Il cibo tra fede e salute

Aspetti culturali e religiosi degli alimenti

Dalla Bibbia ai Veda orientali, dal Corano ai precetti buddisti, da sempre la preparazione del cibo, il suo significato, i suoi rituali sono l’espressione di un’unica e intima tensione dell’animo umano a tessere relazioni con gli altri. E con l’Altro.

«F in dall’antichità gli uomini ringraziavano le divinità con sacrifici e attraverso offerte di cibo. Fin dalle epoche più remote la condivisione del pasto era cifra della volontà di mettersi in relazione con l’Altro, con il Divino, ma anche con l’uomo suo simile: era un convivio d’amicizia ed unità variamente intesa». Si apre così l’interessante libro di Paola Bizzarri e Davide Pelanda, «La fede nel piatto», edizioni Paoline.
Il testo è diviso in due capitoli principali: il primo rappresenta un viaggio attraverso le prescrizioni religiose delle principali religioni di Occidente e Oriente (ebraismo, cristianesimo, islam, hinduismo, buddismo e jainismo), e le usanze gastronomiche nate da ciascuna tradizione. Il secondo esplora, sia dal punto di vista politico-economico, sia storico sia, ancora, prettamente alimentare, i «saperi e sapori» del «cibo povero» e «dei poveri».
Entrambi ci mettono in relazione con mondi e culture diverse, passate e presenti.
Il cibo: tra divieti
e concessioni divine
«Il Signore disse a Mosè e a Aronne: “Riferite agli Israeliti: Questi sono gli animali che potrete mangiare tra tutte le bestie che sono sulla terra. Potrete mangiare d’ogni quadrupede che ha l’unghia bipartita, divisa da una fessura, e che rumina. Ma fra i ruminanti e gli animali che hanno l’unghia divisa, non mangerete i seguenti: il cammello, perché rumina, ma non ha l’unghia divisa, lo considererete immondo; la lepre, perché rumina, ma non ha l’unghia divisa, la considererete immonda; il porco, perché ha l’unghia bipartita da una fessura, ma non rumina, lo considererete immondo. Non mangerete la loro carne e non toccherete i loro cadaveri; li considererete immondi».
L’elenco di divieti e di concessioni alimentari, contenuto sia nel Levitico (cap. 11) sia nel Deuteronomio (cap. 14), è lunghissimo e dettagliato, così come sono numerose le sure e i versetti del Corano in cui si definisce ciò che è halal (lecito) o ciò che haram (proibito). «Vi sono vietati gli animali morti, il sangue, la carne di porco e ciò su cui sia stato invocato altro nome che quelli di Allah, l’animale soffocato, quello ucciso a bastonate, quello morto per una caduta, incornato o quello che sia stato sbranato da una belva feroce, a meno che non l’abbiate sgozzato (prima della morte) e quello che sia stato immolato su altari (idolatrici)…» (sura V,3).
Prescrizioni kasher e halal affondano le radici in retaggi sociali, religiosi e culturali semitici comuni a ebraismo e islam: il libro di Pelanda e Bizzarri ha il merito di permettere al lettore di addentrarsi in entrambe le tradizioni e di ritrovarvi le profonde affinità e continuità che i sanguinosi conflitti politici mediorientali degli ultimi sessant’anni hanno sepolto.
Cibo e salute
Tuttavia, il rispetto di certe norme alimentari non ha a che fare solo con la fede, ma anche con certo salutismo e rispetto per l’ambiente. Lo spiegano bene l’ebrea Manuela Sadun e il musulmano Elvio Isa Arancio.
«Il nutrimento è “adatto” perché lo scegliamo, perché ci amiamo, perché amiamo la nostra vita. (…) La salute, intesa nel senso più ampio possibile, implica il giusto rapporto con il cibo» racconta la Sadun a pag. 18 del libro.
«Mangiare è un mezzo, non un fine – ci spiega Arancio, sufi e ambientalista -, cerco di avere un atteggiamento etico: la mia scelta va verso il cibo sano, naturale e, per quanto possibile, non industriale. Prediligo frutta, verdura e legumi e ho drasticamente ridotto il consumo di carne, poiché sono consapevole che è una delle cause dell’attuale inquinamento del nostro pianeta. La lecità degli alimenti non è solo legata al rituale, ma anche a questioni sanitarie e etiche. Se mangiare carne tutti i giorni contribuisce alla deforestazione della terra, allora è qualcosa di illecito. C’è una cosa che, come musulmano, mi mette a disagio: il proliferare delle macellerie islamiche, dove si vende carne in grandi quantità. Che bisogno c’è di mangiarne così tanta? Anche questa sarà una forma di consumismo? Un modo errato di ostentare benessere?».
Religioni e alimentazione
dell’Estremo Oriente
Anche il buddismo, come è risaputo, è molto attento al cibo: «Mangiare carne spegne il seme della grande compassione» recita il Mahaparinirvana Sutra.
Scrive Davide Pelanda a pag. 41: «L’insegnamento del Buddha punta all’estinzione della sofferenza di tutti gli esseri senzienti: desidera la liberazione degli animali anche dalla violenza umana. (…) La compassione (karuna) sfocia spontaneamente in un atteggiamento di amore universale (metta, letteralmente “amicizia”).
Questo amore è regolato da dei precetti, dei codici di comportamento cui dovrebbero rifarsi tutti i credenti buddisti. I precetti vengono recitati sotto forma di preghiera, come: “Osservo il precetto di non uccidere nessun essere vivente”, oppure “osservo il precetto di non mangiare cibi fuori stagione”. A questi si aggiunge il precetto secondo cui non si deve mai essere causa di dolore per alcun essere vivente».
Il cibo dei poveri
La seconda parte del libro presenta un’altrettanto interessante riflessione sull’alimentazione «povera» del passato e del presente, sul dumping internazionale – merci, cibi, venduti al di sotto del prezzo di mercato, e causa di miseria per milioni di persone – e sulle mense dei poveri di tutto il mondo. Mense dove semi, tuberi e radici, legumi, frutta e verdura sono i principali, e spesso gli unici, ingredienti concessi a una sempre più vasta moltitudine di esseri umani. 

Di Angela Lano

Angela Lano




Salvare, Chi?

Eticamente: persona, economia, finanza

Buenos Aires, 28 dicembre 2008. – Anche in America Latina, i giornali e i canali televisivi non fanno altro che parlare della crisi economica che ha investito il mondo. Quasi tutti e quasi sempre, parlano di essa come fosse un evento naturale, privo di veri responsabili. Sappiamo, invece, che l’economia è una scienza (o, come più plausibile, una non-scienza, cfr. MC dicembre 2008) inventata dall’uomo, che dunque ne è artefice, nel bene e soprattutto nel male.
In Argentina, nessuno ha dimenticato la devastante crisi che colpì il paese a cavallo del 2001. Fu, quella, una crisi prodotta da scelte economiche assurde (in primis, quelle imposte dal Fondo monetario internazionale), che si ripercossero pesantemente su milioni di argentini. In questi ultimi anni, il paese si è rimesso in piedi, crescendo a ritmi cinesi. Ma le cifre economiche nascondono realtà ben diverse. A Buenos Aires, città di stampo e filosofia europea, per le vie del centro ogni sera tornano i «cartoneros», uomini, donne e bambini che vivono cercando nei sacchi delle immondizie quanto è vendibile, recuperabile o semplicemente mangiabile. Mentre nel Nord (Tucuman, Oran, Salta, ecc.) la povertà rimane a livelli intollerabili, per un paese che è un grande esportatore di prodotti agroalimentari (dalla carne alla soia).
Insomma, oggi tutti parlano di crisi economica, ma moltissimi argentini dalla crisi non sono mai usciti ed ora altrettanti potrebbero tornarci. Davanti a ciò, non è fuorviante parlare soltanto di mutui subprime, di futures, di derivati o di auto che non si vendono più?
Abbiamo chiesto a Sabina Siniscalchi – anni di militanza in «Mani Tese»,  deputata nella precedente legislatura, oggi responsabile della Fondazione culturale di «Banca Etica» – di tenere una rubrica in cui si cercherà di spiegare come l’economia e la finanza possano, volendo, essere compatibili con la persona. Cercando l’etica in un campo dove, almeno fino ad oggi, è stato piuttosto raro incontrarla.

Paolo Moiola

Mentre i governi dei paesi ricchi stanziano fondi per salvare le proprie banche, e i cittadini/investitori temono di perdere i loro privilegi, nei paesi poveri c’è chi vive la crisi da decenni. Ma altri «nuovi poveri» si aggiungono alla massa.

Settecento miliardi di euro dall’Unione europea, oltre mille miliardi di dollari dal governo degli Stati Uniti, trenta miliardi dal governo italiano. In pochi giorni sono state reperite risorse gigantesche per far fronte alla crisi finanziaria, per salvare le banche e arginare il panico degli investitori.
Ma sempre più cittadini si sentono minacciati dalla congiuntura che sta sconquassando il sistema economico mondiale.
Hanno paura di essere privati di quei beni su cui si fonda, secondo le Nazioni Unite, la vera sicurezza umana: il lavoro, la casa, la salute, la pensione.
La loro paura cresce nella misura in cui percepiscono che lo stato non interverrà a soccorrerli, le ingenti risorse per i piani di salvataggio esigono, infatti, tagli ad altri capitoli del bilancio pubblico: la sanità, la scuola, la previdenza, la cooperazione internazionale.
La paura accomuna chi è già povero e chi rischia di diventarlo, chi vive nelle periferie dell’emisfero Sud e chi abita nelle metropoli del Nord.
Per molti la «povertà da crisi» è già realtà quotidiana: la Fao (organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione, ndr) calcola che il numero degli affamati crescerà di 40 milioni nel corso del 2009, la Banca mondiale dichiara che sono 100 milioni i «nuovi» poveri. Cento milioni che si aggiungono al miliardo e 200 milioni già censiti.
Nell’Assemblea per valutare i progressi compiuti verso gli otto «obiettivi del millennio», che si è svolta al palazzo di vetro nel settembre 2008, il segretario generale dell’Onu ha chiesto 30 miliardi di dollari per raggiungere il primo goal che punta al dimezzamento, entro il 2015, delle persone che vivono in povertà, ma queste risorse non si sono trovate. Sono stati racimolati 16 miliardi di dollari, una somma insufficiente per aiutare i paesi che sono ancora lontani dal traguardo e che anzi regrediranno proprio a causa della crisi.
Si è capito che le risorse per combattere la povertà si ridurranno ancora di più, perché per molti mesi, forse anni, la priorità verrà data al salvataggio delle economie ricche.

Anche la recente conferenza di Doha su «Finanza per lo sviluppo» si è conclusa con un ben magro risultato:  ha ribadito, con scarsa convinzione, alcuni degli impegni presi a Monterrey nel 2002 nel campo dell’aiuto allo sviluppo, degli investimenti e del reperimento di risorse locali, ma non ha avuto il coraggio di affrontare i veri nodi di una finanza di rapina: fuga di capitali, paradisi fiscali, corruzione, mancanza di trasparenza e tracciabilità.
Eppure sono queste le vere cause dell’impoverimento dei popoli del Sud: ogni anno 500 miliardi di dollari scappano dai paesi in via di sviluppo verso i paradisi fiscali o le grandi banche del Nord: 10 volte quanto viene destinato alla cooperazione allo sviluppo.
La conferenza non ha preso decisioni di rilievo, le cose davvero importanti sono state rimandate al G8 o al G20,  luoghi dove i poveri non hanno rappresentanza e dove si vuole solo rattoppare un sistema che ha mostrato tutti i suoi errori e le sue malefatte.
La globalizzazione governata da pochi paesi e dominata da pochi gruppi economici ha prodotto una crescita che il «Rapporto sullo sviluppo umano» dell’Undp (Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo, ndr) definisce crudele: una crescita senza occupazione, senza pari opportunità, che indebolisce i diritti umani e distrugge la natura.
Una classe politica miope, in particolare nel nostro paese,  sembra incapace di vedere vie d’uscita che non siano la ripetizione degli stessi errori degli ultimi venti anni.
Eppure la crisi potrebbe rappresentare una straordinaria opportunità se aprisse le porte a un nuovo modello di sviluppo.
Un modello le cui caratteristiche sono già delineate negli studi e nelle pratiche delle organizzazioni dei cittadini che si sono attivate per rispondere ai problemi che la globalizzazione ha loro creato.
Un modello che le Nazioni Unite hanno chiamato il Green new deal.
Rilanciare lo sviluppo a partire dall’ambiente, incentivare l’uso delle energie rinnovabili, favorire la green occupation, premiare le imprese socialmente ed ambientalmente responsabili, ridurre gli sprechi in tutta la catena della produzione, distribuzione e consumo.
Potenziare il capitale umano e sociale, investendo in istruzione e salute: i veri motori di sviluppo.

Rimettere l’occupazione dignitosa (il decent work secondo la definizione dell’Organizzazione internazionale del lavoro) al centro delle attività produttive, penalizzare le ristrutturazioni aziendali che comportano licenziamenti di massa.
Attuare tutti gli interventi fiscali, economici e finanziari che portano alla ridistribuzione delle risorse. Non è vero che bisogna puntare sulla crescita, che poi «sgocciola» fino ai poveri, come sostengono i liberisti: studi della New economic foundation dimostrano che per 100 dollari di crescita solo 60 centesimi arrivano ai poveri.
Intervenire con decisione sugli aspetti più rischiosi dei mercati finanziari: dai paradisi fiscali alle speculazioni sulle valute, dagli edge funds al segreto bancario.
Mettere fine all’economia di guerra. Gli investimenti nel settore degli armamenti e le spese per la difesa sono aumentati paurosamente a partire dalla guerra in Afghanistan: tutti gli impegni per lo sviluppo, tutti i processi di pace vengono annientati dal commercio mondiale delle armi sempre più fiorente.
Ridare riconoscimento e vigore alle sedi multilaterali di negoziato, secondo il principio della più ampia rappresentatività.
Eleggere a modello economico, ma anche culturale, i comportamenti virtuosi dell’economia civile e della finanza etica, basati sull’idea di mutualità, condivisione e giustizia sociale.
Un’agenda di cambiamento reale, che non ci rimanda al tempo dell’utopia, ma alle scelte possibili di oggi. 

Di Sabina Siniscalchi
Fondazione culturale di Banca Etica

Sabina Siniscalchi




A caccia di energie

Sciamani ieri e oggi: tra modelli culturali e sperimentazioni scientifiche

Non è semplice definire lo sciamanismo, poiché gli   elementi che lo caratterizzano, il viaggio estatico, la musica e il concetto di malattia, pur nelle specifiche varianti locali, sono difficilmente scindibili tra loro. Anche se l’operato dello sciamano comprende una vasta gamma di pratiche di guarigione, i due elementi maggiormente caratterizzanti restano la capacità di curare l’aspetto spirituale della malattia e il viaggio
nella realtà non ordinaria al fine di ottenere la conoscenza e la guarigione fisica e spirituale.

Nella lingua dei tungusi della Siberia, la parola «shamàn» si riferisce a una persona che è capace di compiere viaggi nella realtà non-ordinaria, in uno stato alterato di coscienza. Anche se il termine è originario di un’area geografica specifica, la pratica dello sciamanismo è esistita, ed esiste ancora oggi, pressoché in tutti i continenti. Nel corso dei secoli, dalle regioni artico-siberiane e dell’Asia centrale si è diffusa, per le migrazioni delle stesse popolazioni paleomongole attraverso lo stretto di Bering, in tutta l’America settentrionale e meridionale, oltre che in molte aree dell’Asia meridionale e orientale, fino in Australia.
D’altro canto, in queste tribù di tipo animista, i problemi della quotidianità e del vivere di ogni individuo ricadono costantemente sull’intera comunità, mettendone a rischio equilibri e armonie intee. Così per scongiurare il pericolo di possibili «entropie» e disequilibri sociali, ogni membro della tribù crede nell’esistenza degli spiriti. Non sorprende, quindi, che in queste culture, ogni individuo, cosciente dei propri limiti umani e di fronte a determinati eventi, chieda aiuto agli stessi spiriti, avvalendosi, esclusivamente dell’esperienza o dell’intermediazione «privilegiata» dello sciamano.
arte dello sciamano: tra cosmologie
 e cosmogonie
La caratteristica comune di ogni processo di cura e di guarigione è il viaggio spirituale. Questo iter si concretizza attraverso il cammino dell’anima nella realtà extrasensoriale, che permette al guaritore di entrare in contatto con le «entità» spirituali. Ritenute per lo più alleate in cui ci si imbatte sotto forma di animali guida o di maestri spirituali – in genere antenati, figure mitologiche o saggi – queste entità conferiscono allo sciamano il potere e la conoscenza per aiutare e guarire se stesso, gli altri e il mondo dalla «malattia». Una missione universale che chiunque sviluppi capacità extrasensoriali può compiere attraverso un viaggio estatico e senza il sussidio di intermediari che si esprimono officiando rituali complessi.
E ciò può essere spiegato analizzando le strutture logiche del pensiero animista. Secondo le cosmologie più frequenti tra queste società, l’uomo vive sulla terra in una zona intermedia, tra un cosmo superiore e uno inferiore, associati a volte con il cielo e il mondo sotterraneo.
Queste tre zone sono collegate tra loro da un axis mundi, o asse verticale dell’universo, da alcuni chiamato «albero della vita». In alto e in basso questo asse passa attraverso aree «vuote» nella volta cosmica che possono condurre nell’universo inferiore o in quello superiore. Solo superando questi «buchi» il guaritore è in grado di passare da un livello di esistenza all’altro e di compiere il cammino contrario.
Tuttavia, questa esperienza muta continuamente in ogni diversa situazione. Non è una regola fissa, ma solo un modo di affrontare le diverse posizioni del cosmo e del proprio esercizio di conoscenza. Si tratta per lo più di sperimentazioni «personali» volte a guarire, ottenere informazioni o altre prestazioni consensuali, che garantiscono credibilità e rispetto in seno alla stessa società.
Tecniche o suggestioni a parte, anche per questa ragione lo sciamanismo non può essere considerato un sistema di dogmi e di verità di fede, ma solo un metodo per ottenere rivelazioni dirette dalle entità spirituali altre. In parte, per questo, lo sciamanesimo è stato osteggiato e combattuto come pericoloso antagonista proprio dalle religioni istituzionalizzate, non solo dalla religione cristiana, ma anche dal buddismo in Asia centrale e dal lamaismo in Siberia.
I nuovi orizzonti dello sciamanismo moderno
Gli sciamani non scelgono generalmente di diventare tali: all’arte della guarigione vi arrivano per vocazione, spinti dalle suggestioni psichiche di un sogno particolarmente forte e vivido, oppure attraverso una visione meditata, o più frequentemente in seguito alla guarigione insperata da una grave malattia. Prima di intraprendere il lungo cammino rituale che lo porterà a operare nella tribù, ogni neofita dovrà sottoporsi a un complesso percorso iniziatico da cui apprendere l’arte di curare, proiettarsi nel trascendente e di predire il futuro.
È proprio da questa fase di iniziazione extrasensoriale, o di liminalità «non comune», che prende avvio l’osservazione e la sperimentazione delle più importanti metodologie applicate dalle scuole sciamaniche modee dell’Occidente. Oggi sempre più persone, specialmente giovani, chiedono di conoscere da vicino questa antica tradizione spirituale per trae insegnamenti e indirizzi di vita. Modelli alternativi alieni rispetto a quelli tradizionali, considerati però più confortanti, meno impegnativi rispetto a quelli occidentali, ormai troppo pericolosamente svuotati di significato. Un agnosticismo forte, da cui si alimenta questo diffuso interesse dilagante che è testimoniato non solo dalla pubblicazione di numerosi libri sull’argomento, ma anche dalla popolarità di seminari, film, musiche e altri eventi che offrono l’opportunità di studiare e lavorare con sciamani provenienti da varie parti del mondo.
Entro questo orizzonte di riscoperta delle esperienze e tradizioni altre, occupa un posto di rilievo il lavoro di ricerca, insegnamento e di formazione condotto, ormai da quasi  40 anni, dall’antropologo americano Michael Haer, già docente all’Università di Berkeley in Califoia e alla New School for Social Research di New York. Dal 1987 è il fondatore del Core Shamanism, la scuola che ha contribuito, più di altre, alla riscoperta di queste antiche pratiche nel mondo occidentale. Inoltre, anche la Foundation for Shamanic Studies (Fss), che Haer dirige a Mill Valley in Califoia, attualmente rappresenta il maggior centro di insegnamento, didattica, ricerca e sperimentazione nel campo dello sciamanismo contemporaneo a livello mondiale.
Da anni la Foundation, è attiva anche e soprattutto nei paesi europei attraverso la Fss-Europa e le sue varie sezioni (Austria, Svizzera, Italia, Francia, ecc.) dotate di un corpo docenti internazionale (Inteational Faculty) che ha dato impulso notevole alla rinascita credibile dello sciamanismo nel mondo contemporaneo.
Uno degli obiettivi principali della Foundation è addestrare gli occidentali nelle tecniche di base e avanzate, sviluppando soprattutto un approccio basato sui principi e i metodi dello sciamanismo tradizionale (estasi, visioni, ritmi musicali, suggestioni, incantesimi etc), ma accessibile alla modea cultura. Un sistema perciò applicabile alla vita quotidiana, che è in grado di diffondere e rendere attuabili le pratiche fondamentali e transculturali di una tradizione antica.
Per quanto attualmente l’interesse nello sciamanismo sia enorme, molti dubitano che i metodi tradizionali possano essere applicati ai problemi della vita modea o che siano in qualche modo praticabili da noi occidentali. Partendo proprio da questi deterrenti scetticismi, il lavoro di Haer si è concentrato in particolare sulla possibilità di applicarli in ambito socio-sanitario, sviluppando soprattutto metodi di approccio complesso ai problemi di vita e di salute dell’uomo contemporaneo.
Oggi infatti, l’insegnamento e l’applicazione di questi principi, come avviene spesso presso molte scuole sperimentali, è in grado di rendere attuabili le pratiche fondamentali della tradizione locale, trasmettendone un sistema di valori neutro slegato da ogni tipo di condizionamento particolare. Alcuni praticanti associati alla Foundation hanno infatti lavorato nelle carceri e con le gang di adolescenti, altri si sono concentrati sui problemi dell’ambiente e sulla crisi ecologica del nostro tempo. Ovunque si sta cercando di recuperare l’antica saggezza ancestrale per proteggere la vita del pianeta e delle comunità umane, riportare equilibrio e armonia là dove ci sono squilibri, conflitti e disarmonie.
Così l’insegnamento richiama ogni anno migliaia di persone, che partecipano a corsi di addestramento e collaudando così un circuito scientifico formativo e informativo di assoluto valore avviato ormai da decenni.
Nel giugno del 2002, infatti, si è tenuto a Santa Fe, nel New Mexico, il primo convegno di medici e altri professionisti della salute, addestrati nel core shamanism, che si sono incontrati per scambiare le proprie esperienze e discutere come meglio integrare i metodi sciamanici nella loro pratica medica. Incontri che si sono succeduti con sempre maggiore consenso negli anni successivi allo scopo di garantire continuità a questo tipo di confronto di esperienze.
Anche per questo il core shamanism ha contribuito ad aprire nuove prospettive mediche anche nel trattamento dei problemi più strettamente psicologici. Ad esempio, la tecnica tradizionale del recupero dell’anima è diventata un complemento frequente della psicoterapia modea degli studi di mezzo mondo, secondo le linee indicate dalla psicologa statunitense Sandra Ingerman nel suo testo pionieristico «Il recupero dell’anima», edito ormai dal 1991.
nuove forme:  Vegetalisti e New Age
Per quanto riguarda gli sviluppi più recenti, la tendenza attuale è di non restringere il lavoro di divulgazione e formazione al trattamento dei soli problemi individuali, fisici o emotivi, ma di estenderlo anche alla sfera della vita collettiva e ai problemi sociali condivisi perciò da una moltitudine di casi specifici. Una preoccupazione che ha sempre caratterizzato l’attività del curandero tradizionale in ogni società locale.
Ma oltre a insegnare e diffondere lo sciamanismo nei paesi occidentali, la Foundation for Shamanic Studies promuove attivamente la collaborazione e l’interscambio proprio con gli sciamani tradizionali, i veri testimonial di un sapere conservato da millenni. In particolare, l’impegno della Fss a favore degli operatori tradizionali si concretizza attraverso due mirati programmi di cooperazione e di sviluppo. Il primo di «Assistenza tribale urgente» è rivolto ad aiutare individui e gruppi (finora soprattutto nativi americani) a rivitalizzare le loro tradizioni medico-empiriche perdute.
Il secondo, attraverso un altro programma chiamato «Tesori viventi dello sciamanismo», viene conferito un vitalizio annuale a due sciamani tradizionali, che si sono particolarmente distinti nel servizio alle loro comunità. Attualmente lo sciamanismo sta suscitando un rinnovato interesse sia nel campo degli studi specialistici sia in quello della cultura generale. In entrambi i casi, parte dell’utenza che si rivolge a questi centri sono troppo spesso i giovani attratti dalla possibilità di vivere quelle esperienze «alternative», che i media strumentalizzano e iconizzano come semplici fenomeni di costume.
Anche per questo l’importanza che assume oggi il fenomeno esotico nel contesto di una nuova religiosità, specialmente nell’area new age, non è legata tanto alla sua particolare struttura religiosa, quanto per il fatto sconvolgente che esso evoca, cioè la possibilità di un «viaggio in un altro mondo» attraverso uno stato alterato di coscienza.
C’è da rilevare, purtroppo, la diversità sostanziale dello sciamanesimo post-moderno dallo spirito autentico di quello storico: i viaggi al di fuori di sé di cui il new age si fa promotore, sono ben diversi per finalità; siamo lontani dal bene della comunità vissuta e sofferta da un curandero locale, mentre le esperienze extrasensoriali ascrivibili alla new age, ottenute spesso con l’ipnosi e sotto l’effetto di droghe, sono fini a se stesse, edonistiche, troppo spesso forme altre da «sballo» da discoteca o ancor peggio di pura tossicodipendenza.
Questa esigenza induce gran parte dei «pazienti» ad avvicinarsi all’esperienza rituale del cosiddetto vegetalismo, quel movimento underground che richiama adepti a recarsi soprattutto nelle aree del Sud del Mondo, ricche di varietà inestimabili di piante psicotrope. Specialmente in Ecuador, Perù e Brasile per provare l’esperienza di molti fitosistemi psicoattivi, tra cui l’ayahuasca, il potentissimo allucinogeno estratto da una liana della selva colombiana amazzonica.
Di contro, alcuni gruppi organizzati francesi hanno invece studiato in Africa programmi speciali di riabilitazione dalle stesse narcodipendenze. Come nel caso del processo di iniziazione sciamanica al culto dell’iboga, pianta dalle «prestazioni miracolose», che annullerebbe la dipendenza fisica e le inclinazioni psicotiche all’uso quotidiano delle droghe, attraverso la partecipazione al pericoloso rituale Bwiti ancora in uso tra le etnie babongo e mitsogo del Gabon.
Secondo alcuni dispacci medico-scientifici redatti dal Dipartimento della sanità di Washington, la radice dell’iboga verrebbe impiegata illegalmente, pur con dosaggi limitatissimi, presso alcune strutture ospedaliere degli Stati Uniti per il trattamento coatto delle tossicodipendenze, dietro cauzione di somme di denaro davvero elevatissime. Ma questo è solo uno dei tanti esempi di una metodologia empirica che resta ancora ufficialmente sommersa o celata dai sistemi di cura scientifici istituzionali. Ma il pericolo è di altro tipo.
sciamanismo urbano
D’altro canto, ovunque stanno nascendo nuovi specialisti: neoguaritori di origine indigena e meticcia che si globalizzano e neosciamani bianchi che si dedicano alle arti native. Esiste di fatto tutta una gamma di offerte, studiate sulle esigenze dei turisti e differenziate in base al contesto regionale nel quale si attuano. Consistono in vari giorni di isolamento, digiuno e consumo continuo di psicoattivi. Ci sono anche stranieri che viaggiano per curare i loro problemi di salute, artisti che desiderano sviluppare la loro creatività e ricercatori interessati allo sciamanesimo.
E anche se potrebbe risultare equivoco ridurre tutte queste attività attorno alle piante visionarie a una sola modalità; tra loro però una di queste si distingue: proprio lo sciamanesimo urbano. Si tratta di un ramo del movimento New Age che faceva una rilettura specifica delle tradizioni sciamaniche in tutto il mondo, elaborando una specie di sciamanesimo universale, che auspica un’era di pace e di fratellanza, dove non ci sarà più bisogno né di leggi, né di dogmi, né di stati, né di chiese. Il genere umano ritroverà la via della «grazia», cioè dell’accordo con l’armonia cosmica e, con esso, la natura, la salute, la felicità.
Questa rivisitazione del tutto tipica della cultura latinoamericana, si fonda sull’interpretazione libera che proprio gli individui più eminenti, i leaders, fanno parte di una modea antropologia esoterica che riconosce e riconduce la propria esistenza e creazione all’universo primordiale indigeno.
Il neosciamanesimo è perciò controverso, diviene quasi un surrogato teologico. È stato criticato proprio per aver tentato di creare una religione amerindia unica, omogenea, astratta e idealizzata, che non si riferisce alle comunità e alle etnie e che, soprattutto, non entra in contatto con gli aspetti oscuri e conflittuali presenti nello sciamanesimo stesso: la morte, la guerra, la violenza e l’assenza di una distinzione nitida tra il bene e il male.
Il fatto è che questo annunciato paradiso in terra si nutre di argomenti e simboli sincretici, al limite del bricolage dilettantesco. Si va dal buddismo all’antico Egitto, dal misticismo cristiano allo zen, dallo sciamanesimo allo chassidismo ebraico e poi macrobiotica e ufologia, salutismo e cultura pellerossa, futurismo tecnologico ed ecologia. Insomma, tanta confusione così congeniale a una post-modeità che riesce a conciliare una critica apparentemente radicale alla società dei consumi con il business.
D’altro canto si può argomentare che tale pratica è anche solo un modo per giustificare come mettere il cosiddetto vegetalismo in contatto con le tradizioni autoctone millenarie, stimolando un’altra sensibilità, altri modi di vita e visioni del mondo del tutto particolari. Ma di fatto si tratta di modelli che lasciano certamente aperto un dibattito sull’etica di una tecnica empirica, non certo di una religione, che spesso non si pone il limite di sconfinare in campi troppo dissimili tra loro, mettendo in dubbio i dogmi e le competenze di fede su cui si fonda ancora il diritto ecumenico di rispettare la religione istituzionale. 

Di Massimo Ruggero

Massimo Ruggero




La faccia sporca dell’energia pulita

Goias: iniziative della chiesa in un drammatico contesto sociale  

Nello stato di Goias la situazione di povertà della gente è aggravata da un fenomeno recente: aumento della coltivazione della canna da zucchero per la produzione di carburanti biologici. A difendere i diritti della gente c’è sempre la chiesa, gemellata con la diocesi di Modena.

Agli occhi di molti di noi occidentali esiste solo il Brasile delle spiagge soleggiate di Rio de Janeiro con le sue ragazze dai corpi ambrati, o quello del giornioso carnevale di San Salvador di Bahia; ma ovviamente il Brasile non è solo questo. Esiste anche il Brasile di certi stati ai quali, dopo l’introduzione della canna da zucchero, sono stati «completamente cambiati i connotati»: nel nord-est sono sparite quasi per intero le foreste originali, la mata atlantica; negli stati centro-occidentali, come nel Goias per esempio, sta scomparendo il cerrado, la savana brasiliana, al cui interno si trovano oltre 100 mila specie di piante, di cui quasi la metà non sono presenti in nessun altro luogo al mondo; al loro posto distese senza fine di piantagioni di canna da zucchero.
La ragione è semplice: si sta cercando in maniera sempre crescente di implementare l’uso di questa pianta come «fonte di energia sostenibile» per la produzione di biocarburanti.
Già nel 1975, il governo brasiliano aveva lanciato il programma nazionale Proalcol, per incentivare l’uso del combustibile «più pulito al mondo», con lo scopo di muovere il parco macchine nazionale. Proseguendo con questa filosofia, nel 2007 il governo di Lula da Silva ha firmato un accordo commerciale con gli Stati Uniti, in funzione del quale ha deciso di ampliare di cinque volte le superfici dedicate alla coltivazione della canna da zucchero, che in Brasile corrisponde già a un territorio pari all’estensione di Regno Unito, Paesi Bassi, Belgio e Lussemburgo.
L’idea di sostituire la benzina con questo biocarburante sembrerebbe la più felice delle soluzioni. In realtà, come accade nella maggior parte delle situazioni, anche questa medaglia ha il suo rovescio. In primo luogo, la coltivazione estensiva della canna da zucchero sottrae terreni ad altre coltivazioni come il mais, il riso e i fagioli, che sono la base alimentare della fascia della popolazione più povera.
In seconda battuta, nei paesi in via di sviluppo, la richiesta di biocarburanti sottrae la terra ai piccoli coltivatori, per non parlare dell’ attuale speculazione sul prezzo dei generi di prima necessità. La creazione di grandi latifondi distrugge le strutture tradizionali della proprietà e della produzione.
Non mancano nemmeno le conseguenze sull’ambiente. Le monocolture di piante energetiche impoveriscono i terreni; l’impiego di pesticidi e concimi chimici avvelena le falde freatiche; le riserve idriche vengono razionalizzate in favore delle colture destinate all’esportazione.
Ancora più importante l’aspetto «umano» della vicenda. Le dinamiche migratorie risentono delle scelte economiche. Così, da un lato, si assiste a un flusso migratorio dalla campagna alle grandi città, dove i contadini, rimasti senza terra, sperano in un futuro migliore. Al contrario, la richiesta di manodopera per il taglio e la raccolta della canna da zucchero richiama un grande numero di lavoratori stagionali, i cortadores de cana de açucar, che finiscono con l’essere sfruttati e ridotti a vivere in stato di semischiavitù all’ interno delle piantagioni. Basti pensare, per quanto incredibile, che in Brasile il primo sindacato dei cortadores de cana de açucar nacque nel 1955 per difendere i diritti dei morti a venire seppelliti in una bara di legno invece che nella nuda terra… talmente tanta era la rassegnazione a vivere una vita senza diritti e senza speranze che almeno si voleva un posto dove riposare in pace una volta passati a miglior vita.

Lo stato del Goias, sito nella parte centro occidentale del Brasile, concentra tutte le problematiche legate alla produzione intensiva di biocarburanti, in particolare della canna da zucchero. Il Goias, occupa un’area di circa 341.289,5 kmq, ovvero grande poco più dell’ Italia e conta una popolazione di 6 milioni di abitanti.
La sua storia è strettamente legata a quella di San Paolo; è da qui che nel xviii secolo arrivarono le prime spedizioni di coloni portoghesi in cerca d’oro e di manodopera indigena da utilizzare nelle piantagioni. Quando la «febbre dell’oro» si esaurì, l’economia si spostò sull’agricoltura e l’allevamento.
Tuttavia, nonostante l’apparente ricchezza in questo stato vive una moltitudine di persone povere e prive dei diritti fondamentali. Contadini che, privati dai latifondisti della loro fonte di sostentamento, si avventurano nelle grandi città, finendo per alimentare le fatiscenti baraccopoli sorte negli ultimi 30 anni.
Chi, invece, non ne ha voluto sapere di abbandonare la campagna, ha dato vita al fenomeno dei sem terra (senza terra), contadini che si sono organizzati in associazioni per combattere i grandi proprietari terrieri e ottenere dallo stato federale la tanto agognata «riforma agraria». La lotta si è concretizzata nella formazione degli asientamentos, terreni occupati e coltivati, che con gli anni sono diventati una vera e propria sfida ai latifondisti.
Un altro fenomeno di importante rilevanza sociale che interessa lo stato del Goias sono le migrazioni di manodopera stagionale, ovvero i cortadores de cana de açucar, provenienti principalmente dalle regioni ancor più povere del nord-est brasiliano. Si stima che questa migrazione intea al Brasile coinvolga circa 30 mila persone all’anno. Lavoratori sottoposti a condizioni di vita disumane, privi di ogni diritto, che alloggiano in dormitori dove le condizioni igieniche sono carenti, il cibo insufficiente per compensare la grande fatica che questo lavoro comporta e le condizioni sono talmente pesanti da provocare, nei casi limite, la morte per fatica, o se non si arriva a tanto, sono molto comuni gli incidenti dovuti all’uso del machete senza le dovute protezioni agli arti, che la legge brasiliana richiederebbe ma che spesso sono disattese.

In questo difficile e complesso panorama sociale, nel 1975 è nata la «Commissione pastorale della terra» per opera dell’ allora vescovo di Goias Velho, don Thomas Balduino. Egli ha iniziato una serie di attività in difesa e sostegno dei più poveri, dei migranti, dei contadini e delle loro famiglie, che con gli anni si sono concretizzate in numerose attività a favore della comunità, come i centri di avviamento al lavoro per adolescenti, un centro pastorale per i minori, la radio comunitaria «Radio Villaboa», la Casa dell’agricoltura, la Scuola famiglia agricola e infine la Casa do migrante e il Centro dei diritti umani «padre Francesco Cavazzuti».
Queste attività sono state messe in opera insieme alla diocesi di Modena, con cui la diocesi di Goias Velho è gemellata, grazie anche all’intensa attività dei numerosi missionari modenesi, che hanno vissuto o vivono tuttora in Brasile, o grazie anche a volontari che semplicemente decidono di passare in questo modo le loro vacanze.
Questo intenso contatto tra le due diocesi ha portato poi anche alla collaborazione con l’associazione Modena Terzo Mondo, che da 13 anni sviluppa progetti di sostegno rivolti ai bambini, ai contadini senza terra e alle comunità locali. Tra questi, il sostentamento della Casa do migrante nella stessa città di Goias Velho.
La casa, nata formalmente nel 1996 in una vecchia abitazione di proprietà della curia, poi ampliata e ristrutturata nel 2000 proprio grazie ai volontari italiani, è ora in grado di accogliere 30 persone, alle quali per una cifra simbolica viene dato vitto e alloggio.
La Casa do migrante ha lo scopo di dare appoggio e assistenza temporanea a coloro che giungono a Goias dalle campagne circostanti per sottoporsi, per esempio, a visite mediche o assistere un familiare nell’ospedale cittadino, ma offre anche assistenza ai migranti provenienti da altri stati brasiliani che vengono per fare la stagione della canna da zucchero e si trovano in serie ristrettezze economiche. 

Non solo assistenza primaria e sostegno alle idee, ma anche promozione della conoscenza dei propri diritti e difesa sindacale. È questo l’obiettivo con cui è nato a Goias Velho il Centro dei diritti umani «padre Francesco Cavazzuti», che prende il nome dal suo fondatore:  classe 1934, carpigiano, missionario fidei donum in Brasile dal 1969.
Fin dal suo arrivo nella diocesi di Goias, don Cavazzuti si è distinto per la strenua difesa dei poveri e degli oppressi. Proprio per questo suo impegno, che si scontra con gli interessi dei latifondisti, nel 1972 rischia una prima espulsione dal paese. Nel 1978 diventa parroco di Mossamendes.
Ma è il 27 agosto 1987 che l’impegno e l’opera di don Cavazzuti rischiano di essere messi a tacere: durante una veglia di preghiera, un giovane, armato probabilmente dai latifondisti, spara al sacerdote. La pallottola lo colpisce al volto. Don Cavazzuti si salva, ma la sua vista ne è compromessa.
Nonostante l’attentato perdona il suo attentatore e lo visita in carcere, continuando poi a essere presente e attivo in mezzo ai deboli e indifesi, fino al suo ritorno in Italia nel 2007.
Il centro che porta il suo nome opera per la promozione e la garanzia della persona umana attraverso corsi di formazione, assistenza giuridica e difesa dei diritti violati. Al centro si rivolgono gli abitanti della città e delle zone rurali ma, soprattutto, i cortadores de cana de açucar che vogliono far valere i propri diritti sindacali contro lo strapotere dei latifondisti, i «senza terra», i piccoli agricoltori e gli «assentati», cioè quelle famiglie che, dopo anni di lotta e speranza, hanno finalmente ottenuto dal governo la tanto agognata terra da coltivare.
Il centro funge da «braccio operativo» della Commissione diocesana dei diritti umani, che si esplica sia nell’esecuzione delle azioni, sia nel rafforzamento delle associazioni locali in difesa dei diritti umani nei municipi e nelle parrocchie della diocesi di Goias Velho.

In Goias si sta vivendo un periodo di forti cambiamenti economici e sociali. Come abbiamo già detto, con l’avvento del biodiesel i terreni da pascolo per i bovini, sono trasformati, o stanno per esserlo, in terreni per la coltivazione della canna da zucchero e della soia. Questo fa sì che decine di migliaia di lavoratori giungano in questa regione soprattutto dal Nordest, per poi finire sfruttati, sottopagati e costretti a vivere in misere condizioni. Inoltre, sono ricattati: se protestano vengono lasciati a casa, sostituiti da altri disperati pronti a prendere il loro posto.
Il Centro «don Francesco Cavazzuti», insieme alla Pastorale della terra, la Casa del migrante, alla diocesi di Goias e tutte le associazioni di volontariato che lavorano con il mondo agricolo, sta cercando di fare un’opera di sensibilizzazione presso i sindacati locali e le comunità, affinché accolgano questi lavoratori che provengono da fuori, per umanizzare un po’ di più l’accoglienza.
Purtroppo, però, molti lavoratori hanno ancora paura a incontrare gli attivisti. Temono di perdere il lavoro, anche se qualcuno comincia a dare segni di insofferenza. Si comincia a capire che i lavoratori non sono solo «braccia», ma esseri umani con dei diritti.
In questo contesto le istituzioni locali, che sono ancora legate ai grandi latifondisti, non aiutano e non incentivano queste iniziative; anzi, sono aumentati i casi di minacce ai danni di coloro che si impegnano a sostenere i diritti di questi lavoratori.
Se continua così le prospettive non sono affatto molto rosee. Essendo decine di migliaia, ed essendo lavoratori stagionali, è molto difficile seguie il flusso, dare loro una mano e sostenerli e purtroppo, con l’aumento dei terreni adibiti alla coltivazione del biodiesel, la situazione peggiora di anno in anno.
In definitiva questa è la faccia sporca e nascosta dell’«energia pulita», che è venduta nel nord del mondo come l’energia che doveva risolvere il problema del petrolio, ma che invece sembra creae di nuovi.  

Di Manuela Fiorini

Manuela Fiorini




Una storia fatta da donne

Migranti italiane a Buenos Aires

“Miradas de luz”, una mostra fotografica realizzata da ICEI MERCOSUR nel giugno 2008, racconta alcuni aspetti della migrazione italiana in Argentina mettendo in evidenza il ruolo avuto dalla donna
in questo processo migratorio.

Tra il 1870 e il 1950 circa 2.500.000 persone lasciarono l’Italia per emigrare in Argentina e tentare la grande avventura de «la Merica». Circa 500 mila erano donne, la maggior parte delle quali seguivano i padri e i mariti in cerca di fortuna.
Queste donne non partecipavano attivamente alla decisione di «partire» ed erano costrette a un ruolo di accompagnamento e di cura familiare, tuttavia, nonostante il trauma della lontananza, sono state capaci di portare avanti la propria vita con coraggio e di lottare socialmente per il riconoscimento e la tutela dei propri diritti.
Il tema migratorio non perde la sua attualità, specialmente in questi anni in cui si assiste a una progressiva «femminilizzazione» del fenomeno. Sono sempre più numerose le donne che emigrano sole e si fanno carico del sostentamento della famiglia che resta nel paese d’origine. Al cambio radicale, spesso si accompagna il distacco dai figli e le non sempre facili mansioni lavorative negli ambiti «di cura» domestica.  
ARGENTINA E ITALIA NELLA METÀ DEL SECOLO XIX
La Costituzione del 1853 e la Ley de Inmigración y Colonización del 1876 sono due momenti importanti dell’organizzazione della politica migratoria argentina del secolo XIX.
L’articolo 18 della Ley de Inmigración y Colonización definiva immigranti i lavoratori giornalieri, gli artigiani, industriali, agricoltori e professori minori di sessant’anni che decidevano di stabilirsi in Argentina. La legge stabiliva i vantaggi – estendibili a moglie e figli – cui avevano diritto i nuovi arrivati che mostravano buona condotta e attitudine al lavoro. Tra le altre cose, gli immigrati potevano:
– essere alloggiati e mantenuti a spese della Nazione, durante il tempo stabilito dagli articoli 45, 46 e 47;
– essere inseriti nel mercato del lavoro nazionale, in accordo alle proprie preferenze;
– essere trasferiti con spese a carico dello Stato, nella parte della Repubblica argentina in cui decidevano di vivere.
L’emigrazione italiana fu un esodo complesso e multiforme, che interessò circa 20 milioni di italiani e durò più di un secolo, dalla prima metà dell’800 alla seconda metà del ‘900.
Il processo migratorio della seconda metà del XIX secolo fu la conseguenza di una somma di diversi fattori economici e culturali, che ebbero risvolti particolari nelle differenti regioni: dalla crisi agraria che colpì il nord Italia al collasso economico del sud.
I potenziali emigranti ricevevano notizie dei destini possibili attraverso l’informazione data dal Goveo, dalle Compagnie di colonizzazione o di navigazione. Anche il passaparola era un canale importante che influenzava le scelte di parenti, amici, vicini e delle reti informali che si costituivano. 
Il viaggio iniziava quando i migranti lasciavano il paese natio per raggiungere i diversi porti: Genova, Trieste o Napoli. Molte volte la partenza era un avvenimento collettivo, a cui partecipavano interi gruppi di parenti e conterranei che partivano per l’estero.
In Italia, le realtà regionali erano molto forti. Al momento dell’imbarco gli emigranti liguri, calabresi, napoletani o veneti si scoprivano «italiani», situazione aliena che si rinforzava con lo sbarco, quando si imponeva chiaramente la condizione di «emigrante italiano».
componente migratoria femminile
Secondo il primo censimento, realizzato in Argentina nel 1889, nella prima ondata di immigrati la componente femminile era una percentuale minore: una donna ogni due uomini a Buenos Aires, una ogni tre a Rosario. Dal 1880 in avanti, con l’arrivo massiccio dei piemontesi e dei lombardi, il numero delle donne aumentò.
Nel secondo censimento nazionale del 1895 risultava che la proporzione delle italiane era del 9,5%, la maggior parte delle quali nella città di Buenos Aires.
Raramente le donne emigravano sole. Poche volte decidevano. Spesso viaggiavano con il gruppo familiare come spose, figlie, sorelle, madri o erano «chiamate» a posteriori, molte volte attraverso un matrimonio per procura. In questo caso viaggiavano in compagnia di un parente maschio.
La componente femminile ha permesso di rendere permanente la scelta migratoria.
Hotel de los Inmigrantes
I migranti che arrivavano in Argentina venivano accolti in un’apposita struttura che, tra il 1887 e il 1911, veniva chiamata «La Rotonda». Nel 1911 si inaugurò l’«Hotel de los Inmigrantes», un complesso di quattro piani adiacente al molo di sbarco che comprendeva l’hotel propriamente detto, uffici di lavoro, ospedale, cucina, panetteria e una mensa che ospitava fino a 1.000 persone a tuo.
Una volta sbarcati, i nuovi arrivati alloggiavano gratuitamente per cinque giorni presso l’hotel, tempo che poteva estendersi in caso di necessità. Tutti gli stranieri in possesso dei documenti di viaggio e in buona salute erano ammessi. Nessuno era illegale nell’Argentina dell’immigrazione di massa.
LOS CONVENTILLOS
La migrazione italiana si concentrò in parte nelle principali città del paese, in parte diede origine a centinaia di colonie italiane sparse per tutta l’Argentina. Tra le altre, Humberto 1°, Lago di Como, Garibaldi, Toscana, Bella Italia, Piemonte, Firenze, Rey Humberto, Victor Manuel, Rufino. Nella provincia di Córdoba sorsero più di 400 colonie, alcune delle quali mantengono tuttora intatte le tradizioni di origine.
Gli italiani che si installarono nel Chaco crearono la propria industria del cotone. A Mendoza e San Juan sorsero molte aziende vinicole, a Tucumán fiorì l’industria dello zucchero, mentre nel Rio Negro un imponente lavoro di irrigazione rese possibile la creazione di oasi frutticole, come Villa Regina.
Nelle zone rurali, le donne si occupavano della casa, dell’orto e dell’allevamento di galline e conigli. Spesso lavoravano nei campi, a fianco degli uomini.
Gran parte dell’immigrazione italiana che si stabilì a Buenos Aires, si installò a La Boca e diede al quartiere un’impronta culturale molto forte. Oltre al dialetto della regione di provenienza, i migranti parlavano il cocoliche, un miscuglio di spagnolo e italiano.
Gli uomini lavoravano al porto, scaricavano le navi, lavoravano nei cantieri e costruivano abitazioni precarie di lamiera o legno, i «conventillos» in cui ogni famiglia disponeva di una stanza e condivideva la cucina e il bagno.
Regno indiscusso delle donne, il conventillo accoglieva decine di famiglie. Senza luce e senza aria, le abitazioni erano allineate attorno a un patio comune, dove conviveva una moltitudine di lingue e dialetti. Le donne passavano la maggior parte della giornata lavando, cucinando e badando ai bambini.
Il patio e la strada erano gli spazi di socializzazione e scambio, dove le donne svolgevano le attività domestiche o lavorative.
Lo sciopero delle scope
Le donne e i bambini dei quartieri di La Boca e Barracas furono i protagonisti di una delle proteste più famose di inizio del secolo scorso (1907), conosciuta come «la huelga de las escobas», (lo sciopero delle scope).
Gli inquilini del conventillo «Los cuatro diques», nel quartiere Barracas, rifiutarono l’aumento dell’affitto e in pochi giorni altri 500 conventillos si unirono alla protesta. Gli inquilini elaborarono una lunga lista di reclami che consegnarono ai portinai, incaricati di ritirare le quote mensili.
L’assenza degli uomini per lavoro obbligava le donne e i bambini ad affrontare la polizia e le autorità giudiziarie. Ne «las marchas de las escobas», (le marce delle scope), bambine e bambini di tutte le età manifestarono con le scope in mano lungo le strade del sud di Buenos Aires.
La mobilitazione coinvolse a catena molti conventillos, da cui la polizia venne più volte cacciata a colpi di scopa e secchiate d’acqua bollente.
Gli anarchici e i socialisti appoggiarono politicamente e materialmente gli scioperanti, e misero a disposizione i locali per le assemblee.
Gli scontri con le forze dell’ordine divennero sempre più crudi. Il funerale di un ragazzo di 15 anni, Miguel Pepe, colpito a morte dalla polizia, si trasformò in una marcia di 15 mila persone, capeggiata dalle donne.
Verso la metà del 1907 le ribellioni si spensero, benché nei conventillos coinvolti nella protesta le condizioni di vita fossero addirittura peggiorate. Molti degli scioperanti stranieri vennero espulsi dal paese.
VITA QUOTIDIANA
«No sin esfuerzo me adapté a todo. Aprendí a hablar el español con el trato de la gente, y sola, a leer y escribir en este idioma (…). Nos llevó un tiempo acomodaos a la realidad de este nuevo destino, de un país que no era el nuestro, pero que fue el de nuestros hijos». (Non fu senza sforzo che mi sono adattata a tutto. Ho imparato a parlare spagnolo relazionandomi con la gente e, da sola, a leggere e scrivere in questa lingua. Ci volle un po’ di tempo per abituarci alla nuova realtà di un paese che non era il nostro, ma che diventò quello dei nostri figli). (Maria Rizzoti, in Mujeres Inmigrantes. Historias de vida).
Le donne furono le mediatrici tra la cultura di origine e quella di arrivo. Ebbero un ruolo fondamentale nella trasmissione culturale e nel mantenimento dei tratti identitari, in particolar modo nella preservazione delle tradizioni gastronomiche e della medicina popolare. Le ricette dei piatti regionali passarono da madre a figlia, con l’aggiunta di ingredienti locali. Le donne portarono con sé le spezie usate abitualmente nella cucina italiana, come il rosmarino, la salvia, il timo, l’origano.
Per quanto riguarda il lavoro, alla fine del XIX secolo il mercato femminile offriva poche attività in genere poco qualificate, la maggior parte nel servizio domestico. Le donne lavoravano come cameriere, lavandaie, cuoche, stiratrici, camiciaie o ricamatrici.
Il lavoro femminile era spesso invisibile, dato che le attività domestiche non venivano remunerate e quindi non erano considerate veri lavori. In realtà le donne si occupavano di molte cose, tra le quali le faccende domestiche, i pasti, i bambini, la medicina popolare, le conserve, il pane e il sapone.
Con l’industrializzazione, le donne si incorporano nelle fabbriche tessili della capitale – come Alpargatas e Grafa – e in diverse fabbriche di Barracas che producevano fiammiferi, tabacco, candele e sigarette.
Anche l’industria dei vestiti iniziò ad assumere lavoratrici per le diverse fasi della produzione: disegno di modelli, taglio e cucito, stiratura. La maggior parte lavoravano a domicilio, poiché la macchina da cucire era un investimento accessibile alle famiglie operaie. Negli stabilimenti produttivi il salario femminile era inferiore a quello maschile. Nella fabbrica di Alpargatas, ad esempio, per lo stesso orario di lavoro le donne ricevevano da uno a due pesos e gli uomini da tre a quattro pesos.
Impegno sociale
A partire dal 1896, le donne si dedicarono anche all’attività sindacale. I conflitti iniziarono nei primi anni del XX secolo in alcune industrie di sigarette, fiammiferi e tessuti, dove la mano d’opera femminile immigrata era numerosa e superava la mano d’opera locale del 25%.
Nel 1904 le sarte e le disegnatrici di moda furono protagoniste di un famoso sciopero in cui chiedevano miglioramenti di stipendio e migliori condizioni di lavoro. Nel 1919 ci furono importanti scioperi del personale telefonico per orario abusivo e ambiente di lavoro inadeguato.
Le italiane furono attivamente presenti nei movimenti di lotta per i propri diritti. Tra queste, Carolina Muzzilli, socialista e figlia di italiani, partecipò a varie manifestazioni, assemblee e congressi. Diresse il giornale «Tribuna Femenina» e scrisse articoli sui diritti delle donne e contro lo sfruttamento. Formò parte del «Centro Socialista Femenino» fondato nel 1902, il cui fine era far conoscere alle donne i propri diritti e doveri.
La dottoressa Juliana Lanteri, di origini piemontesi, fu la prima donna a ottenere un titolo universitario in Argentina e lottò a favore del suffragio femminile. Nel 1919 si presentò come candidata deputata e realizzò una simulazione di voto alla quale parteciparono circa 4 mila cittadine. Da quel primo tentativo passarono più di 30 anni perché il voto femminile si convertisse in un diritto reale in tutta l’Argentina.
Il presente
Oggi l’Argentina è un paese di emigrazione e immigrazione.
Dalla fine degli anni ’70 del XX secolo, molti argentini nipoti e bisnipoti di italiani hanno deciso di ripetere il cammino che i loro avi avevano fatto un secolo prima, tornando a migrare. La dittatura militare e la crisi economica degli anni ’80 e del 2001 sono state alcune delle cause fondamentali di questo nuovo esodo.
Tutto ricomincia. Le condizioni di viaggio e le comunicazioni sono altre, però il sentimento di sradicamento è lo stesso. Le radici sono lontane e la lingua è solo un suono familiare.
Terminata l’ondata europea del secondo dopoguerra, in Argentina acquista visibilità il flusso migratorio proveniente dai paesi limitrofi, come Paraguay e Bolivia. Minori ma sempre considerevoli gli arrivi da Cile, Uruguay, Brasile e Perù.
I nuovi venuti si concentrano nelle aree urbane vicine ai grandi centri di consumo. Accanto alle migrazioni «tradizionali», si registra negli ultimi decenni la presenza di nuove comunità di immigrati promossa direttamente dal governo di Menem durante gli anni ’90 – come quella russa e ucraina – e, più recentemente, quella degli africani. Molti sono richiedenti asilo che, non essendo riusciti a raggiungere l’Europa, hanno optato per una destinazione meno richiesta.
Benché la migrazione dai paesi limitrofi sia storica, la società la considera un fenomeno nuovo e sembra dimenticare le caratteristiche in comune con gli esodi europei dei secoli XIX e XX: il predominio delle reti personali nei circuiti di distribuzione dei migranti, i modelli di accompagnamento familiare e l’importanza della comunità di origine come referente culturale e affettivo. Tipiche della migrazione più recente, sono invece le rimesse e la circolarità del fenomeno.
I migranti boliviani si organizzano in maniera analoga a quella degli italiani arrivati a Buenos Aires nel secolo XIX. I boliviani in Argentina hanno dato vita a circa 200 associazioni gestite da giovani tra i 30 e i 45 anni, in prevalenza commercianti. Altri immigrati lavorano nell’industria, nell’agricoltura e nella costruzione edilizia.
Oggi però c’è un’inversione nell’ordine tradizionale della migrazione. In passato, i primi a partire erano gli uomini. Attualmente si assiste a una «femminilizzazione» dei flussi migratori: confermate nel ruolo di gestione familiare, le donne scelgono di lavorare in paesi lontani mantenendo il più possibile il legame con la terra d’origine, dove vogliono ritornare per ricongiungersi con i propri affetti.
Il coraggio e la dignità sono i due elementi che caratterizzano le migranti. La nostalgia rimane sullo sfondo di un presente in costruzione. 

Di Paola Cereda

Paola Cereda




Migrazione di ritorno

La comunità polacca di Pomaretto (To)

Dalle miniere di carbone polacche a quelle del talco in Piemonte, con minore fatica e maggiore guadagno; ma molte cose stanno cambiando e gli immigrati polacchi aspettano solo l’occasione della migrazione di ritorno.

«I primi polacchi sono arrivati in galleria nel 2000 – racconta Ezio Sanmartino, capo servizio presso la cava di talco della Rio Tinto-Luzenac di Rodoretto, da 30 anni al lavoro nel sottosuolo -. L’azienda non trovava più persone locali disposte a scendere nelle gallerie e ha contattato un’agenzia polacca: sono arrivati in 26 in un colpo solo». Tutti assunti a tempo indeterminato. «All’inizio non è stato facile – continua il capo servizio, ormai prossimo alla pensione – perché i minatori polacchi provenivano da cave di carbone. Dove l’attività estrattiva è completamente diversa. Inoltre la lingua era un vero problema».
I responsabili della gestione dell’impianto hanno subito messo a disposizione dei nuovi arrivati una professoressa di italiano, e organizzato tui in galleria in modo che ci fossero sempre coppie formate da un italiano e un polacco. «Questo sicuramente ha aiutato l’integrazione sul posto di lavoro – spiega Sanmartino -, anche se ormai i polacchi sono in maggioranza, 21 su 29, ed è diventato impossibile rispettare il criterio della “coppia mista”. Bisogna comunque dire che “loro” sono più disciplinati dei “nostri giovani”, sono arrivati con esperienza in galleria e lavoravano di più. Una volta. Perché oggi, direi, si sono abbastanza omologati ai ritmi italiani… E hanno giustamente eletto un loro delegato sindacale».
Al signor Ezio capita spesso di accettare l’invito dei colleghi polacchi, che non mancano mai di offrirgli vodka, insaccati artigianali e caffè portati direttamente dal loro paese: «Si può dire che sono ben visti in valle – sottolinea Ezio Sanmartino -, si vedono spesso in giro la domenica e c’è addirittura un ragazzo che va a suonare l’organo nella parrocchia di Perrero, facendo cantare tutti in polacco».
Anche se, ammette il capo servizio, hanno lasciato tutti la famiglia al paese d’origine e appena possono tornano a passare i periodi di vacanza in Polonia. «Addirittura qualcuno dice di voler tornare a vivere nel paese d’origine – spiega -, perché ormai la differenza di salario si è praticamente annullata».
Gli arrivi di polacchi si sono effettivamente fermati. E la proprietà è nuovamente in difficoltà nel reperire mano d’opera: «Le gallerie saranno di sicuro attive ancora per 6 o 7 anni – spiega Sanmartino – e nel frattempo stanno facendo campionamenti per cercare altri filoni. Hanno messo degli annunci di ricerca personale sui giornali specializzati, ma per ora ancora nulla. Perché la miniera è un lavoro che ha il suo fascino, ma poi bisogna fare i conti con la fatica, il fango, lo sporco. E ai giovani oggi tutto questo non piace. Finirà che arriveranno da qualche altro paese in difficoltà, e tra poco non ci sarà più un italiano impiegato nella cava di talco. Pensi che già i miei due nonni e mio padre hanno lavorato a Rodoretto. All’inizio io mi son detto “mai in miniera”. Poi compiuti i 18 anni sono stato come attratto. E oggi, dico la verità, non mi dispiacerebbe se uno dei miei due figli seguisse le mie tracce. Anche se penso sia difficile: uno è diventato ingegnere informatico, l’altro ha 14 anni e sicuramente continuerà anche lui gli studi».

«S ono in Italia da quattro anni – dice Rafael Kubanda -. Vengo da Bielsko Biala, 60 km da Katoviza, zona mineraria. Mio padre e mio fratello sono minatori e sono venuti qui in Italia a lavorare nella cava della Rio Tinto-Luzenac in Val Germanasca otto anni fa. Poi hanno chiamato anche me».
In Polonia Rafael aveva un buon posto di lavoro, faceva consegne con un furgone e aveva uno stipendio considerato «alto» per i parametri polacchi di allora. «Il lavoro è molto diverso – spiega -. Qui sono più tranquillo, faccio le mie 8 ore per 5 giorni la settimana. In Polonia ero costretto a lavorare 13 ore al giorno, dalle 5 e 30 alle 22».
E inizialmente c’era anche una certa differenza di stipendio. «Quattro anni fa un euro valeva 4,20 sloti, ora ne vale solo più 3,40 – continua Rafael Kubanda -. E dicono che salga ancora di qui al 2011, anno in cui anche noi adotteremo l’euro. Alla fine, tra qualche anno, guadagnerò tanto quanto guadagnavo a casa mia».
Rafael Kubanda ha moglie e un figlio, e all’inizio della sua esperienza lavorativa in Italia si era trasferito da Bielsko Biala a Perrero in Val Germanasca, unico caso tra i minatori polacchi, con tutta la famiglia: «Avevamo deciso di venire tutti – ricorda il minatore -, mia moglie avrebbe imparato la lingua e trovato un lavoro anche lei. Dopo un anno ci siamo spostati a Pomaretto, dove mio figlio ha cominciato l’asilo. Ma purtroppo nel 2007, dopo un anno e mezzo, mia moglie ha deciso di tornare in Polonia con mio figlio. Non si trovava bene, non è riuscita ha trovare un lavoro che le piacesse e pativa la lontananza dai parenti».

A desso, appena può, Rafael  torna a Bielsko Biala: «Ogni due mesi cerco di mettere insieme i giorni liberi e vado una settimana dalla mia famiglia. Spesso in macchina con gli altri colleghi per spendere meno. Oppure con il pullman da Torino o con i voli low cost».
Un cambiamento netto di prospettiva. Da aspirare a diventare cittadino italiano a lavoratore «in trasferta». «Non abbiamo molti rapporti con i locali – spiega il polacco -. Ogni tanto andiamo alle feste di paese, ma non frequentiamo molto le famiglie. Nemmeno quando c’era qui mia moglie; anche se in quel periodo vivevamo in modo diverso: facevamo più giri, uscivamo di più. Andavamo anche qualche volta al mare. Ora non più. Non ho nemmeno più l’auto. E qui senza macchina è difficile vivere. Anche le montagne, che mi piacciono tanto, le vedo dalla finestra, ma arrivarci a piedi è lunga. Per cui preferisco stare con i connazionali. E piuttosto di andare a spendere in giro, ci compriamo della birra e ce la beviamo a casa. Con questo non posso dire di aver mai avuto problemi con i locali: vado d’accordo con tutti, sono gentili e conviviamo benissimo. Poi magari chissà cosa pensano di noi…».
La giornata di Rafael si svolge tra il magazzino della Rio Tinto-Luzenac e l’alloggio di Pomaretto. In attesa di maturare i giorni per tornare a casa dalla famiglia. «Da un anno niente più sottosuolo, lavoro in magazzino – spiega -. Ho avuto un infortunio in galleria e quando sono tornato dalla mutua mi hanno offerto questo posto. Il mio infortunio era il primo dopo due anni, perché la sicurezza in miniera è la prima cosa».
La sera Rafael Kubanda, quando torna a casa, passa più di un’ora a parlare con moglie e figlio: «Uso skype, perché Inteet costa molto meno delle schede telefoniche». Poi si mette a tavola con il collega polacco, con cui divide l’alloggio, per la cena: «Mangiamo cucina italiana – spiega – che ci piace molto. Da noi si mangia molta carne e patate. E il pane è un po’ diverso. Qui è dolce, da noi è all’aceto. Ma l’unica cosa che qui manca veramente è la salsiccia speziata, come la facciamo noi. Non sapete proprio farla! In compenso sapete fare bene tante altre cose, come pasta e formaggi, che da noi non ci sono».
La prospettiva della famiglia Kubanda è sicuramente quella di tornare a vivere al più presto a Bielsko Biala: «Mia moglie abita a casa dei suoceri – spiega Rafael -. E penso che la ristruttureremo per il futuro. Sicuramente non investiamo in Italia ma in Polonia. Appena trovo un altro lavoro nel mio paese, in cui mi paghino più o meno come qui too. Ma so che più a lungo rimango in Italia e più difficile diventa tornare in Polonia. Oggi ho 33 anni, e in Polonia chiedono lavoratori al massimo di 36 o 37. Sono gli ultimi anni in cui possiamo riorganizzare la nostra vita». 

Di Maurizio Dematteis

Maurizio Dematteis




Due culture ma… senza patria

Gli ivoriani di Dronero (Cn)

Ottenere la cittadinanza del paese ospitante è il primo passo per l’integrazione con la società locale… Ma rimane incancellabile la nostalgia per il paese di origine.

«N el 2008, la comunità ivoriana di Dronero (piccolo comune montano in provincia di Cuneo, ndr) è stata colpita da un lutto molto sentito: è morta una donna con un bambino di un mese. In paese si sono riversati centinaia di connazionali per assistere al funerale. Era impressionante: sono arrivati fin da Milano e Perugia. Insieme al Comitato per gli immigrati di Dronero hanno raccolto i soldi per mandare la salma al loro paese».
Elda Gottero, insegnante di scuola media in pensione, presidente della locale associazione «Voci del mondo» e animatrice dei corsi serali di alfabetizzazione per stranieri, ricorda con commozione l’evento. È sicuramente la persona più informata sulle comunità straniere in paese. Perché ha seguito l’arrivo dei primi ivoriani, la nascita della numerosa comunità e i suoi sviluppi.
«Oggi a Dronero abbiamo 750 stranieri residenti, su una popolazione di poco più di 7.000 abitanti. E la comunità ivoriana, con i suoi 220 membri registrati, è sicuramente la realtà più grossa». Era il 1992 quando si cominciò a vedere i primi uomini di colore nella zona. «Erano ivoriani irregolari – continua la professoressa – attirati dall’opportunità di lavorare nel corso dei quattro mesi della raccolta della frutta. E venivano a risiedere a Dronero per via dei costi di soggiorno più bassi rispetto a Cuneo».
In seguito alcuni di loro trovarono lavoro anche in inverno presso le piccole fabbriche della zona. «Perché qui da noi i neri sono molto meglio visti di magrebini e balcanici – continua la Gottero -. La gente dice: “I neir a sun pì bun. E a travaiu ad’pì” (i neri sono più buoni e lavorano di più, ndr)».
Nel 1998 viene approvata la Legge sull’immigrazione Turco-Napolitano, e gli extracomunitari possono mettersi in regola con un contratto di lavoro regolare. «In quel periodo arrivarono molti ivoriani dal Sud Italia – ricorda la professoressa – perché, mi dicevano, che in meridione nessuno gli avrebbe mai fatto un contratto. Qui da noi invece, con un po’ di fatica, riuscivano a ottenerlo. Sono nate in quel periodo molte cornoperative, che chiamavano i soci stranieri nel periodo di gran lavoro per poi lasciarli a casa quando non servivano. Una volta sistemati i documenti, comunque, gli immigrati hanno chiamato a Dronero amici e parenti». Ed è così che è nata la comunità ivoriana più grossa della provincia di Cuneo, nonché una delle più numerose in Piemonte.
«Una vera integrazione tra le persone di origine ivoriana e gli abitanti di Dronero è ancora al di là da venire – spiega Elda Gottero con rassegnazione -. I nuovi arrivati stanno prevalentemente tra loro e anche i ragazzi che frequentano le scuole faticano a legare con i compagni».
Da qualche anno la comunità ospite ha allestito un centro culturale presso un capannone affittato poco fuori dal centro di Dronero. «Organizzano feste, celebrano matrimoni e si ritrovano per le preghiere durante il ramadan. Qualche volta invitano imam illustri che arrivano da altri comuni limitrofi».
E proprio l’elemento religioso sembra essere un forte collante per la comunità ivoriana, per la stragrande maggioranza di fede musulmana. «Siamo ormai abituati a vedere, in occasione delle feste, le donne ivoriane nei loro vestiti tradizionali dai colori sgargianti – spiega Elda Gottero -. Ma da qualche tempo a questa parte hanno cominciato a fare la loro comparsa anche i veli islamici. Che prima, almeno a Dronero, non esistevano. Mi dicono che la componente religiosa in Italia è molto più accentuata che al loro paese. Perché la stragrande maggioranza delle donne in Costa d’Avorio non ha mai messo il velo. Molte di loro arrivate a Dronero, dopo qualche mese, cominciano a metterlo».
Gli ivoriani a Dronero sono in costante aumento, e il comune continua a ricevere iscrizioni di stranieri all’anagrafe. I cambiamenti in paese si notano, secondo la professoressa. Anche se in realtà, tolto il call center del signor Bakary Dembelé in centro paese, non esistono ancora esercizi commerciali o attività gestite da ivoriani.

«A vevo 19 anni quando son partito da Abidjan, in Costa d’Avorio. Ho preso un aereo e sono venuto in Italia per trovare lavoro, perché da noi era impossibile campare. La scelta è stata casuale, non conoscevo l’Italia, ma era il paese più comodo da raggiungere tra quelli in cui non c’era bisogno di visto d’entrata».
Bakary Dembelé, 37 anni, sposato con tre figli, racconta la scelta più importante della sua vita seduto al bancone del call center aperto nel centro di Dronero nel 2003. «Ad Abidjan ho studiato presso la scuola coranica e in seguito ho cominciato quella francese. Sono partito prima di finire il percorso di studi, e arrivato in Italia, trascorsi i primi tre mesi con un permesso di soggiorno da turista, sono diventato clandestino».
Il primo periodo di residenza in Italia il signor Dembelé l’ha passata a Napoli, dove un gruppo di connazionali gli ha trovato un lavoro in nero. «Dopo qualche anno sono andato a lavorare a Cuneo – ricorda l’ivoriano -, mi sono regolarizzato, e sono tornato ad Abidjan per sposarmi».
Bakary Dembelé oggi, oltre ad aver aperto con la moglie il call center, è operaio presso una ditta metalmeccanica di Dronero, che realizza parti per veicoli speciali Fiat. «Da quando sono nati gli ultimi due figli non siamo più tornati in Costa d’Avorio – spiega l’ivoriano -. I parenti li sentiamo per telefono e le notizie le vediamo al computer o in tv con la parabola».
Bakary non nasconde che qualche volta, dopo una telefonata con un parente, viene preso dalla nostalgia: «La cultura italiana mi piace molto, ma è come se stessi vivendo in un universo parallelo – spiega -: mi manca il mio paese natale, la mia terra, ma quando ci vado, dopo pochi giorni mi viene la nostalgia dell’Italia. Perché ormai in Costa d’Avorio è tutto cambiato. Capita anche agli italiani che vivono per un po’ in Costa d’Avorio, quando tornano in Italia hanno problemi a reintegrarsi. E lo chiamano mal d’Africa…».
Non più ivoriano, non ancora italiano. Il signor Dembelé si sente ormai un «senza patria». «Sicuramente l’accoglienza in Italia per noi è stata buona – spiega l’ivoriano -. Dronero è uno dei paesi della provincia di Cuneo con più extracomunitari: gli ivoriani nella zona oggi sono quasi un migliaio, e dal 1990 al 2008, in concomitanza con la crisi politica del nostro paese, sono praticamente raddoppiati. Siamo davvero tanti, e capita a volte di trovarsi a cena con famiglie di Dronero. Mi sembra un sintomo di buona integrazione».
Anche se, fa capire Bakary, gli incontri «misti» non sono certo la regola. E i membri della comunità locale ivoriana continuano a trovarsi tra loro in occasione delle feste tradizionali o religiose. Inoltre la moglie Tagarigbé Dembelé «parla meno l’italiano – spiega il marito -, perché essendo una mamma con tre figli ha meno tempo per badare all’integrazione. Per lei è dura, non ha i parenti vicini e, anche se io cerco di fare la mia parte, non è facile. Perché i figli danno la felicità ma sono anche un bell’impegno…».

C on due lavori, tre figli e tanta voglia di migliorare la loro condizione perché, dice il capofamiglia: «Ho sempre la tendenza a crescere. E se mi viene in mente un’altra attività come quella del call center per soddisfare nuove esigenze dei migranti, la farò».
La famiglia Dembelé ha sicuramente dovuto affrontare grossi cambiamenti. «In Africa vivi in un altro mondo, dal cibo ai comportamenti, ai rapporti – continua Bakary -. Se sei abituato a vivere qui, giù ti trovi malissimo, ma se in Africa ci sei nato e cresciuto te la “fai andare”. Da noi c’è più il senso dell’amicizia, mentre in Italia sono tutti più distaccati a causa della vita frenetica. Ma se si parla ad esempio di sanità, non c’è paragone. In Costa d’Avorio la sanità pubblica è pessima».
Il vero grosso problema per la comunità ivoriana, come per quasi tutti gli immigrati extracomunitari sul nostro territorio nazionale, è quello della burocrazia: «Per fare un documento valido tre mesi chiedono un sacco di cose e lo aspetti anche un anno – spiega Bakary -. E se ti chiamano per un lavoro vogliono il permesso di soggiorno, che se non ti è ancora arrivato ti fa perdere l’opportunità».
Ma nonostante tutto, la famiglia Dembelé è ormai sicura della scelta fatta: «Penso di aver fatto la scelta giusta – spiega il capofamiglia -. Il nostro futuro è questo. I miei figli stanno crescendo qui, e se decidessimo di rientrare per loro sarebbe davvero difficile. C’è qualche mio connazionale che alleva i figli in Costa d’Avorio presso i parenti. Ma io penso che loro debbano stare con i genitori, e un domani avere una doppia cittadinanza. Che è sempre una cosa in più: imparano la cultura italiana a scuola e quella ivoriana da me e mia moglie». 

Di Maurizio Dematteis

Maurizio Dematteis




Tra nostalgia e integrazione

I turchi di Pietrabruna (Im)

La comunità turca nella provincia di Imperia è consistente; le amministrazioni locali cercano di offrire opportunità di integrazione, ma non è sempre facile, sia per mancanza di mezzi che per la resistenza degli immigrati, specie tra i più anziani. 

«Quando hai oltre 100 cittadini stranieri residenti su 390 abitanti si pone un problema di tenuta. Non si tratta assolutamente di razzismo o intolleranza, è un problema di numeri: problemi con le scuole, con i parcheggi ecc.: 100 nuovi cittadini che si aggiungono ai residenti rischiano di mandare in tilt tutti i servizi». Riccardo Giordano, sindaco di Pietrabruna, piccolo comune di 591 abitanti sparso in diverse borgate nell’entroterra della provincia di Imperia, non usa mezzi termini per spiegare la trasformazione vissuta dal suo piccolo comune.
«Abbiamo ben 148 stranieri residenti nel comune, di 14 paesi diversi, in maggioranza, 94, di origine turca. E questi ultimi sono tutti concentrati nella borgata centrale di Pietrabruna». Era la seconda metà degli anni ‘90 quando la vecchia polveriera militare dismessa, che si trova sulla strada d’accesso al piccolo comune imperiese, viene trasformata in un centro di accoglienza per profughi kurdi, in fuga dalla persecuzione subita nella loro regione d’origine. Il piccolo centro arriva ad ospitare fino a 2.500 persone. Alcune delle quali riescono a trovare lavoro e stabilirsi a Pietrabruna.
«Nel 2000, quando sono diventato sindaco, i turchi non erano più di una decina – ricorda Riccardo Giordano -. Poi è successo che famiglia chiama famiglia, e pochi mesi fa abbiamo raggiunto il top. E si, perché più di così non ci possono stare fisicamente, non ci sono più case disponibili». E nonostante le periodiche proteste di alcuni residenti che si sentono «assediati», il primo cittadino cerca di gestire la situazione.
«Se dal punto di vista culturale l’atteggiamento di alcuni abitanti è “fuori dalle scatole”, dal punto di vista economico è “belin che gli affitto la casa”. Poi c’è la maggioranza silenziosa, che non si esprime. In mezzo, noi del comune, che cerchiamo di fare da mediatori».
Ma l’arrivo dei turchi ha anche permesso al comune di mantenere attivi alcuni servizi, che altrimenti sarebbero stati dismessi. «La scuola ad esempio, la manteniamo aperta a tutta la popolazione grazie ai bambini turchi – spiega il primo cittadino -. Nel 2008 infatti su sei bambini nati, cinque sono turchi e uno italiano».
Ma l’altra faccia della medaglia è che alcuni scolari stranieri arrivano durante l’anno, senza conoscere la lingua, e ci vorrebbe il sostegno di un insegnante d’appoggio. Che l’Istituto comprensivo scolastico non riesce a garantire. E finisce che l’amministrazione comunale deve farsi carico del servizio. «Tuttavia non dobbiamo preoccuparci più di tanto – tranquillizza il sindaco -. Qui fortunatamente non abbiamo mai avuto problemi di ordine pubblico. Guai, diventerebbe difficile amministrare la situazione. I turchi sono molto tranquilli, tutti occupati nell’edilizia. Molti magari lavorano in nero, ma altrettanti hanno aperto partita iva, lavorano onestamente e pagano le tasse». Sono specializzati in muri in pietra.

Il vero problema da affrontare in un futuro prossimo, secondo Riccardo Giordano, è quello dell’integrazione della nuova comunità. «Qui integrazione non ce n’è, perché loro non la cercano. Forse ci sarà in un’altra generazione, ma oggi in paese non c’è nessuna visibilità della comunità turca, non hanno aperto negozi né creato nulla di loro. È tutto come prima. Le donne velate le vedi solo quando vanno a fare la spesa. Altrimenti stanno in casa. I turchi si frequentano tra loro ed escono poco».
La giunta comunale ha organizzato corsi di italiano per le donne turche realizzati da una maestra madre lingua. «Non so se il prossimo anno riusciremo a riproporre il servizio – continua il primo cittadino – perché dobbiamo ancora trovare le risorse economiche. L’Ici non c’è più e le spese aumentano. Bisognerebbe anche costruire delle occasioni di confronto, qualche festa assieme per promuovere l’integrazione. Ma non ce la facciamo a far tutto da soli».

«Alle olimpiadi io tifo per l’Italia e non per la Turchia. Perché ormai il mio posto è questo. Sono arrivato a Pietrabruna nel ’99 da Sorgum, provincia di Yozgat, vicino alla capitale Ankara, che avevo 12 anni. Insieme a me tutta la famiglia: padre, madre, quattro fratelli maschi e due sorelle». Questa la confessione di Karaman Ismail, che insieme a tre cugini turchi racconta la sua storia seduto al dehor del bar, nella piazza del paese.
«Partito dalla Turchia – racconta il giovane – sono venuto subito qui. Mio padre lavorava a Pietrabruna come muratore dal 1996, e io, dopo qualche anno di studio, ho aperto una ditta edile con mio fratello. Mio padre aveva conosciuto un connazionale in Germania che gli parlò della provincia di Imperia, dicendo che si trovava lavoro. Abbiamo deciso di venirci tutti».
La comunità turca della provincia di Imperia, secondo Karaman, conta oggi circa 2.500 persone. Di cui ben 94 residenti nel piccolo comune di Pietrabruna. «Il grosso problema per chi arriva qui è trovare casa – spiega -. Giù ad Imperia per una stanza ti chiedono anche 800 euro al mese. Per questo molti sono venuti a stare qui a Pietrabruna, dove si trova anche per 250».
Altro problema, ammette il giovane, è quello della lingua. Anche se, dice: «L’italiano è più facile di tedesco e inglese. E tutto sommato è stato facile impararlo. Chi non lo parla, e purtroppo sono ancora molti, è perché non vuole integrarsi. E questo non è giusto; alcuni vengono qui esclusivamente per lavorare e fare i soldi con la sola idea di tornare in Turchia. Vogliono prendere in giro la gente. Ma a me, come a tanti della mia generazione, non va. Io tra qualche mese prendo la cittadinanza, almeno sono tranquillo di poter rimanere».
Karaman è amico di tutti, parla con i connazionali e i liguri indifferentemente. Suo papà, invece, appartiene a un’altra generazione, non parla ancora molto l’italiano, e tra qualche anno vorrebbe tornare in Turchia. «Mio padre adesso lavora meno, ha cominciato a 12 anni e oggi ne ha 48. Arrivato in Italia ha lavorato per ditte locali, poi appena ottenuto il permesso di soggiorno ne ha aperta una sua. Ma ora è vecchio e tocca a noi provvedere alla famiglia; penso che tra tre o quattro anni toerà a Sorgum».
L’idea di tornare in Turchia al giovane turco invece proprio non va. «A volte mi viene la nostalgia del mio paese – spiega – ma mi va via in fretta. Quando too per le vacanze trovo sempre tutto cambiato. La gente mi guarda in un modo diverso, e anche la mentalità ormai non mi appartiene più. Mi sento a posto più qui che al mio paese, e in Turchia non riuscirei più a viverci. Noi giovani non ce la facciamo più a tornare».

La famiglia Ismail, che ha da poco comprato casa nel piccolo comune ligure, ha comunque conservato la casa di famiglia in provincia di Yozgat. Dove il padre sta addirittura costruendo due alloggi per le vacanze ai figli maggiori. «Oggi tutto sommato non possiamo proprio lamentarci – continua il giovane turco -. Siamo andati via dalla Turchia per motivi economici e da quel punto di vista va molto meglio. Qui possiamo addirittura festeggiare le ricorrenze musulmane nel nostro centro a Porto Maurizio, dove abbiamo un imam e dove ci rechiamo a comprare i prodotti per la nostra cucina. Come la carne alal, proveniente dalla Francia. Sempre a Imperia, poi, c’è un foo e un bar gestiti da turchi. E stanno pensando di aprire un negozio con i nostri prodotti. Tutte notizie positive, perché penso sia un bene che oggi i turchi non facciano più solo i muratori».
Certo Karaman non nasconde che rimangono alcuni problemi, primo fra tutti quello dei documenti. «Il sistema qui da voi proprio non funziona. Possibile che se uno temporaneamente non lavora e non ha la busta paga, per avere il rinnovo del permesso in questura debba iscriversi all’artigianato? E se poi non riesce a pagare le tasse? Gli ritirano immediatamente il permesso di soggiorno».
Inoltre, spiega Karaman tra i gesti di consenso degli amici, il vero problema che deve affrontare la comunità turca di Pietrabruna è la crisi economica. Perché da un anno a questa parte nel piccolo comune gli immigrati faticano a vivere: «C’è poco lavoro e le tasse continuano a salire, tanto che dalla Turchia non arriva più nessuno – conclude Karaman Ismail -. Anzi qualcuno comincia a tornare indietro ed altri emigrano in Francia. In Germania meno, perché lì vive bene chi è andato qualche anno fa. Ora è difficile entrare, fanno il test della lingua. Dicono che vogliono farlo anche in Italia, e secondo me sarebbe giusto, perché chi vuole venire a lavorare qui dovrebbe saperla. Poi come se non bastasse sono arrivati anche i rumeni, che lavorano quasi gratis». 

di Maurizio Dematteis

Maurizio Dematteis




Da  spaccapietre a imprenditore tessile

La comunità cinese di Barge (Cn)

Le tradizioni familiari e i legami clanici sono ancora forti nelle comunità cinesi; ma qualcosa sta cambiando tra i giovani, che rompono con il passato, avviandosi sulla strada dell’integrazione con l’ambiente in cui lavorano.

«Le prime famiglie cinesi in valle sono arrivate verso la fine degli anni ’90. Richiamate da un mercato del lavoro carente di operai che lavorassero nelle cave di pietra dei piccoli comuni di Barge e Bagnolo, in provincia di Cuneo». Ricorda bene quel periodo Pietro Schwarz, responsabile di progetto del Consorzio Monviso solidale, associazione costituita dai 52 comuni dell’area cuneese compresa tra Fossano, Saluzzo e le Comunità Montane Valle Varaita e Valle Po, Bronda e Infeotto, per la gestione dei servizi socio-assistenziali.
«Abbiamo subito aperto due sportelli a servizio degli immigrati a Barge e Bagnolo – continua Pietro Schwarz -, i luoghi in cui si è concentrata la comunità cinese. Che oggi conta più di 800 persone». Su 12.700 abitanti (rispettivamente 7.000 a Barge e 5.700 a Bagnolo), secondo i dati ufficiali, vivono ben 801 cinesi – rispettivamente 495 a Barge e 306 a Bagnolo. Ma gli impiegati comunali non nascondono che in realtà ce ne sono molti di più. E presso gli sportelli, un giorno a settimana gli operatori del Consorzio accolgono gli immigrati, aiutandoli nelle operazioni più disparate: dal disbrigo di una pratica burocratica alla lettura e comprensione di una contravvenzione; dalla presa in carico di problemi nati sul posto di lavoro, spesso a causa della scarsa conoscenza della lingua italiana, all’ascolto dei possibili problemi interni alla stessa comunità cinese.
«Il nostro lavoro, che possiamo definire “di comunità” – continua l’operatore – è nato all’indomani di alcune segnalazioni del Tribunale dei minori di Milano. Perché sebbene a Barge e Bagnolo non si siano mai verificati problemi con la giustizia minorile, è sempre meglio prevenire i problemi lavorando per l’integrazione tra italiani e cinesi».
Il Consorzio non si limita agli sportelli, ma promuove laboratori didattici nelle scuole elementari e medie. «Nel complesso scolastico di Barge i ragazzini cinesi sono ormai il 17,82% – spiega Pietro Schwarz -, mentre in quello di Bagnolo il 19,44%. Numeri rilevanti da cui partire per promuovere fin da subito un corretto percorso di integrazione». Perché se, come spiegano gli operatori del Consorzio, con adulti e anziani l’integrazione praticamente non esiste, e i rapporti con gli italiani si limitano alla coabitazione all’interno del paese, è sui giovani e giovanissimi, fino ai 16/17 anni, che si gioca la vera partita.
«Con i giovani, se si propongono delle attività, si può legare tranquillamente – continua il responsabile di progetto -. E in un luogo come Barge e Bagnolo, dove c’è pochissimo fermento culturale, è molto semplice agganciare i ragazzi». E grazie al paziente lavoro della scuola, delle associazioni come il Consorzio Monviso solidale e alla buona accoglienza da parte della popolazione locale, anche all’interno della conservatrice comunità cinese, dove i clan familiari hanno ancora la loro influenza, oggi qualcosa sta cambiando: «Gli esempi di rottura con il passato sono ancora pochi – conclude Pietro Schwarz -, ma cominciano a nascere. E non mi riferisco agli otto magazzini di lavorazione della pietra gestiti da imprenditori cinesi, che comunque lavorano sempre per conto terzi. Ma ad esempio alla nuova gestione del ristorante cinese in valle o al laboratorio tessile aperto recentemente a Bricherasio. Tutte attività nate per volere di giovani imprenditori cinesi desiderosi di migliorare la loro condizione di vita, sganciandosi dalla tradizione familiare della lavorazione della pietra».

«Sono arrivato a Barge dalla Cina cinque anni fa. Oggi ho 19 anni, che per l’Italia sono solo 17 (l’età anagrafica in Cina viene calcolata in maniera differente rispetto al resto del mondo, nda), e da sei mesi lavoro nel laboratorio tessile di mio fratello maggiore Chen Rongqian, di 21 anni italiani, a Bricherasio».
Chen Rongyong, originario del villaggio di Yuhu, nei pressi di Wenzhou, provincia dello Zijang, oggi lavora dalle 12 alle 15 ore al giorno nel laboratorio di famiglia. Si fa chiamare Davide, perché dice: «Mi serve per lavoro: il nome italiano è più semplice da ricordare per i clienti». Oltre a cucire e stirare, infatti, Davide cura i rapporti con i fornitori. «Arrivato in Italia – spiega – ho continuato gli studi di economia aziendale. E anche se non mi sono diplomato, perché ho preferito andare a lavorare prima, mi è servito per imparare la lingua. Oggi tengo i contatti con i clienti che foiscono i capi da cucire. Ditte importanti come Armani o altre simili».
Il padre di Davide è arrivato a Barge con il fratello maggiore Rongqian nel 1998 per lavorare in una cava di pietra. Dopo tre anni è arrivata la mamma, poi la sorella maggiore e infine, nel 2003, Davide. «Sono contento della scelta che ho fatto – spiega il ragazzo -. Un anno fa ho smesso di studiare, ho fatto un po’ di esperienza presso laboratori tessili di Padova e Rovigo e sei mesi fa sono tornato per aprire il primo laboratorio tessile della zona con mio fratello».
Certo, ammette Davide, prima aveva molto più tempo libero, «mentre ora insieme ai miei colleghi (tutti rigorosamente cinesi, nda) lavoro almeno 12 ore al giorno. Io, mia sorella di 25 anni e mio cognato arriviamo anche a lavorae 15. Perché quando c’è tanta merce da cucire passiamo anche le notti in laboratorio. E non esiste sabato e domenica».
Ma la contropartita è il guadagno. Un buon mensile che permette alla famiglia Chen di sperare in un futuro migliore. «Mia mamma ora lavora con noi, tutti i giorni ci prepara il pranzo che consumiamo in laboratorio – spiega Davide -. Prima faceva le stagioni nella raccolta della frutta, si svegliava tutte le mattine alle 5 e lavorava fino alle 20. Ora è più tranquilla e si può svegliare più tardi. Mio padre invece lavora la pietra, si alza tutte le mattine alle sei».

Davide, quando è partito dalla Cina, aveva solo 12 anni. Sono stati i genitori a decidere per lui. «A Yuhu non stavamo male e avevamo buone scuole – ricorda il ragazzo -. Ma si guadagnava poco e la vita diventava ogni giorno più cara. E in definitiva non mi è dispiaciuto lasciare il mio paese. Da quando sono arrivato in Italia mi son sempre trovato bene, ben accolto da tutti».
In Italia, secondo Davide, oltre al tempo libero non manca nulla. E continua: «Oggi posso dire che vorrei rimanere per sempre in Italia. In Cina c’è troppa confusione, mentre in Italia si vive più tranquilli, si fanno le cose con più calma». Con buona pace dei suoi genitori, che vorrebbero un giorno riportare a Yuhu tutta la famiglia.
«I miei genitori vorrebbero che tornassi con loro. Ma io non voglio. Ormai qui in Italia ho i miei amici, vado al bowling o in altri luoghi di svago. In Cina, in questi cinque anni, non ci sono mai tornato. Non mi interessa più. Anche se questo, sono convinto, non fa molto piacere ai miei genitori». 

Di Maurizio Dematteis

Maurizio Dematteis




Dalle navi dei disperati alle nevi delle Alpi

La comunità albanese di Sestriere (To)

Sbarcato a Brindisi nel 1991 e raggiunto Sestriere, il signor Vebi Zeneli ha trovato lavoro nei cantieri edili, d’estate, e nelle cucine dei ristoranti d’inverno, finché si è messo in proprio, come gestore di un bar.

«I primi lavoratori albanesi arrivarono da noi una quindicina di anni fa – spiega Luca Paparozzi, vice sindaco del comune montano di Sestriere, in provincia di Torino, 886 abitanti -. Erano per lo più lavoratori stagionali, impiegati nel campo dell’edilizia».
Correva l’anno 1991 quando, per risolvere l’emergenza delle migliaia di albanesi sbarcati sulle coste pugliesi, le autorità italiane organizzarono decine di centri di prima accoglienza in tutte le regioni. Uno di questi venne realizzato a Susa, a pochi chilometri da Sestriere. E proprio da quell’esperienza è nata l’attuale comunità albanese di Sestriere, che ormai conta 47 residenti regolarmente registrati.
«C’è voluta una decina di anni prima che i lavoratori albanesi diventassero stanziali – continua Luca Paparozzi – ma oggi vivono a Sestriere con le famiglie e sono sicuramente la comunità straniera più numerosa in paese. Oltre il 50% di tutti gli stranieri residenti».
Una comunità coesa, che si ritrova spesso presso il bar Le cafè creme, gestito dal connazionale Vebi Zeneli. «L’arrivo di queste famiglie, in numero non eccessivo, è stato da noi accettato e percepito come una risorsa positiva» spiega il sindaco di Sestriere Andrea Maria Colarelli.

«Sestriere ormai non la lascio più. Sono 15 anni che ci vivo e mi trovo bene. Questa ora è casa mia». Non ha più dubbi Vebi Zeneli, gestore del bar Le cafè creme, in via Pinerolo 23/b, dove ogni settimana arrivano una ventina di copie di Bota Shiptare, il giornale degli albanesi in Italia.
È arrivato nel 1991, sbarcato in Puglia dalle «navi dei disperati», che ogni sera ci venivano proposte dalle immagini dei telegiornali.
«Era primavera – ricorda Vebi Zeneli -. E con il mio vicino di casa abbiamo comprato una bicicletta per andare in due da Tirana, mia città natale, al porto di Durazzo, a 40 chilometri, sulla costa. Avevo 25 anni e lavoravo in una miniera. Arrivati sul molo il mio amico ha dato l’orologio e un mese di stipendio a un poliziotto che ci ha fatto salire sulla “carretta” ormeggiata, carica all’inverosimile, che batteva bandiera panamense».
Dopo 12 ore arrivavano a Brindisi, dove le autorità italiane smistavano gli sbarcati presso i campi di prima accoglienza organizzati in tutte le regioni italiane per affrontare l’emergenza. «Ci hanno subito dato acqua e cibo. E latte per i bambini – continua Zeneli -. Sono finito nel campo di Ostuni, e dopo poco ho cominciato a uscire durante il giorno in cerca di lavoro. Davano 25 mila lire al giorno. Che non era una gran cifra. Ma d’altra parte eravamo sbarcati in 30 mila. E devo dire che i pugliesi ci hanno davvero aiutato, in tutti i modi».
Un giorno un amico chiama il signor Zeneli dal piccolo comune piemontese di Sestriere. Anche lui un boat people del 1991, sbarcato a Brindisi era stato trasferito presso il campo di prima accoglienza di Susa, in provincia di Torino. «Lavorava a Sestriere dove viveva con la famiglia – spiega Zeneli -. Mi disse che se lo raggiungevo mi avrebbe trovato lavoro». Ed è così che il signor Zeneli arriva finalmente a Sestriere.
«Nel 1993 eravamo una ventina di albanesi a Sestriere – ricorda -. Molti hanno lavorato per anni nella costruzione dell’autostrada del Frejus. Io ho cominciato a lavorare in un cantiere edile. E finita la stagione estiva sono andato a fare il lavapiatti al ristorante Alpette, sulle piste da sci». D’estate nei cantieri e d’inverno in cucina. Prima da clandestino, poi ottenuti i documenti, con contratti stagionali.
Poi, un giorno, la svolta: il vecchio gestore del bar Le cafè creme decide di lasciare l’attività. E il signor Zeneli si fa avanti: «Ho chiesto a un amico ristoratore di Sestriere – ricorda -. Ho lavorato anni per lui, e siamo diventati buoni amici. Mi ha consigliato di provarci. Così sono andato dal padrone dei muri e ho detto: lo prendo. Non lo conoscevo, e mi ha subito detto che per lui non c’erano problemi. Albanesi, americani o cinesi, per lui l’importante era che pagassero l’affitto».
Da ormai 5 anni la famiglia Zeneli gestisce l’esercizio commerciale. Aperto dal mattino alle 6 alla sera alle 21; 365 giorni all’anno. Diventando un punto di riferimento sia per gli abitanti locali che per la comunità albanese. «Penso di non aver fatto male a prendere il bar – spiega Vebi Zeneli -. Riesco a viverci con la famiglia». E riesce a mandare il figlio di 10 anni allo sci club. Che è un’attività costosa, ma praticamente l’unico sport esistente a Sestriere.
«Certo trasferirsi in Italia non è stata una passeggiata – racconta Vebi Zeneli -. Di difficoltà ne abbiamo incontrate. E il problema più grosso è sempre stato il rinnovo dei documenti. Ogni quattro anni. Ora che ho il bar ho ottenuto il permesso di soggiorno decennale. E spero vada meglio. Anche se per chiedere la cittadinanza ci vogliono i documenti albanesi: certificato di nascita ecc. Ma da noi è difficile ottenere i propri diritti. Bisogna pagare per qualsiasi cosa. Per questo non ho ancora fatto domanda».

I l signor Zeneli, quando parla del suo paese natale, si incupisce: «Le scuole non funzionano – spiega -. Gli ospedali neppure. La situazione dal 1991 è molto peggiorata. E mi spiace veramente vederlo in questo stato, perché il paese è molto bello». Ma la tristezza dura poco.
Appena entra un cliente nel locale il suo volto è di nuovo sorridente: «Qui ho ottimi rapporti con tutti – spiega -. L’ex sindaco Franco Giaime, ad esempio, viene spesso a giocare a carte da me con gli amici, e mi ha insegnato un gioco locale di nome Belot. Ho imparato la lingua lavorando: e oggi capisco anche patornis e piemontese. Alle feste locali andiamo sempre. E anche se io non so ballare, i balli occitani non sono poi tanto differenti dai nostri. Persino la questione religiosa non è mai stata un problema: siamo musulmani, ma siccome fino al ‘91 le moschee in Albania erano chiuse, siamo abituati a fae a meno. Mio figlio è felice di frequentare la chiesa cattolica».
E anche se la prospettiva della famiglia è quella di rimanere a vivere a Sestriere, con le rimesse verso il suo paese il signor Zeneli ha comunque ristrutturato la vecchia casa di famiglia. Perché non si sa mai: «Quando William finirà la scuola – conclude – potrà liberamente decidere se tornare in Albania o meno. È per questo motivo che in casa parliamo albanese, così ha l’opportunità di conoscere due lingue. Inoltre gli parlo spesso dell’Albania, e quando andiamo a trovare i nonni gli faccio vedere i luoghi della mia infanzia. Ma sarà comunque molto difficile che torni. Perché ormai amici e interessi li ha a Sestriere. Ho deciso di trasferirmi qui per stare meglio, per migliorare la mia vita. E così è stato. Lavoriamo tanto, è vero, ma con la stessa fatica giù non riuscirei a fare questa vita». 

Di Maurizio Dematteis

Maurizio Dematteis