RICCHI E POVERI

Summit dell’Organizzazione della Conferenza islamica

L’undicesimo summit dell’Organizzazione della conferenza islamica si chiude con un grande successo. Tenutosi a Dakar
(Senegal) dal 13 al 14 marzo, ha prodotto il documento fondamentale dell’organismo. Che punta a dargli maggior dinamismo
e ruolo a livello internazionale.


Dakar. I capi di stato dell’Organizzazione della conferenza islamica (Oci) hanno adottato all’unanimità il 14 marzo scorso una nuova Carta fondamentale. Questa sostituisce il testo del 1972, e vuole dare un nuovo slancio all’organizzazione che rappresenta 1,3 miliardi di musulmani, in 57 stati membri.
Il segretario generale dell’Oci, il turco Ekmeleddin Ihsanoglu, durante la conferenza stampa di chiusura del summit, ha qualificato il risultato come un «grande momento» per la vita dell’organizzazione.

un Nuovo slancio

«Questo è stato un incontro storico, abbiamo voltato pagina. Dal 1972 nessun summit ha avuto tanto successo, in particolare per quello che riguarda la Carta», ha indicato Ekmeleddin Ihsanoglu, che è stato confermato al suo posto, al termine di un primo mandato di quattro anni. Ihsanoglu ha detto che questa Carta «nuova fiammante» costituisce un «passo significativo nella storia e per l’avvenire dell’Oci».
Essa esprime «la nuova visione del mondo musulmano, il nuovo slancio verso l’organizzazione e, finalmente, mette la nostra casa in ordine per dargli più vigore e dinamismo» oltre che aprire la via per un maggiore riconoscimento al ruolo internazionale dell’organizzazione islamica.
La nuova versione della Carta dell’Oci include la questione dei diritti umani, della buona governance e la democrazia. Il tutto per adattare la missione dell’organismo al contesto attuale. In effetti, la precedente era stata adottata in piena guerra fredda. Il testo sancisce chiaramente che «gli stati membri sostengono e favoriscono, a livello nazionale e internazionale, la governance, la democrazia, i diritti umani, le libertà fondamentali e lo stato di diritto».

Palestina e Fondi

Per quanto riguarda la Palestina, un articolo del documento chiede una soluzione politica al conflitto, con un sostegno al «popolo palestinese per dargli i mezzi di esercitare il suo diritto all’auto determinazione e creare il suo stato sovrano».
Nelle sue risoluzioni, il summit di Dakar ha chiesto ai membri dell’Oci di fornire «finanziamenti complementari» per il Fondo di solidarietà islamico per lo sviluppo (Fisd), lanciato nel maggio 2007.
Il Fisd, che punta a un capitale di 10 miliardi di dollari, è concepito per promuovere la solidarietà all’interno della Ummah (comunità) islamica, nella quale coabitano i ricchi stati produttori di petrolio, come quelli del Golfo Persico, e paesi tra i più poveri del mondo.
Secondo il segretario generale, i contributi totalizzano attualmente 2,6 miliardi di dollari e non ci sono stati nuovi impegni in favore del fondo. L’attesa del gruppo africano rispetto al debito estero dei paesi membri non è stata soddisfatta durante l’incontro di Dakar.

Dialogo interreligioso?

La questione dell’islamofobia è stata pure largamente discussa nel corso dei lavori. Ekmeleddin Ihsanoglu, ha stimato che «le religioni dovrebbero capirsi meglio e trovare dei mezzi per meglio rispettarsi».
Al margine del summit, i presidenti del Sudan, Omar Hassan al Bechir e del Ciad, Idriss Déby Itno, hanno firmato, grazie alla mediazione del presidente senegalese Abdoulaye Wade e del segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-Moon, un accordo di pace (il sesto tra i due paesi dal 2005, ndr) per «mettere definitivamente fine» al contenzioso che oppone i loro due paesi (si veda MC,  aprile 2008).
L’Organizzazione della conferenza islamica è nata dopo l’incendio «criminale» della moschea di Al-Aqsa di Gerusalemme, provocata da un ebreo nell’agosto 1969. Al Qods (Gerusalemme, in arabo) città santa per giudaismo, cristianesimo e islam, è stata poi dichiarata dall’Unesco patrimonio mondiale in pericolo nel 1982. L’incendio servì come pretesto per la creazione dell’Oci, il 25 settembre di quell’anno a Rabat, in Marocco. L’organizzazione fu poi ufficializzata nel 1972 con l’adozione della sua Carta fondamentale a Djeddah, città dell’Arabia Saudita che da allora ospita il seggio provvisorio del segretariato generale della struttura.
Presenti nomi illustri

Tutti i paesi membri erano presenti a Dakar. C’era il re del Marocco, Mohamed VI,  i presidenti Abdelaziz Bouteflika (Algeria), Omar Bongo Ondimba (Gabon), Mahmoud Ahmedinejad (Iran), il presidente dell’Autorità palestinese Mahmoud Abbas, solo per citae alcuni. Il re d’Arabia Saudita, uno dei principali finanziatori dell’Oci si è fatto rappresentare dal principe Fayçal Bin Abdulaziz Al Saoud, ministro degli affari esteri. Importante è stata anche la presenza del segretario generale delle Nazioni Unite, il koreano Ban Ki-Moon e il presidente uscente della Commissione dell’Unione africana, il maliano Alpha Oumar Konaré.
Il presidente senegalese Abdoulaye Wade è stato eletto presidente in esercizio dell’Oci,  per un mandato di tre anni. Il prossimo summit dell’organizzazione è previsto nel 2011 in Egitto. 

di Sidiki Kouyaté

SVILUPPO O INVESTIMENTI?

«L’incontro di Dakar, deve essere visto come momento a partire dal quale l’Organizzazione della Conferenza islamica (Oci) ha deciso di investire seriamente in Africa» dichiara Cheikh Tidiane Gadio, ministro senegalese degli Affari esteri, al termine dell’incontro con una trentina di suoi omologhi per produrre la revisione della Carta fondamentale dell’organismo. Incontro che si è svolto a Dakar l’11 marzo, preparatorio al vertice politico dei capi di stato. «Non possiamo fare unicamente l’elemosina ai paesi poveri, ma dobbiamo mettere in piedi un meccanismo che permetta una ripartizione più equa della ricchezza tra i paesi musulmani».

E la nuova Carta dovrebbe andare in questo senso, come sostiene il segretario generale dell’Oci, Ekmeleddin Ihsanoglu: «L’Oci non è più quello del 1972 e il suo campo di azione si è esteso. Il mondo in cui viviamo non è più bipolare come all’epoca della guerra fredda». Le modifiche della Carta saranno in profondità, assicura il ministro Gadio, orientate a ridurre le differenze tra paesi musulmani poveri e quelli ricchi. «Lo spettro  di un mondo musulmano a due velocità, con una parte che va avanti e l’altra che ristagna o va indietro rende vulnerabile l’intera Ummah (comunità islamica, ndr)» così si era espresso il presidente della repubblica senegalese Abdoulaye Wade nel maggio 2007, al termine di una riunione dei governatori della Banca islamica di sviluppo.

Sempre a Dakar, prima del summit, si era tenuta una conferenza che ha visto la partecipazione di oltre 60 Ong islamiche che hanno anche incontrato i dirigenti dell’Oci. «Una nuova pagina è stata voltata nel settore della cooperazione tra operatori umanitari, governi e organizzazioni inteazionali» ha dichiarato Atta Manane Bakhit, vice segretario generale dell’Oci. La dichiarazione che ha concluso i lavori chiede ai governi del mondo islamico di sostenere le rispettive Ong. Si impegnano, inoltre a creare un centro che analizzi i bisogni in termini umanitari degli stati membri. Si pensi ad esempio che circa il 60% dei rifugiati di tutto il mondo si trovano in paesi musulmani (fonti Oci).
Atta ha anche detto che occorre collaborare di più con tutte le Ong della comunità umanitaria mondiale.

Il Senegal, che è l’unico paese dell’Africa sub sahariana che ha ospitato due volte il summit (il primo nel 1991) si prepara all’evento da quattro anni. In particolare dal punto di vista infrastrutture, con centinaia di cantieri stradali e sei hotel di alto livello. Un investimento di 152 milioni di euro per le strade e 365 milioni per gli hotel. Fondi in parte privati e in parte pubblici, ma quasi tutti provenienti dagli stati del Golfo Persico (tra i quali il Fondo saudita di sviluppo, il Fondo kuweitiano e la Banca islamica di sviluppo).
Un’iniezione finanziaria che contribuirà, a medio termine, alla crescita economica del paese, che dovrebbe raggiungere, secondo la Banca mondiale il 5,7%, rispetto al 5,1% del 2007.

di Marco Bello

Sidiki Kouyate e Marco Bello




(Danni) per tuttti i gusti

Tipologia, effetti e problemi delle varie sostanze

Dosi, tempi d’intervallo, situazioni contingenti cambiano gli effetti delle varie droghe sull’individuo. Ma i danni ci sono sempre e comunque. E sulla marijuana, la droga «leggera» da consumare in compagnia degli amici, occorre sapere che...   

Quali sono i principali tipi di droga, i loro effetti sull’organismo, la loro eventuale tossicità ed i problemi di tipo sociale, che l’assunzione di queste sostanze comporta.

LE AMFETAMINE (DISCO, DOPING SPORTIVO)

Appartengono a questa categoria l’amfetamina, la destro-amfetamina, la metamfetamina, il metilfenidato, la fenmetrazina, il dietilpropione, la piperazina, ecc. Per la loro capacità eccitante, alcune di queste sostanze vennero usate dai piloti di guerra, nelle loro missioni. Molti derivati delle amfetamine sono sostanze allucinogene o empatogene. Attualmente le amfetamine non sono più usate in medicina, salvo in rare eccezioni come nel trattamento della narcolessia. La metamfetamina è molto diffusa nel mercato illegale: anni fa si consumava prevalentemente per bocca, mentre ora si presenta in forma solubile da sniffare o iniettare (crystal), o da fumare (ice, shabu, yabaa). Poiché si sviluppa rapidamente la tolleranza verso queste sostanze, i consumatori cronici tendono ad aumentare progressivamente le dosi ed i tempi d’intervallo tra le assunzioni si riducono drasticamente.
Appartengono a questa categoria le dance drugs, che si usano nei rave parties e nelle discoteche; tra queste abbiamo l’ecstasy o Mdma (3,4-metilenediossi-N-metilamfetamina); la ketamina, un anestetico usato in medicina veterinaria, ma utilizzato come droga con nomignoli, quali kit kat o Special k; il Ghb o gammaidrossibutirrato, detto ecstasy liquida, essendo un liquido incolore, inodore ed insapore, ricavato da solventi industriali e mescolabile a cibi e bevande ed utilizzato come droga da stupro, perché dopo circa 20 minuti, la vittima diventa incapace di opporre resistenza, perde i freni inibitori, la sua coscienza viene alterata e la sua memoria si blocca per 2-4 ore, riprendendosi completamente solo dopo 8-12 ore, ma senza il ricordo della violenza subita.

Gli effetti
Queste sostanze sono potenti stimolanti del sistema nervoso centrale e si comportano come la cocaina, con effetto molto più prolungato. A basse dosi agiscono solo come stimolanti, mentre ad alte dosi incidono notevolmente sul ritmo cardiaco e sulla pressione arteriosa, per cui possono essere pericolose per chi presenta dei problemi cardiovascolari. Inoltre, le amfetamine sopprimono l’appetito e sono state usate in passato nelle cure dimagranti. Sono state usate poi come antidepressivi, per resistere al sonno e come doping sportivo.

I problemi
L’uso continuato per 3-4 giorni (uso in binges) è di solito seguito da un crollo psicofisico. Nell’uso cronico di alte dosi, si possono avere disturbi nelle relazioni personali e sociali, problemi psichiatrici e comportamenti aggressivi. I soggetti, che si iniettano alte dosi di queste sostanze, spesso presentano un decadimento fisico, dovuto in parte a denutrizione.

La tossicità
Si possono avere problemi psichiatrici, neurologici e/o cardiovascolari. L’abuso di queste sostanze, per vincere l’affaticamento, può portare al colpo di calore, cioè ad un forte ed incontrollabile aumento della temperatura corporea, legato all’eccessivo sforzo fisico, che può essere mortale. Ad alte dosi, le amfetamine sono tossiche per il sistema nervoso centrale, poiché provocano una deplezione acuta di dopamina e di serotonina in alcune zone del cervello; pare inoltre che distruggano le sinapsi o addirittura gli stessi neuroni. In quest’ultimo caso, il fenomeno è irreversibile e questo spiega il danno neurologico permanente.

LA CANNABIS (MARIJUANA E HASCISC)

La cannabis sativa, varietà indica, cioè la canapa indiana è una delle più antiche piante coltivate e sono note da millenni le sue proprietà farmacologiche. Questa pianta contiene, in ogni sua parte, circa 400 principi psicoattivi, di cui il principale è il delta-9-tetraidrocannabinolo (THC), che si trova soprattutto nelle infiorescenze delle piante femmina.
Le preparazioni usate come droga sono le foglie ed i fiori secchi (marijuana) e la resina concentrata (hascisc). Di solito, la marijuana contiene il 3-5% di THC, mentre l’hascisc il 7-14%. Queste sostanze si possono fumare pure o mescolate a tabacco (spinello o canna), oppure assumere per bocca, sotto forma di tisane o dolci. Da qualche tempo si stanno facendo, soprattutto nelle serre del Maghreb, degli incroci botanici, che hanno portato alla formazione della cosiddetta canapa rossa, che contiene concentrazioni di THC anche 10 volte superiori alla varietà classica e che serve a preparare un super-hascisc, chiamato srunk.
Gli effetti
I derivati della cannabis sono molto lipofili, quindi il THC arriva subito al cervello, che è costituito per buona parte da grassi, dove si accumula poiché non viene eliminato facilmente. Questo principio attivo si accumula nell’organismo e si ritrova anche dopo mesi, dall’ultima assunzione; esso può perciò essere la causa dell’instabilità di molte persone, soprattutto giovani.
Con il fumo, il THC si assorbe subito ed il suo effetto si manifesta in pochi minuti, mentre l’assorbimento per bocca è più lento e variabile. La durata dell’effetto varia dalle 3 alle 5 ore circa, ma può essere più lungo, nel caso dell’assunzione orale.
La cannabis, come le altre droghe, ha i suoi recettori specifici a livello di sistema nervoso centrale e periferico, per cui è in grado di modificare molte funzioni dell’organismo. Si spiegano perciò tutti gli effetti che la cannabis ha sul sistema nervoso centrale (molto potenziati dal contemporaneo consumo di alcol), sull’apparato cardiovascolare, sul sistema endocrino, respiratorio, immunitario e riproduttivo. A basse dosi, i derivati della canapa hanno effetti sedativi, rilassanti ed euforizzanti, per cui danno ebbrezza, buon umore e golosità. Ad alte dosi, provocano notevoli alterazioni sensoriali e percettive, nonché distorsioni spazio-temporali.
L’effetto ha un tipico andamento a ondate, con alternanza di fasi di alterazione e di fasi di lucidità. I principi attivi della cannabis hanno interessanti proprietà farmacologiche, ad esempio combattono la nausea ed il vomito nelle chemioterapie antitumorali, stimolano l’appetito e per questo possono risultare particolarmente utili per i malati di AIDS, per i quali la perdita di peso è uno dei disturbi più precoci e responsabile, per buona parte, dell’evoluzione della malattia. Inoltre tali principi riducono la spasticità muscolare, abbassano la pressione intraoculare ed hanno azione analgesica.

I problemi
La tossicità acuta della cannabis è trascurabile e finora non si sono mai registrati casi di morte per una dose eccessiva. Sotto il suo effetto si riducono la capacità di concentrazione, l’attenzione e la memoria. Si possono, inoltre verificare reazioni ansiose, di panico, psicosi tossiche e la sindrome amotivazionale, che rende apatici, con riduzione della capacità di giudizio, nonché perdita d’interesse verso la propria persona e l’ambiente circostante. Attualmente è in discussione, se la canapa possa portare alla luce delle forme latenti di schizofrenia. Sotto l’effetto della cannabis, si assiste ad un aumento della frequenza cardiaca e della pressione arteriosa, ad una marcata irrorazione congiuntivale (occhi rossi) e ad un aumento del consumo di ossigeno, da parte del miocardio. Per quanto riguarda l’apparato respiratorio, il fumo dello spinello sembra essere molto più cancerogeno di quello da tabacco.

COCAINA

Questa droga deriva dalle foglie di due specie di coca: l’Erythroxylum coca, coltivata nelle valli amazzoniche umide del Perù e della Bolivia e l’Ery­throxylum novogranatense, coltivata sulle montagne aride del Perù settentrionale e della Co­lombia. Attualmente ci sono coltivazioni illegali di queste piante, al di fuori delle aree tradizionali, particolarmente in Colombia. La cocaina è il principale alcaloide della coca (0,5-1% delle foglie secche). Essa ha tre fondamentali azioni farmacologiche: è un anestetico locale, un vasocostrittore ed un potente stimolante del sistema nervoso centrale. Il cloridrato di cocaina, che si presenta come una polvere bianca solubile in acqua, si sniffa, cioè si inala, e si inietta. La cocaina-base, non solubile in acqua, nella forma di pasta di coca o in quella di freebase o crack si fuma. Il fumo ha la stessa intensità e rapidità di azione di un’iniezione endovenosa. Gli effetti di una dose di cocaina durano circa 40-60 minuti per chi sniffa e molto meno (10-20 minuti) per chi si buca o fuma. Si ha successivamente un rapido ritorno alla normalità, molto più rapido nel secondo caso; tale ritorno può essere vissuto come sgradevole e deprimente, per cui si tende a ripetere quanto prima l’assunzione di un’altra dose. Si instaura così il fenomeno del craving, cioè del consumo compulsivo della sostanza.

La tossicità
La cocaina agisce sulla dopamina e sulla noradrenalina, entrambe neurotrasmettitori. In particolare la dopamina, la molecola del piacere, attiva il «Sistema di facilitazione comportamentale», che facilita i comportamenti finalizzati a conseguire delle gratificazioni, quindi determina disinibizione nelle relazioni sociali e nella ricerca del partner. Un’analoga azione è svolta dalle amfetamine e dall’alcol e spesso quest’ultimo è consumato contemporaneamente alla cocaina; in questo caso si forma, per azione del fegato, un metabolita  detto cocarnetilene, che è una sostanza fortemente tossica e che incrementa l’effetto della cocaina. Quando, però, il livello di dopamina presente nelle sinapsi è eccessivo, si può verificare uno stato psicotico, caratterizzato da idee deliranti, prive di fondamento e di tipo persecutorio. Il cocainomane si convince così di essere vittima di qualche complotto, per cui può avere reazioni anche molto violente.
La noradrenalina attiva, invece, l’«emotività negativa», per cui aumenta lo stato di allerta ed il soggetto diventa apprensivo. Aumentano le risposte di paura-allarme, quindi la cocaina può stimolare uno stato di reattività aggressiva. Peraltro questa, come le amfetamine, è una droga fortemente eccitante, che permette un’iperattività senza sentire la fatica; ciò è dovuto all’azione della cocaina sul glutammato, la molecola dell’iperattività; è la droga in giacca e cravatta, usata da managers, atleti, attori, ma anche da chi vuole tirare al tardi fino all’alba. Gli effetti della cocaina sono variabili da persona a persona, in base alle caratteristiche soggettive: alcune si sentono più energiche, altre più logorroiche, nervose ed irritabili.
Se si esamina l’immagine PET del cervello di un cocainomane, si può vedere che le aree colorate in rosso, rappresentanti le zone cerebrali, in cui c’è un corretto utilizzo del glucosio (la molecola energetica utilizzata dalle nostre cellule) si riducono progressivamente, man mano che aumenta il consumo della sostanza. Aumentano, nell’immagine, le zone gialle di scarso apporto e quelle blu, di apporto critico. In tal modo il cervello va progressivamente in crisi. Inoltre, in carenza di nutrimento, si hanno alterazioni vascolari, che hanno gravi ripercussioni anche sul sistema cardiovascolare.

I problemi
L’uso occasionale della cocaina non presenta grossi problemi (salvo le controindicazioni in caso di ipertensione o di altre malattie cardiovascolari). L’uso cronico, invece, può creare o aggravare dei problemi psichiatrici e, come già visto, il soggetto viene colto da mania di persecuzione. Sono frequenti allucinazioni visive e tattili (sensazione di insetti sotto la pelle). Il soggetto diventa sempre più aggressivo e violento.

La tossicità
Una dose tossica di cocaina può essere compresa nel range 70-150 mg per una persona di 70 Kg. La dose mortale è incerta e variabile da una persona all’altra. I danni, che la cocaina produce alla salute sono molteplici. Innanzitutto, a livello di apparato cardiovascolare, la cocaina aumenta la pressione arteriosa e favorisce l’occlusione delle coronarie, con conseguente rischio d’infarto. Inoltre produce aritmie (extrasistole, tachicardia, fibrillazione). Spesso si riscontrano alterazioni cardiache in soggetti giovani, facilitate dall’azione tossica combinata di alcol e di cocaina; a quest’ultima sono attribuibili gli infarti in giovane età, in assenza di altri fattori di rischio. Per quanto riguarda l’apparato respiratorio, se la cocaina viene fumata, la sua forte azione vasocostrittrice sui tessuti produce danni sia a livello della mucosa nasale, che tende alla necrosi, sia a livello polmonare. Si parla di crack lung, cioè polmone da crack, per descrivere una patologia caratterizzata da dolore al torace, difficoltà respiratorie e tosse con emissione di sangue. Bisogna tenere presente che, se si verifica un deficit della capacità respiratoria, ciò significa che c’è un minore apporto di ossigeno agli organi, per cui esso è più necessario, cioè il cervello ed il cuore. La cocaina ha la capacità di abbassare la soglia epilettica di un individuo e quindi di scatenare le convulsioni, che possono ripetersi a intervalli sempre più brevi, fino a risultare fatali. In alcuni casi, il disturbo epilettico da cocaina si manifesta con delle assenze temporanee, in cui la coscienza è alterata, confusa e non più vigile. Inoltre, sempre in tema di danni al cervello, i cocainomani presentano un rischio di ischemia cerebrale quattordici volte superiore alla norma. In questo caso, la causa può essere attribuita allo spasmo delle arterie craniche, con ridotto apporto di sangue al cervello (quella più frequentemente colpita è l’arteria cerebrale media), oppure ai microinfarti cerebrali, che sono associabili all’uso della cocaina. Quest’ultima può essere causa di TIA, cioè di attacchi ischemici transitori. In cocainomani di lunga data, alcune aree del cervello, soprattutto nei lobi frontali, ad un esame TAC o PET risultano atrofizzate o di dimensioni ridotte e ciò si traduce in un comportamento privo di regole morali e di senso comune, caratterizzato da forte impulsività e mancanza di riflessione, cioè, in pratica, una sorta di demenza. A ciò si aggiungono, nel tempo, i disturbi dell’attenzione, le crescenti difficoltà di attenzione ed un deficit di memoria. Attualmente non ci sono dati sufficienti, per stabilire l’entità dei danni a distanza, per coloro, che hanno usato la cocaina per anni, ma poi si sono disintossicati, né siamo in grado di prevedere cosa succederà nel tempo ai figli di madri cocainomani. A tal proposito, uno studio compiuto negli Usa ha evidenziato che il 31% dei neonati della popolazione urbana è positivo, per la presenza di cocaina nel corpo. Teniamo presente che la cocaina passa facilmente attraverso la placenta, quindi raggiunge il feto e si distribuisce nella sua circolazione. La cocaina esplica la sua azione vasocostrittrice sull’arteria ombelicale, riducendo l’apporto di ossigeno e di sostanze nutritive al feto; possono perciò verificarsi aborti spontanei, distacchi di placenta o parti prematuri. I bambini così esposti presentano basso peso alla nascita, riduzione delle dimensioni del cranio e del cervello e malformazioni all’apparato genito-urinario. Inoltre essi presentano riflessi meno validi, sono più irritabili ed interagiscono meno con l’ambiente. La cocaina è in grado di passare anche attraverso il latte materno, quindi, in caso di madre cocainomane, l’allattamento al seno va rigorosamente sostituito con quello artificiale. Infine la cocaina può produrre alterazioni ormonali, come l’ipertiroidismo, l’ingrossamento delle ghiandole mammarie e l’impotenza nei maschi, l’amenorrea e la perdita di fertilità nella donna, nonché la ricerca di situazioni di tipo sessuale, caratterizzate da una forte trasgressività, per cui è quasi costante nei maschi il ricorso a esperienze con i transessuali.

OPPIO, MORFINA, EROINA E ALTRI OPPIOIDI

L’oppio deriva dal lattice del papavero sonnifero (Papaver somniferum), originario dell’area mediterranea. Esso contiene alcaloidi molto usati in medicina, come antidolorifici e calmanti, quali la morfina e la codeina. Attualmente si usano anche oppioidi semisintetici, come l’eroina e la buprenorfina o completamente sintetici, come il metadone, la meperidina ed il fentanyl. L’oppioide più comune sul mercato illegale è l’eroina (diacetilmorfina), che può essere assunta per via endovenosa, per bocca o inalata.

Gli effetti
Gli oppioidi agiscono sul sistema nervoso centrale. In particolare essi agiscono su un tipo di recettori cellulari, facenti parte del sistema oppioide endogeno, e su mediatori biochimici, le endorfine, normalmente presenti nel nostro organismo. In medicina, gli oppioidi funzionano simultaneamente come analgesici e tranquillanti e vengono usati anche come antidiarroici e calmanti della tosse. Effetti collaterali frequenti sono la nausea ed il vomito, specialmente all’inizio, e la stipsi, che può diventare un serio problema. Gli oppioidi interferiscono solo in modo marginale con le funzioni intellettuali e con il cornordinamento muscolare. L’effetto dell’eroina dura 3-6 ore, dopodiché la persona dipendente deve ripetere la dose. La maggior parte delle persone, che fanno uso di oppioidi, come droga, non provano euforia, ma solo una sensazione di apatia, di sedazione e di ottundimento mentale, che può anche risultare sgradevole. Se si continua a consumare queste sostanze, in breve queste sensazioni negative tendono a scomparire.  Probabilmen
te solo poche persone traggono sensazioni gratificanti, già dalle prime assunzioni. In molti casi si raggiungono invece effetti, quali la stabilizzazione dell’umore e la riduzione della tensione intea e degli impulsi aggressivi.
I problemi
L’uso occasionale degli oppioidi, sotto controllo medico, non crea particolari problemi, che invece insorgono con il consumo cronico, perché si sviluppano tolleranza (necessità di aumentare la dose, per ottenere gli stessi effetti) e dipendenza fisica (adattamento dell’organismo alla presenza del farmaco), con la comparsa di un grave e prolungato malessere, accompagnato da tipici disturbi, in caso di sospensione improvvisa (crisi da astinenza). Nell’uso terapeutico, la dipendenza è un fenomeno rarissimo, ma può svilupparsi tolleranza.

La tossicità
Gli oppioidi puri, di solito, non sono tossici, se assunti in modo corretto e controllato. Al contrario, l’uso dell’eroina da strada può causare gravi problemi, poiché questa eroina è spesso tagliata con sostanze potenzialmente dannose, oppure è contaminata da agenti patogeni. Se questa droga viene assunta in condizioni igieniche carenti (mancanza di sterilità, siringhe usate) è facile contrarre infezioni di diverso tipo (tromboflebiti, epatiti, endocarditi, AIDS, ecc.). Inoltre, essendo sconosciuta la concentrazione del principio attivo, nelle droghe di strada, si rischia l’overdose, che può provocare la morte per una grave depressione dei centri nervosi, che controllano la respirazione. L’overdose è caratterizzata dalla presenza contemporanea di sonnolenza profonda, pupille contratte a punta di spillo e depressione respiratoria, con pochi e superficiali atti respiratori al minuto. Questa situazione richiede un intervento di emergenza, con respirazione artificiale e somministrazione di naloxone. Se un oppioide viene assunto con alcol e/o tranquillanti, si può avere sinergia con potenziamento.

LE SOSTANZE PSICHEDELICHE
(MESCALINA, FUNGHI, LSD)

Si tratta di sostanze allucinogene, che danno marcati effetti sulle percezioni, sensazioni, emozioni e processi mentali in genere. Tra i principali abbiamo la mescalina, contenuta in varie specie di cactus, tra cui il peyote (Lophophora williamsii), la psilocibina e la psilocina, contenute in molti funghi dei generi Psilocybe, Copelandia e Panaeolus, diffusi in tutto il mondo. Fra le sostanze di sintesi, c’è l’LSD (dietilamide dell’acido lisergico). Anche la cannabis, ad alte dosi, si comporta come un allucinogeno. Si usano quasi sempre per via orale ed il loro effetto dura 6-10 ore.

Gli effetti
Si va dall’aumentata intensità soggettiva delle percezioni e delle sensazioni (forme, colori, suoni, sensazioni tattili), fino a vere e proprie distorsioni illusorie della forma e del colore degli oggetti, nonché dello spazio e del tempo. Nessun tipo di droga ha effetti tanto imprevedibili e tanto dipendenti dallo stato mentale, dalla personalità, dall’atteggiamento e dalle aspettative del soggetto ed infine dalle circostanze ambientali. Sono possibili delle sinestesie, cioè la sensazione di vedere i suoni e di sentire il profumo dei colori, la dissoluzione delle immagini in pure forme di luce e di colore, fino alla sensazione di dissociazione della mente dal corpo. Si possono inoltre avere profonde sensazioni di armonia interiore e di sintonia con l’universo, in pratica una sorta di estasi. In certi casi, al contrario, si possono avere effetti negativi altrettanto rilevanti, si possono fare i bad trips, cioè i viaggi cattivi, per cui è sempre necessaria la vicinanza di una persona in grado di rassicurare e di calmare il soggetto.

I problemi
In soggetti predisposti si possono avere crisi più o meno prolungate di depressione o vere e proprie crisi psicotiche. Sono inoltre possibili dei fenomeni di flashback, cioè l’improvvisa ricomparsa di sensazioni alterate a distanza di tempo dall’assunzione. Sotto l’effetto degli allucinogeni è impossibile svolgere attività, che richiedono attenzione, vigilanza, concentrazione, raziocinio, cornordinamento muscolare e prontezza di riflessi, come ad esempio la guida di un veicolo. 

Di Roberto Topino e Rosanna Novara

MARIJUANA DA LIBERALIZZARE?

Quello dell’utilità in campo medico è l’argomento, di cui solitamente si servono coloro che sostengono la liberalizzazione della cannabis. Va detto, però, che in campo medico si usano anche gli oppiacei, per combattere il dolore, ma non per questo li troviamo liberamente in commercio.  In ogni caso, in questo tipo di discussione, bisogna tenere conto del fatto che è ormai provato, su base sperimentale, che anche la cannabis dà dipendenza, i cui primi sintomi sono la perdita di controllo dell’assunzione e l’incapacità di smettere, quando lo si desidera. Una piccola percentuale di soggetti mostra, inoltre, i sintomi fisici dell’astinenza, quali l’insonnia, l’irritabilità ed i tremori, anche se di minore entità, rispetto a quanto succede con le altre droghe.
È vero, peraltro, che non tutti coloro, che fanno uso di cannabis sviluppano la dipendenza, ma ciò può essere legato alle caratteristiche genetiche dei singoli soggetti, oppure alle caratteristiche ambientali.

(Sul tema  legalizzazione / proibizionismo si veda la tabella di pagina 31.)

Sniffare cocaina

Dal congresso degli operatori dei Sert di Sorrento arriva una notizia allarmante: ci sono persone, che fanno anche un anno di attesa, negli ospedali, per rifarsi il naso, distrutto dalla cocaina. Al momento è impossibile quantificarne, con esattezza il numero, ma pare che esso sia in continuo aumento.
Fino a qualche anno fa, gli interventi di rinoplastica, legati al consumo di cocaina, erano rarissimi: uno su cento cocainomani. Inoltre riguardavano per lo più persone del mondo dello spettacolo o managers. Ora, invece, le richieste d’interventi di questo tipo arrivano da persone di tutti i ceti sociali, anche nella popolazione femminile. Inoltre, dal momento che il prezzo della cocaina è diminuito, cresce il numero delle persone, che ne fanno uso e che successivamente si ritrovano con questo tipo di problema.
Le liste d’attesa per rinoplastica sono attualmente di cinque mesi in clinica privata, a 10.000 euro, e di un anno e mezzo in un ospedale pubblico. La cocaina ha una forte azione vasocostrittrice, che può portare alla necrosi di vaste aree della mucosa nasale, con conseguenti gravi difficoltà di respirazione e tumefazioni nasali. Sono costretti alla ricostruzione anche tanti giovanissimi, nei quali le mucose e la cartilagine sono più delicate e vanno facilmente incontro a perforazione, con l’abitudine di sniffare cocaina. L’intervento di rinoplastica dura 2-3 ore e, naturalmente, ha un senso solo se il soggetto smette di inalare cocaina. Bisogna inoltre considerare che questo tipo d’intervento è gravato da un’alta percentuale d’insuccessi, del 30-50%. I chirurghi maxillo-facciali riferiscono che, qualche anno fa, si aveva una richiesta di ricostruzione nasale una volta al mese, ora ce ne sono 3-4 alla settimana. Il primario di otorinolaringoiatria dell’ospedale San Giovanni Bosco di Torino, Prof. Fabio Beatrice sostiene anche che, oltre ai danni al naso, l’assunzione di cocaina può causare anche un importante abbassamento dell’udito.


☞ www.webcocare.it
Accedendo a questo sito, è possibile rispondere ad un test di autovalutazione, che consente a chiunque, in totale anonimato, di quantificare il proprio grado di dipendenza dalla cocaina. Oltre i consumatori, possono rivolgersi a questo sito, ottenendo un consulto, anche coloro (familiari o amici), che sospettano che un loro caro faccia uso di cocaina. Un’altra sezione del sito è dedicata agli operatori del settore, che possono così confrontare esperienze, teorie ed informazioni.

Dalla legge del 1923 alla «Fini-Giovanardi»

✔1923: viene emanata, in Italia, la prima legge in materia di droga. Essa prevede di reprimere il commercio di sostanze stupefacenti e rinvia ad un elenco, per l’identificazione delle sostanze incriminate.

✔1956: la legge n. 1041 è di tipo esclusivamente repressivo, in quanto, per lo Stato, il tossicodipendente e lo spacciatore si equivalgono. Qualsiasi detenzione di sostanze stupefacenti, anche per uso personale, viene punita.

✔1975: la legge n. 685 dice che chi consuma stupefacenti, senza dedicarsi allo spaccio è solo un malato da curare e da riabilitare. Il soggetto, in questo caso, non è punibile, sempre che la droga trovata in suo possesso non superi la modica quantità.
✔1990: la legge n. 162 (legge Vassalli-Russo-Jervolino) prevede che l’assunzione di stupefacenti sia punita con una sanzione amministrativa, che diventa penale, quando la detenzione di sostanze stupefacenti supera la dose media giornaliera, fissata con decreto ministeriale. Alcune norme di questa legge, in particolare quelle relative alle pene previste per la detenzione personale di droghe leggere, vengono abrogate con un referendum nel 1993.

✔2006: la legge n. 46 (legge Fini-Giovanardi) è caratterizzata dall’inasprimento delle sanzioni relative alla produzione, al traffico, alla detenzione illecita ed anche all’uso di sostanze stupefacenti, con l’abolizione di qualsiasi distinzione tra droghe pesanti e leggere.


Droghe, musica e cantanti

Una ricerca condotta recentemente, presso l’Università di Pittsburg ha analizzato i testi di 279 canzoni, tra quelle pubblicate nelle classifiche di Bilboard, un settimanale specializzato. Da questa ricerca sono emersi spesso dei riferimenti espliciti al consumo di stupefacenti, soprattutto nel rap, anche se possono pure trovarsi in altri generi musicali, come il country.
Secondo la rivista scientifica Archives of Pediatrics & Adolescent Medicine, i giovani di 15-18 anni sarebbero esposti quotidianamente a circa 2,4 ore di musica, mentre il 98% di loro possiede una radio, o un lettore cd o mp3. Questo significa che fare passare, attraverso il testo di una canzone, un messaggio legato al consumo di droga può avere un forte impatto negativo su una grande fetta di popolazione giovanile. Inoltre, spesso, questo tipo di messaggio viene associato a connotazioni positive, come il sesso, i soldi ed il successo. Dall’esame dei testi musicali, che fanno riferimento all’uso di stupefacenti, si è visto che il 77% sono di rap, il 36% di country, il 20% di rithm & blues/hip hop, il 14% di rock ed il 9% di pop. Facendo una media, le canzoni, che danno una connotazione positiva all’uso di droghe sono circa il 69%, mentre solo il 4% contiene un testo antidroga. Per quanto riguarda, invece, le sostanze citate in questi testi, si parla di tabacco nel 3% delle canzoni, di marijuana nel 14%, di alcol nel 24% e di altri tipi di droga nel 12%.
Tra i cantanti o gruppi stranieri, che inneggiano alla diffusione di hashish e di marijuana ci sono Snoop Dog ed i Cypress Hill, mentre in Italia abbiamo i Baustelle, che, in un loro testo, descrivono le gesta di un certo Charlie, che fa surf sotto l’azione di Mdma (ecstasy) e di paroxetina.

Dove sono le radici?

Il problema della tossicodipendenza è considerato un problema sociale; le proporzioni e le dimensioni del fenomeno, durante quest’epoca, hanno reso necessaria non solo la visione scientifica, ma anche l’elaborazione di vere e proprie risposte sociali.
Risposte, che appartengono a diversi livelli: reazione sociale nei gruppi più ristretti, come la famiglia ed il gruppo dei pari, ma anche rispetto alle istituzioni, cioè scuola, mondo del lavoro, ecc.
Le dimensioni e le caratteristiche dell’evoluzione di tale fenomeno mettono in rilievo che le spiegazioni e le interpretazioni basate sulle problematiche individuali dei consumatori non sono sufficienti a fornire una valutazione adeguata al fenomeno stesso, ma è necessario introdurre parametri di tipo culturale e sociale.
L’uso di droghe leggere è una forma di devianza, tipica nell’esprimere le gravi tensioni, alle quali i giovani della nostra epoca sono sottoposti in età sempre più precoce. Esistono problemi di adattamento sociale comuni a molti giovani, che si realizzano, in genere, in gruppo.
Considerare la droga un problema solo individuale, o solo psichiatrico non è sufficiente.
Innumerevoli i sostanziali mutamenti di valori e di stili di vita, che negli ultimi anni ci hanno accompagnato; filosofia del vivere alla giornata, in cui il mondo adulto appare esso stesso preoccupato per il futuro, tanto timoroso di sbagliare nei confronti degli adolescenti, ed allo stesso tempo contraddittorio nell’annunciare la validità di valori, che vengono negati nella pratica. L’uso di sostanze finalizzate ad incidere sulle condizioni psichiche ed a risolvere problemi, di carattere psicologico o esistenziale è entrato nelle abitudini di molte persone, e ciò è stato stimolato anche da enormi interessi delle industrie farmaceutiche.
Un elemento, che incide negativamente sull’esistenza del tossicodipendente è la sua realtà familiare: famiglie con relazioni alterate, rapporti affettivi di tipo ambivalente. Importante sì la figura matea, ma che sia una madre accogliente, che accudisce e non castra, capace di dettare regole e trasmettere valori, non ambivalente nei confronti dei figli, così come è importante un padre presente. Pare che la famiglia giochi un ruolo fondamentale sul comportamento del figlio adolescente e che la tossicomania di un figlio, nel senso più ampio del termine, possa essere considerata come un sintomo di un più generale disturbo familiare. Disturbo e scelta, che non vengono mai all’improvviso.
Responsabilizzare, capacità di superare le difficoltà quotidiane, avere buoni valori umani e culturali rimangono elementi concreti, grazie ai quali potere crescere; è l’immagine mentale dell’albero, con una bella chioma, il quale ha delle profonde e robuste radici inserite nel terreno e che, davanti alle bufere della vita, spesso riesce a superarle.

di Anita Di Santo



Roberto Topino e Rosanna Novara




Per un po’ di dopamina

La società e le droghe

«Non esiste alcunché in natura che non sia tossico, ma è solo la dose che rende una sostanza tossica o no», sosteneva Paracelso. Oggi sul problema delle droghe si discute molto, tanto che non esiste una posizione univoca neppure sul trattamento dei tossicodipendenti.

Droghe lecite e illecite, droghe leggere e pesanti, droghe high e down, che effetti possono avere sulla salute umana? Quali conseguenze sulla società? Il loro uso può essere considerato solo un fatto privato o no? È più corretto un atteggiamento proibizionista o antiproibizionista? E ancora, nel trattamento delle tossicodipendenze, è meglio il metodo della riduzione del danno, cioè un approccio di tipo medico, o l’approccio psicologico? Per tentare di rispondere a queste domande, può essere senz’altro utile avere un’idea di come agiscono le varie sostanze, una volta che hanno fatto il loro ingresso nel nostro organismo.

I DANNI 
DI ALCOL E TABACCO

La distinzione che si fa tra droghe lecite ed illecite, essendo le prime l’alcol ed il tabacco, può essere abbastanza fuorviante: si può essere portati a pensare che quelle lecite siano meno nocive alla salute umana, rispetto alle altre e che, in generale siano meno dannose per la società. Nulla di più errato. Prendiamo per esempio l’alcol. Tutte le bevande alcoliche, dalla più leggera birra ai superalcolici, contengono quantità diverse di alcol etilico, che per il nostro organismo risulta essere tossico, andando ad agire direttamente sul sistema nervoso centrale, con conseguenze che vanno dall’euforia iniziale alla depressione malinconica, passando attraverso le difficoltà di articolazione della parola e di deambulazione. Per non parlare del superlavoro che il fegato si trova a compiere, nel tentativo di depurare l’organismo da questa sostanza, che può causare un’epatite tossica, con evoluzione in cirrosi epatica, letale. Che dire poi delle stragi del sabato sera, in cui giovani ubriachi alla guida spesso uccidono se stessi e qualcun altro in tragici incidenti stradali? Oppure prendiamo in considerazione il tabacco: nel fumo di sigaretta, in particolare delle bionde, c’è un’elevata concentrazione di ammine aromatiche e di idrocarburi aromatici policiclici, sostanze sicuramente cancerogene, che sono la causa del carcinoma del polmone, ma anche di quello della vescica. Quindi la salute di chi fuma è seriamente a rischio, ma anche quella di chi non fuma, però si trova vicino a dei fumatori. Infatti il fumo passivo può essere dannoso come quello attivo, al punto che negli Stati Uniti è stata vinta la prima causa per fumo passivo, intentata dai parenti di una non fumatrice, deceduta per carcinoma polmonare.

DIPENDENZA FISICA,
DIPENDENZA PSICOLOGICA

Per quanto riguarda invece la distinzione tra droghe leggere e pesanti, va subito detto che ci troviamo di fronte ad un non senso tossicologico e cioè che esistano droghe leggere. In tossicologia non esiste alcunché di leggero. Già agli inizi del ‘500, Paracelso sosteneva: «Omnia venenum sunt: nec sine veneno quicquam existit. Dosis sola facit ut venenum non sit», cioè «Non esiste alcunché in natura che non sia tossico, ma è solo la dose che rende una sostanza tossica o no». Questo ci fa capire che la distinzione tra droghe leggere e pesanti è artificiosa e che si può fare un uso pesante di droghe leggere. Fino a qualche tempo fa, sono state considerate pesanti le droghe capaci di dare dipendenza fisica (ad esempio l’eroina), per cui, se il soggetto dipendente smette di assumere la sostanza d’abuso, ha una crisi di astinenza, perché non è possibile interrompere bruscamente l’assunzione della droga, quando l’organismo è abituato ad essa. Droghe leggere sono invece quelle, che non danno dipendenza fisica e, fino ad una decina di anni fa, la cocaina e la cannabis erano considerate di questo tipo. Oggi ci si è resi conto che queste droghe danno un altro tipo di dipendenza, cioè quella psicologica, particolarmente importante nel caso della cocaina, che porta rapidamente al craving o consumo compulsivo. In pratica tutte le sostanze d’abuso danno il cosiddetto rinforzo negativo (lo stato di malessere durante l’astinenza), ma anche il rinforzo positivo (il ricordo del benessere legato all’assunzione della sostanza), cioè ciò, che tiene l’individuo legato alla sostanza stessa.

DOPAMINA,
LA MOLECOLA DEL PIACERE

La sensazione di benessere è data dalla liberazione della dopamina da parte dei neuroni stimolati dalle droghe. La dopamina, una molecola che permette ai neuroni di comunicare tra loro, viene rilasciata soprattutto in un’area cerebrale, detta nucleus accumbens, facente parte del sistema limbico del cervello ed in particolare dell’amigdala, che controlla le emozioni, positive e negative. I vari tipi di droga agiscono in modo leggermente diverso, perché i narcotici analgesici, tra cui l’eroina, agiscono su dei recettori specifici, cioè i recettori per gli oppiacei, aumentando la quantità di dopamina liberata. La cocaina, invece, aumenta la quantità di dopamina in circolazione, perché ne impedisce il riassorbimento a livello delle sinapsi. Dobbiamo comunque tenere presente che un neurotrasmettitore, in questo caso la dopamina, si comporta come un interruttore, che non solo agisce sui neuroni limitrofi, ma dà origine ad una serie di modificazioni, che si ripercuotono su tutto il sistema nervoso ed anche su altri organi. Ad esempio, i recettori che possono essere stimolati dal tetraidrocannabinolo, il principio attivo della cannabis, oltre che nel cervello si trovano anche negli occhi e nell’intestino, mentre quelli per la nicotina del tabacco si trovano in molti tessuti, compresa la pelle.

PER DEPRIMERE
O PER ECCITARE

Una distinzione può essere fatta tra le droghe down e quelle high, essendo le prime quelle che deprimono il sistema nervoso centrale, come l’alcol, i barbiturici, gli ipnosedativi, gli oppiacei, tra cui l’eroina; le droghe high sono quelle eccitanti il sistema nervoso e tra queste la caffeina, la nicotina, la cocaina e le amfetamine, tra cui l’ecstasy. È importante tenere presente che l’effetto di una droga su un individuo non dipende solo dalle caratteristiche chimiche della sostanza, ma da quelle della persona, dalla dose, dalla frequenza di assunzione e dall’ambiente sociale, in cui avviene il consumo (può capitare che la prima assunzione risulti sgradevole o faccia stare male; se il soggetto è circondato da amici più esperti, questi spesso sono capaci di consigliare come superare il disagio iniziale).
L’aspetto sociale del consumo delle droghe è particolarmente importante, perché si tratta di stabilire se questo consumo possa o meno rientrare nel concetto di libertà individuale. Secondo questo concetto, ciascuno dovrebbe essere libero di fare ciò che vuole della propria salute, quindi di drogarsi, anche se questo gli fa male. Che dire, però, se le conseguenze dell’abuso di determinate sostanze si ripercuotono gravemente sugli altri, vedi stragi del sabato sera, familiari percossi o addirittura uccisi oppure furti, rapine per procurarsi i soldi per la dose? Certamente, se esaminiamo i risultati ottenuti, in passato, con l’alcol dall’atteggiamento proibizionista, possiamo dire che sono stati assai deludenti. L’antiproibizionismo dovrebbe avere il vantaggio di stroncare il narcotraffico, ma senza una capillare attività educativa a livello soprattutto giovanile, potrebbe portare a risultati anche in questo caso negativi. È indispensabile, infatti, che vengano diffuse il più possibile le conoscenze scientifiche, nel campo delle droghe, al fine di difendere sia i singoli individui dal danno, che inconsapevolmente possono farsi, assumendo determinate sostanze, sia la società in cui essi vivono.

RIDUZIONE DEL DANNO
O RECUPERO PSICOLOGICO?

Per quanto riguarda il trattamento delle tossicodipendenze esistono fondamentalmente due tipi di approccio, cioè quello medico e quello psicologico. Il primo tiene conto del fatto che il tossicodipendente può provocarsi  una malattia organica, alla cui base ci sono danni, talora irreversibili, al sistema nervoso centrale. I Sert funzionano secondo questo tipo di approccio, sono diretti da medici e di solito la loro attività si basa sulla cosiddetta riduzione del danno, che prevede la somministrazione di metadone o di buprenorfina, al posto dell’eroina. Ciò riduce il rischio di diffusione di malattie come l’Aids o l’epatite virale, perché tali farmaci vengono assunti oralmente e non per via endovenosa. Inoltre, la somministrazione di queste sostanze in appositi centri ed in modo controllato, evita al tossicodipendente la ricerca della dose quotidiana e dei soldi per ottenerla. Certamente, però, queste sostanze agiscono sul sistema nervoso, in modo analogo all’eroina, e quindi per il tossicodipendente cambia poco, anzi il soggetto viene in pratica considerato irrecuperabile. Viceversa, l’approccio psicologico si occupa solo di questo aspetto, il tossicodipendente è accolto in comunità, che hanno di solito lo scopo di tenerlo lontano dal mondo della droga e di recuperarlo, inserendolo in attività di lavoro, in un contesto socio-educativo. Peraltro alcune strutture prevedono l’integrazione dell’area medica e di quella socio-educativa. Vanno poi ricordate le unità mobili, camper attrezzati con strumenti di pronto soccorso e con personale specializzato a bordo, che si recano di solito nei quartieri degradati, per avvicinare quei tossicodipendenti, che non si rivolgerebbero spontaneamente ad una struttura pubblica o privata di recupero. Gli interventi di queste unità si prefiggono lo scopo di convincere i tossicodipendenti a ridurre il margine di rischio nei loro comportamenti; ad esempio i soggetti avvicinati vengono foiti di siringhe sterili, per evitare la dif­fu­sione di Aids ed epatite. Inoltre i tossicodipendenti, che vengono agganciati in questo modo, a seguito di uno o più colloqui, vengono indirizzati alla struttura di recupero stabile, operante nel territorio. 

di Roberto Topino e Rosanna Novara

Roberto Topino e Rosanna Novara




Fumare, sniffare, bucarsi Perché?

Lo sviluppo della tossicodipendenza

Il nostro titolo è volutamente esplicito. La risposta è invece complessa. Come abbiamo visto, storicamente le droghe sono sempre state utilizzate. Oggi, l’offerta si è allargata (più prodotti) e con essa si sono diversificati i consumatori (giovani di diversa estrazione sociale, ma anche professionisti e sportivi).

Chi sono i tossicodipendenti? Quanti sono in Italia? Come è cambiata, nel corso degli anni, la figura del tossicodipendente? È necessario premettere che il censimento dei tossicodipendenti, in ogni nazione, risulta essere un’impresa piuttosto ardua, che sicuramente non porta a dei risultati certi, ma solo a delle approssimazioni per difetto del loro reale numero.
Questo perché i soli dati disponibili sono quelli dei servizi pubblici o privati, a cui alcuni dei tossicodipendenti si rivolgono, che vanno sommati ai dati relativi agli arresti ed a quelli dei soccorsi per casi di overdose. Inoltre bisogna tenere conto del fatto che alcuni dei soggetti censiti potrebbero essere non dei veri e propri tossicodipendenti, ma solo consumatori occasionali (ad esempio, week enders).
Il vero tossicodipendente è infatti il soggetto in cui si possono riconoscere chiaramente tre sindromi: la crisi d’astinenza, che si presenta dopo la sospensione della sostanza d’abuso; la sindrome da craving, cioè l’irresistibile desiderio della sostanza ed il suo uso compulsivo; la sindrome metabolico-cerebrale, che si traduce in un’alterazione della vita psichica e relazionale del soggetto, che risulta essere sempre più irritabile ed ansioso. In pratica, l’incontro con le sostanze di abuso può portare ad una vera e propria malattia, alla cui base ci sono dei danni, talora irreversibili, nel funzionamento del sistema nervoso centrale. Le aree cerebrali colpite sono quelle preposte al controllo delle pulsioni e dei comportamenti; in particolare tutte le droghe determinano un aumento della dopamina, un neurotrasmettitore, che regola la sensazione del piacere, a livello del sistema limbico, una parte del nostro cervello molto antica, dal punto di vista evolutivo, che presiede al controllo delle emozioni.
Sulla base dei dati nazionali attualmente a disposizione, l’Osservatorio del Dipartimento dipendenze patologiche dell’Asl di Milano è giunto alla conclusione che nel 2010 i consumatori di cocaina potrebbero aumentare del 40% rispetto al 2007 e raggiungere un numero oscillante tra gli 800.000 ed 1 milione e 100.000, cioè il 3% degli italiani.
Molti di costoro inoltre sono dei politossicodipendenti, dal momento che spesso l’eroina viene assunta dopo la cocaina, allo scopo di sedare l’effetto eccitante della prima (ovviamente i pusher si sono adeguati a questa necessità ed ora smerciano i due tipi di droga contemporaneamente), oppure molti consumano contemporaneamente droghe ed alcolici, o mescolanze di droghe diverse di ultima generazione (ecstasy, shabu, ecc.).

LE COLPE
DELLE CASE FARMACEUTICHE

Storicamente la diffusione sociale delle sostanze psicoattive risale agli inizi degli anni ’60 in ambienti controculturali da un lato e in quelli dei giovani degli strati emarginati per caratteristiche di classe o etniche, dall’altro, con predilezione per il consumo di allucinogeni e di hascisc. All’inizio degli anni ’70, le droghe si diffusero tra i giovani qualunque, cioè i proletari delle periferie, i ragazzi sbandati, ma anche tra onesti lavoratori e in Italia fecero il loro ingresso con notevole abbondanza gli oppiacei, eroina in testa. Va detto che il passaggio da un periodo, gli anni ’50, in cui pochissimi facevano uso di stupefacenti, ai periodi successivi, caratterizzati da un consumo via via crescente di queste sostanze, è sicuramente correlato all’avvento di un benessere economico, che ha trasformato le droghe in beni di consumo. La rete mafiosa, che presiede al narcotraffico, si è inserita solo in un secondo momento nella diffusione di queste sostanze.
In Italia, come in molti altri stati, l’esordio delle sostanze psicoattive è stato favorito dalla diffusione di prescrizioni mediche di tranquillanti, di amfetamine (proibite da noi solo nel 1972, mentre in Svezia lo erano dal 1944), di sonniferi e di analgesici. Purtroppo questi farmaci hanno incontrato un notevole successo presso il pubblico e questo ha indotto le case farmaceutiche a non arretrare davanti ai primi casi d’intossicazione da tali prodotti e ad evitare i controlli sulla fabbricazione e sulla distribuzione. In tale modo è stata creata una popolazione di persone assuefatte e dipendenti da farmaci. Inoltre molte amfetamine venivano iniettate per via endovenosa e ciò ha sicuramente contribuito a formare delle persone dipendenti, che, una volta proibite queste sostanze, si sono ritrovate a sostituirle con l’eroina.

CENTRI DI RECUPERO:
NATI PER L’EROINA

I servizi pubblici per le tossicodipendenze ed i centri di recupero privati sono sorti con il preciso scopo di trattare i casi di dipendenza dall’eroina ed, in tal senso, permettono un censimento degli eroinomani seguiti, mentre è molto più problematico contare coloro, che fanno uso di altre sostanze, perché fanno parte di un mondo sommerso e raramente si rivolgono a queste strutture, che del resto non sempre sono attrezzate per trattare i casi di dipendenza da droghe non oppiacee (cocaina, amfetamine ed altri stimolanti). Del resto è più facile trattare un caso da eroina (che ha un’azione sedante) con il suo sostituto, il metadone, piuttosto che un caso di dipendenza da una sostanza eccitante (non si può sostituire un eccitante con un altro, anche se meno tossico, mantenendo la persona in uno stato di eccitazione, che di per sé è un problema).
Se si esaminano i dati foiti dal ministero della Sanità e da quello dell’Inteo, gli eroinomani censiti erano circa 155.000 nel 1999, di cui il 14-15% donne, con un rapporto uomini/donne di circa 5,6:1. Tale rapporto tende a scendere nelle regioni del Nord (soprattutto Lombardia ed Emilia-Romagna) a 4:1 e nelle città del Nord (Milano e Torino) a 3:1. In pratica, lo scarto tra uomini e donne, in fatto di consumo di droga, tende a ridursi in quelle zone, che sono più benestanti e paritarie e dove la libertà di movimento, di comportamento e di consumi delle donne è maggiore. Bisogna comunque tenere presente che le donne spesso mostrano una notevole diffidenza verso le strutture terapeutiche, se hanno figli, perché esiste la possibilità che questi vengano sottratti alla madre tossicodipendente, da un’assistente sociale, ed affidati ad altri. Il numero delle tossicodipen-
denti potrebbe quindi essere decisamente superiore.
Attualmente, l’età media di coloro, che si rivolgono alle strutture terapeutiche è compresa in un range, che va dai 30 ai 40 anni ed oltre e si tratta di consumatori di eroina, mentre i giovani e i giovanissimi, che abitualmente consumano altre droghe, difficilmente accedono ai Sert od a strutture analoghe. Peraltro, tra costoro il divario maschi/femmine, nei consumi, tende a ridursi.
Le informazioni relative ai nuovi tipi di droga, nonché alla cocaina, derivano soprattutto dai sequestri delle partite di droga, che dimostrano che l’entità del consumo di queste sostanze è in netta ascesa dall’inizio degli anni ’90. Non ci sono dati sufficienti sui consumatori delle nuove droghe, tuttavia una stima fatta nella Conferenza nazionale sulla droga a Genova, nel 2000, parla di circa 400.000 persone dedite all’uso di queste sostanze in Italia.
Viene da domandarsi perché ad un certo punto, nel corso degli anni ’90, l’eroina è stata in parte soppiantata dalla cocaina e dalle nuove droghe di sintesi. Una prima risposta è quella della paura del contagio da HIV, il virus responsabile dell’AIDS, che si può contrarre facilmente con la pratica dell’iniezione per via endovenosa dell’eroina; la cocaina, invece, si sniffa o si fuma e le pasticche di ecstasy si ingeriscono.

PIÙ RESISTENZA,
PIÙ AUTOSTIMA

A differenza dell’eroina, che ha un effetto sedante e di estraniazione dal mondo, la cocaina, le amfetamine e l’ecstasy sono notevolmente eccitanti, per cui aumentano la resistenza alla fatica fisica (consentono, ad esempio di ballare per ore in discoteca, anche tutta la notte) ed inoltre aumentano l’autostima in quei soggetti, che normalmente non sarebbero in grado di affrontare determinate situazioni, poiché si sentono inadeguati.
C’è ancora un altro aspetto: cocaina ed amfetamine inibiscono notevolmente il senso della fame, per cui sono utilizzate da quelle persone, soprattutto donne, che vogliono dimagrire rapidamente, senza affrontare lo stress di una dieta o la fatica dell’attività fisica. Una droga, che invece non ha mai conosciuto alti e bassi, ma semmai un’impennata dei consumi negli ultimi anni, soprattutto tra i giovanissimi, è la cannabis.
Secondo un’indagine dell’Health Behaviour in School-aged Children, un gruppo di ricerca cornordinato dal prof. Franco Cavallo, dell’Università di Torino, il 31% dei ragazzi di 15 anni, attualmente, fa uso di cannabis, associandola a fumo e ad alcol, mentre il 20% dei giovani in questa fascia d’età è dedito anche all’uso di altre droghe. Va detto che tra quest’ultime, l’ecstasy e consimili, le cosiddette dance drugs, vanno forte solo tra i giovanissimi, che le consumano soprattutto in discoteca, per potere tirare al tardi, mentre la cocaina è consumata in una fascia d’età, che va dai 16 ai 60 anni e oltre. 

Di Roberto Topino e Rosanna Novara

La narcoeconomia: qualche dato

OFFERTA IN CRESCITA, PREZZI IN DISCESA

I 3 maggiori business nell’era della globalizzazione
Nell’era della globalizzazione i business della criminalità organizzata (anch’essa globalizzata e con una grande influenza sull’economia cosiddetta legale attraverso il riciclaggio del denaro sporco) sono – stando ai dati dell’Onu – tre, in ordine d’importanza:
✔  il narcotraffico
✔  il traffico di esseri umani
✔  il traffico di armi.
Dei 3 quello che attualmente presenta i tassi di crescita maggiori è il traffico di esseri umani, ma anche gli altri due non conoscono recessione.
Il narcotraffico ha due grandi aree di produzione: l’Estremo Oriente per l’eroina (Afghanistan in primis, e dietro – nettamente distanziato – il cosiddetto «Triangolo d’Oro», cioè Myanmar, Thailandia, Laos) e l’America Latina per la cocaina (Colombia, Perù, Bolivia). La produzione della cannabis è invece più distribuita: Marocco, Tunisia, Albania, Libano, Pakistan, India, Nepal sono alcuni tra i principali produttori.
Da queste aree la droga passa ai paesi consumatori, in particolare agli Stati Uniti e all’Europa, ma anche Australia e Giappone (vedi mappa di pagina 29). In loco, nei paesi di produzione, rimangono soprattutto dei sottoprodotti, meno costosi ma altamente pericolosi. Attualmente i prezzi delle droghe tradizionali sono calanti, vuoi per la notevole produzione (soprattutto dell’Afghanistan), vuoi per la concorrenza delle cosiddette droghe sintetiche, di laboratorio. Il trend di crescita maggiore è quello della cocaina.

I dati (ufficiali) della narcoeconomia
Secondo il Word Drug Report 2007 delle Nazioni Unite (Unodc), nel 2006 sono state prodotte 984 tonnellate di cocaina.
Tre paesi andini sono ai primi 3 posti: la Colombia con 78.000 ettari coltivati e 610 tonnellate di cocaina; il Perù con 51.400 ettari e 280 tonnellate, la Bolivia con 27.500 ettari e 94 tonnellate. In questi anni, gli ettari coltivati sono diminuiti, ma la produzione complessiva è rimasta costante.
Confrontiamo questi dati con la produzione di eroina, che come abbiamo visto è prodotta in Estremo Oriente e in Afghanistan in particolare. Qui secondo l’«Ufficio delle Nazioni Unite per le droghe e il crimine» (Unodc), la coltura del papavero da oppio ha raggiunto la cifra record di 165.000 ettari. Da cui si sono prodotte 610 tonnellate di eroina, il 90 per cento del mercato globale. Al secondo posto nella classifica, c’è un paese di cui si è parlato molto alla fine del 2007: il Myanmar (Birmania).
Secondo gli ultimi dati dell’Unodc, per la prima volta dopo anni, nel 2006 il Myanmar ha incrementato le proprie coltivazioni di papavero, divenendo – con il 5% – il secondo produttore mondiale di oppio dopo l’Afghanistan (90%). Si calcola che, nel 2007, il prezzo medio dell’oppio afghano sia crollato a 100 dollari al chilogrammo (erano 500 nel 2006).

Più cocaina, meno eroina
Secondo i dati del governo colombiano (www.plancolombia.gov.co), al 12 ottobre 2007 sono stati 44.944 gli ettari di coca sradicati manualmente. Nonostante ciò, la Colombia rimane saldamente in testa nella produzione di cocaina, il cui trend commerciale è, da alcuni anni, in rapida crescita al contrario dell’eroina (che è stabile o in leggera diminuzione).
L’aumento della domanda è avvenuto soprattutto in Europa e in Italia, perché negli Stati Uniti il consumo – di gran lunga, il più elevato al mondo – si è stabilizzato.
Attualmente, all’ingrosso, il prezzo della cocaina è calante: si aggira attorno ai 41.000 euro al chilogrammo, mentre al dettaglio un grammo di cocaina costa tra i 60 e i 100 euro (vedi tabellina). Il successo della cocaina si deve ai suoi effetti euforizzanti ed attivatori (quindi diametralmente opposti all’ottundimento provocato dall’eroina), che in una società schiacciasassi (cioè che ti pretende sempre reattivo, efficiente, produttivo) come l’attuale sono ben accetti.

E in Italia
Secondo la relazione annuale della Direzione centrale dei servizi antidroga del ministero dell’interno (Dcsa), nel 2007 i morti per overdose sono stati 589. Il più giovane aveva 16 anni, il più vecchio 71. La maggior parte delle vittime – 234 su 589 – sono state causate dall’eroina, seguite a distanze dalle vittime per cocaina (36).
Questi numeri sono importanti, ma non da brividi. Ad esempio, le vittime sono quasi la metà dei morti sul lavoro (più di 1.000 nel 2007 in Italia). Tuttavia, i costi per la società nel suo insieme sono elevatissimi. Alla domanda se l’attuale regime proibizionista sia la risposta più adeguata al problema non diamo una risposta. Ci limitiamo a fornire una tabella comparativa (vedere a pagina 31) per tentare di capire meglio i due diversi approcci.

Di Paolo Moiola

Confronti «eretici»

Lotta alle droghe: legalizzazione o proibizionismo?

Legalizzazione

✔ fine del mercato nero delle droghe
✔ drastica riduzione del business del narcotraffico attualmente in mano a multinazionali mafiose, che gestiscono profitti enormi e non rintracciabili da parte degli stati
✔ drastica riduzione delle violenze private – scippi, rapine, furti, omicidi – conseguenza del fatto di doversi procurare la droga
✔ ingente riduzione della spesa pubblica che gli stati sono costretti a sostenere per combattere il mercato nero delle droghe: con il vigente regime proibizionista le forze dell’ordine impegnano tempo e risorse pubbliche per contrastare il mercato nero delle droghe, con risultati spesso non adeguati agli sforzi; con il vigente regime proibizionista il sistema giudiziario è impegnato a smaltire e l’apparato carcerario è perennemente in crisi a causa di prigioni piene di detenuti legati al mercato nero delle droghe (piccoli spacciatori-consumatori)
✔ possibile aumento delle entrate fiscali, se le sostanze fossero tassate come si fa per l’alcol
✔ riduzione generalizzata della corruzione: un mercato illegale come quello attuale ha bisogno di un vasto apparato di corruzione a livello politico e di forze dell’ordine
✔ controlli sui prodotti e conseguente diminuzione delle sostanze adulterate o tagliate male
✔ riduzione della necessità da parte dei produttori di immettere continuamente sul mercato sostanze diverse, meglio trasportabili e meno rintracciabili ai controlli
✔ si risolverebbe il problema dei piccoli contadini – come i campesinos che coltivano la coca in Bolivia, Perù e Colombia o gli afghani che coltivano il papavero da oppio -, che pagano con la miseria propria e dei familiari le politiche di eradicazione forzosa.

Proibizionismo

✔ senza leggi proibizioniste, calerebbero i prezzi delle sostanze e, di conseguenza, aumenterebbero i consumatori
✔ senza leggi proibizioniste, cadrebbero le remore di carattere sociale (non ci sarebbe più il timore della stigmatizzazione, del rifiuto da parte della collettività) e, di conseguenza, potrebbero aumentare i consumatori
✔ senza leggi proibizioniste, ci sarebbero problemi di ordine etico-morale: è giusto che gli stati non tutelino a priori la salute psicofisica dei propri cittadini?


Roberto Topino e Rosanna Novara




Fiumi di cocaina

Introduzione

«Fiumi di parole, prima o poi ci portano via…». Basta cambiare una parola al leit motiv di questa canzone di qualche anno fa e otteniamo la descrizione di cosa sta capitando adesso nelle nostre città. Se sostituiamo «parole» con «cocaina», la frase rappresenterà perfettamente la situazione dei nostri fiumi.
Già, perché dalle analisi condotte nel 2005, dall’Istituto Mario Negri di Milano, sulle acque del fiume Po, raccolte a monte di Pavia, in un’area in cui confluiscono le acque di scarico di circa 5 milioni di abitanti, risulta che ogni giorno vengono rilasciati 4 chili di cocaina, corrispondenti più o meno a 40.000 dosi quotidiane (nella sola Milano, i depuratori trattengono quotidianamente 2 chili di cocaina). Chi fa uso di cocaina, infatti, la espelle attraverso le urine, il 5-6% in forma pura e per il 50% sotto forma di benzoilecgonina, un prodotto della sua metabolizzazione. E se la cocaina scorre così nei fiumi, chissà quanta ne scorre nelle nostre strade.

Considerando i dati dei denunciati, degli arrestati e dei segnalati per il possesso di stupefacenti, a Torino si supera la quota di 10.000 unità. Del resto, secondo un rapporto dell’Inteational Narcotics Control Strategy, Torino e Milano sono le mete d’arrivo di circa 60 tonnellate di cocaina e di 30 tonnellate di eroina, partite dal porto di Anversa e dall’aeroporto di Zaventem-Bruxelles. La polvere bianca o «neve» (così è chiamata in gergo la cocaina) invade l’Italia, soprattutto il Nord, ed il traffico è gestito dalla ‘ndrangheta calabrese e dal racket africano. La piazza migliore dell’eroina è invece Perugia, dove il traffico è gestito dalla camorra napoletana. Secondo i dati dei Sert, in Italia l’eroina è ancora il prodotto più diffuso, anche se in calo (attualmente è al 71%, contro il 90% di 15 anni fa, tuttavia nel 2007 è stato registrato un aumento dei morti per overdose), mentre è molto cresciuto il consumo di cocaina (dall’1,3% del 1991 al 14% di oggi) e la cannabis si mantiene intorno al 10% dei consumi.
Secondo l’ultima relazione della Direzione centrale dei servizi antidroga del ministero dell’Inteo, riferita al 2007, sui sequestri da parte delle forze dell’ordine, si ha un aumento nel mercato italiano del 500% del traffico di nuove droghe, dai nomi più strani, quali khat, ketamina, shaboo, crystal meth, ice, Ghb, Bzp, mCCP, cobret, che si affiancano all’ecstasy. In questi ultimi anni, i narcotrafficanti hanno fatto un’azione di ribasso dei prezzi, per aumentare il  numero dei clienti.
Confrontando i prezzi attuali, dei vari tipi di droga, con quelli del 1999, si può osservare che quello dell’eroina ha avuto una riduzione del 45%, quello dell’ecstasy del 48%, mentre inferiori sono le riduzioni dei prezzi della cocaina, delle amfetamine e della cannabis, essendo rispettivamente del 22%, del 20% e del 17%. Peraltro le nuove droghe, ampiamente diffuse tra i giovanissimi, hanno la funzione, a livello di narcotraffico, di reclutare nuovi clienti, che poi scivoleranno, quasi senza rendersene conto, verso le droghe più tradizionali, cioè eroina e cocaina, che, guarda caso, sono vendute dagli stessi spacciatori.

Le droghe, o stupefacenti (cioè sostanze «psicoattive», quindi in grado di modificare l’attività mentale ed il comportamento delle persone), sono da sempre presenti nella storia dell’uomo. Possono essere sostanze naturali o artificiali e il loro comune denominatore è la capacità di alterare gli stati di coscienza e il sistema nervoso.
Nella storia sono numerose le testimonianze sull’uso di droghe, presso varie popolazioni. Alceo, ad esempio, elogia le qualità del vino, la sostanza psicoattiva più antica e diffusa tra le popolazioni medi­­terranee. Erodoto descrive l’hascisc (o hashish) nel quarto libro delle Storie, anche se questa sostanza non era in uso presso i greci, ma presso gli sciti, così come ne parla Marco Polo ne Il Milione. Nel quarantunesimo capitolo, i seguaci del Vecchio della montagna vengono soggiogati, grazie ad una bevanda drogata ed indotti a commettere i delitti, commissionati dal vecchio capo; il loro nome, in cui è conservata la radice della parola hascisc, è «assassini».
Nei testi storici possiamo notare un uso rituale o religioso delle piante (considerate sacre), da cui provengono molte sostanze psicoattive e, in questo caso, l’uso che ne viene fatto è per raggiungere uno stato di trascendenza, per comunicare con gli dei e/o per usi voluttuari, legati al piacere dei sensi. In ogni caso, l’uso di queste sostanze è limitato a momenti o ad eventi simbolici, incorporati entro relazioni sociali di sicurezza. I conquistatori europei descrissero l’uso del peyote in Messico e delle foglie di coca presso le popolazioni del Perù, della Colombia e dell’Equador; tali foglie venivano masticate sia dai sacerdoti che dai contadini e dai pastori (in questi casi per abbassare la soglia della fatica e potere tollerare il lavoro sulle Ande). I papiri egizi danno invece le prime notizie sull’oppio intorno al 1500 a.C., mentre gli arabi ed i turchi hanno mantenuto l’abitudine di fumarlo nel corso dei secoli.
In Cina l’oppio fece il suo ingresso intorno al 1000 d.C., provenendo dall’India, ed il suo uso fu consentito fino al ‘700, quando, a seguito della sua grande diffusione, venne promulgata una proibizione imperiale, alla quale seguirono le guerre tra Cina ed Inghilterra, per via dell’esportazione della sostanza dall’India britannica alla Cina ed in particolare per il suo contrabbando, controllato dalla Compagnia delle Indie. Una caratteristica della presenza delle droghe nel passato era la moderazione con cui, di solito, venivano usate. Non appena un interesse commerciale su larga scala ha stravolto le abitudini di uso delle droghe, trasformando il loro consumo da moderato ad epidemico, le varie sostanze sono diventate una preoccupazione sociale ed un problema per l’ordine pubblico.
Non c’è più continuità tra le società tradizionali e quelle capitalistiche, sotto il profilo del consumo delle droghe, così come sono mutati i circuiti di scambio, dal momento che il traffico costituisce la novità modea, che svincola le sostanze stupefacenti dalle loro radici socioculturali e le trasforma in un puro oggetto di consumo.

di Roberto Topino e Rosanna Novara

Roberto Topino e Rosanna Novara




Minoranza «vigilata»

Chiesa cattolica in Myanmar

Charles Bo, arcivescovo di Yangon e presidente della Conferenza episcopale del Myanmar, è la figura più importante della chiesa cattolica birmana. Lo abbiamo incontrato a Pathein, città nella regione del delta dell’Ayerwaddy.

Arcivescovo, la vita dei birmani, dopo le manifestazioni del 2007, è cambiata?
In verità non ci sono stati molti cambiamenti: le manifestazioni hanno sicuramente lasciato il segno nel paese, ma il governo ha immediatamente «normalizzato» la situazione, fino ad affermare che tutto è tornato alla normalità e procede per il meglio. In realtà c’è stato uno screening attento su ogni monaco che si è riusciti a individuare dopo aver partecipato ai cortei: i più attivi e coinvolti sono stati imprigionati.

Mentre le manifestazioni erano al culmine, la Conferenza episcopale del Myanmar ha emesso un documento in cui si invitava i cattolici birmani a non partecipare alle manifestazioni. Mi scusi, ma non riesco a condividere l’idea di rimanere «fuori» in un contesto così importante. E, sentendo altri religiosi cattolici nel paese, anche loro sono rimasti spiazzati da tale documento.
La Conferenza episcopale ha invitato solo i preti e le suore a non scendere in strada aggregandosi ai cortei, lasciando ai singoli fedeli libertà di scelta. Il problema è che la chiesa cattolica in Myanmar è molto piccola e nel 1988, dopo aver appoggiato apertamente le proteste, ha subito enormi ripercussioni da parte del governo, faticando non poco a rimettersi in sesto. Per questo abbiamo chiesto ai nostri religiosi di unirsi alle preghiere.

Perché non avete invece chiesto l’immediato intervento della chiesa in Occidente e del Vaticano?
Il papa è intervenuto con un discorso trasmesso nei giorni più caldi delle dimostrazioni e le chiese di Hong Kong, Filippine e Thailandia hanno espresso duri giudizi nei confronti dei militari, appoggiando apertamente i manifestanti. Non si deve comunque dimenticare che le chiese cristiane sono state le uniche ad aver inviato un documento direttamente a Than Shwe affinché adottasse una soluzione pacifica e aprisse le porte al dialogo.

Ma nessun documento di condanna o di appoggio ai manifestanti è emerso dalla chiesa in Myanmar.
È vero, nessun documento ha condannato le repressioni e tantomeno ha espresso favore verso i monaci, ma occorre comprendere che la situazione della chiesa in Myanmar è assai differente da quella in cui si trovano altre chiese d’Oriente.

Ora siete in contatto con le comunità buddiste?
A livello privato. Ufficialmente non possiamo avere alcun contatto con loro, per i sospetti che creerebbe all’interno del governo. Sarebbe troppo pericoloso per loro e per noi.

Come giudica il ruolo dell’Onu e di Gambari nel processo di dialogo che ha con il governo?
Non siamo soddisfatti: l’Onu dovrebbe essere più incisiva. Ma come cristiani dobbiamo continuare ad avere speranza.

L’Spdc è un dinosauro anchilosato, che non mostra alcuna possibilità di smuoversi dalle sue posizioni. Solo la morte di Than Shwe potrebbe smuovere lo status quo?
Forse. La sua morte potrebbe cambiare qualcosa, ma altri tre o quattro generali sono subito pronti a rimpiazzarlo e nessuno sa quali siano esattamente le loro intenzioni.

Parliamo di remote eventualità: una partecipazione della Lega nazionale per la democrazia a un governo di coalizione potrebbe portare qualche cambiamento?
Lei parla di eventualità; io voglio parlare di realtà. E voglio anche essere chiaro: sono 60 anni che la Birmania si trova sotto dittatura militare. Non penso che, anche nel caso l’Lnd sia chiamato a condividere il potere con i militari, il sistema possa cambiare. È tutto troppo radicato. Radicato nell’animo delle persone. Di tutte le persone. Secondo me occorre rieducare, partendo dalle generazioni future, dalle scuole, dai più piccoli. Questo, come avrà capito, prenderà molto tempo. Inoltre ogni tipo di cambiamento nel paese dovrà essere graduale, non improvviso. Se i militari dessero tutto il potere all’Lnd e Aung San Suu Kyi, andremmo incontro a un periodo di enorme confusione. Questo lo ha capito anche  Aung San Suu Kyi, che non vuole isolare i militari escludendoli dal potere. La sua politica, molto saggia, è quella che lo cedano gradualmente. I birmani non sono pronti per la democrazia. La nazione andrebbe contro al caos più totale se i militari dovessero cedere completamente il potere.

Ha parlato di tempo: quanto ci vorrà, secondo lei?
Dipende dai militari. Non meno di 3-4 anni per iniziare la transizione. Ma devono sentirsi pronti alla cogestione del potere e sono sicuro che non lo sono. Non lo vogliono. Almeno sino a quando Than Shwe e la sua fazione sarà al potere.

Con Khin Nyunt c’è stata la possibilità che il Myanmar imboccasse una via democratica: è stata Aung San Suu Kyi, allora, a rifiutare il dialogo?
Khin Nyunt è stato arrestato nel 2004 e non si è mai capito il motivo. Sono due le possibili giustificazioni: il dialogo iniziato con Aung San Suu Kyi, che Than Shwe non voleva neppure iniziare o un progetto ideato dallo stesso Khin Nyunt per acquisire il totale controllo dei militari. In entrambi i casi è stato Than Shwe a sventare i progetti e prendere il posto di Khin Nyunt. Ma, ripeto, nessuno, tranne i vertici militari oggi al potere, sa esattamente per quale motivo il generale sia stato arrestato.

Ha parlato di una chiesa piccola e impotente: c’è qualcosa che può fare per indirizzare il Myanmar verso la democratizzazione senza cadere nel caos più completo?
La chiesa cattolica è l’unica organizzazione in Myanmar che ha un reale e costante contatto con la comunità internazionale. Neppure i buddisti possono avere contatti così capillari e influenti. Per questo il governo cerca di ostacolare in ogni modo la chiesa cattolica. Anche Aung San Suu Kyi ha ammesso che in Myanmar i birmani non hanno alcun potere.

Chi, oltre ai militari, può decidere il futuro dei birmani?
La comunità internazionale. E in Myanmar la chiesa cattolica ha l’influenza necessaria per far sì che la comunità internazionale agisca nei modi più opportuni.

Per sua stessa ammissione l’Onu, massima rappresentante mondiale, non sta agendo in modo soddisfacente.
Non esiste solo l’Onu…

Se parla dell’Unione Europea, non sarei tanto ottimista: come rappresentante per discutere con il governo birmano ha scelto un italiano che, dicono i dissidenti birmani residenti all’estero, ha una conoscenza superficiale dei problemi e la politica da lui adottata è, a dir poco, vergognosamente inutile. Come se non esistesse.
Anche noi abbiamo la stessa impressione…

Rimangono gli Stati Uniti, ma la loro ostilità verso i militari non permette di aprire un dialogo con loro…
Esattamente! Questo è il punto! Premesso che la situazione in Myanmar cambierà solo dopo la morte dei quattro leaders militari, il problema principale che riscontriamo è che la comunità internazionale, e gli Usa in modo particolare, continuando a criticare la giunta, la spingono sempre più verso le braccia della Cina. Quindi ecco due chiavi che potrebbero utilizzare per riportare il paese al dialogo: per prima cosa l’Occidente deve cercare di influenzare la Cina, affinché induca i militari ad accettare i cambiamenti; seconda cosa, gli Usa devono smetterla di criticare violentemente il Myanmar e imporre l’embargo; dovrebbero, invece, cambiare atteggiamento ed essere più aperti con il Myanmar.

La chiesa cattolica in Myanmar ufficialmente si è pronunciata contro l’embargo: come mai?
Sì, ufficialmente abbiamo detto di essere contrari all’embargo; non solo per il Myanmar, ma per tutti i paesi. È vero che il boicottaggio colpisce i militari, ma colpisce ancora di più i birmani. I militari riusciranno sempre ad aggirare l’embargo e fare soldi. Sono i semplici cittadini a non poterlo fare.

Cosa fate allora in concreto per alleviare le sofferenze dei birmani?
Essendo pochi e con poca influenza all’interno della nazione, non pretendiamo di cambiare il paese. Nel nostro piccolo, però, cerchiamo di educare la società al fine di renderla pronta per la svolta democratica. Questo nostro lavoro a lungo termine, è capito appieno dai militari: per questo ci è vietato organizzare servizi sociali su larga scala in Myanmar.

Continuiamo a parlare di Usa: ufficialmente Washington critica violentemente la giunta, ma a Yangon ha costruito un’ambasciata immensa e ultramodea a pochi metri dalla casa di San Suu Kyi. A che gioco stanno giocando? È un monito verso la giunta affinché non faccia alcun male a Daw? Un modo di dire «attenzione, noi siamo qui che vegliamo e proteggiamo Aung San Suu Kyi»?
Non so quali siano le reali intenzioni degli Stati Uniti. Ufficialmente la nuova ambasciata è stata costruita in quel luogo, in quel modo, per ragioni di sicurezza. Non ho mai pensato che il fatto di averla costruita a fianco della casa di Aung San Suu Kyi potesse essere un monito alla giunta, ma in effetti sarebbe una mossa molto efficace e psicologicamente astuta.

Dagli Stati Uniti ai due giganti che schiacciano il Myanmar: Cina e India. Che influenza hanno questi due paesi sulla giunta birmana? Si parla quasi sempre solo della Cina, ma anche l’India fa la sua parte…
Oggi la giunta è sotto l’ombrello di protezione cinese. Il problema è che la Cina è una nazione in cui il governo è privo di una morale religiosa, quindi per raggiungere i suoi fini, cioè annettere il Myanmar come sua provincia per avere uno sbocco sull’Oceano Indiano, è pronta a fare qualsiasi cosa.

E l’India?
L’India non ha grandi interessi in Myanmar. È però vero che è il principale fornitore di armi ai militari.

Non sono molto d’accordo con lei sul ruolo marginale dell’India, ma passiamo a questioni intee: recentemente e in particolare dopo le manifestazioni di settembre e ottobre, in alcune zone del Myanmar sono scoppiate alcune bombe artigianali che hanno causato anche delle vittime. Si ha idea di chi avrebbe potuto essee l’ideatore e l’esecutore? L’opposizione intea avrebbe la possibilità di organizzare questi attentati?
Come ha evidenziato lei, sono tutti ordigni artigianali, di scarsa potenza e che chiunque, con un po’ di esperienza, potrebbe fabbricare in casa. Può essere che le bombe siano state messe da movimenti etnici, i quali avrebbero la capacità di organizzare simili attentati. Escluderei siano opera dell’Lnd. Ma c’è chi sospetta gli stessi militari, per avere la giustificazione di avviare nuove repressioni.

Aung San Suu Kyi: che opinione ha la gente della Lady?
È un’icona. È vero che non ha mai avuto esperienza di amministrazione del potere, ma la gente ha piena fiducia in lei.

Tale fiducia potrebbe essere un’arma a doppio taglio. Cosa accadrebbe se la Signora non si dimostrasse all’altezza delle aspettative e non riuscisse a mantenere le promesse fatte al suo popolo? Lei che l’ha incontrata più volte, che opinione si è fatto?
Mi ha sorpreso. Piacevolmente sorpreso. Ammiravo la sua minuta conoscenza della situazione politica e sociale del paese che non avrei mai creduto di incontrare in una donna che era stata per così lungo tempo agli arresti domiciliari. Inoltre, Aung San Suu Kyi è una persona molto religiosa e mi ha assicurato che, nel caso andasse al potere, garantirebbe completa libertà di fede. A differenza di lei, Than Shwe, quando parla di sviluppo, intende uno sviluppo militare. Non l’ho mai sentito parlare di sviluppo sociale, economico, educativo. Daw, invece, parla principalmente di questo. E mi fa ben sperare.

Quale è la parola di cui i militari hanno più paura?
Dialogo. Appena sentono tale parola si allarmano, in particolare questa giunta guidata da Than Shwe.

Un dialogo però è in corso con Aung San Suu Kyi.
A livelli molto bassi. Il militare incaricato a parlare con Aung San Suu Kyi non ha alcuna influenza sui vertici. Serve come specchietto delle allodole.

Di Piergiorgio Pescali

Piergiorgio Pescali




Col favore delle stelle

Reportage dal paese asiatico «normalizzato» (cfr. MC, dicembre 2007)

A 7 mesi dalla repressione delle proteste contro il regime militare il paese è tornato alla «normalità»: monaci deportati o imprigionati, abbuffata di affari in barba all’embargo, opposizione divisa, minoranze etniche in fermento, generali al potere più vecchi.  Un futuro più democratico dipenderà dal cambio di generazioni, sia tra i militari che nei partiti… Cina e India permettendo.


