della vita domestica e della sua economia), mentre all’uomo sono lasciati i compiti di lavorare la terra e di curare i rapporti con le altre famiglie e con l’organizzazione della comunità. La donna andina è una donna forte, lavoratrice, avvezza a sopportare il dolore, la fatica, la sofferenza.

Tradizionalmente, quando una donna era prossima a prendere marito si trasferiva dalla sua casa a quella del futuro compagno. Passava quindi dall’autorità della madre a quella della suocera, incaricata di insegnarle come essere una buona moglie dell’uomo con il quale si sarebbe accasata. Questo periodo (che in Colombia prende il nome di amaño) era molto importante, in quanto puntava a garantire l’esistenza della complementarietà all’interno del nucleo familiare in via di formazione. Anche l’aspetto spirituale della donna era tenuto molto in considerazione e, anche oggi, non sono poche le donne che rivestono il ruolo di medico tradizionale (sciamano) nella società indigena. Parallelamente, all’interno delle comunità cristiane le donne partecipano fedelmente e offrono la loro sapienza e la loro esperienza alla vita spirituale della propria gente.
Chiaramente, l’impatto con la modeità sta velocemente stravolgendo la concezione classica della donna nella società andina. Oggi, le comunità indigene stanno vivendo un momento di crisi, le cui conseguenze saranno perfettamente identificabili soltanto fra un po’ di tempo. I maggiori contatti con il mondo esterno, le migrazioni da parte della popolazione montana verso le città, una maggior istruzione offerta ai giovani, ecc. stanno provocando cambi immensi e rapidissimi in culture che, fino a pochi anni fa, vivevano ancorate alle loro tradizioni più antiche.
La città, meta di molte donne della cordigliera, stravolge completamente ritmi e tradizioni secolari. Le donne vi accedono nella speranza di trovare lavoro. Ne respirano l’aria e con essa nuove abitudini. La possibilità di acquisire una migliore istruzione apre il campo a nuove possibilità lavorative, dando modo di raggiungere un’indipendenza economica prima impensabile.
Cambiano le relazioni e viene completamente stravolto il criterio di complementarietà. La donna ha meno tempo per la famiglia e, se lavora in altri contesti, la terra ne risente; quella terra che per gli indios di ieri rappresentava la madre oggi diventa matrigna: un peso.
Uno potrebbe pensare: «Tutto già visto, già vissuto; è successo anche da noi in questi ultimi decenni». Vero. Ma in questo caso è la rapidità con cui il cambio avviene a spaventare. Come coniugare l’importanza di mantenere la lingua propria e rimanere così ancorati alle radici culturali del proprio gruppo con l’esigenza di studiare inglese per mettersi al passo con i tempi? Come convivere con le proprie credenze, la propria fede tradizionale, nell’era di internet? Per le nuove generazioni queste sono domande fondamentali che, molte volte, rimangono senza risposta.
E allora subentra la crisi, il vedersi sradicato da un contesto familiare tradizionale senza, nel contempo, sentirsi perfettamente a casa nella modeità in cui volenti o nolenti si è immersi.

In Colombia iniziai a dare ripetizioni di inglese a Jenny Hérica, una ragazza india diciassettenne, all’ultimo anno delle scuole superiori. Una giovane donna che, anche solo dieci anni fa sarebbe stata sposata, allattando il primo se non il secondo figlio. Accettai di seguirla perché mi sembrava molto portata nello studio della lingua. Infatti non aveva bisogno di aiuto per passare l’anno, ma avvertiva fortemente il desiderio di migliorare la preparazione che aveva ricevuto a scuola.
Suo padre era un leader della comunità indigena, mentre la madre, oltre a prendersi cura della famiglia, si prodigava nel raccogliere le memorie storiche della comunità attraverso il racconto degli anziani. Un giorno Jenny venne in parrocchia molto triste, quasi piangendo. Mi disse: «Padrecito, credo che non verrò più a studiare inglese». Di primo acchito pensai che si fosse stufata. Mi disse che lo studio della lingua inglese l’attirava moltissimo, ma che pensava fosse più importante imparare il nasa yuwe, la lingua dei suoi avi, dei suoi nonni, che vivevano in una casetta di fango e bambù in una frazione del paese, in piena montagna. Persone semplici, che conoscevano poco lo spagnolo e con le quali era difficile intavolare una conversazione se non attraverso la lingua propria.
La giovane vedeva chiaramente come quella cultura, che generazione dopo generazione era giunta sino a lei, si stava sgretolando, perdendosi irrimediabilmente. Era sinceramente in crisi. La lasciai andare. Soltanto le ricordai il grande dono che aveva fra le mani. «Grandi talenti, uguale grandi responsabilità. Perché non provare a studiarle entrambe?».
Quando mi toccò lasciare il paese per far ritorno in Italia le lasciai i miei libri di inglese: la grammatica, il dizionario, un paio di testi con esercizi e qualche lettura facilitata che avevo fatto arrivare apposta dall’Italia. Per mesi non ne seppi più nulla. Un bel giorno mi arrivò una e-mail. Era lei. Jenny aveva vinto una borsa di studio di quelle offerte agli appartenenti di minoranze etniche e studiava lingue straniere all’università di Medellin. «Studio, padre, perché amo l’inglese e sento che imparandolo bene posso aiutare la mia comunità, alla quale toerò, alla quale devo tanto e alla quale offrirò questa mia capacità».
Mi ringraziava per la sensibilità che avevo avuto nel valutare importante la sua ansia di rimanere attaccata alle proprie radici, ma nello stesso tempo di averla aiutata a essere consapevole di un dono grande che il Signore le aveva fatto. Il fine di tutto era il benessere della «sua gente» e in ciò si vedeva chiaramente l’attaccamento alla propria cultura, alla propria storia.
Jenny non sarà mai come sua nonna. Probabilmente non vestirà un anaco, la gonna tradizionale delle donne Nasa, e non porterà i suoi bambini avvolti in un chumbe, la striscia di stoffa tessuta a mano che racconta attraverso i suoi disegni la storia millenaria degli indios.
Jenny è una donna diversa, profondamente india, rispettosa della Madre Terra che l’ha generata e che tutti i giorni ringrazierà per il dono della vita. Magari, con un sorriso, dicendole: «Thank you». 

Di Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli