MISSIONE DIRITTI

Parlando ancora di diritti umani

Sulla scia di «Diritti e Rovesci», monografia sui diritti umani pubblicata
dalla nostra rivista lo scorso ottobre, due interviste per tener vivo l’argomento e illustrare due modi in cui i missionari della Consolata mettono questo tema nell’agenda delle loro attività di animazione e formazione.

Oggi:  lezione di diritti umani

Conversazione con Luca Lorusso, cornordinatore del «settore scuola» del Centro di Animazione missionaria di Torino.

Luca, facci un esempio del tuo lavoro di animazione e formazione ai diritti umani nelle scuole.
È da alcuni anni che propongo nelle scuole secondarie di primo e di secondo grado (le vecchie scuole medie inferiori e superiori) un percorso formativo dal titolo «I diritti dei minori», incentrato sulla «Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza» (1989). Insieme agli insegnanti, propongo ai ragazzi la lettura e l’elaborazione personale e di gruppo del testo del documento, offro un approfondimento su alcune violazioni di diritti e le loro cause e stimolo l’auto riflessione della classe su tale argomento. Ecco questo è un piccolo esempio di ciò che faccio.

Come è nato questo tuo interesse? Perché lo fai?
Sono un laico missionario della Consolata e mi occupo a tempo pieno di animazione missionaria. Benché già sporadicamente presenti nelle scuole attraverso testimonianze missionarie e incontri su popoli o paesi del cosiddetto Sud del Mondo, da qualche anno alcuni laici, tra cui il sottoscritto, hanno ricevuto il compito di pensare, progettare e attuare interventi di educazione alla mondialità didatticamente qualificati e metodologicamente innovativi che sfruttino le testimonianze di chi vive direttamente l’incontro con altre culture e i contributi dell’«esperto» in materia. Tutto ciò al fine di poter permettere un accesso ancora più ampio della missionarietà alle scuole.

Più concretamente, a chi ti rivolgi?
Da ormai quattro anni incontro bambini, ragazzi, adolescenti di ogni zona di Torino e della provincia, dalle zone «bene» a quelle più periferiche, dalla prima cintura cittadina, ai piccoli comuni della provincia, di ogni estrazione sociale e provenienza geografica.
I percorsi di educazione alla mondialità sviluppati in questi anni ci hanno permesso di approfondire molti degli aspetti sociali, culturali, ambientali che caratterizzano il mondo globalizzato in cui viviamo.
Avendo presente questo contesto proponiamo nuovi stili di vita ai bambini delle elementari attraverso fiabe e giochi che aiutano a entrare nelle storie dei prodotti di consumo. Per esempio, riflettiamo coi ragazzi sulla difficoltà di stabilire a priori se sia migliore la qualità di vita di un ragazzo italiano o di un ragazzo africano attraverso il confronto tra le loro due giornate tipo. Oppure, offriamo loro strumenti ed elementi critici per comprendere i meccanismi della comunicazione massmediatica e dei condizionamenti che ne derivano; approfondiamo con i ragazzi le cause storiche e attuali dell’impoverimento di gran parte della popolazione mondiale o della diffusione di epidemie.
Infine, condividiamo conoscenze e analisi sull’impatto ambientale del nostro stile di vita e sulle alternative possibili. Tutto per creare coscienza, allargare gli orizzonti, vivere in maniera libera e consapevole la nostra vita di tutti i giorni. Sono spazi importanti di comunicazione, condivisione e crescita nell’alterità, per molti ragazzi possibili soltanto in ambiente scolastico. Spero che chi sta pensando alla riforma della nostra scuola ne tenga conto.

E come parli dei diritti umani?
Direttamente o indirettamente, questo tema risulta presente in modo costante in tutti gli interventi: in qualsiasi incontro io faccia nelle scuole inevitabilmente arrivo a riflettere con i ragazzi sull’essere umano e sui diritti che, in ogni parte del mondo, vengono negati attraverso i vari tipi di violenza strutturale, economica, interpersonale, comunicativa.
I miei interventi cercano di far emergere quanto i ragazzi già sanno e l’esperienza che possono aver personalmente maturato di un determinato diritto.
Per educare ai diritti umani, quindi, non credo sia sempre necessario parlarne esplicitamente. L’umanità è lo sfondo, la passione e l’amore per essa, la voglia e la gioia di conoscerla in tutte le sue espressioni, l’impegno per sentirsene parte e per prendersene cura sono gli obiettivi a lungo e lunghissimo termine del mio lavoro nelle scuole.

E i giovani come rispondono alle tue provocazioni? Vedi il maturare di frutti nel tuo lavoro?
Come sempre accade in campo educativo, è molto difficile, se non impossibile, valutare a breve termine il raggiungimento di un obiettivo. Tanto più se la possibilità di relazione con i ragazzi si riduce a 6 o 8 ore distribuite su tre o quattro settimane.
Certamente però ci sono vari «segni» che aiutano a comprendere se un intervento abbia o meno qualche possibilità di lasciare un’impronta significativa nell’immaginario dei ragazzi oppure no. Innanzitutto, è di fondamentale importanza il coinvolgimento dell’insegnante e, possibilmente, la sua condivisione delle idee proposte nel percorso.
Occorre quindi la sua partecipazione attiva durante gli incontri, ma anche l’approfondimento che può offrire durante le ore di lezione della sua materia, in modo da aiutare la classe ad avere un approccio interdisciplinare a quanto riflettuto e a far sedimentare gli imput ricevuti durante il mio intervento in classe.
Altri segni sono, ovviamente, l’empatia e la partecipazione degli studenti stessi, oltre alla qualità dei dibattiti, delle riflessioni, la passione con cui a volte nascono confronti tra di loro e con me.
Spesso mi trovo stupefatto nel constatare quanto gli studenti siano sensibili e permeabili ai temi sociali, spesso mi trovo confermato nel pensiero che, nonostante la mancanza di informazione adeguata, o addirittura la presenza di informazione parziale, distorta, stereotipa e ideologica, i ragazzi desiderano profondamente un mondo migliore, non solo per se stessi, ma per tutti. Desiderano vivere una vita più umana, più sobria di quella proposta dai modelli dominanti, desiderano autenticità in un mondo che non fa altro che proporre amori, felicità, promesse, soddisfazioni inautentiche.
Se nei ragazzi non ci fossero questi semi di amore per la vita e per il mondo, anche quando sconosciuti a loro stessi, il mio lavoro di animazione missionaria nelle scuole sarebbe vano. Proprio perché questi semi ci sono il mio lavoro si incardina con qualche speranza nel più ampio lavoro che la chiesa e la società devono fare con i più giovani: educare, cioè tirare fuori l’umanità grande che si dibatte dentro di loro e aiutarli a darle forma.
A parte qualche caso isolato ho sempre avuto la fortuna di trovarmi di fronte bambini, ragazzi, giovani, insegnanti pieni di umanità e pieni di voglia di imparare qualche trucchetto nuovo per approfondirla, al contrario di ciò che i mass media vogliono farci credere sulla scuola e sulle giovani generazioni, e per fortuna ho sempre trovato persone che non avevano bisogno di un maestro che, in quanto «esperto», arrivasse a dispensare sapienza e buone maniere da acquisire a scatola chiusa e seduta stante, ma di una persona semplicemente capace di mettersi in ascolto e di proporre condivisione.

C’è un argomento fra quelli che presenti che va per la maggiore?
Uno dei temi che certamente suscita maggiore partecipazione e passione è il tema degli immigrati, soprattutto nei periodi in cui l’informazione nazionale spinge molto sui tasti dell’emergenza e della sicurezza. In questi casi, i condizionamenti della comunicazione di massa diventano particolarmente evidenti e le polarizzazioni rischiano spesso di assumere i connotati dei dibattiti televisivi in cui parlare non significa necessariamente essere ascoltato e ascoltare. Questo permette di stimolare dinamiche utili ad educare i ragazzi alla gestione di una discussione sempre, aperta alla modifica delle proprie opinioni, piuttosto che alla chiusa contrapposizione.
Ad ogni buon conto, il grande tema dei  diritti umani trova sempre terreno fertile, un terreno in continua mutazione, un terreno «liquido» che richiede sempre nuovi metodi di semina, ma pur sempre terreno adatto a far crescere piante (forse diverse da quelle che ci aspettavamo) che poi daranno frutti (forse diversi, forse migliori di quelli che avremmo voluto gustare).

Ci vogliono visione e metodo

Conversazione con padre Giovanni Scudiero, membro del direttivo internazionale di Pax Christi, e cornordinatore della Commissione Giustizia e Pace della Regione italiana dei missionari della Consolata.

Diritti umani violati, diritti umani promossi. Da sempre te ne sei occupato nel corso della tua esperienza missionaria, spiccatamente orientata alla promozione della giustizia e della pace. Dove nasce l’interesse alla pace nel vostro istituto, oltre che dal vangelo, ovviamente?
Secondo le sensibilità proprie di ciascuno, si possono dare mille risposte a questa domanda, dalla più spiritualista a quella più marcatamente orientata allo sviluppo. Credo, però, che anche su questo tema meriti in qualche modo rifarsi al nostro fondatore e all’eredità spirituale che ci ha lasciato.
Mi riferisco in modo particolare a una visione iniziale e quindi a un senso della missione che nel beato Allamano porta a universalizzare il senso di frateità, ad allargae i confini, non limitandolo esclusivamente alla città di Torino dove ha esercitato praticamente tutto il suo ministero sacerdotale, ma esportandolo all’Africa, al mondo.
C’è in questo sguardo ampio una premessa fondamentale per un discorso sui diritti umani: di uguaglianza, di comunione, di solidarietà, di frateità universale. E questo discorso si radica nel suo essere cristiano, un cristiano impegnato in modo specifico, ministeriale, nel servizio agli altri, a tutti gli altri, e quindi aperto alla missione. La sua espressione di solidarietà universale è, secondo me, una versione ante-tempus di quello che diventerà poi nel nostro istituto il discorso sui diritti umani. Abbiamo tutti diritto alla vita e fondamentalmente questo diritto nasce dal nostro essere uguali, di pari dignità; tutto ciò a prescindere da ogni differenza di tipo etnico, geografico o culturale.
Il diritto alla pari dignità è un concetto che diventa totalmente insignificante se rimane un concetto astratto e non è vissuto nella reciprocità… senza trasformarsi in una maniera concreta di relazionarsi. Direi che nell’Allamano è importante questa visione iniziale, ma ancor più significativo è il metodo che ne deriva.

A cosa fai riferimento quando parli di metodo?
Il fondatore risponde da cristiano a questa esigenza di solidarietà: si organizza e soprattutto si cerca un collaboratore, nella persona del canonico Camisassa, che sembra avere doti straordinarie in certi aspetti più pratici, su un piano più umano e di sviluppo. L’Allamano non si va a scegliere un filosofo, un teologo, o un padre spirituale: va a cercare quello che lui sa in qualche modo di non essere, o di non essere a sufficienza.
Si completa, scegliendosi una persona capace di interagire con la realtà concreta, dedicando tempo e cura al dettaglio dell’opera che l’Allamano aveva in testa. Questo sodalizio è stato in grado di compiere un’operazione fondamentale: leggere la realtà, i fatti, intuire e poi capire che tipo di struttura organizzativa fosse necessaria per svolgere l’azione pastorale ed evangelizzatrice, tanto in Italia quanto in missione.

Questo metodo consisterebbe dunque soltanto nella scelta, diciamo così, del «personale»?
Certamente no. Il fatto che lui si scelga questo tipo di collaboratore, riconduce secondo me a un’idea centrale nell’Allamano, che  ancor prima di inviare gente in missione aveva ben chiara in mente: l’importanza di formare la persona prima di fare e formare il cristiano.
Ci sono tanti aspetti della vita del fondatore, tante scelte da lui fatte, che sottolineano questa sensibilità che lui ebbe. Pensiamo, per esempio, alI’affetto speciale che ebbe per i fratelli coadiutori, quei religiosi che dedicano la loro vita in modo particolare al lavoro e quindi all’edificazione dell’ambiente. O ricordiamo anche soltanto l’enfasi che pose sul lavoro, e soprattutto il lavoro manuale, come criterio formativo per i suoi missionari e le sue missionarie. Il «prima uomini e poi cristiani» non è assolutamente un concetto periferale nel fondatore.
Fondamentale, ripeto, è la sua capacità di leggere la realtà, tanto qui in Italia come in Africa, in modo da orientare le proprie risposte verso obbiettivi mirati.
È interessante notare come, mediante i corsi del convitto ecclesiastico, forma i giovani preti diocesani attraverso, anche, l’organizzazione di corsi di morale, sociologia, politica, per prepararli a rispondere alle esigenze più svariate in modo coerente ai bisogni espressi dal territorio. Per non parlare dell’attenzione data al mondo della comunicazione, dei media diremmo oggi.
Questo stile lo applica a maggior ragione per i suoi missionari, che dovranno guardare la realtà con delle prospettive più ampie.
Con loro instaura un rapporto formativo basato sul dialogo. Non soltanto si sente maestro nei confronti dei missionari che invia, ma egli stesso vuole imparare, vedere, conoscere. Vuole capire come una visione possa diventare realtà attraverso delle scelte concrete. Sa di non aver sempre la risposta pronta di fronte a una determinata esigenza o a una certa sfida e la consapevolezza della giustezza o meno di un criterio da applicare gli viene  proprio dalla comunicazione costante con i missionari che lavorano sul campo, attraverso i loro diari e la loro corrispondenza: lettere dove lui viene a riflettere, pregare, disceere le scelte che verranno fatte, dando a una visione di missione una storia concreta.
Voleva sapere tutto di tutti, si informava sull’andamento degli incontri, sulla situazione delle persone, voleva conoscere i nomi. Questo radicarsi profondamente nella storia locale, nella fattualità e nelle problematiche della gente dà vita a un annuncio incarnato in un contesto storico, rispondente in primis alla situazione di vita della gente.

Una missione, quindi, improntata tantissimo sull’ascolto dell’altro…
Sì. Del resto tantissimi testimoni ricordano la capacità di ascolto del nostro fondatore. Questa dell’ascoltare era una prassi che lui esercitava e che  pretendeva nel limite del possibile che fosse praticata anche dai suoi missionari. Purtroppo, noi missionari non siamo così capaci di coltivare sempre questa mentalità di ascolto. Non sempre riusciamo a inserirci in un contesto storico concreto con gli «occhi vergini», ovvero senza pregiudizi, con la pazienza di inserirsi, ascoltare chi ne sa più di noi: gli anziani del posto, il confratello più esperto, ecc.
Anzi, penso che questa nostra poca attenzione dedicata all’ascolto è quello che ci sta bloccando soprattutto nel nostro ad gentes oggi in Italia, nel nostro fare missione qui, da dove siamo partiti. Chi sono le persone in Italia che noi siamo pronti ad ascoltare? 
Oggi poi, sentiamo l’esigenza di «aguzzare l’orecchio» e dare al nostro ascolto una dimensione più ampia, che ci permetta di andare oltre la metodologia usata finora: quella della lettura concreta di una realtà al fine di rispondere a bisogni concreti e localizzati. Con il tempo siamo arrivati a capire i profondi legami che legano il locale con il globale, a cercare le radici di un problema che sembra riguardare una singola comunità in un contesto ben più ampio.
Di fronte a un problema di mancanza di risorse in un determinato posto è giusto intervenire offrendo una mano tesa e un aiuto immediato pratico. Ma è anche fondamentale farsi, e fare anche in giro, qualche domanda sul perché di un servizio e o di un bene negati a una comunità che ne avrebbe diritto.
E questo lo si fa?
Non sempre. Del resto, ciò che più o meno da tutti si tende a fare è dare risposte semplici e immediate ai problemi concui dobbiamo quotidianamente confrontarci nella vita di missione. Manca l’ospedale, facciamo l’ospedale… Sono risposte semplici anche se, non nego, richiedono risorse e fatica. Sono semplici nella loro analisi e nella loro conclusione.
Nella nostra storia missionaria non sempre abbiamo sottolineato l’importanza di una riflessione e un’analisi che penetrassero più in profondità, toccando non soltanto gli effetti di un problema, ma sfidandone le cause. Molte volte, la fretta e l’urgenza di risolvere un bisogno pratico (o quello che  noi percepivamo come tale) ci ha distolto dal dovere di andare alla radice del nostro agire, alla ricerca delle vere cause, magari per il timore di imbarcarsi in percorsi verso i quali non ci sentivamo sufficientemente attrezzati e preparati. 
Oggi, invece, ci rendiamo conto che quelle risposte superficiali, isolate da un contesto culturale o non rispondenti alla sfida sociale che mette in pericolo o ferisce una comunità,  rischiano di essere semplici cerotti su ferite che diventano sempre più grandi e profonde.
Una promozione umana, seria, radicata in un contesto, che si pone prospettive di futuro alternativo non può, oggi come oggi, prescindere da un lavoro di coscientizzazione e formazione sui diritti fondamentali della persona; lavoro che in alcuni casi può anche assumere il ruolo di grido profetico e di denuncia. Significa dare alle nostre risposte uno sguardo più ampio, che non si fermi allo specifico problema locale, ma guardi più in là, alle radici del problema.
Senza questo sguardo e alla domanda di giustizia che ne deriva le nostre opere ci renderanno necessariamente eterni. La gente continuerà a dipendere dal missionario capace di trovare soluzioni ai loro problemi più immediati, problemi che si rigenereranno in continuazione e avranno bisogno di sempre nuovi interventi, aggiustamenti, perfezionamenti e manutenzioni. 

a cura della redazione




Cari missionari

Diritti di tutti e per tutti…

Egregio Direttore,
ho letto la dichiarazione dei diritti umani. Ritengo che a detta dichiarazione manchi qualcosa, una specie di principio, come filo conduttore di tutto quello che è possibile enunciare sui diritti umani. Ad esempio: «Ogni individuo nasce come titolare di tutti i diritti di questo mondo, ma ha pure il sacrosanto dovere di acquisire la capacità a esercitare un qualsiasi diritto ed esercitarli anche nel pieno rispetto dei diritti di ogni altro individuo».
Il discorso sarebbe alquanto lungo, ma mi fermo a questo piccolo principio. Cosa ne dite ?
Lucio Di Martino
Aosta

La Dichiarazione universale dei diritti umani ha sempre bisogno di essere completata con nuovi principi e proposte, ma soprattutto di essere implementata da tutti e per tutti gli esseri umani.

«Monti sacri» e alpinismo estremo

Cari missionari,
dopo un’estate funestata da una sequenza tragica di incidenti in alta montagna (Himalaya, M. Bianco…) c’era proprio bisogno di un articolo come «Monti sacri» (M.C. 9/2008 pag. 10-14).
C’è bisogno che qualcuno ci ricordi che le montagne, tutte le montagne, sono opera di Dio, create per unire e riappacificare, non per dividere o esasperare rivalità, tensioni, conflitti, guerre.
È ora di finirla con certa letteratura, che si ostina a parlare di «Montagne del diavolo», con l’alpinismo estremo, dove vince chi arriva prima o più in alto, con maggior frequenza o consumando la minor quantità di ossigeno delle bombole, sfidando le condizioni atmosferiche più avverse e l’anagrafe.
A questo alpinismo, che mi rifiuto di considerare come attività sportiva gradita a Dio e conforme al vangelo, preferisco di gran lunga l’alpinismo non competitivo, dove contano poco o nulla arrivare primi, il cronometro, il termometro e l’altimetro, mentre contano molto arrivare insieme, arrivare tutti e in buone condizioni di salute; arrivare senza aver deturpato l’ambiente montano con escrementi, plastica, scatolame e rifiuti vari.
Alle scalate dell’Everest, del K2 e altri «ottomila» che tanto fan parlare (e litigare…) scalatori, commentatori, scienziati, sponsor e governi nazionali, preferisco le iniziative di alpinismo sostenibile, come quelle intraprese da Carlo Alberto Pinelli, con la sua Mountain Wildeess in Afghanistan, martoriato da decenni di guerra.
Con lo slogan «dal kalashnikov alla picozza», Pinelli e i suoi amici, italiani e afghani, stanno offrendo un’opportunità di riscatto a giovani e meno giovani, indicando una via d’uscita a chi fino a ieri non vedeva altra possibilità di affermazione al di fuori delle armi e dell’oppio; e stanno dando anche una lezione di stile a chi, sclerotizzato nell’adorazione degli «ottomila», sembra incapace di accorgersi di ciò che accade un po’ più giù…
Apriamo occhi e orecchie e ascoltiamo i richiami di naturalisti e alpinisti poco famosi, ma che con tanta umiltà e pazienza stanno costruendo una speranza per le nuove generazioni e rimediando ai danni pedagogici ed ecologici fatti dai loro già celebrati colleghi.
Luciano Montenigri
Fano

«Monti sacri» settimane bianche

Cari missionari,
spero vivamente che l’articolo di G. Casiraghi sul significato religioso della montagna (M.C. 9/2008 pag. 10-14) arrivi in tante scuole e venga letto da docenti, alunni e genitori.
Sappiamo tutti che nelle scuole, specie alle superiori, montagna è uguale a settimana bianca: tanti la bramano, la raccomandano, la esaltano; ma sono tanti anche quelli che invece la boicottano… Questi partono dal principio che nella scuola non deve esserci alcuna discriminazione, mentre la settimana bianca le discriminazioni le crea, perché è un lusso che molti non possono permettersi: più di 500 euro per 7 giorni, senza contare il costo degli sci, vestiario ecc… Per cui la settimana bianca non è certo fattore di unione tra gli alunni, tra i genitori, gli stessi docenti.
Secondo me, però, ci sono altri due motivi per dire «no» alle settimane bianche, o almeno rivedee la modalità di approccio.
Il primo riguarda l’impatto ambientale. Negli ultimi anni turismo sulla neve e sport invernali sono aumentati in maniera esponenziale, diventando un fenomeno di massa. Da tempo i naturalisti ammoniscono che le montagne non sono in grado di reggere l’impatto di tale invasione: contrariamente a ciò che molti pensano, quelli montani sono ecosistemi assai fragili; per esempio, riflettiamo mai sul fatto che rifiuti e immondizie abbandonate a 2-3-6 mila metri di altitudine hanno dei tempi di decomposizione e riciclo incomparabilmente più lunghi di quelli rilevabili in pianura?
Il secondo motivo riguarda l’incolumità personale, sempre più a rischio su certe piste. Tutti vogliono cimentarsi nelle discese libere, fare snowboard, andare in motoslitta, alla ricerca di emozioni sempre più forti, col risultato che ogni anno si contano decine di morti e migliaia di incidenti e infortuni che pregiudicano la possibilità di riprendere una vita normale.
In Svizzera – dove nel 2007 ci sono stati ben 70 mila incidenti e nel solo mese di dicembre le squadre di soccorso con elicotteri hanno compiuto 300 missioni, con un costo di 150 milioni di euro – è stato introdotto lo skivelox. In Italia, dall’1-1-05, c’è l’obbligo del casco per gli under 14 (pena la multa da 30 a 150 euro) e di strumenti elettronici per i fuoripista.
Chiaramente però questi sono palliativi o poco più: la cosa più importante è educare le persone, in particolare i giovani, al rispetto di se stessi, degli altri, della natura. Voglio dare un consiglio alle autorità scolastiche, a cominciare dal ministro dell’Istruzione: prima di organizzare altre settimane bianche, le scuole invitino i volontari di Mountain Wildeess, si facciano dire da loro i rischi che il pianeta corre per colpa dell’accanimento sciistico, sia invernale che estivo.
Si facciano anche spiegare i motivi per i quali, negli ultimi 150 anni le nostre «madri delle acque» (così Mountain Wildeess chiama i ghiacciai) hanno visto la loro superficie ridursi del 33% e il loro volume diminuire di quasi il 50%, «trafitte da tralicci metallici, costellate di grandi rifugi-alberghi, solcate da cavi metallici e mezzi battipista che ne sconvolgono gli equilibri, spostando ingenti masse nevose in una triste gara per assicurarsi gli ultimi profitti prima della definitiva scomparsa delle nevi perenni…».
Francesco Rondina
Fano

«CHE SULUKULE VIVA!»

La Sulukule Platform, una vasta associazione composta da Ong, professori, volontari, giornalisti, commercianti e residenti del quartiere, ha aperto recentemente un Centro per bambini a Sulukule. In mezzo a tutte le macerie, detriti e sporcizie lasciate dalle ruspe e sfidando tutte le voci e gli annunci sulla fine di Sulukule, la Piattaforma continua a lavorare per la gente e i bambini del quartiere.
Al motto «che Sulukule viva», la Piattaforma vuole con ogni mezzo mostrare al mondo e al comune di Fatih che, nonostante le tante case demolite e le tante persone costrette a sgombrare, Sulukule rimarrà finché ci sarà l’ultima persona e arderà l’ultima lampada. L’apertura del Centro ha voluto dimostrare che ci sono bambini a Sulukule!
Lo scopo principale del Centro è aiutare i ragazzi a liberarsi dal trauma subito fin dall’inizio della cosiddetta riqualificazione del quartiere. Non sapendo quando le loro case saranno demolite, il rumore di ogni macchinario è un allarme spaventoso per le loro tenere orecchie. Molti hanno smesso di andare a scuola: hanno paura che, al ritorno, non troveranno più la loro casa, come se fosse in loro potere arrestare il processo di distruzione.
Nel Centro hanno luogo ogni attività, senza alcuna obbligazione: i bambini possono scegliere ciò che piace loro. Arti plastiche, dramma, giochi all’aperto, con giocattoli Lego e puzzle, lezioni di lettura e scrittura… sono alcune delle attività guidate dai volontari. Lo scorso agosto, guidati da un attore professionale, i ragazzi hanno rappresentato per ben 5 volte il dramma di Giulietta e Romeo, ambientato a Sulukule; ed è stato vero successo.
Nel Centro opera anche un ufficio di consulenza per i residenti di Sulukule per trattare relazioni e problemi con la municipalità di Fatih. I volontari redigono petizioni o danno consigli e assistenza legale, provocando anche cause giudiziarie contro la municipalità per le violazioni dei diritti umani. Grazie alla Piattaforma, Sulukule vive e speriamo che possa vivere e che lo lascino vivere.

Speriamo che si riesca a fermare anche le altre ruspe che  stanno facendo milioni di senza tetto in tutta Istanbul. A Kucukcekmece-Ayazma circa 2.500 famiglie sono state sfrattate e rilocate a Bezirganbahce; espropriate senza compenso, si sono indebitate e ridotte in miseria; 18 famiglie, senza denaro e senza un luogo dove andare, sono vissute in tende tutto l’anno.
La costruzione dello stadio olimpico proprio vicino ad Ayazma, ha avviato l’esodo dei residenti del quartiere, prevalentemente famiglie provenienti dall’est e sud-est della Turchia, di origine kurda; le abitazioni saranno ristrutturate per fae prestigiose ville per gli eventi olimpici.
La stessa sorte incombe sulla popolazione rom di Sulukule, perché il terreno è cresciuto molto di prezzo negli ultimi anni. Così i residenti di Sulukule, ivi presenti fin dai tempi di Bisanzio, devono dire addio non solo alle loro case, ma anche alla loro cultura e modi di vita. Anche Tarlabasi, altro distretto condannato al processo di trasformazione, attende la stessa sorte. Sembra tuttavia che la gente di Tarlabasi, guidata da una Ong locale, non lascerà la scena tanto facilmente: i residenti di questo quartiere hanno imparato bene la lezione da Ayazma e Sulukule e hanno cominciato a fare causa in tribunale con l’aiuto di bravi avvocati.
In tutta la Turchia e specialmente a Istanbul, i distretti di riqualificazione urbanistica, uno per uno si stanno organizzando e lottano con ogni mezzo contro tale processo, con la disobbedienza civile e citazioni giudiziarie, visite al parlamento e ai deputati, con qualsiasi altro mezzo utile.
I distretti di Istanbul si sono organizzati in un’unica grande coalizione (Istanbul Districts Platform) e hanno cominciato ad agire insieme. Turchi, rom, kurdi, siriani… differenti per etnicità, religione, affiliazioni politiche… ora sotto tutti mano nella mano contro le ruspe! Speriamo che abbiano successo e che trionfi «il diritto alla casa e residenza».
Cihan Baysal

Con questa lettera la signora Cihan Baysal, ricercatrice nel campo dei diritti umani per la Istanbul Bilgi University, ci offre un aggioamento sulla situazione della gente di alcuni quartieri di Istanbul, di cui Missioni Consolata ha raccontato nei numeri di maggio e giugno 2008.




L’utopia continua …

Ai lettori

Il titolo della storica Agenda Latinoamericana per l’anno 2009 è sicuramente curioso e stimolante: «Verso un socialismo nuovo – l’utopia continua». Il pubblico che da anni segue fedelmente questa pubblicazione sa bene che l’Agenda è in realtà ben più che uno strumento per segnare e ricordare appuntamenti, ma una vera e propria antologia di articoli (strutturati da sempre sul classico schema vedere-giudicare-agire), uno strumento ecumenico di analisi, riflessione e denuncia evangelica al servizio delle vittime della storia. Titolo stimolante, si diceva, per i due termini, volutamente associati, che lo compongono.
Innanzi tutto socialismo. Fa una certa impressione ritrovarlo nuovamente sdoganato in forma esplicita, dopo esser stato screditato a più non posso in questi ultimi anni. Gli interventi parlano di «nuovo» socialismo, di rinnovato immaginario socialista, di socialismo alternativo. Che cosa sia questo socialismo e la sua valenza politica saranno da verificare a vari livelli, iniziando proprio dall’applicabilità di tale concetto allo stesso contesto del continente sudamericano. Resta infatti da dimostrare quanto l’apertura a sinistra di quasi tutti i suoi paesi più importanti (ad eccezione della Colombia) sia rappresentativa di o possa dialogare con questa nuova visione di socialismo che nasce dal basso, dai movimenti, dalle minoranze etniche e sociali e che non si lega in prima istanza a partiti politici tradizionali.

C’è da stare curiosamente in attesa. Il Sudamerica, oggi, è ansioso di proporre una nuova narrazione del mondo, quasi volesse offrire ai cinque continenti un piccolo assaggio di speranza latinoamericana, un «Yes, we can» che non sia soltanto uno slogan elettorale, ma un tentativo di risposta concreta ai grandi problemi che affliggono oggi l’umanità, in tutto il pianeta, non solo a Sud della Califoia.
È l’«utopia che continua». Quella utopia che, come scriveva a suo tempo Est Bloch, «non è fuga nell’irreale; è scavo per la messa in luce delle possibilità oggettive insite nel reale e lotta per la loro realizzazione». È speranza, tensione dell’umano verso un mondo altro, migliore, una forza che manterrà la sua attrattiva e la sua vera carica rivoluzionaria nel momento in cui non si asservirà ai poteri forti, ma continuerà ad essere la lotta dei piccoli, dei poveri, delle vittime e di coloro che ad essi dedicano la vita: nient’altro che la logica del Regno di Dio.
Anche di ciò si parlerà senz’altro nel Forum Sociale Mondiale e, soprattutto, nel Forum Mondiale di teologia e Liberazione che si terranno a Belem, nel Nord del Brasile, alla fine di questo mese. Speriamo che dagli stimoli amazzonici arrivi, magari con qualche corrente atlantica, una ventata di freschezza per la nostra stanca Europa e la sua ancor più stanca chiesa, entrambe, mi sembra, con molti problemi e ben pochi sogni nel cassetto. Chissà che, tenendo occhi, orecchi e cuore ben aperti ai segni dei tempi, non si possa trovare anche noi la nostra «agenda», etimologicamente: «Ciò che c’è da fare» per dare alla speranza anche un minimo di direzione.

Di Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




Antiochia: dove Paolo impara a fare il missionario

2000 anni dalla nascita di san Paolo

«Il sangue dei martiri è seme di nuovi cristiani» scrisse un grande oratore africano dei primi secoli cristiani, Tertulliano, osservando quanto succedeva ai suoi tempi. Questo è ben visibile anche negli Atti degli Apostoli. Dopo la lapidazione di Stefano e conseguente persecuzione contro i discepoli di Cristo, alcuni di essi, per evitare il peggio, fuggirono fino ad Antiochia di Siria (At 11,19), terza città dell’impero romano, dopo Roma e Alessandria, sede del governatore romano, con circa mezzo milione di abitanti greci, siriani, ebrei; incrocio di razze, culture, religioni.
La persecuzione di Gerusalemme è come un vento che investe un giardino di fiori e dissemina il polline lontano. Questi cristiani profughi da Gerusalemme erano così entusiasti della loro fede che anche ad Antiochia continuarono non solo a praticarla, ma anche a diffonderla attorno a sé. Dapprima solo tra ebrei là residenti. Alcuni che erano di Cipro e di Cirene in nord Africa, però, cominciarono a parlare di Gesù anche ai non-ebrei, ai pagani. «Si misero a predicare anche ai pagani, annunziando loro il Signore Gesù. La potenza del Signore era con loro, così che un gran numero di persone credette e si convertì al Signore» (At 11,20-21).
La predicazione del vangelo ai pagani è un passo molto importante nella crescita del cristianesimo: apre una nuova strada. Infatti agli inizi i cristiani di Gerusalemme erano tutti di origine ebraica e sembra pensassero che Gesù era venuto solo per gli ebrei. Fu l’entusiasmo di questi cristiani originari di Cipro e Cirene (abituati cioè a vivere la loro fede ebraica in un contesto più internazionale, a contatto coi pagani) ad aprire l’evangelizzazione verso i non-ebrei (greci o pagani).
In seguito sarà soprattutto Paolo a continuare tale missione; ma è bene notare che l’inizio della missione tra i pagani fu opera di cristiani semplici, senza alcun mandato speciale degli apostoli, ma solo in forza della loro fede; così pure non si sa chi per primo abbia portato la fede cristiana a Roma: con tutta probabilità furono marinai, commercianti, schiavi, che venendo dall’Oriente per primi condivisero la loro fede nella capitale dell’impero; Pietro e Paolo arriveranno più tardi e consacrarono la chiesa con il loro martirio.
Non occorre alcun titolo speciale per essere missionario. La chiesa è sana soltanto se i suoi laici sono evangelizzatori, nella famiglia, nel posto di lavoro, nella vita sociale. I primi e più efficaci missionari sono i genitori cristiani, i quali trasmettono la loro fede ai propri figli con parole e con l’esempio. La chiesa cattolica in Corea fu iniziata da un gruppo di laici che avevano conosciuto la fede cattolica da contatti con studiosi cinesi. In Giappone decine di migliaia di cattolici conservarono e trasmisero la fede ai loro figli, pur essendo rimasti senza sacerdoti per 200 anni.

Frattanto la comunità di Gerusalemme viene a conoscenza che ad Antiochia vi sono alcuni credenti in Gesù. Per raccogliere informazioni di prima mano su quanto sta avvenendo, viene mandato Baaba, un cristiano di ampie vedute e grande empatia. Contento di quanto vede, egli incoraggia la giovane comunità a restar fedele al Signore e si ferma per aiutare nell’evangelizzazione. Vedendo il grande lavoro, ha un colpo di genio e pensa di chiamare un aiutante, Saulo di Tarso col quale per un anno e mezzo lavorerà ad istruire la comunità. La risposta dei pagani è così entusiasta che il gruppo di credenti in Gesù si impone all’attenzione dell’ambiente circostante: «Proprio ad Antiochia, per la prima volta, i discepoli furono chiamati cristiani» (At 11,26).  
In seguito giungono ad Antiochia informazioni sulla carestia che ha colpito la Giudea e quindi i cristiani di Gerusalemme. Con generosa solidarietà la comunità di Antiochia manda aiuti ai fratelli di Gerusalemme: «I discepoli allora decisero di mandare soccorsi ai fratelli che abitavano in Giudea, ciascuno secondo le sue possibilità. Così fecero: per mezzo di Baaba e Saulo mandarono i soccorsi ai responsabili di quella comunità» (Atti 11,30-31).
Questo quadretto della nascita della chiesa di Antiochia è un giorniello nel rappresentare cos’è la chiesa. La comunità nasce su iniziativa di credenti perseguitati che hanno il coraggio di andare oltre gli usuali confini geografici e culturali: parlano di Gesù ai pagani. La chiesa di Gerusalemme viene in soccorso a questa giovane comunità, mandando Baaba segno di comunione con Gerusalemme e missionario capace di comprendere e istruire. Baaba a sua volta cerca l’aiuto di un altro potenziale grande missionario, Saulo. Conseguenza di tale azione comune è la crescita della comunità che viene ora notata e chiamata per nome anche dall’ambiente esterno, «essi sono i cristiani». Conoscendo la difficoltà di Gerusalemme, la comunità di Antiochia manda aiuti: solidarietà, scambio di doni. Da Gerusalemme è arrivata la fede, a Gerusalemme arriva l’aiuto finanziario in tempo di difficoltà. Comunione di fede vuol dire anche comunione di beni.

È anche notevole che Saulo, qui ad Antiochia, per la prima volta fa il missionario in team con Baaba. Come non vedere in questo la sua preparazione, il suo tirocinio per la missione universale cui sarà inviato proprio dalla chiesa di Antiochia?
«Mettetemi da parte Baaba e Saulo per l’opera alla quale li ho chiamati» (Atti 13,1-4). Sarà la comunità di Antiochia che manda Baaba e Paolo in missione e tutti i viaggi missionari di Paolo inizieranno e si concluderanno in questa città, in questa chiesa che, essendo nata tra i pagani, sente più forte l’urgenza di evangelizzare i pagani nel mondo.

di Mario Barbero

Mario Barbero