L’aereo della Thai atterra all’aeroporto di Yangon. Sono pochi mesi che manco dal Myanmar, eppure, appena uscito dalla carlinga, noto già qualcosa di differente rispetto all’ultima visita: la hall degli arrivi e delle partenze è nuovissima, appena inaugurata, in attesa di ospitare turisti e uomini d’affari che, per ora, tardano ad arrivare. «Ma è solo questione di tempo – afferma un imprenditore singaporeano, incontrato durante il breve viaggio da Bangkok -. Le economie mondiali non possono ignorare un paese ricco e praticamente vergine come il Myanmar».
L’uomo d’affari ha ragione: quanto potrà resistere il mercato, sempre alla disperata ricerca di nuove opportunità di investimenti, prima di spartirsi questo lembo di terra paradisiaco? Più di 600 mila kmq disseminati di ogni primizia terrena, pronta a trasformarsi in moneta sonante: dalle pietre preziose alle foreste di tek, da fiumi impetuosi, potenziali generatori di energia elettrica, a giacimenti di gas naturale, carburante di economie che per sostenersi devono fagocitare milioni di metri cubi di idrocarburi.
ANTIPASTO PER IL TURISMO
Per non parlare del fascino esotico che le pagode e le culture di semisconosciute etnie tribali emanano nell’immaginario collettivo. Una manna per i tour operator, smaniosi di presentare ad annoiati vacanzieri nuove esperienze, nuove terre «inesplorate», nuove avventure da declamare ai colleghi e agli amici.
Sull’onda delle proteste inteazionali scaturite dalla repressione del governo, le agenzie di viaggi si sono trovate costrette, loro malgrado, a sospendere i tour nel paese. Per anni, il boicottaggio, decretato dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea, era stato aggirato, ma il drastico calo di prenotazioni dei viaggi in Myanmar da parte dei turisti, ha indotto numerose agenzie a depennare dal catalogo un nome che sarebbe divenuto per lo meno scomodo. Ma, come sempre accade, appena l’indignazione popolare è scemata e l’attenzione si è spostata altrove, le pagine che presentano le meraviglie del paese sono ricomparse. Magari aggiungendo una quota destinata a qualche progetto umanitario per mettere in pace la coscienza. No, è chiaro a chiunque che il Myanmar non potrà essere relegato a lungo nel limbo dell’embargo e del boicottaggio. Del resto non lo è mai stato e neppure ora, dopo la ola di biasimo che si è innalzata da mezzo mondo a seguito della violenta risposta dei militari alle manifestazioni dei monaci, lo sarà.
La nuova ala dell’aeroporto di Yangon, con gli schermi al plasma Samsung, l’aereo della Lauda Air parcheggiato poco distante, i due MiG 29 russi che sfrecciano nel cielo azzurro, sono solo l’antipasto della chiara dimostrazione che il mondo economico non ha mai chiuso le porte alla giunta militare.

INDIGESTIONE DEGLI AFFARI
Se l’aeroporto è l’antipasto, in città ecco l’indigestione. Gli incroci principali di Yangon mostrano i cartelli pubblicitari delle ditte che hanno sfidato apertamente l’embargo: Total, Alcatel, Chevron, Mitsubishi, Sony, Daewoo, Suzuki, Siemens. Sono solo alcune delle multinazionali che agiscono senza veli nel paese, nonostante le dichiarazioni ufficiali dei vari parlamenti europei, nonostante le proteste pubbliche, nonostante il boicottaggio. Non esistono sanzioni verso queste aziende; ma se si scava in qualsiasi ditta birmana, compare subito un qualche socio europeo o americano.
Nessuna economia vuole rischiare di perdere il Myanmar e le sue ricchezze. E se ufficialmente non si può trattare direttamente con la classe imprenditoriale del paese, legata a doppio filo con i generali dell’Spdc (acronimo per Consiglio di stato per la pace e lo sviluppo), si trova sempre un mediatore compiacente.
Per l’Italia, ad esempio, il principale intermediario con cui scardinare la saracinesca che impedisce il commercio diretto con il Myanmar, è Singapore. Tramite questa minuscola repubblica, centinaia di aziende nazionali costruiscono hotels, vendono macchinari, esportano materie prime, compartecipano alla gestione di aziende che creano profitti sfruttando la manodopera a basso costo del paese. Insomma, nonostante si neghi ogni coinvolgimento, anche noi facciamo affari d’oro con i generali. Lo dimostra, del resto, anche il documento redatto dalla Cisl, in cui sono elencate più di un centinaio di aziende che hanno rapporti commerciali con il Myanmar.

I MONACI «SCOMPARSI»
Poco importa all’economia, a noi, al nostro portafoglio, se i monaci nelle principali città della nazione, sono drasticamente diminuiti, come conseguenza delle misure intraprese dal governo dopo che, nell’autunno 2007, le strade di Sittwe, Yangon, Mandaly, Pakkoku si erano colorate di arancione e le urla di protesta contro la giunta militare si erano levate dalle pagode. Sono stati migliaia i religiosi deportati a forza dal Tatmadaw (le Forze armate birmane), mentre altri, per prevenire le repressioni, si sono rifugiati volontariamente nei monasteri dei villaggi d’origine, da dove provenivano.
«È difficile quantificare il numero esatto di morti e di prigionieri» mi dice un bonzo, stretto collaboratore di U Gambira, leader dell’«Alleanza di tutti i monaci birmani», ancora imprigionato per essere stato riconosciuto come uno dei leaders delle rivolte. «Ma pensiamo che le cifre siano maggiori di quelle date dal governo». Poi azzarda dei numeri: più di 700 arrestati stanno ancora marcendo nelle carceri birmane, mentre oltre ai 22 morti, ufficialmente dichiarati dal governo, se ne dovrebbero aggiungere 140 di cui non si hanno notizie.  
Un bilancio tragico, è vero, ma pur sempre limitato se pensiamo che nel 1988 le manifestazioni studentesche vennero disperse al costo di migliaia di vittime. Inutile, però, tentare di fare un raffronto con i cortei di 20 anni fa e quelli del 2007. Tempi e protagonisti sono totalmente differenti. Tra le toghe arancioni che hanno sfilato l’anno scorso non si sono viste immagini del generale Aung San, non si sono levati canti patriottici, non c’erano giovani universitari.

L’OPPOSIZIONE DIVISA
La stessa Lega nazionale per la democrazia (Lnd), il partito di Aung San Suu Kyi, ha brillato per la sua assenza. Anzi, è riuscita a fare anche di peggio: nei primi giorni delle dimostrazioni, quando ancora erano poche decine i coraggiosi dimostranti che sfidavano i militari, U Lwin, segretario del partito, dichiarava a Radio Free Asia che «le proteste sono di piccola portata e non possono risolvere i problemi del paese… Ci sono molte persone che non prendono parte alle proteste. Come possiamo sapere se i manifestanti sono una reale espressione della volontà della maggioranza del popolo?».
Parole che hanno lasciato tutti sconcertati, anche perché i maggiori esponenti della cosiddetta Generazione 88, i veterani delle manifestazioni del 1988, erano stati arrestati da pochi giorni. C’è voluta ancora Aung San Suu Kyi, quando si è affacciata brevemente dalla sua casa, per riconciliare il partito con il popolo. Ma le dichiarazioni di U Lwin dimostrano quanto distante sia anche l’opposizione dalle reali esigenze della gente.
Gli appelli acritici a favore dell’Lnd e contro la giunta militare birmana levatisi da numerose piazze europee si scontrano da una parte con la sfiducia che operatori umanitari stranieri e intellettuali birmani all’interno del Myanmar nutrono verso i leaders dell’opposizione e dall’altra con la necessità della nazione di avere un esercito forte per restare unita.
«L’opposizione è fortemente disunita e i membri dell’Lnd non sono poi molto differenti dai militari – afferma uno storico birmano pur simpatizzante di Aung San Suu Kyi -. Guardo con apprensione il giorno in cui il popolo acclamerà la raggiunta democrazia, perché allora si aspetterà stravolgimenti economici e sociali che nessuno è in grado di garantire a breve termine».
La stessa «Lady», all’inizio della sua carriera politica, subodorando la possibilità che alcuni membri del partito sfruttassero la loro posizione per fini personali, avvertì che «alcuni politici cercano di aiutarmi in vari modi. Io voglio essere chiara con loro, dicendo che se lo fanno per ottenere posizioni di potere per loro stessi, non li appoggerò in alcun modo». Una pura. Una delle poche.
Mi consolo con quello che mi ha riferito un comico bandito dal regime, quando gli ho confessato gli stessi dubbi: «Ci salverà la religione buddista, la fede inconscia e profonda dei birmani verso il fato e verso la magia. Se qualcosa non andrà come ci si aspetta, potremo sempre dire che era destino, che le stelle non erano favorevoli. E diremo loro di aspettare…».
Tutto in Myanmar rotea attorno all’astrologia, in particolare la politica. Se il 9 è il numero considerato fortunato dai militari, l’8 lo è per l’opposizione. «Forse dobbiamo solo cambiare numero magico…» continua il comico. L’8, infatti, non ha portato molta fortuna ai dissidenti, visto che le manifestazioni iniziate l’8 agosto (8° mese dell’anno) 1988 alle ore 8.08 del mattino, sono terminate in un bagno di sangue.

LE ETNIE DIFFIDENTI
Ma il principale problema del futuro del Myanmar non si può dire sia la corruzione o la divisione intea che frantuma l’opposizione: è qualcosa di ben più grave, che affonda le radici nella base sociale stessa della nazione. Il paese è, infatti, un crogiuolo di etnie, ognuna con i propri dialetti, credenze, tradizioni, leggende e, soprattutto, fondanti su identità nazionali diverse e autonome da quella bamar, la principale etnia del paese.
Il nome stesso Birmania, utilizzato sino al 1989 anche in sede internazionale, non è altro che la storpiatura inglese di bamar. Il cambio di nome voluto dal regime identifica con più ampio respiro l’effettiva sovranità interetnica dello stato, che sin dalla sua nascita, ha dovuto combattere contro le fortissime istanze secessioniste che arrivavano dalla periferia.
Le manifestazioni del 2007 sono state pressoché ignorate nelle regioni non bamar, che non accettano neppure Aung San Suu Kyi come possibile capo di stato nel caso le fosse data questa remota possibilità. «Aung San Suu Kyi è una bamar e come tale non farebbe altro che cercare di perpetuare il potere bamar sui nostri stati, esattamente come sta facendo oggi l’Spdc» argomenta un leader karen.
Del resto, se si analizzano a fondo i risultati elettorali del 1990, liquidati dai mass media declamando semplicemente la vittoria dell’Lnd, ci si troverebbe dinanzi a un quadro allarmante della situazione del paese. Di fronte a un 58,7% di voti a favore della Lega nazionale per la democrazia, quasi tutti per altro ottenuti nelle regioni centrali del paese (la Birmania vera e propria), i partiti indipendentisti a base etnica hanno ottenuto un sorprendente 16,2% a livello nazionale, che, parametrato su base regionale, si innalza a valori altissimi. Basti dire che il principale partito etnico alleato all’Lnd, lo Shan Lnd, ha raggiunto appena l’1,7%, dimostrazione di quanto debole sia il legame che unisce qualsiasi tipo di politica dettata da Yangon alle zone di confine.

I GARANTI DELL’UNIONE
Per questo le richieste di allontanamento immediato dei militari dai centri decisionali, tanto invocato in Occidente, hanno ben poco senso e dimostrano quanto poco si conosca il Myanmar. Solo un esercito forte è in grado di mantenere uniti gli stati che compongono l’Unione. La stessa Aung San Suu Kyi ha ripetuto, sin dal primo comizio del 26 agosto 1988 di fronte alla Shwedagon Pagoda, il suo rispetto per un’istituzione fondata da suo padre e indispensabile per l’unità del paese: «Ho un forte senso di attaccamento al Tatmadaw – disse in quel frangente -, non solo perché è stato voluto e fondato da mio padre, ma anche perché da bambina i soldati di mio padre mi accudivano». Traducendo in altre parole, il senso della frase sarebbe questo: come i militari hanno accudito me, possono proteggere anche voi e la nazione intera. «Solo i militari possono garantire lo status quo della Birmania» spiega Win Min, professore di Storia birmana all’Università di Chiang Mai, in Thailandia.
Non è una questione esclusivamente nazionale: la disgregazione birmana creerebbe pericolosi squilibri regionali che nessuno vuole. Una eventuale indipendenza di uno qualsiasi degli stati dell’Unione, potrebbe innescare un pericoloso senso nazionalistico anche tra le etnie cinesi dello Yunnan e quindi di altre regioni critiche come il Tibet e lo Xinkjiang, mentre la Thailandia sarebbe costretta a rivedere la sua politica verso le minoranze del nord, da sempre bistrattate. Infine l’India dovrebbe contrastare i forti movimenti indipendentisti assamiti, la cui sopravvivenza è garantita dalle basi che li ospitano negli stati Chin e Rakhine.
«Spiace dirlo, ma il Tatmadaw (forze armate) è l’unica organizzazione in grado di garantire l’unità della nazione e la stabilità del Sud-Est asiatico» ammette un’importante personalità religiosa che preferisce mantenere l’anonimato.
Per questo, a parole tutti auspicano un ritorno di Aung San Suu Kyi, ma nessuno spinge perché si avveri. L’Unione Europea, dando ad un inutile Fassino il compito di rappresentarla presso il regime militare birmano, ha dimostrato quanto poco creda in un cambiamento radicale nella politica del paese. Non fa meglio l’Onu, con Gambari succube dell’Spdc. I vantati colloqui tra Suu Kyi e i generali, in realtà si riducono a formali scambi di battute senza senso e senza altro fine se non quello di dare in pasto ai media qualche notizia. La pasionaria birmana ha come interlocutore un militare di basso livello in pensione. Il classico due di picche quando la briscola è bastoni.

L’OCCASIONE PERDUTA
Ma anche Aung San Suu Kyi, pur relegata nella sua casa di University Avenue, ha gravi responsabilità sull’attuale situazione del paese. U Than Tun, ex esponente di spicco dell’Lnd, espulso nel 1997 dalla stessa Lady per essersi mostrato favorevole a un dialogo con i militari, mi confidò che «Daw (attributo di rispetto dato alle persone di sesso femminile, nda), è stata troppo intransigente. In Birmania occorre cogliere tutte le occasioni possibili per cambiare il corso della storia». Lei, l’eroina birmana, la sua occasione l’ha avuta nel 2004, quando il moderato e filocinese Khin Nyunt, aprì un dialogo con il plauso dell’Onu, della Cina e degli stessi Stati Uniti. Incomprensibilmente, fu Aung San Suu Kyi a ritrarsi, scatenando una ridda di polemiche e defezioni all’interno dell’Lnd.
«Non sappiamo ancora cosa l’abbia indotta a interrompere i colloqui con Khin Nyunt. Pensiamo che sia stata male informata dalle persone del partito che, allora, la consigliavano» spiega Beaudee Zawmin, portavoce del Goveo di coalizione nazionale dell’Unione birmana (Gcnub), il governo in esilio rappresentato anche all’Onu. Male informata o no, l’interruzione delle trattative favorì l’ascesa della fazione militare pro-indiana, guidata dal duro Than Shwe, l’attuale capo della giunta, che si premurò di epurare tutti i moderati, condannando lo stesso Khin Nyunt a 44 anni di carcere.
La democrazia in Myanmar è quindi irrimediabilmente perduta? No, non direi. I cambiamenti tanto auspicati arriveranno, questo è certo, ma solo dopo il cambio generazionale dell’attuale quartetto che comanda l’Spdc. Il dietrofront della Signora con Khin Nyunt ha solo rallentato la via verso la democrazia. Than Shwe e Maung Aye, le due figure di spicco dell’Spdc, entrambe ultrasettantenni e malate, non rimarranno ancora a lungo al potere.
Nessuno, però, conosce i papabili successori: Thura Shwe, numero tre del regime, ha pochi amici all’interno del Tatmadaw, mentre Thein Sein, primo ministro dal 24 ottobre 2007 e il militare più presente sui media nazionali, non è riuscito ancora a ritagliarsi uno spazio sufficiente per garantirsi il salto che lo porterebbe al vertice della giunta. Indispensabile sarà comunque l’appoggio a questa o quella fazione della Cina o dell’India, le due nazioni che più hanno influenzato la politica intea del Myanmar sin dalla sua nascita.
La storia insegna che i generali al potere, considerati intoccabili, sono stati spodestati da fazioni rivali che godevano dell’appoggio di Nuova Delhi (Ne Win e Than Shwe) o Pechino (Khin Nyunt). Un dialogo con i due colossi asiatici da parte dell’Occidente non farebbe altro che accelerare la ripresa del dialogo. Leaders birmani permettendo. 

di Piergiorgio Pescali

Facce vecchie del regime
Sono oramai 46 anni che in Birmania i vertici militari detengono il potere. Visto dall’esterno, il governo della giunta appare solido e unito: nel paese sono pochissime le voci che esprimono dissenso, i turisti che vengono scorazzati tra splendide pagode e monumenti non vedono grosse sacche di miseria, i sorrisi che li accompagnano ovunque mostrano la facciata di un popolo felice e sereno, i manifesti della propaganda riflettono un’unica via condivisa da tutti.
In realtà, rivalità individuali e frantumazione sociale rendono il governo assai più debole di quanto possa apparire. Neppure nell’atteggiamento da tenere verso Aung San Suu Kyi c’è unità di vedute. Lo dimostra la lunga serie di destituzioni, cambi di denominazioni e rimpasti al vertice avvenuti dal 1962 ad oggi. L’ultima, in ordine di tempo, si è consumata nel 2004, quando l’allora primo ministro, generale Khyn Nyunt, da molti indicato come colui che avrebbe traghettato il paese verso il pluralismo economico e politico, è stato posto agli arresti domiciliari.
Nessuno all’interno della Spdc può considerarsi intoccabile: Nyunt, ad esempio, era a capo dei potenti Servizi segreti, ma tale posizione privilegiata non lo ha preservato da una fine miserabile. Le informazioni in suo possesso non sono servite ad arrestare l’ascesa del suo più acerrimo nemico, quel generale Than Shwe che, partendo da un posto pubblico nelle poste birmane, è riuscito a mettere da parte prima il generale Ne Win e poi lo stesso Nyunt.

Molti analisti indicano nel rifiuto di Aung San Suu Kyi di accettare il dialogo offertole dal primo ministro, come una delle principali cause della sua caduta. Paradossalmente per questi osservatori (e per alcuni membri dell’Lnd poi espulsi dal partito per le critiche rivolte a Suu), l’intransigenza di Aung San Suu Kyi avrebbe favorito l’ascesa dell’ala dura dei militari. Oggi l’ottantenne Than Shwe è l’indiscusso presidente dell’Spdc e comandante delle Forze armate. Nonostante le sue apparizioni televisive cerchino di nascondere la paralisi al braccio dovuta a diversi attacchi di ischemia, è a tutti chiaro che la sua salute e, quel che è più grave, la sua mente, sono compromesse. In un suo discorso ha farfugliato che prima di morire non vuole vedere più una faccia bianca nel Myanmar e che nella nuova Costituzione vorrebbe reintrodurre la figura del re; ruolo che gli spetterebbe di diritto in caso di un suo ritiro dalle cariche militari.
Il suo vice, Maung Aye, potrebbe essere il successore di Than Shwe, ma il vizio di bere ha reso il suo fisico debole. Xenofobo, crudele, Maung Aye, oltre a essere contrario a ogni dialogo con Aung San Suu Kyi, è stato l’artefice degli accordi con i signori della droga in cambio di una pace con le diverse etnie.
Sono in molti, anche e soprattutto tra i militari, ad aspettare la morte di Than Shwe. È la sua presenza, infatti, che impedisce ogni cambiamento. La nuova generazione di militari, più moderata e incline al compromesso, è pronta a prendere le redini del potere per poi condividerlo con l’opposizione.

di Piergiorgio Pescali


Intervista con Beaudee Zawmin

Si commuove, Beaudee Zawmin, quando parla dei suoi concittadini oppressi in Birmania da un regime dispotico e dittatoriale. Lui, buddista cresciuto nelle scuole cattoliche di Rangoon, è uno dei pochi fortunati che, dopo essere fuggito alle pallottole dei militari, non ha mai smesso di lottare per la libertà del popolo che rappresenta. Oggi Beaudee è il volto di Aung San Suu Kyi nell’Unione Europea, l’esponente nel Vecchio Continente del governo in esilio della Birmania.

Signor Zawmin, dopo l’interesse per la rivolta delle toghe arancioni, la stampa italiana si è già dimenticata della Birmania.
Me ne sono accorto, purtroppo; eppure in Birmania si continua a soffrire. Migliaia di monaci sono ancora imprigionati, mezzo milione di persone accampate nei campi profughi in Thailandia e Bangladesh in condizioni pietose. All’interno l’economia è in sfacelo. Noi abbiamo bisogno della vostra attenzione e aiuto.

Oggi sembra che qualcosa si stia muovendo: oltre al rappresentante Onu, Gambari, Aung San Suu Kyi ha potuto incontrare alcuni membri della Lega nazionale per la democrazia e il dialogo con i militari sta procedendo.
Sono segnali positivi che fanno sperare in un futuro più roseo per il paese. I militari sembra si siano finalmente accorti che il popolo non è dalla loro parte. La pressione internazionale sui generali ha avuto il suo effetto, ma occorre continuare a mostrare loro che il mondo non si è scordato della Birmania.

È quindi tempo di abbandonare la propaganda e pensare a cose concrete. Avete già dei nomi da proporre per un eventuale governo di coalizione e per risollevare l’economia?
Abbiamo già dei nomi, ma non vogliamo forzare troppo le tappe.

Errori nel passato ne ha commessi anche Aung San Suu Kyi, il più evidente di tutti è il suo ostinato rifiuto di parlare con il moderato Khin Nyunt ritrovandosi oggi a dover dialogare con un dittatore come Than Shwe.
Sì, è vero. Abbiamo sbagliato e ne abbiamo pagato le conseguenze. Oggi, però, possiamo contare su una maggiore esperienza e su un movimento più giovane, snello e più pragmatico. È per questo che Aung San Suu Kyi ha accettato di dialogare con una giunta impresentabile come quella che oggi opprime il popolo birmano. È giunto il tempo di dare chiari segnali di speranza ai birmani.

L’immagine dell’Nld tra gli stranieri che vivono in Birmania non è così idilliaca come la si descrive in Occidente. Si teme che la corruzione e la carriera si siano insinuati anche tra molti dei leaders del partito.
Il pericolo della corruzione esiste ed è reale, ma oggi il principale obiettivo del partito è quello di raggiungere la democrazia e unirsi attorno ad Aung San Suu Kyi. Non possiamo garantire la cristallinità e la purezza, ma sappiamo anche che non possiamo permetterci di deludere il popolo.

Per far sopravvivere la Birmania alle lotte etniche che minano la sua unità, i militari dovranno mantenere un ruolo centrale anche in un futuro governo democratico. Siete disposti ad accettare la presenza dei generali?
L’esercito è una creazione di Aung San, l’eroe nazionale birmano e padre di Aung San Suu Kyi. Lei stessa ha sempre affermato di avere a cuore il futuro dei militari e tutti noi sappiamo che il paese ha bisogno di loro. Il problema sono i vertici che comandano le Forze armate. Ma sono vecchi e la nuova generazione ha una visione più ampia del mondo e della democrazia. È con loro che dialogheremo e costruiremo il futuro della nazione.

Di Piergiorgio Pescali

Piergiorgio Pescali




Un Chicco di grano per la vita

La missione di padre Adalberto coninua … oltre la morte

Missionario della Consolata per oltre 30 anni e per altri 5 incardinato nella diocesi di Dar Es Salaam, padre Adalberto Galassi fu stroncato da infarto a 61 anni, nel 2002. I familiari e tanti amici hanno raccolto il testimone e continuano a sostenere i progetti da lui avviati nella missione di Kibiti. 

Quando guardo il manifesto del Consorzio agrario provinciale di Macerata, mi vengono alla mente due «icone» della mia fanciullezza. Nella prima c’è un’Apetta, guidata da un passionista che, nei giorni della trebbiatura, arrivava puntuale sull’aia per la questua: apriva il sacco, i contadini vi versavano alcuni chili di grano e il frate se ne andava ringraziando e benedicendo.
Nella seconda c’è una vecchia Fiat 500, in cui scompariva la bassa statura del mio parroco, don Giulio. Anche lui arrivava sull’aia, attaccava un sacco a una bocchetta della trebbiatrice, ve lo lasciava per una decina di minuti e intanto gridava: «Butta giù!», sventolando un pacchetto di sigarette per incoraggiare gli operai a gettare nel battitore più covoni possibili.
Erano gli anni del dopoguerra. I contadini avevano pochi soldi in tasca, per cui risultava più naturale fare la carità o sostenere le opere della chiesa con doni in natura. Oggi il grano passa dal campo al consorzio quasi in un baleno, senza quell’atmosfera romantica della trebbiatura di quei tempi; rimane tuttavia il senso di solidarietà degli agricoltori; per questo il Consorzio agrario di Macerata ha organizzato «una raccolta di beneficenza in “cereali” da donarsi alla missione di Kibiti-Tanzania di padre Adalberto Galassi».
E funziona: ogni anno vengono raccolti più di 200 quintali di grano, che, tradotto in moneta e inviata al nuovo parroco di Kibiti, serve a comperare granaglie sul posto da distribuire ai più poveri o a sostenere i progetti rimasti incompiuti per la morte prematura di padre Adalberto.
I donatori maceratesi conoscono bene il defunto missionario, ma non sanno affatto dove sia Kibiti.

IN CAPO AL MONDO A DESTRA
Kibiti si trova al centro della zona costiera tanzaniana a sud di Dar Es Salaam. Facile a dirsi; ma arrivarci è un’altra cosa. Ne ho fatto esperienza in una piovosa giornata del 1997. Si lascia la città e s’imbocca la Kiliwa Road, strada dal nome altisonante, ereditato dall’amministrazione coloniale inglese, ma che di quel periodo non conserva più nulla. Per evitare le buche prodotte nell’asfalto dalle intemperie e dall’incuria, viaggiamo sulla terra battuta ai cigli della strada, zigzagando tranquillamente da destra a sinistra e viceversa, poiché non si incontrava anima viva.
Dopo circa150 km e oltre quattro ore di viaggio siamo finalmente nel villaggio di Kibiti: sembra di essere arrivati in capo al mondo. Svoltiamo a destra ed ecco la missione: una vecchia cappella e un dispensario nuovo di zecca, costruito e gestito dalle missionarie della Consolata.
La popolazione di questo sperduto angolo del mondo è prevalentemente musulmana, ma vi sono parecchi cristiani, di etnia makonde, fuggiti dal Mozambico fin dagli anni ‘60, quando in quel paese infuriava la guerriglia contro il dominio portoghese.
Un frate cappuccino olandese, di tanto in tanto si faceva 250 km dell’impercorribile Kiliwa Road, tanto era estesa la sua missione, per incontrare i cristiani. Poi costruì a Kibiti, al centro del territorio affidato al suo zelo missionario, una cappella e una casetta destinata a ospitare una piccola comunità di suore, che si prendessero cura della gente per troppo tempo dimenticata. Il suo sogno si è avverato nel 1991, due anni prima della sua morte, divorato da un tumore, quando quattro missionarie della Consolata vi si stabilirono e costruirono il dispensario.
Per sei anni le religiose hanno visto il prete, un altro cappuccino, solo la domenica, quando riusciva a venire a Kibiti per celebrare l’eucaristia e incontrare le sperdute comunità cristiane, finché all’inizio del 1997 è arrivato padre Adalberto Galassi, che, essendo senza casa, ha ricavato uno stanzino nella sacrestia: 6 mq che fungono da camera da letto, laboratorio e da cucina, quando rincasa troppo tardi.
Oltre alla cappella, il missionario ha poco da mostrarci, eccetto un paletto infisso al suolo, poco lontano dalla chiesetta, dove sarà scavato un pozzo per fornire acqua alla gente e al dispensario. Proprio in quel punto, alcune settimane prima, la bacchetta del rabdomante, padre Egidio Crema, venuto apposta da Iringa, si era agitata freneticamente, individuando una ricca vena d’acqua.

A SERVIZIO DEI FRATELLI
Adalberto è nato nel 1941 a Caldarola, uno storico e ridente paese nella Val di Chieti, affacciato sull’omonimo lago artificiale. Un luogo ideale per fare qualche scampagnata con i miei familiari, sempre accolti con calore e simpatia dalla famiglia Galassi, ben nota nel paese e in gran parte del maceratese: mamma Rosa e papà Vincenzo, quattro giovanotti, di cui Adalberto è il secondogenito, e una zia ostetrica, che ha aiutato a venire al mondo metà degli abitanti del circondario.
Finite le scuole elementari, Adalberto entrò nel seminario della diocesi di Camerino, in un momento in cui si respirava un’atmosfera di forte entusiasmo missionario. Proprio in quegli anni Giovanni Monti entrava tra i missionari della Consolata. Poco dopo, nel 1958, lo stesso direttore del seminario, mons. Attilio Marinangeli, all’età di 45 anni, entrava nello stesso istituto e l’anno seguente raggiungeva il Tanzania.
Non c’è dubbio che l’esempio del rettore abbia contagiato anche Adalberto. Terminati i corsi liceali, nel 1961 iniziò il noviziato tra i missionari della Consolata, continuò gli studi a Torino e venne ordinato sacerdote nel 1966 a Caldarola. Due anni dopo era in Tanzania, nella diocesi di Iringa, dove il suo ex rettore era amministratore apostolico, ma per pochi mesi ancora, perché minato da una grave malattia che lo portò alla tomba.
«Fortunato chi ti avrà come compagno in missione» gli aveva detto un giorno, quando era ancora a Torino, un suo compagno di classe, invidiando le sue doti pratiche, soprattutto in fatto di meccanica ed elettrotecnica. Sereno e generoso, padre Adalberto nascondeva elogi e complimenti con un timido sorriso e una battuta di humour quasi inglese.
Arrivato in Tanzania con pochi effetti personali e una cassetta di attrezzi di ogni genere, fu subito richiesto dai confratelli per un’infinità di lavoretti pratici, dove si richiedevano mani esperte. «Le radioline di tutte le missioni sono passate tra le sue dita» racconta un confratello.
Nel 1973 i confratelli lo elessero consigliere della direzione regionale del Tanzania; gli fu affidato anche l’incarico di amministratore regionale, facendosi stimare per la sua «serietà e onestà a prova di bomba», come afferma un confratello, di solito non prodigo di elogi.
Nel 1979 fu destinato a Dar Es Salaam, come procuratore: un servizio importante e delicato, che comporta contatti con ambasciate, disbrigo di pratiche burocratiche e amministrative a favore del personale impegnato nelle missioni della Consolata e di altri istituti, accoglienza e accompagnamento di missionari, volontari, medici… venuti in città per acquisti o altre urgenze.
A troncare tale servizio, nel 1988, fu una brutta avventura: una sera, un energumeno, forse in preda all’alcol o alla droga, irruppe nel suo ufficio e gli assestò due colpi di machete alla testa; padre Adalberto riuscì ad attutire i colpi riparandosi con un braccio; ma le gravi ferite ricevute lo costrinsero a venire a Torino per farsi curare.
Ce l’ho ancora davanti agli occhi, con la testa avvolta in una retina bianca per tenere ferma la fasciatura. Anche di questa disavventura sapeva ridere e scherzare. Ma mi raccomandava: «Non dire niente a nessuno, neppure ai tuoi, perché non lo venga a sapere la mamma: ne soffrirebbe troppo». Solo quando fu guarito toò a casa, con vistose cicatrici sulla parte sinistra del viso e della testa, e cercò di tranquillizzare i suoi familiari.

FINO ALL’ULTIMO RESPIRO
Nei 15 anni a servizio della missione come amministratore e procuratore, padre Adalberto era venuto a contatto con tante situazioni di povertà e abbandono, soprattutto nella zona a sud di Dar Es Salaam, dove si recava nei momenti liberi a prestare qualche servizio religioso. Era quello il tipo di missione da sempre sognato: vivere con la gente e come la gente del posto, condividee sofferenze e difficoltà, testimoniare concretamente amore e solidarietà.
Nel 1989 chiese ai superiori di affidargli una missione di quel genere. Fu invece sballottato da una missione all’altra: Matembwe, Pawaga, Kibao, Makambako, spesso per sostituire i missionari che andavano in vacanza. Finché nel 1997 chiese di andare nella missione di Kibiti.
La mancanza di personale rendeva impossibile aprire una nuova missione, tanto meno in una zona dove le autorità musulmane vedevano i cristiani con fumo negli occhi. Tuttavia, a malincuore i superiori lo lasciarono libero nella sua scelta, per mettersi, secondo le regole canoniche, sotto la diretta responsabilità del cardinal Pengo vescovo di Dar Es Salaam.  
Con una Land Rover scassata, cominciò a visitare i villaggi, radunare i cristiani emigrati dal Mozambico, stringere amicizie con i capi locali, prendere visione delle necessità della gente e abbozzare i primi progetti, che, in un breve viaggio in Italia, presentò a varie parrocchie e conoscenti per reperire i fondi necessari.
La prima urgenza della missione era promuovere la convivenza pacifica tra musulmani e cristiani. Un’opera già avviata dalle suore, presenti a Kibiti da sei anni. Dopo numerosi incontri è nata l’associazione Uwawaru, un acronimo di termini swahili che in italiano stanno per «Unione di musulmani e cristiani del Rufiji». Scopo dell’associazione è la coltivazione razionale dei cereali nel distretto di Rufiji, creando così lavoro e risorse alimentari per combattere indigenza e malnutrizione.
Un’altra urgenza ad attirare l’attenzione di padre Adalberto è stata la cecità epidemica, causata da un insetto microscopico, che infesta tuttora una vasta zona della sua missione. Per combattere tale epidemia, accettata dalla gente come una fatalità, egli avviò il progetto denominato semplicemente «Cure agli occhi». Contattati i medici della Cooperazione internazionale, che si offrirono di eseguire le operazioni agli occhi gratuitamente, cominciò a portare i pazienti accollandosi le spese di viaggio e di degenza nella struttura sanitaria.
Con un’altra iniziativa, chiamata «Progetto donna», mirava a salvare le partorienti denutrite e bisognose di speciali cure per sopravvivere insieme alla propria creatura. Le andava a prelevare nei villaggi più lontani per portarle al dispensario o, quando era necessario, farle ricoverare in ospedali più attrezzati a Dar Es Salaam.
Altrettanto a cuore gli stavano i giovani: con il progetto «Adozione studenti» li aiutò nella frequenza scolastica, con la quale potevano liberarsi da ignoranza e pregiudizi.
Con l’aiuto delle parrocchie della città di Macerata e della diocesi di Camerino, oltre a sostenere i suoi progetti, era riuscito a procurarsi un mezzo di trasporto più efficiente. Ma una notte fu assalito dai ladri, che lo legarono, lo percossero duramente e rubarono la macchina nuova insieme alla vecchia Land Rover delle suore.
Anche in questa occasione non disse nulla ai familiari, ma confidò il suo sconforto a un suo compagno di seminario, che gli pagò il biglietto dell’aereo per tornare in Italia e lo sostenne nel raccogliere i fondi necessari per continuare i suoi progetti.
Tre mesi dopo era di nuovo al volante con più entusiasmo che mai e senza risparmiarsi: portò a termine la realizzazione del pozzo, moltiplicò i trasporti di giovani non vedenti a Dar Es Salaam, si prodigò per procurare cereali per tanta gente, ridotta alla fame da un parassita che aveva distrutto le coltivazioni di granoturco.
Al tempo stesso progettò la costruzione di una modesta abitazione per accogliere un prete locale, promesso dalla diocesi per aiutarlo nella sua missione. I familiari spedirono materiale vario per realizzare la casetta; due suoi fratelli promisero di recarsi a Kibiti per eseguire i lavori di muratura, impianto elettrico a pannelli solari, condotte dell’acqua…
Mancavano pochi giorni alla partenza quando, il 14 settembre 2002, padre Adalberto fu colpito da grave infarto. Per una decina di giorni cercò di stare calmo, finché accettò di essere ricoverato all’ospedale di Dar Es Salaam, da dove i familiari furono avvisati dell’accaduto via fax.
Convinto a ritornare in Italia, fu ricoverato all’ospedale di Macerata, dove pregava i medici di guarirlo in fretta, perché a Kibiti lo aspettavano tante opere incompiute. Il suo recupero lasciava sperare per il meglio; invece, tornato in famiglia, fu colpito da un nuovo infarto: il 24 novembre padre Adalberto si spegneva serenamente tra le braccia della madre. «Il Signore ha visto tutta la sua vita, intessuta di grandi sofferenze e tante giornie, e ha deciso di premiarlo, chiamandolo con sé in paradiso» diceva mamma Rosa, accettando con tanta fede quest’ultimo sacrificio, consolando i familiari per la grave perdita.

LA MISSIONE CONTINUA
Mentre Adalberto era ricoverato all’ospedale e raccontava ciò che gli era accaduto, uno dei familiari ebbe un accento di rimprovero, quando sentirono che, il giorno dopo l’infarto, si era recato a una quindicina di chilometri, per consegnare dei soldi all’autista del pullman che doveva portare a Dar Es Salaam 40 ragazzi ciechi, per essere sottoposti a interventi chirurgici. «Senza soldi l’autista non sarebbe partito – rispose padre Adalberto -. Vi sarei andato anche carponi! Non potete immaginare cosa può provare una persona, soprattutto giovane, che riacquista la vista dopo aver vissuto per anni nella cecità».
Di fronte a tanta tenacia, i familiari decisero di continuare le opere avviate da padre Adalberto. Presi i contatti con la diocesi di Dar Es Salaam, le suore e il nuovo parroco di Kibiti, fu mantenuta la promessa fatta a suo tempo: andarono nella missione per costruire la nuova abitazione.
Gli altri progetti cari al missionario scomparso furono presentati a un centinaio di benefattori, tra singoli e associazioni (comunità e gruppi parrocchiali, centri missionari, caritas, organizzazioni sindacali e produttive…) che risposero all’appello e continuano la missione di padre Adalberto.
Il progetto «Cure agli occhi» ha già restituito la vista a oltre 4 mila persone, soprattutto giovani e bambini; il «Progetto donne» ha salvato la vita a centinaia di mamme e bimbi; l’«Adozione studenti» mantiene a scuola varie decine di alunni (ragazze e ragazzi) dalle scuole primarie alle superiori.
Visti i risultati, sembra che, appena arrivato in cielo, il missionario si sia rimesso subito al lavoro: nel maggio 2003, a sei mesi dalla sua morte, l’Associazione Uwawaru è stata riconosciuta dal governo tanzaniano; e l’Iscos Marche (Istituto sindacale per la cooperazione e lo sviluppo) ha cominciato a fornire il suo apporto istituzionale, gestionale e di assistenza tecnica. Nello statuto di questo primo progetto di padre Adalberto sono stabiliti anche i seguenti scopi: assistere orfani e disabili, combattere fame e malnutrizione, senza proselitismo e nel rispetto delle proprie convinzioni religiose. La realizzazione di tali principi può diventare un esempio da imitare, non solo per la popolazione del Tanzania, ma anche per quelle dei paesi confinanti. 

di Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Cari missionari

Ambientalisti…
siate più seri!

Cari missionari,
dell’articolo di Topino e Novara, condivido l’impostazione di fondo: bisogna far crescere la raccolta differenziata, con l’educazione e organizzazione, e riuscire a vivere con meno consumi e imballaggi. Però, di fronte a una emergenza, che da Napoli minaccia di estendersi anche altrove, l’atteggiamento degli ambientalisti che dicono di no a tutto, non avanzano proposte concrete se non un generico «bisogna essere tutti più buoni», mi sembra un po’ poco.
Cominciando dalle proposte banali, ma efficaci, mi risulta che in molte città tedesche e qualcuna francese e Usa, i supermercati siano dotati di compattatori, che pesano quanto viene portato in plastica e vetro e danno dei gettoni da spendere nel supermercato. L’azienda che raccoglie i rifiuti risparmia comunque molto lavoro di raccolta dai bidoni. È poco, ma serve a creare un’abitudine, tanto al supermercato si va in auto.
Poi, anche se non sono un tecnico, non riesco a capire come mai in Germania, Svizzera e Francia, paesi dove esiste una buona cultura tecnica e un’attenzione all’ambiente superiore alla nostra (da 2 anni in Francia sono vietati i sacchetti di plastica), ci ridono dietro e ci invitano a mandare in treno i nostri rifiuti, che ci pensano loro a bruciarli: non si curano della salute e dell’ambiente? Non mi pare: forse hanno una tecnologia più avanzata, ma non vedo perché non la compriamo.
D’accordo, i nostri Pecoraro, camorristi e ambientalisti si stracciano le vesti; ma lo fanno anche per gli inceneritori superati che ci apprestiamo a comprare, forse perché erogano maggiori tangenti, oppure non sono superati neanche i nostri e chi fa l’ambientalista generico si limita a dire no a tutto, senza fastidiose informazioni tecniche? Insomma, in Italia non ho ancora trovato ambientalisti seri.
Claudio Bellavita
via e-mail

Lo smaltimento dei rifiuti è un problema complesso (l’emergenza campana lo dimostra) e ci coinvolge tutti. Ben vengano i suggerimenti, come quelli riportati anche nella lettera seguente. Una cosa rimane molto chiara: tutti possiamo e dobbiamo fare qualcosa e farlo meglio!

Si può fare… meglio

Caro sig. Direttore,
sono un vostro sostenitore e vi ho indicati come beneficiari del 5‰ per il 2006. Poiché si vocifera che qualcuno abbia rubato dai conti della posta, sarebbe bello se ci deste qualche notizia in merito ai vostri fondi, in una delle prossime edizioni della sua simpatica pubblicazione Missioni Consolata.
In questa rivista trovo molto interessanti gli articoli nei quali date notizia delle situazioni di vari paesi nel mondo, da un angolo visuale diverso dai soliti e da parte di chi ci vive veramente in mezzo. Unico neo, a mio parere, un certo piglio terzomondista e verde arcobaleno che appare in alcuni scritti, che mi sembra poco obiettivo, per il verso opposto nei confronti delle condizioni reali delle cose.
Certo il peccato del mondo e il suo «principe» permangono anche dopo la Pasqua; ma è anche vero che non tutto è male come proclama il «grande bugiardo». L’umanità in fondo sta proseguendo il cammino della Genesi di dominare la terra, certo nella caligine e nell’oscurità, ma avanzando più di quello che egli dice, irridendoci di fronte a Dio.
Prendiamo la globalizzazione: ora stiamo tutti a dire che è un gravissimo errore, che la sua molla è il bieco profitto, che l’umanità andrà incontro alla catastrofe. Non mi sembra proprio così: il fatto è, ad esempio, che le materie prime, il grano in testa, hanno prezzi elevati semplicemente perché la gente muore meno di fame e sta un pochino meglio di prima, che l’acqua scarseggia anche perché l’igiene migliora, che la miseria assoluta si è ridotta, ecc.
Certo, si può fare meglio; certo sarebbe bello che le persone lavorassero solo per il bene comune, ecc. Ma di chi è la colpa se non del fatto che quando la cosa è di tutti, nessuno se ne cura? I sindacati non si sono mai sognati di usare maggiore severità nei confronti dei propri iscritti, pubblici dipendenti; anzi, hanno permesso con questi ogni genere di licenza. Poi ci stupiamo che si torni al padrone?
Nel numero di marzo 2008, l’articolo di apertura di don Antonelli spara a zero nei confronti di chi produce immondizia, ma non mi sembra abbia l’onestà intellettuale di dire che il mancato uso degli inceneritori (ma sì, usiamola la parola) ha prodotto molta più diossina che se questi fossero stati funzionanti e che quindi erano, sono essi quel buon rimedio che è stato invece rifiutato in nome dell’assoluto.
Afferma l’Antonelli che l’immondizia è causata da un uso ignobile delle ricchezze della terra, ma si dimentica di dire che il più è causato dall’uso di involucri che rendono difficile il degrado delle merci e che quindi vanno a vantaggio della sicurezza e del buon uso dei prodotti.
Produrre di meno e consumare di meno? Toare al mondo passato di miseria dilagante e fame diffusa? La risposta non può che essere produrre e consumare meglio. Produrre con attenzione alle conseguenze conosciute dei nostri atti, senza perfezionismi, e consumare quanto è utile per sviluppare la nostra vita, senza giansenismi, ma disponibili a pagare quanto necessario per migliorare le cose. Dobbiamo mettere in conto che non sarà mai una risposta impeccabile; sarà sempre un meno peggio, ma sarà quanto possiamo e dobbiamo fare.
Francesco Ferrazin
via e-mail
Di ogni offerta pervenutaci tramite c.c. postale viene inviata lettera di riscontro e ringraziamento; ma non siamo in grado di confermare quanto si «vocifera».
Così pure per i benefici devoluti alla nostra Onlus tramite il 5‰ (di cui ringraziamo di cuore); essi sono gestiti dal Ministero dell’Economia tramite l’Agenzia delle Entrate, che ci comunica l’importo totale, senza i nomi dei singoli donatori.

Altri dentisti in Kenya

V orrei prendere spunto dall’articolo del dott. Azzalin sull’iniziativa dell’ApaOnlus con il progetto «Adotta un dentista a distanza» (M. C. febbraio 2008, pag. 72), per contribuire a chiarire alcuni aspetti del volontariato in Kenya e relative problematiche che coinvolgono le associazioni che vi operano.
Faccio parte dell’associazione SmomOnlus (Solidarietà medico odontorniatrica nel mondo – http://www.smomonlus.org). Per conto dell’associazione e in partenariato con i missionari della Consolata, negli anni 2003-2004 ho dato avvio a due progetti di intervento odontorniatrico: a Likoni (Mombasa) e a Maralal. Grazie all’aiuto di padre Masino Barbero, lo studio dentistico di Likoni è diventato autonomo in breve tempo. Da alcuni anni una collega locale, regolarmente assunta, conduce lo studio in modo continuativo e con brillanti risultati.
Attualmente la Smom è impegnata, sempre a Likoni, per strutturare in un locale adiacente allo studio, un laboratorio odontotecnico. Il dott. Paolo Bologna sta operando affinché anche questa iniziativa si realizzi in tempi brevi con l’inserimento di operatori qualificati locali. L’autonomia e autosufficienza delle strutture sanitarie locali è dunque un punto chiave attorno al quale ruota il nostro lavoro di operatori sanitari e non sembrerebbe lecito voler prescindere da questo assunto, che guida da sempre l’operato della nostra associazione.
Ben diversa, però, è la situazione a Maralal. Lo studio dentistico è attivo dal 2003. Tra la diocesi di Maralal, nella persona del vescovo mons. Virgilio Pante, e la Smom, è stato stilato un protocollo d’intesa, che definisce le linee operative di entrambe le istituzioni. Numerose missioni di volontari, dentisti, odontotecnici e assistenti, si sono succedute nel tempo prestando cure a migliaia di persone.
Tuttavia Maralal, e più in generale il Samburu District, non è luogo di immigrazione intea. Lontano com’è dai circuiti urbani, non si presta a reperire personale sanitario locale qualificato. Il Dental Unit di Maralal potrebbe dunque, per molto tempo ancora, rivestire un ruolo puramente assistenziale, le cui saltuarie prestazioni non soddisfano i propositi di autonomia operativa caldeggiati dalla Smom. Nel corso delle numerose missioni che ho condotto a Maralal, ho avuto occasione e possibilità di approfondire la conoscenza di quella regione e focalizzare alcune problematiche cruciali.
Il Samburu District  fa parte dei distretti Asal (Arid and semi arid lands). Per caratteristiche climatiche e di territorio è dunque soggetto a periodi ciclici di siccità, che spesso in passato hanno dato luogo a terribili carestie. Per le tribù nomadi e seminomadi di quelle terre, la mancanza d’acqua rappresenta la sofferenza e la morte delle mandrie di bovini e capre, unica fonte del loro sostentamento.
Da questa consapevolezza nacque l’idea di perforare un pozzo per l’acqua nella regione. Iniziato nel 2006, a fine agosto 2007 il pozzo era completato e messo in funzione a Leir-Bahawa, 20 km a sud di Maralal. Alcuni volontari che parteciparono alle missioni si sono attivati personalmente per raccogliere fondi rivelatisi preziosi (se il «turismo umanitario» dà questi frutti… perché no?).
La Smom, nel suo intento di proporre un intervento globale di promozione e salvaguardia della salute, impegnando energie e risorse, ha patrocinato la realizzazione di quest’opera, volta a garantire l’accesso libero e gratuito a un bene prezioso e indispensabile. Ne beneficeranno circa 10 mila persone. L’opera non sarebbe stata comunque possibile senza l’aiuto esterno di singoli e associazioni, che hanno prontamente aderito all’appello della Smom. Per questo ringrazio: la parrocchia S. Giovanni Gemini (AG), don Salvatore e collaboratori; le associazioni «Carta Vetrata» di Cammarata (AG) e «Itinerari» di Telgate (BG); il gruppo «Amici di Villabalzana»(VI); una donatrice anonima di Reggio Emilia; padre Alex Moreschi.
Tralascio volentieri ulteriori commenti sul «turismo umanitario» e resto in attesa che qualcuno individui, nel lavoro sopra descritto, intenti «narcisistici e autoreferenziali» o, peggio ancora, una testa di ponte per introdurre «un inutile quanto dannoso e nuovo colonialismo di tipo economico».
Nel frattempo sarebbe auspicabile una maggiore prudenza nei giudizi e una rinnovata coscienza che promuova una reale solidarietà fra gli operatori umanitari a unico beneficio dei destinatari del nostro servizio.  Saluti fratei.
Dott. Massimo Fugazza

G razie, padre, per avermi passato la lettera del dott. Fugazza. Chi fa, è spesso esposto alle critiche.
Non ricordo chi sia il dott. Fugazza e se l’ho incontrato da qualche parte non lo ricordo. Lavoro in Africa dal 1987 e so come vanno queste cose, ma non volevo certo irretire nessuno anzi semmai ringraziarlo, insieme a quei gruppi elencati nella lettera, per ciò che fanno in Africa. Il mio era un pensiero ben condiviso dal gruppo di cui faccio parte e dunque rivolto solo a noi stessi. Mi spiace per questo malinteso: non era assolutamente mia intenzione coinvolgere altri e mi scuso sin d’ora se non è stato afferrato il concetto. Sono in partenza per il Ghana… Le farò avere la risposta condivisa dall’ApaOnlus.

Dott. Dino Azzalin




Le Frecce impazzite

La serie di articoli su droghe e tossicodipendenze proposti nel dossier di questo mese dal dottor Topino e dalla dottoressa Novara, sensibili ed attenti studiosi dei problemi legati all’ambiente e alla salute, interpella da tempo la missione e i suoi agenti.
Innanzitutto perché ciò che sa di «globale» sfida il mondo missionario e se c’è un tema con tale caratteristica è proprio questo. La carta geografica colorata pubblicata nella seconda pagina di introduzione al dossier descrive, meglio di tante parole, come il nostro bistrattato pianeta sia diventato anche un «mondo di droghe». A quella mappa – che evidenzia i paesi  produttori di sostanze stupefacenti e quelli che maggiormente le consumano – provate ad associare la cartina presentata in questa pagina. È la carta delle «frecce impazzite», che illustra il viaggio della droga verso i più floridi mercati, tra i quali, fa pena dirlo, si distingue il nostro bel paese: porti protetti di smercio o scambio dei prodotti, sedi di mafie che hanno il controllo dello spaccio in determinati territori, corridoi privilegiati per il trasporto della droga. Di mondo non contaminato ne resta davvero poco.

Il missionario vive il lungo viaggio della «merce» dal suo inizio, dai villaggi dove cannabis, coca e papavero da oppio vengono coltivati. È presente negli anfratti più bui delle «terre di mezzo»: nei corridoi dove la droga passa a fiumi attraverso canali di smercio sicuri o nelle baraccopoli alla periferia delle grandi metropoli, dove il marcio delle lamiere delle baracche fa da scudo a quelle ben più brillanti di SUV con vetri polarizzati di proprietà dei narcos. Accompagna il cammino fino a qui, nel nostro Occidente industrializzato e super-tecnologico, dove narcotraffico e tossicodipendenza segnano una delle tante frontiere impalpabili della missione di oggi. In questo tragitto, l’annuncio del vangelo passa principalmente attraverso  un lavoro di formazione volto a irrobustire la persona nella lotta fra coscienza individuale e il dio mercato. È quest’ultimo, infatti, il nemico vero dietro il quale si genera la narco-coscienza, quella sorta di hybris criminale, che si esalta nel mito del denaro facile, che non ha nessun rispetto se non quello garantito dal potere d’acquisto.
In tutti questi anni, Missioni Consolata ha più volte incrociato le frecce impazzite delle rotte delinquenziali della droga, raccontando di progetti produttivi alternativi, iniziative di sviluppo sostenibile, programmi di riabilitazione e recupero, ecc. Ha raccontato storie, fotografato luoghi e situazioni, inseguendo le frecce nel buio della selva amazzonica, sulle pendici scoscese delle Ande, sugli altopiani asiatici, negli slums di metropoli africane o latinoamericane. Questo dossier ci sfida a riposizionare ancora una volta la nostra missione alla fine del percorso per scoprire che, guarda caso, scandalo nello scandalo, il punto conclusivo coincide con quello di partenza. È il punto dove meno vorremmo trovarci: casa nostra.

Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli