Quando gli elefanti lottano (è l’erba a essere calpestata)

C’era una volta … un paese ricco di gente povera

La locomotiva dell’Africa orientale è in ginocchio. Le elezioni (tranquille) del 27 dicembre 2007 hanno scatenato un conflitto fratricida. Politica, economia e tribalismo: tre ingredienti micidiali che hanno dato fuoco alle polveri. Tutta la regione sta facendo un balzo indietro. Mentre la comunità internazionale tenta una timida mediazione.

«Non è una lotta tribale. Si tratta di mancanza di giustizia e di vendette» ne è convinto padre Quattrocchio, missionario della Consolata, 44 anni di Kenya, conoscitore delle etnie. Eppure il «tribalismo» (meglio l’«etnicismo») è uno degli ingredienti della profonda crisi che sta attraversando il paese. Ma, come ricorda il sociologo Fabrizio Floris (autore di un saggio sulle baraccopoli di Nairobi), una legge della sociologia recita che a forza di parlare di qualcosa le conseguenze possono diventare reali. Cosa ha portato il gigante dell’economia dell’Africa orientale a crollare? Con un tasso di crescita del Pil superiore al 6% il Kenya è (o meglio era, perché oggi le previsioni sono al 3 – 4%) il motore economico della regione, nonché il principale porto per Uganda, Rwanda, Burundi, Nord Congo e Sud Sudan. Un paese politicamente stabile da molti anni, che consuma in poche settimane quasi 1.000 vite umane e produce 260.000 sfollati (secondo le stime del momento in cui si scrive). È la maggiore crisi della sua storia, dicono gli esperti.
«I segnali erano nell’aria» ricorda un altro missionario italiano «ma non abbiamo saputo leggerli. Abbiamo voluto essere ottimisti. Sembrava che la gente avesse raggiunto un certo grado di maturità democratica». E invece, tutto è precipitato dopo le elezioni del 27 dicembre scorso. Ordinate e con grande affluenza (80%), la gente faceva lunghe code alle ue. E poi la Commissione elettorale che farfuglia nel conteggio dei voti, dando vincente prima l’opposizione, poi un improbabile sorpasso e la vittoria di misura (230.000 voti su un elettorato di 4 milioni) del presidente uscente Mwai Kibaki. Questi si affretta, quasi di nascosto, a prestare giuramento e a costituire un governo con i suoi. Anche se in parlamento è l’opposizione di Raila Odinga a vincere, con 99 seggi su 210 (solo 43 al partito di Kibaki). E infatti è Kenneth Marende fedele a Odinga a essere eletto presidente dell’assemblea.

Blocchi contrapposti

Due blocchi che si arroccano sulle loro posizioni e mettono a ferro e fuoco il paese. Dalle baraccopoli di Nairobi alla città costiera (e importante porto) di Mombasa, alle città dell’Ovest: Kisumi, Eldoret, Nukuru. Case bruciate, gente cacciata dalla propria terra, ammazzata a colpi di machete o arsa viva.
Da un lato il presidente Kibaki e il suo partito Pnu (Partito di unità nazionale), assieme a un’élite economica di privilegiati che lo circonda. Raila Odinga e il suo Odm (Orange democratic muvement) dall’altro. Raila è anche figlio di Oginga Odinga, già primo vicepresidente della storia ai tempi di Kenyatta, poi oppositore durante il «regno», durato 24 anni, di Daniel Arap Moi.
Alleati nelle elezioni 2002, per cacciare Moi dal potere, Odinga e altri si dissociano dopo il referendum del 2004 e il fallimento della riforma costituzionale promessa da Kibaki. Riforma con la quale ci sarebbe stato un trasferimento di poteri dal presidente al primo ministro.
Due leader associati a due gruppi etnici. I kikuyu, a cui appartiene Kibaki, etnia maggioritaria delle oltre 50 (circa il 20%). Da sempre favoriti, fin dal tempo della colonia inglese (ad esempio nella distribuzione delle terre), e poi dal primo presidente e padre della patria Jomo Kenyatta (al potere dal ’64 al ’78). E i luo (circa 13%), a cui appartiene Odinga.

Pasticcio elettorale

«I brogli ci sono stati da entrambe le parti» assicura un testimone «voti sono stati rubati, oltre che comprati, naturalmente».
Già durante la campagna elettorale, non solo folle di giovani venivano pagate dai due campi per manifestare, ma un mercato del voto soprattutto a livello locale, era diffusissimo. «Molti si sono buttati a capofitto nella gara di spillare soldi ai candidati nazionali e locali, perché tutti erano nello spirito di dare. Alcuni hanno pensato che sarebbe stato da stupidi non approfittare» spiega un missionario italiano. «La miopia del volere tutto e subito senza una visione a lungo termine, senza preoccuparsi per il futuro. È impossibile per un politico onesto e senza soldi fare una campagna elettorale in Kenya».
Ma non basta. Una volta capito che Kibaki non arretrava davanti alle proteste sono cominciate le violenze. Luo (appoggiati da kalenjin) ad ammazzare kikuyu, a cacciarli e bruciare le loro case. E viceversa. La polizia a reprimere duramente. E così gli scontri sono diventati «etnici», prima per i mass media e poi per la gente. Esiste anche un macabro tariffario, denuncia padre Quattrocchio: «10-15 euro per bruciare una casa e 15-20 euro per uccidere un kikuyu».
«La questione etnica non è la ragione principale. Il tribalismo è usato, alimentato, fomentato, manipolato senza scrupoli come strumento politico. È vero, esistono antichissimi pregiudizi e diffidenze tra le varie tribù, soprattutto tra allevatori e agricoltori». Spiega Gigi Anataloni, missionario della Consolata e direttore della rivista «The Seed» a Nairobi.

Profonde disuguaglianze

«È un conflitto economico – sociale, mascherato da quello etnico» sostiene il sociologo Floris. Le sue radici stanno nelle profonde disuguaglianze che regnano in Kenya. Nella sola Nairobi, città modea dove si trova di tutto, due milioni di persone sono accatastate nelle baraccopoli, occupando solo il 5% della terra. «È facile assoldare giovani degli slum – continua Floris – per loro il futuro è una minaccia, non una prospettiva». Così sono migliaia i giovani pagati e armati per seminare disordini.
Della stessa idea è Gigi Anataloni: «Questi diseredati sono strumenti micidiali nelle mani di politici assetati di potere». E continua: «Alcune fonti parlano di 5.000 giovani pagati regolarmente ogni mese dal 2005 nella sola Kibera (la più grande baraccopoli di Nairobi, ndr). Le bande di vigilantes o di cosiddetti guerrieri, gli “eserciti privati”, armati e finanziati da pezzi grossi, che tante uccisioni fecero nel 1992 e più tardi, praticamente non sono mai state smantellate».
«Molti giovani degli slum volevano il cambiamento e subito», ricorda padre Bartolomeu, prete diocesano del Meru «e sono rimasti delusi. Da qui la rabbia e la violenza».

Difficili mediazioni

«La situazione si stabilizzerà perché ci sono troppi interessi economici estei – ricorda Floris – non faranno sprofondare il Kenya». Ma la mediazione internazionale ha mosso piccoli passi.
Luis Michel, commissario europeo alla cooperazione e il premio Nobel per la pace Desmond Tutu, sono stati tra i primi a intervenire, ma senza effetto. Così anche John Kufur, presidente del Ghana e presidente di tuo dell’Unione Africana. L’Ua ha quindi inviato l’ex segretario generale dell’Onu, Koffi Annan, che è riuscito a far incontrare per la prima volta i due contendenti, il 24 gennaio e a fare revocare le manifestazioni indette dall’Odm e proibite dal governo. Ma i disordini sono continuati, soprattutto nelle città dell’ovest Nakuru, Naivasha, Eldoret nella provincia Rift Valley, dove circa 140 civili sono stati vittime di massacri tra il 25 e il 27 gennaio. Alcune decine arse vive nelle proprie abitazioni. Annan denuncia «gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani».
«La polizia ha ricevuto ordini di sparare sui manifestanti» dichiara un testimone che chiede l’anonimato «chi brucia case, attacca persone o crea blocchi stradali può essere abbattuto».
La violenza è tale che il presidente della commissione dell’Ua, Alpha Oumar Konaré, all’apertura del summit di Addis Abeba (31 gennaio), parla di rischio genocidio e di «nuovo Rwanda». E chiama tutti i leader africani a intervenire per la pace.

Chi appoggia chi

Kibaki gode del sostegno dell’Uganda, infatti Yoweri Museveni è tra i pochi capi di stato a essersi complimentati con lui per la rielezione e subito a incontrarlo. Testimoni dalle province occidentali dichiarano che «soldati ugandesi attraversano il lago Vittoria di notte per venire in Kenya e dare man forte ai governativi» contro i dimostranti dell’opposizione.  Veicoli per il trasporto merci dal porto di Mombasa all’Uganda sono bloccati e distrutti dai giovani dell’Odm.
Kibaki è invece malvisto dalla Gran Bretagna per aver interrotto cospicui contratti di foiture di automezzi Land Rover all’esercito ed essersi orientato al Giappone. Peggio ancora, il presidente ha rifiutato agli Usa di installare una base militare a Mombasa, sull’Oceano Indiano, strategica per il Golfo Persico. Questo ha scatenato reazioni come sconsigliare ai cittadini statunitensi di recarsi in Kenya.
Oltre Usa e Gran Bretagna ad appoggiare Odinga ci sono anche molti keniani (influenti) della diaspora. Raila avrebbe promesso di istituire la doppia nazionalità (attualmente non prevista) che favorirebbe interessi economici degli emigrati che hanno fatto fortuna all’estero. Odinga avrebbe inoltre potuto contare sul sostegno dei musulmani del Kenya. Il National muslim leaders council avrebbe ricevuto promesse dal candidato dell’opposizione sull’istituzione di leggi che favoriscono l’Islam.

Quali prospettive?

Mentre scriviamo le posizioni dei due leader keniani sono molto ferme. L’Odm chiede l’annullamento delle elezioni e un nuovo scrutinio. Cosa piuttosto difficile, sia perché i brogli non sono stati riconosciuti ufficialmente, sia per lo stato di caos che regna e rende impossibile organizzare alcunché. Kibaki, dal canto suo non vuole sentire dire che non è lui il presidente legittimo.
Anche il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki Moon arriva a Nairobi il 2 febbraio. Il lavoro della mediazione è estremamente delicato, ma anche urgente. Le violenze, che ormai hanno assunto una chiara connotazione etnica, rischiano di andare lontano. 

Di Marco Bello

Marco Bello




Libertà fuori le mura

Reportage da Cartagena e dintorni

Il fascino e la vitalità di Cartagena non riescono a nascondere le sue contraddizioni. A pochi chilometri dalle sue storiche mura, la comunità di Arjona non si rassegna al destino dettato dalla violenza delle armi, che da 40 anni insanguinano la Colombia, ma è impegnata a costruire il proprio futuro, lottando contro la prepotenza e riscoprendo le proprie radici culturali, con l’aiuto dei missionari carmelitani.

Vista dall’alto, Bogotà sembra una città svizzera, distesa su una valle circondata da rilievi brulli e regolari; si scorgono serre, fattorie, mucche al pascolo e abitazioni basse, sul cui tetto è installato il contenitore dell’acqua. Le nuvole formano un coperchio viola sopra il verde della distesa; la temperatura è di 17 gradi e un’atmosfera placida intorno ai quartieri mitiga la fatiscenza delle palazzine di periferia.
Entrati in aeroporto, si incontra la tipica confusione sudamericana, alla quale si aggiunge la sensazione di essere atterrati nello scalo di una città di provincia e non in quello della capitale. Al check-in per imbarcarmi sul volo diretto a Cartagena de Indias, due giovanissimi poliziotti mi fanno mille storie per un tagliaunghie, frugano dentro il mio bagaglio: sono interminabili minuti di confusione e, da parte mia, di nervosismo dovuto alla stanchezza del viaggio.
Alla fine della discussione con i poliziotti sono costretto a lasciare a terra il tagliaunghie; li saluto e cerco di dare una sistemata al bagaglio, visto che mi hanno fatto tirare fuori tutto quanto, e mi avvio verso la porta d’imbarco. Dopo aver riposto il passaporto e il biglietto al sicuro, mi accorgo che mi manca la cintura dei pantaloni che avevo dovuto deporre sul banco del check-in.
Nella sala d’attesa una buffa signora sulla sessantina, vestita da infermiera, si intrufola tra i viaggiatori domandando se vogliono farsi misurare la pressione. La mia attenzione è attratta da due indios, due facce arrostite dal sole e da un passato antichissimo: sguardo fiero e mento pronunciato, zigomi accentuati e guance solcate da due rughe come segni di coltelli. Portano capelli lunghi che si adagiano su una tunica bianca; indossano cappelli a forma di feluca e mostrano a tracolla l’immancabile borsa di lana.
Dall’altra parte della sala alcuni professionisti stanno lavorando al loro computer portatile parlando d’affari al cellulare; vestono informali e lanciano sguardi circoscritti, come se non vedessero l’ora di essere su un aereo per la prossima destinazione.
Ancora alquanto disorientato, mi guardo intorno e scruto la buffa infermiera che si dilegua in tutta fretta e scompare nel fiume indistinto di giacche e bagagli. Finalmente arriva il momento dell’imbarco per la mia finale destinazione: Cartagena.

VECCHI E NUOVI PIRATI

È già notte quando l’aereo atterra a Cartagena, che appare in tutta la sua suggestiva bellezza, carica di storia secolare.
Cartagena venne fondata nel 1533 dallo spagnolo Pedro de Heredia, sulla costa del Mar dei Caraibi, nella zona settentrionale del paese. Nel luogo in cui ora sorge la città, viveva una popolazione chiamata calamarì, descritta dalle cronache dell’epoca come gente feroce e amante della guerra, al punto che anche le donne combattevano al pari degli uomini.
Sin dalle sue origini, Cartagena fu un attivissimo porto dedito al commercio degli schiavi: vi operavano, tra gli altri, gli agenti della compagnia portoghese Cacheu, la quale distribuiva i carichi umani provenienti dall’Africa per tutta l’America del sud.
Per preservare la città dagli attacchi dei pirati inglesi, olandesi e francesi, la corona spagnola assoldò abili ingegneri militari europei, i quali dotarono Cartagena di quelle strutture difensive che ancora oggi la rendono unica. Il centro storico, infatti, è stato dichiarato patrimonio dell’umanità dall’Unesco nel 1984, proprio per l’imponente e storica bellezza delle mura che circondano la città vecchia, la ciudad amurallada. Più in alto, su una collina si erge il castello di San Filipe, un’altra costruzione militare a protezione della città. Mura e castello sono splendidamente illuminati.
Sulla medesima collina, nell’oscurità del cielo si staglia, fisso e sospeso, il convento della Popa, antica residenza dei gesuiti, che ancora oggi emana un forte senso di autorità, come se sorvegliasse la città distesa ai suoi piedi.
Le luci inondano di polvere d’oro l’aria densa di calore; la salsedine attacca l’antica pietra di questa città eroica, accarezzata dalle onde placide dei Caraibi. Ma se ora, come quella notte di quasi cinque secoli fa, spuntasse un’altra volta con la sua flotta il corsaro inglese Francis Drake, che gli spagnoli soprannominarono «el draque» (il dragone), non ci sarebbero più a fronteggiarlo il sangue degli schiavi, né gli aggressivi calamarì e neppure i cannoni del governatore spagnolo. Troverebbe, al contrario, una straripante gioia di vivere, una innata cultura fatta di balli e musica, e poi donne bellissime e dai vestiti sgargianti; tutte cose che allontanano per il momento dalla mente del visitatore l’immagine reale del paese, cioè, l’idea dominante nelle cronache inteazionali di una nazione martoriata da una guerra civile che perdura da quarant’anni.
Malgrado queste suggestioni, condivisibili ma parziali, al posto degli spagnoli Drake troverebbe la polizia locale, impegnata ogni giorno a infondere sicurezza ai turisti, uomini d’affari e politici che affollano la città custodita all’interno delle mura: oggi come allora il pericolo si trova all’esterno: in passato i nemici venivano dal mare, adesso ciò che fa paura e che non deve interferire con la vita di coloro che godono della bellezza imperitura di Cartagena è la miseria, la violenza e il degrado sociale e umano che regnano nei quartieri periferici.

L’ECONOMIA DEL SUCCO

Nelle strade di una domenica mattina, a Cartagena, non trovo tracce né di poliziotti né di malviventi, solo pochi passanti lenti e addormentati che percorrono le vie del centro storico, costeggiate dalle tipiche abitazioni in stile coloniale, con i muri azzurri, verdi e arancione; vie che si aprono in piccole piazze accoglienti, con comode panchine, dove siedono alcuni signori silenziosi.
Agli angoli delle piazzette e sui balconi si vedono tanti fiori, orchidee rosse e celesti. Con il passare delle ore, la città si sveglia e già sulla spiaggia di Bocagrande, dove si concentrano gli alberghi e i sollazzi dei turisti, i bagnanti si crogiolano al sole e i venditori ambulanti fanno la spola a destra e a manca per racimolare qualche pesos. Offrono ogni sorta di mercanzia: bibite, frutta, collanine, schede telefoniche o mettono a disposizione addirittura il proprio cellulare per chiamare direttamente. Ci si imbatte pure con massaggiatrici ambulanti, misteriose cartomanti e furbi ometti, impegnati a piazzare i loro intrugli spacciati come soluzioni più potenti del viagra.
E poi si incontra il tipico taxista, l’abile conoscitore dei vizi insiti nella natura umana, nonché di tutti i postriboli della città, che offre piaceri e cocaina in paradisi artificiali. 
Ma sul molo del porticciolo turistico della Bodeguita, da dove si salpa per raggiungere le isole da favola antistanti la città, la vita non appare paradisiaca; eppure si percepisce una certa effervescenza nell’aria; dal ponte del battello si può ammirare tutta la baia che si dischiude come un fiore dai petali cristallini e marini; sullo sfondo la cupola della cattedrale e altre strutture di rilevanza architettonica sembrano formare gli elementi di un arazzo; in mezzo ai flutti spunta la statua della Madonna che protegge la città, guarda le navi ancorate, le eroiche fortificazioni spagnole e i grattacieli dei nuovi ricchi, costruiti dalla speculazione selvaggia su una striscia della baia.
Ma lontano dalla brezza inebriante dell’oceano, nella periferia della città, dove si trova la zona industriale, tira tutta un’altra aria. Qui la mano d’opera arriva dalle depresse cittadine dell’interno e dai quartieri come quello chiamato Daniel Lemaitre: qui scorrazzano agguerrite bande di ragazzini che, oltre a rappresentare una seria emergenza delinquenziale, sono il coltello nella piaga di un sistema scolastico con molte falle e di un tessuto familiare sfibrato da disoccupazione e violenza domestica.
Malgrado il futuro sia macchiato da molte incognite, la notte si distende noncurante sui mendicanti, che sonnecchiano sotto i cartelloni pubblicitari con le facce dei candidati alle prossime elezioni amministrative; al tempo stesso, un fremito di vita, come una lunga scossa elettrica, pervade tutta la città, dai bassifondi al centro storico fino ai viali del benessere, dove fluisce una coda di auto costosissime.
Sul pullman che mi riporta alla mia abitazione sale un giovanotto che, con abilità da giocoliere, versa da una caraffa succo di frutta a un gruppo di studenti festanti e seminudi che hanno trascorso la domenica al mare. In una danza di sobbalzi e strategie da equilibrista, l’uomo del succo non ne lascia cadere neppure una goccia. Sembra posseduto da un fantasma, da uno spirito temerario e ghignante, quasi fosse la reincarnazione di qualche pirata, nuovamente alla conquista di Cartagena de Indias, spirito di un corsaro il cui eroismo oggi si dibatte tra l’immondizia lasciata ai bordi delle strade e il divertimento che si acquista nelle sfrenate notti sotto la Luna dei Caraibi.

SOGNI DI LIBERTÀ

Una volta svincolatomi dai movimenti esuberanti di Cartagena, mi dirigo verso Arjona, una cittadina nell’interno del dipartimento di Bolivar, per incontrare la comunità dei carmelitani in cui padre Lauro Negri, in Colombia da un trentennio, opera insieme a sacerdoti, laici e postulanti: una quindicina di giovani, tutti colombiani, che frequentano i corsi di filosofia nel seminario di Turbaco, in vista di continuare la loro preparazione al sacerdozio frequentando gli studi teologici a Roma.
Oltre a gobbare sui libri di filosofia, i giovani aspiranti carmelitani sono impegnati nell’animare la comunità parrocchiale e nelle sue varie attività pastorali indirizzate ai giovani, agli anziani, alle donne e agli indigenti, che ogni giorno si presentano nelle varie mense della città allestite da padre Lauro con l’aiuto del Piano mondiale dell’alimentazione.
Tutti i venerdì pomeriggio si recano nei quartieri che circondano la parrocchia, visitano le case di alcune famiglie dove si riuniscono con altre persone per leggere e commentare passi scelti del vangelo. Un pomeriggio accompagno due postulanti nel quartiere Limonal; l’appuntamento è nella casa di una famiglia originaria di una regione del sud della Colombia, trasferitasi ad Arjona per motivi di salute della signora, malata di cuore e bisognosa di un clima meno rigido. L’abitazione è semplice, con pochissime suppellettili, qualche elettrodomestico scassato e un tetto di lamiera che moltiplica minacciosamente il rumore prodotto da un forte e prolungato acquazzone.
La signora ha un’espressione dolente; mi racconta che va e viene dall’ospedale per sottoporsi a varie visite cardiologiche. Il marito mostra un misto di rassegnazione e di ironia, forse si tratta semplicemente di devozione per il proprio mestiere. Infatti tutte le notti lavora e impasta la farina per fare i panini, che al mattino presto inizia a consegnare nelle varie panetterie della città, spostandosi sempre in bicicletta.
I tre figli della coppia, finiti i compiti, un po’ al buio e un po’ con la luce – poiché l’elettricità a volte manca – contemplano seduti la superficie del tavolo completamente coperta dai panini del padre e forse i loro sogni non andranno più in là di quei pezzi affusolati di pane. Per tirare avanti in queste condizioni e mantenere alta la dignità e viva l’umanità ci vuole davvero un massiccio slancio di fede e di speranza nel futuro.
Si trova sempre la speranza nel fardello che appesantisce le spalle di coloro che lasciano la terra, come la famiglia del pane e come le tante famiglie che hanno raggiunto Arjona per sfuggire dalle nefandezze del conflitto armato. Li chiamano desplazados (sfollati), perché scappano dalle zone meridionali del paese dove le unità dell’esercito regolare, le squadre dei paramilitari e i guerriglieri si contendono il dominio del territorio e a farci le spese sono sempre e solo i civili, che in massa sono costretti ad abbandonare le loro case.
Nel giugno del 1995, 215 famiglie di sfollati giunsero ad Arjona, impaurite e, bisognose di tutto, presero possesso di un terreno incolto; da quel momento iniziò un duro contenzioso legale tra gli occupanti, supportati dalla comunità carmelitana, e il proprietario del latifondo, che lottò con ogni mezzo per conservare intatta la sua proprietà. La battaglia si risolse a favore della gente, che vide così la nascita di un nuovo quartiere con il nome Sueños de Libertad (sogni di libertà).
Da quei giorni incandescenti sono passati più di 12 anni; grazie a quel riconoscimento giuridico sono state costruite molte casupole di mattoni, lamiere e terriccio; ma l’amministrazione comunale non interviene per umanizzare e organizzare il quartiere. Qui la disoccupazione è cronica, la delinquenza morde soprattutto al calar del sole, la violenza familiare produce irreparabili disagi ai soggetti più deboli come i bambini e le donne, molti non possono usufruire dell’acqua e della luce; altre famiglie continuano ad arrivare, generando nuovi problemi che inevitabilmente si intrecciano con quelli ancora da affrontare.
Due signore arrivate da pochi mesi nel quartiere, mi raccontano dei loro figli uccisi dalla polizia, perché sospettati di collusione con la guerriglia, e dei loro villaggi saccheggiati sia dai paramilitari che dai ribelli. È gente che si è trovata tra l’incudine e il martello, cioè, tra lo stato che cerca di imporre la sua legge in tutti i modi e i rivoluzionari che tentano di rovesciare un ordine costituito, considerato illegittimo; gente che in Sueños de Libertad trovano almeno un po’ di pace per riprendere fiato; anche se si tratta di un respiro sempre affannato, a causa delle precarie condizioni socio-economiche.

A SCUOLA DI UMANITÀ

In tale contesto scoraggiante, l’unica possibilità di riscatto per questa comunità, nata dalla guerra e risorta dalle ceneri della lotta per la terra, è la scuola voluta e fondata dai carmelitani, a partire dalle classi dell’asilo fino a quelle superiori. Si chiama Centro educativo «Maria Eugenia Velandia», in memoria di una suora francescana venuta a mancare qualche anno fa, il cui impegno per gli altri rappresenta il fondamento dell’istituzione scolastica.
Da quando ha aperto i battenti nel 2001, la scuola ha visto crescere costantemente il numero degli alunni, passando dai 120 dell’inizio ai quasi 600 di oggi. Il Centro educativo è veramente il cuore pulsante della comunità: i genitori partecipano attivamente agli incontri in cui si illustrano e rinnovano i progetti didattici e alle feste organizzate per rafforzare l’identità della scuola.
Agli studenti più grandi, oltre alle materie tradizionali il Centro propone programmi concreti di educazione al rispetto reciproco, al riconoscimento dei valori delle diversità e presa di coscienza delle proprie capacità. Inoltre, è attiva la cattedra di cultura afro, al fine di riscoprire le antiche radici culturali di molti di questi ragazzi e valorizzae le attuali potenzialità.
Nonostante i problemi materiali e finanziari che ogni giorno i carmelitani devono affrontare, rimane altissima l’attenzione verso questi ragazzi, che soffrono le condizioni di precarietà in cui versano molte famiglie e le terribili conseguenze del conflitto interno: una guerra che nessuno riesce a spiegare e che nelle parole degli sfollati appare sempre di più come un’insensata lotta per il potere.
Ai margini di tale cinico gioco al massacro, perpetrato sulla pelle dei più indifesi, la scuola si fa carico dei loro problemi e con amore cerca di rendere meno dure e amare le difficoltà della crescita e della maturità. Un amore rivolto soprattutto ai più piccoli che frequentano l’asilo. Sono questi, infatti, le vittime più vulnerabili, che assorbono come spugne la violenza che incontrano in famiglia e nelle strade. Al loro fianco, come scudo per ripararli dalla crudeltà dei giochi dei potenti, ci sono le maestre che sotto un sole terribile o in mezzo al fango lavorano quotidianamente con dignità insuperabile, inflessibile e bella. 

RADICI

Ad Arjona manca il lavoro, non esistono né una vera e propria imprenditoria né la cosiddetta classe media dei colletti bianchi. I commerci e gli affari girano intorno alla «bomba de gasolina», la pompa di benzina, situata sulla strada per Cartagena battuta incessantemente da auto, moto e pullman stracarichi di gente.
Chi resta in città si arrangia attraverso piccole attività commerciali, lavoretti saltuari e non specializzati; oppure si ingegna per aggraziarsi le simpatie di qualche politico locale, specialmente nel periodo elettorale: affidarsi a un potente potrebbe risultare un’azione vincente per conseguire un’occupazione.
Altre persone invece si riversano su Cartagena; pochi, però, riescono a usufruire di uno stipendio fisso. Di conseguenza solo un gruppo ristretto si può permettere l’automobile o il computer a casa. La maggior parte si ritiene fortunata se riesce a tornare dalla grande città portando a casa il ricavato di un lavoro saltuario, che non si trova tutti i giorni. La fame, invece, non va a corrente alternata.
Ad Arjona gli spazi di aggregazioni sono un miraggio. Oltre alla bomba de gasolina, unico punto d’incontro è il piazzale che circonda la chiesa. I giovani soprattutto, vi passeggiano il sabato sera e per divertirsi si accontentano di poco: basta un po’ di musica che da queste parti spopola da sempre.
Mentre i ragazzi intessono le loro storie d’amore in questo ampio e lento girotondo, all’interno della chiesa si prega e, alla fine di ogni celebrazione, mi sembra quasi di percepire un sospiro di sollievo e di liberazione, come se la preghiera, carica di aspettative e di speranze, colmasse uno spazio irrazionale, ancestrale, legato al passato e all’anima africana di questa gente.
Tutto questo non è casuale. A pochi chilometri da Arjona, infatti, si può visitare un pezzo di continente nero: un villaggio interamente abitato da discendenti degli schiavi che orgogliosamente difendono le loro origini africane; vivono un po’ isolati, fuori dal mondo, anche se la televisione domina in quasi tutte le case; in una di queste abitazioni sorprendo una signora anziana mentre guarda distrattamente i Simpson, in una stanza piena di fotografie degli antenati. Sono prevalentemente agricoltori: ciò che riescono a produrre, lo vanno a vendere a Cartagena.
Il villaggio si chiama Palenque e gli abitanti parlano il palenquero, un idioma nato dall’innesto dello spagnolo su una base di dialetti africani mescolati tra loro. Attraverso la biblioteca della scuola, lo sport e attività artigianali, sono impegnati tutti i giorni a conservare con fierezza le radici del grande albero della cultura africana. Durante la dominazione spagnola, un gruppo di ribelli trovò la forza e il coraggio di fuggire trovando rifugio in una zona ben protetta, dove continuarono a lottare contro i loro aguzzini che ovviamente cercavano di rimetterli in catena. La resistenza fu così difficile da sedare, che gli spagnoli dovettero cedere, concedendo la libertà ai fuggiaschi che fondarono il nuovo villaggio. Era il 1603, così recita il monumento celebrativo davanti alla chiesetta del villaggio, sotto un cielo di enormi e rapide nuvole nere. 

Di Paolo Brunacci

Paolo Brunacci




Dai «termovalorizzatori» alla raccolta differenziata

Ancora lettere sui rifiuti

Dopo i gravi fatti accaduti in questi giorni a Napoli per le grandi quantità di rifiuti che si stanno accumulando per le strade, i giornali e le televisioni stanno presentando come unica soluzione quella dei termovalorizzatori, che, sempre secondo tutti gli organi di informazione, possono distruggere i rifiuti, trasformandoli in energia pulita, senza rischi per la popolazione, in virtù dei modei sistemi di abbattimento delle sostanze inquinanti presenti nei fumi.
Alcuni giornalisti hanno riferito, ad esempio, che l’aria di Brescia non risente della presenza del termovalorizzatore ed è «così pulita, che più pulita non si può» (La Stampa, 8 gennaio 2008), e che presso l’inceneritore di Granarolo (Bologna) pascolano mucche che producono latte di alta qualità (Porta a Porta, Rai1, 8 gennaio 2008).
Altre fonti hanno riferito che la quantità di diossina prodotta dagli inceneritori è paragonabile a quella di una strada un po’ trafficata e che i grandi produttori di diossina sono le acciaierie e fonderie, che non vengono contestate.
Tempo fa ho letto su Missioni Consolata un articolo di «Nostra madre terra», che parlava chiaramente dell’imbroglio dei termovalorizzatori, e vorrei sapere se l’evoluzione della tecnica ha effettivamente ottenuto una riduzione del rischio degli impianti di trattamento dei rifiuti o se siamo di fronte a una informazione distorta e manipolata ad arte dalle lobby inceneritoriste.
Sarei curioso di sapere cosa dicono i medici, che sarebbero i più qualificati per dare risposte su problemi che riguardano la nostra salute e il fatto che nessuno di loro sia stato interpellato o abbia parlato pubblicamente mi ha insospettito. C’è forse qualche forma di censura da parte dei media?
In attesa di un gradito riscontro, porgo cordiali saluti.

Margherita Bechis
Torino

I n queste settimane di emergenza rifiuti in Campania, quasi tutti i mezzi di informazione hanno presentato i termovalorizzatori come la soluzione ideale del problema. È possibile che si tratti di disinformazione, correlata a interessi legati alla realizzazione di tali impianti, o che si tratti di un’informazione superficiale, che non controlla le fonti e che trascura, ad esempio, i pareri dei medici, che sono le persone più qualificate per giudicare una situazione che riguarda la salute pubblica.
In ogni caso siamo di fronte a una informazione che non tiene in nessun conto i principi fondamentali della fisica, della chimica e della medicina.
La situazione di Napoli non si potrebbe definire di emergenza, perché è almeno un decennio che il problema dei rifiuti è presente. In Campania c’era un piano, che prevedeva di realizzare un mega-appalto, che avrebbe risolto il problema, dando a una grande azienda del Nord la gestione dei rifiuti, chiudendo tutte le discariche e realizzando sei impianti di Cdr, il cosiddetto «combustibile da rifiuti». Nell’attesa della realizzazione del termovalorizzatore di Acerra, un impianto di selezione dei rifiuti ha prodotto dei pacchi (le «ecoballe»), che dovevano essere costituiti dalla parte combustibile dei rifiuti.
Alcuni osservatori attenti, hanno notato che questi pacchi contenevano anche rifiuti che non avevano le caratteristiche previste e hanno informato l’autorità giudiziaria, che ha iniziato un’indagine, ha fermato i lavori e ha messo sotto sequestro parte degli impianti. Tra coloro che hanno presentato le denunce alla Procura della Repubblica, c’è anche il ministro dell’ambiente Alfonso Pecoraro Scanio, del quale molti avevano chiesto le dimissioni.
Intervistato da «Ambiente Italia» di Rai3, il senatore Tommaso Sodano, presidente della Commissione ambiente del senato, ha parlato dell’inchiesta sui rifiuti in Campania, partita nel 2002 anche dopo le sue denunce, che ha raccolto 100 mila pagine di documenti.
Mentre si attendono le decisioni della magistratura, è partita una specie di offensiva mediatica, che sembra aver lo scopo di convincere la gente che l’unica soluzione possibile per risolvere il problema sia quella di costruire altri termovalorizzatori.
In questo contesto ben si inseriscono le osservazioni della gentile signora che ci scrive. L’immagine evocata a «Porta a Porta» delle mucche che pascolano tranquillamente nei pressi dell’inceneritore di Granarolo dell’Emilia è sembrata, non solo a me, più preoccupante che rassicurante, in virtù di quanto sta accadendo a Brescia, all’ombra del «miglior termovalorizzatore del mondo», che è stato realizzato in un’area già fortemente inquinata a causa della presenza di un’industria chimica.
La Stampa ha scritto che a Brescia «tengono l’aria così pulita che più pulita non si può» (sic!) e infatti molti sono convinti che il termovalorizzatore non sia inquinante. In realtà tutti coloro che hanno studiato gli effetti sulla salute degli impianti di incenerimento dei rifiuti hanno rilevato un aumento dell’incidenza di tumori, malattie cardiovascolari e malformazioni nei bambini.

T ra le centinaia di composti tossici emessi dai camini degli inceneritori merita particolare attenzione la diossina, la cui presenza viene in genere negata da coloro che vogliono realizzare questi impianti.
Per farsi un’idea della grande quantità di diossina (e non solo) emessa da un impianto di incenerimento di quella taglia, basta leggere il recente libro di Mario Tozzi «Gaia. Un solo pianeta», dove il noto scienziato, dati alla mano, riferisce che anche quando i monitoraggi indicano valori entro i limiti di legge o addirittura zero, il rischio resta grave e reale per le persone che vivono nei dintorni dell’impianto.
Quanto illustrato da Mario Tozzi sembra spiegare i recenti fatti di Brescia, dove tre aziende agricole si sono viste respingere il latte dalla Centrale per eccesso di diossina e dal 7 dicembre (visto che le incolpevoli 150 vacche coinvolte vanno comunque munte ogni giorno) portano il prezioso liquido alla distruzione.
Altre sette aziende agricole dell’area sono sotto stretta osservazione, perché anche nel loro latte è stata trovata diossina.
La vicenda delle diossine nel latte è oltremodo preoccupante, perché si colloca in un contesto in cui, come è noto, i bresciani hanno già una concentrazione elevatissima di queste sostanze nel sangue (più che a Seveso). Il fatto che, dopo il disastro Caffaro, a Brescia circoli del latte con le diossine oltre i 6,5 picogrammi per grammo di grasso (ma sarebbe intollerabile anche se le diossine fossero di poco sotto i 6 pg) è scandaloso, se si tiene conto che mediamente le diossine nel latte italiano risultano al di sotto di 1 pg/gr grasso.
Marino Ruzzenenti del Forum Ambientalista di Brescia, studioso del caso Caffaro e delle ricadute ambientali dell’inceneritore cittadino afferma: «Abbiamo richiesto più volte all’Arpa di svolgere un’in­dagine sulle ricadute al suolo di diossine e altri inquinanti nell’area circostante l’inceneritore dell’Asm e l’Alfa Acciai, ma, nonostante tanti solleciti e un esposto in procura, l’indagine non è mai stata fatta».
Gli ambientalisti di Brescia, in un documento diffuso in rete, chiedono che Arpa e istituzioni finalmente si liberino da ogni sudditanza nei confronti delle aziende responsabili di queste emissioni nell’ambiente, rimediando anche allo scandalo dell’immotivata soppressione della centralina di via Bettole, l’unica che rilevava la qualità dell’aria nella zona di maggior impatto di questi impianti industriali.
La soppressione di questa centralina, a suo tempo appositamente posizionata dai tecnici della provincia, non è mai stata motivata dalla nuova direzione dell’Arpa di Brescia, autorizzando i cittadini a pensare che ciò sia avvenuto per non «disturbare» appunto l’attività di quegli stessi impianti a fortissimo impatto ambientale.
I comitati ambientalisti di Brescia attendono da parte della Magistratura, finalmente, un’azione incisiva per garantire l’informazione alla popolazione, per la tutela della salute e dell’ambiente e perché vengano perseguiti i colpevoli dei danni di cui trattasi, nonché delle omissioni nei controlli. Un testo, a firma di Marino Ruzzenenti e riportato integralmente sul sito di Beppe Grillo, dice testualmente: «A Brescia vi sono inquietanti analogie con la Campania: nel latte di aziende dei dintorni della città si è recentemente scoperta una presenza di diossine fuori norma; si nota inoltre un’elevatissima incidenza di tumori al fegato.
Ma il Registro tumori dell’Asl, rassicurante, sostiene, senza dati verificabili, che ciò è imputabile all’eccesso di epatiti e di consumi di alcol (Gioale di Brescia, 10 novembre 2007). Va segnalato che l’ing. Renzo Capra, presidente di Asm, fa parte del Comitato scientifico del Registro tumori dell’Asl, di cui è anche finanziatore».
Il fatto segnalato dal Ruzzenenti, se confermato, sarebbe di una gravità senza precedenti.

È sempre più evidente che la scelta di bruciare i rifiuti resta una follia.
L’alternativa esiste ed è la raccolta differenziata, che consente di riciclare e riutilizzare percentuali di rifiuti che possono arrivare anche al 90% e oltre, mentre l’inceneritore produce ceneri nocive, che devono essere smaltite in discariche apposite, pari al 30% del peso originale dei rifiuti, senza contare il grande uso di calce, ammoniaca, carboni attivi utilizzati nei filtri e lo spaventoso consumo d’acqua, pari a circa un litro e mezzo per chilogrammo di rifiuto trattato. Un inceneritore come quello del Gerbido di Torino consumerà quasi 2 milioni di litri d’acqua al giorno!
Per fare la raccolta differenziata basta raccogliere separatamente gli scarti di cibo e le bucce della frutta, il cosiddetto «umido» (30%), la carta (28%), la plastica (16%), il vetro (8%) e siamo già all’82%, restano ancora il legno e gli stracci (4%) e i metalli (4%) che portano la percentuale di riutilizzabile al 90%. Il restante 10% può essere stabilizzato senza problemi e messo in qualsiasi discarica.
Ancora due parole sul paragone tra l’inquinamento dovuto al traffico e quello degli inceneritori. Il traffico cittadino viene considerato «responsabile di centinaia di migliaia di morti all’anno solo in Italia» (Mario Tozzi – La Stampa del 12 gennaio 2008) e a fronte di questi dati si può correttamente affermare che, se il rischio legato agli inceneritori è simile a quello del traffico, siamo di fronte a un grave pericolo per la salute dei cittadini.
Per quanto riguarda le acciaierie e le fonderie ha ragione la signora: questi impianti industriali sono i più grandi produttori di diossina e pensiamo di parlarne a fondo in uno dei futuri numeri di «Nostra madre terra».

R. Topino e R. Novara

Roberto Topino e Rosanna Novara




Cari missionari

«Missioni Consolata» alla Sorbona di Parigi

Caro Direttore,
insegno Relazioni inteazionali in una nota università di Parigi. Spesso, per le mie lezioni e per discutere con gli studenti dei fatti più importanti che accadono nel mondo, porto diverse riviste di attualità internazionale, tra cui la sua.
Abbiamo potuto apprezzare così la serietà del suo magazine e, sia io che gli studenti, ci eravamo particolarmente affezionati a due giornalisti, Giulietto Chiesa e Piergiorgio Pescali, i cui articoli leggevamo con interesse e trovavamo sempre puntuali e ricchi di spunti per le nostre discussioni. Purtroppo vedo che nessuno dei due scrive più sulla vostra rivista. Ci piacerebbe che tornassero a scrivere o, se è possibile, potrebbe dirci su quale rivista o giornale scrivono ora questi due giornalisti? La ringrazio per la risposta.
PS. Ho conosciuto la rivista da una mia amica in Italia.
Valerie Lacombe Boulenga
Parigi

Ci fa piacere e ci lusinga sapere che Missioni Consolata è apprezzata e «studiata» in una università prestigiosa come la Sorbona; per questo abbiamo provveduto a inviarla, in abbonamento omaggio, alla biblioteca del Dipartimento di studi inteazionali del famoso ateneo.
Per quanto riguarda il dott. Pescali, abbiamo pubblicato un suo articolo sulla Corea del Nord nel numero di gennaio 2008 e ne pubblicheremo un altro sulla Cambogia nel numero di aprile.


Grazie per il 5×1000

Gentile Redazione,
ho lavorato qualche mese a Mogadiscio nel 1992-93, presso l’ospedale pediatrico del SOS Kinderdorf Inteational con suor Marzia Ferrua e sono rimasto in contatto con lei per qualche anno… Mi piacerebbe riprendere i contatti con suor Marzia che penso sia ancora a Nairobi, perché in maggio devo (situazione permettendo) andare lì e passarvi un mese come tutor di un gruppo di 10 pediatri africani, che iniziano ora in febbraio un training course di 2 anni in endocrinologia pediatrica (in un ospedale di quella città) organizzato dalla Società europea di endocrinologia pediatrica (Espe), e mi piacerebbe incontrarla nuovamente.
Vi ringrazio per l’attenzione e complimenti per la rivista che sia io, pediatra (universitario, ma con interessi per i paesi in via di sviluppo e per la cooperazione), sia mia moglie, insegnante, leggiamo e troviamo utile per conoscere meglio il Sud del mondo e i guasti che noi produciamo. La conoscenza di suor Marzia e delle altre sorelle di Mogadiscio, il sacrificio di suor Leonella ci ha spinto a indicare le vostre missioni per il 5 per mille…
Un cordiale saluto e augurio a voi ed ai religiosi e religiose della Consolata di sempre ottimo lavoro.
Raffaele Virdis
Parma

In una seconda e-mail, il dott. Virdis ci ha comunicato che suor Marzia si è fatta viva, prima che arrivassero le nostre informazioni. Intanto, ringraziamo per l’apprezzamento della nostra rivista, per la stima e simpatia verso i nostri confratelli e consorelle e per il sostegno alle loro attività missionarie.

Tranquilli… Siamo per la vita!

Caro Direttore,
ho terminato di leggere il numero monografico di ottobre-novembre, dedicato alle «Donne dell’altro mondo». È ampio, ben documentato e interessante, complimenti!
Mi chiedo, però, se alla redazione della «Consolata» non vi siete accorti di qualche distonia, nei testi pubblicati, con l’insegnamento morale della chiesa in materia di bioetica. Parlare di Michelle Bachelet, «presidenta» del Cile, e dire che «si è ricordata delle donne quando ha dovuto decidere su altre tematiche dividenti» è un modo un po’ involuto e, secondo me, poco corretto di dribblare sui temi, subito accennati nel testo, della pillola del giorno dopo e della «salute sessuale e riproduttiva degli adolescenti», dizione che nasconde, tutti lo sappiamo e mi preoccupa che lo nascondiate, la questione dell’aborto. Sappiamo come la pensa la Bachelet: sono diritti delle donne che lo stato laico deve riconoscere e anzi favorire. Perché non dire apertamente che la pensa così?
È, innanzitutto, una questione di correttezza e di completezza di informazione: i lettori italiani, indipendentemente da come la pensano, hanno il diritto di conoscere le opinioni dei governanti cileni, e anche di come la pensa la rivista di una delle congregazioni più note dei missionari italiani. Che poi magari agli italiani non gliene importi o non ne sappiano molto del Cile, in questa sede non ha importanza, anzi è un motivo di più per far crescere le conoscenze dei lettori su quanto accade negli altri paesi.
Il problema della qualità della notizia e del giudizio morale sul comportamento delle donne che vanno al potere nei paesi del terzo mondo, rimane.
Nel numero monografico c’è un altro richiamo alla cosiddetta «salute riproduttiva», quando si parla di Odile Sankara del Burkina Faso: sembra di capire (ma non lo dite chiaramente) che anche lei lotta per risolvere i problemi legati all’aborto che riguardano le donne del suo paese, ma parlare della solita «salute riproduttiva» fa capire in che modo intenda risolverli. E allora perché non spiegare chiaramente come la pensa questa donna, aiutando i lettori a elaborare un giudizio critico e motivato, compito precipuo di una rivista di formazione cristiana dove senz’altro nessuno ha dimenticato l’invito evangelico di dire sempre «sì, sì; no, no»?
Mio suocero e due miei cognati hanno studiato a Bevera e a Varallo Sesia, e senz’altro hanno ricevuto una buona formazione cristiana: oggi sono forse cambiate le cose da voi e, anziché il rispetto della vita umana dalla nascita alla fine naturale, si insegnano i diritti riproduttivi, tanto propagandati dall’Onu?
Spero proprio di no, spero che le opinioni espresse siano quelle dei giornalisti che hanno scritto gli articoli, e che magari sull’argomento non sono molto in linea con Giovanni Paolo ii e Benedetto xvi. Se invece anche voi avete cambiato idea… non c’è più religione!
Cordialmente.
Franco Eustorgio Malaspina
Milano

Prima di tutto, sig. Malaspina, grazie dei complimenti per il numero monografico sulle «Donne dell’altro mondo».
Nel compilare il nostro numero abbiamo voluto semplicemente presentare alcune figure di donne che stanno cambiando i paesi del Sud del mondo, facendosi strada in tutti quei campi ancora riservati al genere maschile. Ciò non significa che ne approviamo tutte le idee e le iniziative concrete.
Per cui vogliamo tranquillizzare il nostro affezionato lettore: siamo sempre stati schierati e continueremo ad esserlo in difesa della vita, dal suo concepimento fino alla morte naturale.

Siamo schierati… con gli oppressi

Ho letto sul numero di dicembre 2007 l’intervista a don Capovilla e mi ha colpito la totale noncuranza verso i problemi dei bambini palestinesi: non una parola sul fatto che nelle scuole venga loro insegnato a combattere e siano indottrinati sul bello del farsi esplodere; non una parola sui miliardi destinati alla gente, ma che la vedova di Arafat si gode all’estero.
La semplificazione dei problemi è una bella cosa, ma tacere sugli attentati e guerre subite da Israele (che è sempre stato attaccato dagli arabi, mai viceversa) e sul fatto che la spianata delle moschee non sia uno dei tre luoghi sacri dell’islam, ma «semplicemente» la spianata del tempio, quindi sacro per tutti i «popoli del libro», ma da molti anni frequentabile solo dai musulmani, fa sospettare una mancanza di buona fede.
Mi risulta che il papa Giovanni Paolo ii sia potuto andare a pregare al Muro del pianto, ma non sulla spianata; sono stati i palestinesi a entrare in armi nelle chiese di Betlemme, non i soldati israeliani. Quindi sembra che non ci sia quell’enorme tolleranza verso i cristiani.
Mi sarei quindi aspettato un riassunto storico della situazione, o comunque un’altra voce, oltre alla pubblicità, neppure velata, dei libri dell’intervistato. Certa che la parzialità sia stata casuale e non finalizzata alla suddetta pubblicità, cordiali saluti.

Luisa Pellegrino
via e-mail

Essere considerato di parte, e non casualmente, è un onore per me, oltre che un dovere a cui ormai da tempo cerco di ottemperare come meglio posso, soprattutto vivendo in prima persona i drammi inenarrabili di milioni di esseri umani ormai sull’orlo della catastrofe umanitaria. Per me e per la gran parte di inteazionali che nei Territori Occupati cercano di operare, mettendo a rischio la vita, poiché la potenza occupante non tollera chiunque possa testimoniare l’abisso di ingiustizia subito dai palestinesi.
Essere «di parte» significa stare dalla parte del diritto internazionale, delle risoluzioni Onu, puntualmente disattese da Israele, dei diritti umani violati quotidianamente da 60 anni, della legalità irrisa e difesa solo dalle Nazioni Unite.
Significa gridare a voce alta quando uno stato occupante viola qualsiasi regola impunemente, quando costruisce un muro dentro il territorio che appartiene a un altro popolo, quando costruisce illegalmente insediamenti sulla terra altrui con una colonizzazione mai interrotta. Quando imprigiona e commette omicidi extragiudiziali in nome della propria sicurezza, quando sradica migliaia di ulivi e ruba acqua e terreno ai contadini; quando costruisce strade solo per israeliani in territorio palestinese, quando dissemina le strade palestinesi di checkpoint illegali.
La nostra «parzialità» è, per fortuna, condivisa da sempre più israeliani che, per amore del loro paese, criticano aspramente il loro governo. Stare dalla parte della legalità internazionale significa gridare con la stessa voce angosciata che il terrorismo è ugualmente illegale, ma prima di tutto aberrante, disumano e immorale, sempre e ovunque, quello di un kamikaze che compie una strage in un ristorante come quello di un esercito che continua a bombardare e massacrare un milione di esseri umani a Gaza.
Per far questo, però, non basta fare come lei dice «un riassunto storico della situazione»: bisogna partire, ascoltare, condividere, con pellegrinaggi ed esperienze che ci mettano in contatto diretto con la reale situazione in cui si vive, sia in Israele che in Palestina. Bisogna però avere il coraggio e la pazienza di ricordare al mondo o a chi ci vuol stare a sentire che «in Terra Santa non c’è una guerra tra due eserciti, ma c’è uno stato occupante e un popolo occupato», come ripete sempre il patriarca latino di Gerusalemme mons. Sabbah.
È quello che cerca di fare anche il testo «Bocche Scucite», che Missioni Consolata, secondo lei, proprio non doveva pubblicizzare, ma che io volentieri le invierò, per restituire la parola (ed è davvero urgente) a chi possa gridare quello che ci ostiniamo a non voler sentire.
Cordiali saluti.

don Nandino Capovilla




Napoli e dintorni: anno del signore 2008

Le immagini di degrado che dai teleschermi si riversano nelle nostre case sembrano veicolare anche il fetore miasmatico dei rifiuti che tutti producono e che tutti a loro volta rifiutano. Le oltre 3.500 tonnellate di «munnezza» che invadono le strade della città sono il monumento osceno alla bulimia dei produttori, alla cecità degli amministratori e all’incoscienza dei consumatori. Ciò che scandalizza, tra la rabbia di questi ultimi, il balbettio dei secondi e il silenzio dei primi, è la mancanza di un pur minimo tentativo di individuazione delle cause che hanno portato a questo stato di cose e, ancor più, l’assenza assoluta di ogni voce critica  circa questo modello di sviluppo totalmente appiattito sulla categoria della produzione e del mercato.
Lasciamo agli esperti e agli specialisti il compito di ricercare le cause locali e circostanziate che hanno generato questo caos di putrescenza, anche perché noi non siamo all’altezza e non siamo in possesso dei dati necessari per una disanima precisa e imparziale. Ci preme piuttosto rilevare che la crisi napoletana è la manifestazione traumatica di qualcosa che sta avvenendo ovunque, in Italia e fuori. La crisi è planetaria.
«I mercati avanzano sulla desertificazione della società» ebbe a scrivere non molto tempo fa Karl Polanyi, mentre già nel 1932 Gandhi preannunciava la catastrofe: «Si esige oggi che la produzione industriale aumenti di anno in anno. Questa è un’autentica follia che non può portare altro che alla catastrofe».
Il «pensiero unico», ovvero il monoteismo della merce, che impone come imperativo categorico una crescita economica senza limiti sino a scaraventarci nel vortice del «guadagna e spendi» e «dell’usa e getta», non può che produrre quel consumismo sfrenato che uccide fisicamente chi non può accedervi e uccide moralmente i beneficiari, recando inoltre numerosi danni all’ecosistema. La nostra civiltà sopravvive consumando e consumandosi… La «megamacchina sociale» (cfr. Serge Latouche) riproduce se stessa divorando, dissipando irreversibilmente energie, beni, risorse, opere e linguaggi, culture, forme di vita e d’organizzazione, degradando complessità, omologando differenze e moltiplicando entropia.  

I nostri rappresentanti istituzionali, indistintamente, di destra e di sinistra, inalberando l’ideologia dello «sviluppo» e agendo come complici di imprenditori senza scrupoli hanno dilapidato montagne di denaro e prodotto montagne di rifiuti. Il livello di intossicazione è tale da ritrovarci anche con la coscienza inquinata. Siamo disposti a concedere credito anche ai valori improduttivi, purché li induciamo a produrre: l’arte per promuovere il turismo, l’amore per «accasarsi», Dio per concedere favori, la preghiera per salvarsi l’anima. Questo involgarimento delle esperienze umane più elevate, ridotte a beni di consumo, dà la misura del nostro modello antropologico, direbbe Adriana Zarri, fatto di «buon senso o di calcolo e del tutto privo di gratuità e di stupore».  
Appunto: i mercati avanzano sulla desertificazione della società! Non solo. In questa (in)civiltà, dove le cose importano sempre più e le persone sempre meno, i fini sono stati sequestrati dai mezzi, fino a sovvertie il rapporto: le cose ci posseggono, le auto ci guidano, il computer ci programma, la televisione ci comanda. Crediamo di possedere ma siamo dei posseduti.
Le discariche, ormai, sono il buco nero in cui tutto è destinato a precipitare: usi e costumi, lavoro e divertimento, pensieri e sentimenti, sogni e realtà.

In due secoli la popolazione del pianeta è triplicata, ma nei soli ultimi 50 anni la produzione e i consumi materiali sono sestuplicati. Nonostante questo, continuiamo a comportarci come se il pianeta avesse una capienza infinita per assorbire i resti del nostro banchetto tossico.
Ulderico Pesce ha messo in scena a Milano, a fine gennaio, il suo nuovo spettacolo «Asso di Monnezza». Vi si ricostruisce, attraverso la storia di una famiglia pugliese, il traffico di rifiuti industriali «speciali» che, dalle fabbriche del nord, finiscono in Campania e nel resto del meridione, dopo essere stati «trasformati» in rifiuti normali, grazie all’intervento della criminalità organizzata. In particolare, fa luce sulla complicità di alcuni laboratori di analisi chimiche della Toscana, dove i rifiuti speciali sostano per poco, prima di ripartire verso sud: giusto il tempo di essere riclassificati come innocui. Le imprese del nord, in questo modo, risparmiano i costi di bonifica e i rifiuti finiscono nelle discariche abusive o in finte fabbriche di compost e quindi nel terreno.
E non si tratta solo di «invenzione» teatrale. Già 8 anni fa, una commissione parlamentare accertò l’arrivo a Pianura dei rifiuti velenosi dell’Acna di Cengio (Savona). Massimo Scalia, docente di Fisica alla Sapienza di Roma, che tra il 1998 e il 2000 ha presieduto la commissione di inchiesta sui rifiuti, dice: «Otto anni fa, nel nostro lavoro d’indagine, accertammo in modo incontrovertibile che a Pianura erano finiti sicuramente i fanghi velenosi dell’Acna di Cengio. Un quantitativo rilevante, che purtroppo non riuscimmo a definire con esattezza, perché buona parte della documentazione che riguardava i trasporti o era andata distrutta o era incompleta. Quei fanghi, ovviamente, sono ancora lì, a Pianura. E se nessuno metterà mano continueranno ad avvelenare la terra e l’acqua. Per sempre».
Sorprende il silenzio di allora della popolazione. Una domanda si fa strada nella selva intrigata dei dubbi e delle ipotesi: forse che i lauti guadagni della mafia nel riempire le tasche dei pochi ha chiuso la bocca ai molti?

L’inversione di rotta è ormai improcrastinabile: produrre di meno e consumare di meno. La salvezza ci può venire solo da una presa di coscienza forte da parte dei consumatori, trovandosi, essi, in una posizione strategica: in base ai loro acquisti si possono trasformare in complici delle imprese che inquinano e sfruttano o in agenti di cambiamento.
A noi non resta che lavorare a questa coscientizzazione, fortemente convinti che un altro mondo è possibile e avendo già da tempo fatto nostro il monito di Mohawk: «Quando avrete inquinato l’ultimo fiume e avrete preso l’ultimo pesce, quando avrete abbattuto l’ultimo albero, allora e solo allora vi renderete conto che non potete mangiare il denaro che avete ammucchiato nelle vostre banche».

Di Aldo Antonelli

Aldo Antonelli




Il coraggio della verità

Lo scrittore turco Orhan Pamuk, premio Grinzane Cavour 2002 nella sezione Narrativa straniera e premio Nobel per la letteratura 2006, è stato portato davanti ai giudici per «avere offeso la turchità».

Orhan Pamuk, che nei suoi romanzi spazia dalla realtà al sogno, ha vissuto un vero e proprio incubo nel dicembre 2005, quando fu costretto a comparire davanti al giudice di un tribunale turco con l’accusa «di avere offeso la turchità», poiché, come dichiara lo stesso scrittore, «in un’intervista per una rivista svizzera nel febbraio dello stesso anno ho detto che in Turchia sono stati uccisi 1 milione di armeni e 30 mila curdi. Ho detto anche che nel nostro paese non si parla di queste cose perché rappresentano un tabù. Mi riferivo a quello che è accaduto agli armeni ottomani a partire dal 1915… Alcuni giornali hanno dato il via a una campagna d’odio; alcuni editorialisti hanno detto apertamente che era il momento di farmi tacere; gruppi di fanatici nazionalisti mi hanno insultato per le strade e hanno organizzato dimostrazioni; i miei libri e le mie fotografie sono stati bruciati».
Pamuk ha rischiato tre anni di carcere ma, grazie anche al sostegno a livello internazionale, il processo è stato interrotto e le accuse sono state ritirate il 22 gennaio 2006.
È stata, perciò, una splendida realtà vedere cento e più persone in coda per far firmare copie dei suoi libri a Orhan Pamuk, dopo una conferenza organizzata a Torino, giovedì 6 settembre 2007, dal Premio Grinzane Cavour nel bel cortile di palazzo Chiablese, conferenza a cui ha partecipato un pubblico di circa 400 persone. 
Durante tale conferenza Pamuk, con la consueta sincerità e chiarezza, ha sviscerato il suo rapporto amore-odio nei confronti dell’Occidente, ricordando come nei primi volumi del Diario di André Gide, premio Nobel per la letteratura 1947, «s’incontrano punte beffarde e irose scagliate contro la Turchia, da lui visitata nel 1914, dopo le guerre balcaniche». Eppure Gide è ammirato da tanti intellettuali turchi come Tanpinar, che prova «stupore» davanti al suo «disprezzo per i turchi».
Lo stesso Gide, però, ammira Dostoevskij che, nel suo Diario di uno scrittore parla «dell’ipocrisia francese, di come i grandi principi di questa terra siano svaniti, estinti di fronte al denaro». Uno scrittore può, quindi, amarci o non amarci, ma ci attrae «per i mondi, i valori, la maestria».
Pamuk sviscera i suoi sentimenti affermando: «Dalla finestra da cui mi pongo a osservare l’idea d’Europa o d’Occidente si manifesta appunto fra le ombre di quel rapporto. Essa non è solare, brillante. Immaginare l’Europa, per me, significa trovarmi in forte tensione tra ripugnanza e amore, attiva nostalgia e disprezzo patito». Ricorda, poi, le riforme influenzate dall’Occidente, effettuate da Mustafa Kemal Ataturk, il fondatore della Repubblica, il padre della nazione turca modea, dal 1923 agli anni Trenta. Infatti, «accanto a cambiamenti formali, quali il passaggio dall’alfabeto arabo a quello latino, l’adozione del calendario “cristiano”, lo spostamento alla domenica del giorno festivo settimanale, ne esistono altri che hanno lasciato tracce più marcate nella società, come il miglioramento dei diritti delle donne».  Riforme, ancora oggi, oggetto di tante dispute tra gli intellettuali turchi.

Mentre Pamuk mi firmava una copia de Il libro nero gli ho detto, in inglese, che quando leggo i suoi libri non posso fare a meno di pensare a Pirandello. Lo scrittore turco si è fatto una bella risata, affermando che era arrivato a Pirandello tramite Borges. Ha poi risposto con un vigoroso assenso con il capo quando gli ho chiesto se è stato influenzato dal drammaturgo siciliano.
Infatti, solo pensando a Pirandello, che spazia sul continente e trasforma i suoi personaggi al massimo in Enrico iv, sono finalmente riuscita a capire Il castello bianco di Pamuk, ambientato nel 1600, dove la trasformazione avviene tra Oriente e Occidente, ovvero il sosia turco di un dotto prigioniero schiavo veneziano ne assume sembianze e sapere.
Chi è lo scrittore Orhan Pamuk, amato ed odiato, certamente perseguitato per la sua sete di «verità»?
Sin da giovanissimo Orhan Pamuk, nato a Istanbul nel 1952, ha navigato tra i 1.500 libri della biblioteca di suo padre, erede di un’agiata famiglia e lui stesso imprenditore di altee fortune con l’animo del poeta. Durante i suoi frequenti viaggi, molti a Parigi, Pamuk padre prendeva appunti, scriveva poesie, ascoltava gli amati scrittori francesi, acquistava libri e, sollecitando la fantasia del figlio, inconsciamente forgiava lo scrittore.
Orhan ricorda: «Quando divenni uno scrittore, non ho potuto mai dimenticare che era in parte grazie al fatto che ho avuto un padre che mi parlava degli scrittori del mondo molto più che di pascià o leader religiosi».
Nel 1974, osteggiato dalla madre e incoraggiato dal padre, Pamuk ha iniziato a scrivere regolarmente, dopo aver frequentato la facoltà di architettura all’Università di Istanbul e essersi laureato in giornalismo. Da allora ha vinto prestigiosi premi letterari a livello internazionale, tra cui il Grinzane Cavour nel 2002 con Il mio nome è Rosso, e ha continuato da laico, ma quasi come un eremita, nel faticoso lavoro d’introspezione in se stesso e a produrre romanzi di altissimo livello letterario.
Pur non avendo mai fatto il giornalista, Pamuk conosce tutti i trucchi, le grandezze e le meschinità del mestiere. Lo dimostra bene ne Il libro nero, tratteggiando, anche con un pizzico di ironia, il personaggio «fantasma» del famoso giornalista Celâl, fratellastro di Ruya, la moglie sparita dell’avvocato Galip, che alla ricerca dei due ci conduce dagli interminabili e prevedibili pranzi di famiglia ai meandri più segreti di Istanbul. Pamuk è stato insignito del premio Nobel per la letteratura proprio perché «nella ricerca dell’anima melanconica della sua città natale ha scoperto nuovi simboli per lo scontro e l’intreccio delle culture». 

Nel discorso ufficiale a Stoccolma, dedicato con affetto al padre scomparso nel 2002, Pamuk afferma: «Solo scrivendo libri ho potuto raggiungere la comprensione dei problemi dell’autenticità (come ne Il mio nome è Rosso e Il libro nero) e i problemi della vita in periferia (come in Neve e Istanbul)». Ma ricorda anche il travaglio e la fatica del bravo scrittore: «Il segreto dello scrittore non è l’ispirazione – non è mai chiaro da dove arriva – ma la sua ostinazione e pazienza… Nel mio romanzo Il mio nome è Rosso, quando scrissi degli antichi miniaturisti persiani che hanno disegnato lo stesso cavallo con la stessa passione per molti anni, memorizzando ogni pennellata tanto da poter ricreare lo stesso bellissimo cavallo anche a occhi chiusi, sapevo che stavo parlando della stessa professione dello scrittore e della mia vita». E, finalmente, dopo aver cercato a lungo un «centro» di vita ha capito che: «Per me il centro del mondo è Istanbul. Non perché ho vissuto qui per tutta la vita, ma perché negli ultimi 33 anni, ho raccontato le sue strade, i suoi ponti, la sua gente, i suoi cani, le sue case, i suoi giorni e le sue notti, facendole divenire parte di me, abbracciandole tutte».
Eppure è con il romanzo Neve, ambientato nella città di Kars sul confine orientale della Turchia ai piedi del Caucaso, che Pamuk nel microcosmo di una società ristretta, per di più isolata dalle abbondanti nevicate, ci svela idee, azioni ed emozioni degli attori che animano lo scontro islam-occidente, spaziando dalle azioni violente dei fondamentalisti, della polizia e delle frange comuniste allo sgomento dei poeti, di tante donne e dei veri credenti di Allah.
Il protagonista del romanzo è Ka, un poeta esule in Germania, che dopo tre giorni di viaggio raggiunge Kars per indagare sulla misteriosa vicenda di ragazze suicide, perché non è loro permesso di portare il velo all’università, ma anche per incontrare la bella Ipek di cui è sempre stato innamorato. Quattro anni dopo questo viaggio, che ha risvegliato in lui la creatività del poeta, Ka sarà assassinato in Germania da mani misteriose.
L’amico del poeta, lo scrittore Orhan (alias Pamuk), indaga ripercorrendo, aiutato da un diario, le vicende di Ka.  Omicidi, faide, tradimenti (lo stesso Ka si rivelerà un traditore), dolore, tanto dolore, esaltazioni mistiche e ambizioni di potere accompagnano i protagonisti disperati di questa saga. Malgrado ciò, contemplando la neve, il poeta sente che «quei fiocchi suscitavano in lui un sentimento che gli ricordava la bellezza e la brevità della vita e gli faceva pensare che, malgrado le ostilità, gli uomini si somigliassero: l’universo e il tempo erano vasti, mentre il mondo dell’uomo era piccolo». •

Silvana Bottignole




Tanto sottili, tanto assassine

Che cosa respiriamo?

Si chiamano micropolveri (Pm10, Pm2,5, Pm1) o nanopolveri (Pm0,1). Hanno dimensioni talmente piccole da risultare di difficile comprensione. Ma ci sono e fanno danni pesanti: sulla salute individuale, su quella collettiva e sul futuro. Nonostante ciò, l’uomo ne produce sempre di più.

Parlare di polvere può sembrare banale: tutti noi sappiamo cos’è. La polvere si annida dappertutto e per rimuoverla occorre una scopa, uno straccio e tanta fatica.
Si può usare anche un aspirapolvere, che la rimuove e la fa finire in un sacchetto di carta con caratteristiche tali da funzionare come un filtro. In questa puntata di Nostra Madre Terra, noi non parleremo di quella polvere, ma di una polvere molto più fine, che riesce a superare anche il filtro dell’aspirapolvere. Qualcuno, cambiando il sacchetto dell’aspirapolvere, avrà notato una polverina molto fine, simile al borotalco, che si annida all’interno dell’apparecchio e che, purtroppo, non viene trattenuta dai filtri e ritorna nell’ambiente.
Da alcuni anni si stanno studiando le interazioni tra queste polveri inorganiche finissime e l’organismo.

Le polveri: dimensioni e provenienza

Le polveri sottili si dividono in nanopolveri e micropolveri.
Le nanopolveri hanno un diametro tra 10-9 e 10-7 metri, cioè tra un miliardesimo di metro e un decimo di milionesimo di metro. Le micropolveri sono più grandi: tra 10-6 e  10-5 metri, che vuol dire che sono comprese tra un milionesimo ed un centomillesimo di metro.
L’unità di misura più comunemente utilizzata per queste misure è il µm (micron), che è il millesimo di millimetro, cioè 10-6 metri.
Tutti noi abbiamo sentito parlare delle PM10, che sono quelle polveri che vengono misurate per valutare il livello di inquinamento nelle città. La sigla PM10 identifica le particelle che hanno un diametro di 10 µm, ovvero 10 millesimi di millimetro.
La legge attualmente in vigore individua due valori limite di PM10:
– il primo è un valore limite di 50 µg/m³ come valore medio misurato nell’arco di 24 ore da non superare più di 35 volte/anno;
– il secondo come valore limite di 40 µg/m³ come media annuale.
Queste particelle si possono trovare in natura e possono coprire grandissime distanze.
Sono prodotte dai vulcani, dagli incendi, dai fulmini e dall’erosione delle rocce (da parte del vento e dell’acqua).
La sabbia del deserto è un esempio evidente: l’abbiamo vista cadere, a volte insieme alla pioggia, e sporcare le automobili e i vetri delle finestre. Si tratta di sabbia che, per effetto dei venti, ha percorso migliaia di chilometri.

Le micropolveri: le difese del corpo umano

Le polveri fini inorganiche prodotte dalla natura non hanno grossi effetti sulla nostra salute, perché sono in quantità molto ridotte e si trovano solo in rare occasioni, ad esempio durante le eruzioni vulcaniche.
Il nostro organismo è molto ben difeso dalle polveri di dimensioni maggiori. Mentre respiriamo, le polveri più grossolane si fermano nel naso e quelle di dimensioni inferiori si fermano nella trachea e nei bronchi, raggiungendo le parti più profonde del polmone in modo inversamente proporzionale alle loro dimensioni.
Le micropolveri PM10 si fermano nel naso e nella gola, le PM2,5 raggiungono i bronchi più piccoli e le PM1 arrivano fino agli alveoli polmonari. All’interno dei bronchi esiste un meccanismo mirabile per ripulirli: si tratta di un sottile strato di muco a cui la polvere si fissa. Questo muco non sta fermo, ma, per effetto del movimento delle microscopiche ciglia delle cellule che rivestono i bronchi, il muco viene sospinto verso le vie aeree superiori fino al retrobocca, dove viene espulso con la tosse o deglutito, insieme con la polvere.
Queste polveri, evidentemente, possono causare irritazione delle vie aeree e qualche fastidioso «mal di gola».

Le nanopolveri: niente riesce a fermarle

Molto diverso è il discorso che riguarda le nanopolveri (inferiori a PM0,1), che dopo essere state inalate, si possono trovare nel sangue già dopo circa un minuto e di seguito possono raggiungere tutti gli organi (fegato, reni, ecc.).
Alcuni studiosi hanno dimostrato che queste particelle nel sangue aumentano la produzione di fibrina, in altre parole favoriscono la coagulazione del sangue all’interno delle arterie e delle vene formando i cosiddetti trombi, che possono essere causa di infarti, di embolie e di ictus.
Queste particelle, che a tutti gli effetti sono corpi estranei, possono essere causa di granulomi all’interno dei tessuti: i granulomi sono una reazione dell’organismo alla presenza di germi o sostanze in grado di fare danni; per effetto dell’infiammazione si forma un tessuto di difesa che, nel tempo, può anche causare il cancro.
È chiaro che soltanto la sabbia del deserto e le eruzioni vulcaniche non sarebbero un grosso problema per la nostra salute, ma, purtroppo l’uomo è diventato un grande produttore di nanopolveri, che si sviluppano soprattutto per effetto delle attività manifatturiere.

Polveri, ma «a norma di legge»

Sono grandi produttori di polveri le fonderie, le acciaierie, le centrali elettriche, gli aerei, le cave e le miniere a cielo aperto, i cementifici, i cantieri e le attività di saldatura dei metalli.
Anche i veicoli sono produttori di nanopolveri, non solo per le emissioni dei motori, ma anche per l’usura dei freni, delle gomme e, naturalmente, dell’asfalto.
Una nota a parte la meritano i grossi veicoli con motore Diesel, ad esempio i SUV, che vediamo sempre più spesso in città (su questa moda devastante e diseducativa si legga alle pagine 66-67). Questi veicoli sono dotati di un filtro che dovrebbe ridurre le emissioni delle PM10, le micropolveri controllate per legge nelle città. In realtà, questi filtri fermano effettivamente le PM10, che, si noti, vengono espulse dopo essere state degradate a dimensioni molto più ridotte e, attenzione, più micidiali, ma «a norma di legge», nel senso che la legge tiene conto solo delle polveri PM10, che si fermano nelle prime vie aeree e vengono espulse con qualche colpo di tosse. Abbiamo visto che assai peggiori sono gli effetti delle polveri con granulometria più fine, delle quali la legge non prevede un controllo.
Purtroppo troviamo nanoparticelle anche negli alimenti (ad esempio, nelle farine, per effetto della macinatura industriale) e nei farmaci, dove vengono aggiunti talco o silicati come eccipienti delle pastiglie.
Altre nanoparticelle si possono trovare negli edifici, per effetto del degrado dell’intonaco dovuto al tempo, ma anche per il rilascio di fibre di amianto da parte di tubi di eternit, di pannelli interni e di linoleum, che, fino ad epoca relativamente recente, sono stati realizzati con questo pericolosissimo minerale (si legga MC, maggio 2007).
Per curiosità, ricordiamo anche certi dentifrici e alcune gomme da masticare, che dovrebbero ripulire i denti per effetto dell’aggiunta di abrasivi, i quali non sono altro che polvere di vetro.

I pericoli (taciuti) dell’incenerimento

Una nota a parte la meritano gli inceneritori di rifiuti ed, ancor più, i cosiddetti «termovalorizzatori» (si legga MC, marzo e giugno 2007), che più sono modei e più emettono nanopolveri. Sembra un paradosso, ma, per evitare, per quanto possibile, l’emissione di diossine, si tende ad aumentare la temperatura del foo, fino a mille gradi e più. Le alte temperature sono responsabili dell’emissione di grandi quantità di nanoparticelle, la cui composizione è la più disparata, potendosi trovare anche metalli pericolosi come il piombo, il mercurio, il cadmio, il cromo, ecc.
Tutte le volte che un manufatto di composizione eterogenea, come lo sono i rifiuti, viene incenerito ad alta temperatura, vengono emessi nell’aria i vari elementi che lo costituivano sotto forma di atomi non legati fra loro; questi ultimi possono di seguito riaggregarsi in modo disordinato sotto forma di leghe, che non troverete mai in un trattato di metallurgia, perché sono il frutto della combinazione casuale degli atomi.
Il fatto che agglomerati «strani» si possano trovare nell’aria e all’interno dell’organismo di persone, che abitano nei paraggi di un inceneritore consente di affermare, con sicurezza quasi assoluta, che tali nanoparticelle provengono dall’inceneritore, perché soltanto le alte temperature possono sintetizzare leghe casuali, che non sono biocompatibili né biodegradabili e non figurano tra gli inquinanti ricercati di norma nelle emissioni dell’inceneritore.
Parlando di nanopolveri prodotte dalle alte temperature, non bisogna dimenticare gli effetti dell’uranio impoverito, usato nelle munizioni delle armi modee e associato con gravi malattie non solo dei soldati, ma anche delle persone che vivono in aree di guerra o vicino ai poligoni militari.
L’uranio impoverito è un’arma formidabile, perché riesce a perforare anche le corazze più robuste per via della grande forza di penetrazione e del fatto che esplode a 3.000 gradi «polverizzando» i bersagli. È verosimile che le gravi malattie riscontrate siano determinate non solo dalle radiazioni dell’uranio, ma anche dalle nanopolveri, che entrano nell’organismo e determinano reazioni non del tutto prevedibili e, in ogni caso, sicuramente non benefiche.
L’uranio impoverito emette una modesta quantità di radiazioni alfa, che sono le più pericolose per l’organismo. Gli esperti dicono che basterebbe un foglio di carta per fermare queste radiazioni e che si potrebbe dormire tranquilli con un proiettile di uranio impoverito nel cassetto del comodino. Il fatto grave, però, è che dopo l’esplosione anche l’uranio si trova disperso nell’aria sotto forma di nanopolveri e può raggiungere il sangue e gli organi interni, dove le radiazioni possono fare danni non trovando nessuna barriera.
Tutta la questione che riguarda l’uranio impoverito è ancora oggetto di studio e le uniche tragiche certezze sono i tumori dei soldati e le malformazioni dei loro figli.
Tutto il discorso sulle nanopolveri dovrebbe indurre ad una attenta riflessione sulle attività dell’uomo, che sta devastando l’ambiente non solo con mezzi di distruzione, ma anche con lo sviluppo di tecnologie che tendono a produrre sempre di più e sempre più velocemente.

I costi della velocità

La velocità è la causa principale dell’inquinamento, sia per la necessità di maggiore energia, che per la notevole produzione di polveri.
E non si parla solo dei veicoli a motore. Una delle attività più antiche (e nobili) dell’uomo è la lavorazione del legno per la realizzazione di suppellettili e altri oggetti di uso comune, a volte di notevole pregio.
Il legno è il prodotto naturale per eccellenza; si potrebbe pensare che il falegname sia un lavoratore che non corre rischi a causa della sua attività. Invece stiamo osservando un numero crescente di tumori delle fosse nasali e dei seni paranasali, dovuti all’inalazione delle polveri di legno, che si sviluppano con l’uso di strumenti modei (e veloci) usati nella lavorazione. In questo caso, il progresso ha determinato un aumento della polvere sviluppata, che essendo sempre più fine ha potuto penetrare all’interno del corpo. I tumori dei falegnami sono molto invasivi e richiedono interventi chirurgici demolitivi e terapie radianti, che spesso interessano anche gli occhi, lasciando esiti molto gravi.
I lavoratori utilizzano molti strumenti, che oltre ad aiutarli nell’attività possono anche essere causa di infortuni, di malattie professionali e di inquinamento dell’ambiente non solo lavorativo.
A titolo di esempio, vogliamo descrivere due macchine che possiamo osservare nelle nostre città e che potrebbero dimostrare quanto possa essere pericoloso il cosiddetto «sviluppo tecnologico».
La prima è una sega circolare che taglia l’asfalto prima di iniziare a scavare nei cantieri. A parte il rumore assordante, lo sviluppo di polvere è impressionante e si tratta di polveri sicuramente pericolose: l’asfalto è fatto di catrame mescolato con pietrisco che, nella migliore delle ipotesi, è composto da silicati, ma potrebbe contenere anche amianto. La macchina dispone a volte di un piccolo getto d’acqua per abbattere le polveri, però l’acqua asciuga presto, la polvere resta nell’ambiente e viene sollevata dal traffico veicolare.
La seconda meriterebbe un premio per la follia: si tratta di un soffiatore portatile, che evita di usare la scopa per rimuovere le foglie cadute dagli alberi. L’addetto, provvisto di cuffie (per il rumore) e di mascherina, utilizza una specie di grande asciugacapelli con motore a scoppio, per spostare le foglie, sollevando nubi di polvere, facendo rumore e inquinando con le emissioni del motore, che, in genere, è un motore a due tempi, che brucia una miscela di benzina e olio ed è, di gran lunga, il motore più inquinante tra quelli a combustione intea.

Napoli e dintorni:  disinformazione e colpe

Mentre scriviamo (gennaio 2008), tutti i media (anche inteazionali) parlano dell’emergenza rifiuti a Napoli… Fare informazione corretta è vitale per stimolare le amministrazioni ma anche i cittadini a fare molto di più contro l’inquinamento. Nella storia del pianeta noi siamo la prima generazione che respira un’aria diversa da quella della generazione precedente.
È fondamentale che l’informazione raggiunga anche i singoli individui e che venga trasmessa da genitori e insegnanti ai giovani, al fine di stimolare comportamenti finalizzati al risparmio energetico (coibentazione delle abitazioni, sostituzione delle vecchie lampadine con quelle fluorescenti, utilizzo ragionato degli elettrodomestici, utilizzo di fonti energetiche rinnovabili).
L’utilizzo dei mezzi di trasporto motorizzati dovrebbe essere limitato alle situazioni di stretta necessità; in molti posti si può andare a piedi o in bicicletta risparmiando soldi e preoccupazioni legate al traffico, alle code e ai parcheggi.
In Italia, la raccolta differenziata dei rifiuti è altamente insoddisfacente (si va dal 30 all’8 per cento!), forse perché richiede una grande collaborazione da parte di noi tutti. È possibile raggiungere percentuali molto elevate di materiale riutilizzabile separando in contenitori diversi i rifiuti organici, il vetro, la carta, la plastica, i metalli. Con un minimo di volontà ed attenzione è possibile raggiungere percentuali di raccolta differenziata che superano il 70%.
Se pensiamo che un inceneritore di rifiuti produce circa 350 chilogrammi di ceneri per ogni tonnellata di rifiuti prodotta, possiamo renderci conto che la raccolta differenziata può sostituire vantaggiosamente l’incenerimento con incomparabili vantaggi per la nostra salute.
Un inceneritore di media taglia, capace di trattare un migliaio di tonnellate di rifiuti al giorno, emette quotidianamente oltre 5 milioni di metri cubi di fumi.

Purtroppo, nel caso dei rifiuti, la tutela della salute delle persone non va d’accordo con gli interessi di alcuni gruppi industriali e dei politici che li assecondano, confidando sulla scarsa informazione sui rischi o peggio sulla disinformazione da parte della televisione e dei giornali.  Di Roberto Topino e Rosanna Novara

Una moda devastante e diseducativa

L’invasione dei «SUV»

Dicembre 2007, «Dossier motori» de La Stampa: pagina 4 pubblicità SUV Honda; pagina 6 descrizione di un nuovo SUV Hummer; pagina 7 pubblicità SUV Citroën; pagina 21 pubblicità SUV Nissan; pagina 23 pubblicità SUV Suzuki; pagina 27 pubblicità SUV Jeep; pagina 33 pubblicità SUV Land Rover; pagina 47 descrizione del nuovo SUV Iveco.
Se un inserto di 52 pagine ne dedica così tante ai SUV, significa che siamo dinanzi ad un fenomeno rilevante, come d’altra parte dimostrano i dati delle vendite, da anni in continuo aumento. I SUV – letteralmente Sport Utility Vehicles  – sono automobili pesanti, spesso con finiture di pregio, con una linea e,  a volte, anche con un nome ed una immagine commerciale, che trasmettono l’idea di un atteggiamento minaccioso ed arrogante nei confronti delle altre vetture (ma – volendo dar credito alle asillanti pubblicità – rispettoso dell’ambiente e della natura!). Alcuni hanno paraurti alti, sporgenti e rinforzati, definiti bull bars (barre anti-bufali), che possono essere causa di gravi danni in caso di incidenti con altre vetture, ciclisti, pedoni.
Si direbbe che il guidatore di questi veicoli voglia presentarsi come un dominatore della strada, muscoloso, potente e, allo stesso tempo, elegante. Ha scritto il prof. Giampaolo Fabris: «Il SUV è un fuoristrada di lusso che consente all’automobilista di sentirsi padrone dell’asfalto. Di fare veramente tutto quello che vuole. Si può guidare comodamente in città, parcheggiare sui marciapiedi e, almeno con la fantasia, attraversare il deserto. Chi guida si sente protetto da una vettura considerata sicura, avvolto in un grande scudo protettivo. (…) L’impressione è di un maggior dominio sulla strada e nei confronti con gli altri automobilisti. Che si guardano letteralmente dall’alto in basso».
In realtà, un SUV è un veicolo che fa fatica a fare manovre banali, che si muove impacciato nelle vie strette, che non rispetta le precedenze e che, per parcheggiare, spesso sale sui marciapiedi.

Per quale motivo una persona che vive in città e non deve affrontare percorsi in savane o praterie, dovrebbe viaggiare su un veicolo con caratteristiche da fuoristrada di lusso? Per decenza, lasciamo perdere l’amore per la natura, anche se qualcuno (editoriale di Auto&fuoristrada, settembre 2006) tenta di metterla in poesia: «Siamo dei privilegiati: per noi è più facile mettere le ruote fuori dall’asfalto, con la gratificante sensazione di lasciarci alle spalle traffico, rumori, pensieri». Per semplicità, lasciamo perdere pure le ragioni di tipo socio-antropologico, anche perché, stando a quanto scrive un editoriale de La mia auto 4×4 (agosto 2007), «Ma chi sono i nuovi acquirenti di 4×4? Un po’ tutti».
La risposta più frequente (quella che, in teoria, consentirebbe di giustificare eticamente il possesso di un SUV) riguarda la volontà di viaggiare in sicurezza con la famiglia. Questi veicoli sono proprio così sicuri? Il Centro prove di Quattroruote, la fonte settoriale più autorevole d’ Italia, ha fatto dei test e, per quanto riguarda la tenuta di strada e la frenata, è giunto alla conclusione che il miglior SUV non riesce neanche ad eguagliare le prestazioni della peggiore berlina.
Il collaudatore di Quattroruote ha riferito che il comportamento di questi pesanti veicoli, che hanno un baricentro alto e pneumatici con fianchi alti e cedevoli, è spesso imprevedibile e non sempre facilmente controllabile dal conducente, soprattutto su fondo bagnato. Ne deriva che manovre improvvise, come quella di cercare di evitare un ostacolo imprevisto, possono portare anche al ribaltamento del veicolo. I ribaltamenti possono avvenire anche in caso di uscite di strada e di collisioni con ostacoli fissi, ad esempio i marciapiedi. Il ribaltamento è un tipo di incidente particolarmente pericoloso perché si associa spesso a gravi traumi della testa.
Oltre a non essere sicuri per gli occupanti, i SUV sono particolarmente pericolosi per gli altri utenti della strada, che non viaggiano su veicoli più pesanti: ad esempio, secondo Quattroruote, il guidatore di una berlina, che viene urtata lateralmente, ha una probabilità di perdere la vita 30 volte superiore se a urtarlo è un fuoristrada o un SUV. Bergamo, 26 dicembre 2007: «Tre persone, padre, madre e la loro figlia di 10 anni sono morte in un incidente stradale accaduto a Grumello del Monte (Bergamo). La loro auto, una Fiat Punto, è stata investita da un SUV Grand Cherokee guidato da un conducente ubriaco (italiano, ndr). Illeso il conducente del fuoristrada». Napoli, 1 gennaio 2008: «Stavano litigando sulla tangenziale di Napoli per un banale incidente, quando un SUV Bmw X5 è sopraggiunto e ha investito le auto ferme sulla strada. Il bilancio è drammatico: tre morti».

Premesso che ognuno è libero di comprare la vettura che più gli piace (mai vorremmo venire accusati di essere contro il «libero mercato», icona intangibile dei nostri giorni), viene da chiedersi cosa possiamo pensare di un guidatore cittadino o autostradale che ha un veicolo che pesa, consuma (una Porsche Cayenne fa in città 4,4 chilometri con un litro di benzina, secondo i dati ottimistici del costruttore) (1)  e inquina il doppio di una normale vettura, confortevole, veloce, che ha meno probabilità di ribaltarsi e che tiene la strada e frena in condizioni di maggiore sicurezza.
Dipenderà dal fatto di guidare un’auto con i paraurti contro i bufali oppure di poter comprare (a 15.900 euro, sottocosto) un SUV cinese all’ipermercato (Corriere della sera, 19 e 24 dicembre 2007). Oppure, come si  legge su www.suv.it, dipenderà dai sentimenti: «A cosa serve la Cayenne? A far invidia a chi è invidioso!».
Come scrive il già citato editoriale de La mia auto 4×4, «il mondo si muove sempre più in fretta». È vero. Peccato che si muova verso la follia più distruttiva (ed autodistruttiva).

Di Roberto Topino e Paolo Moiola

(1) Una Volkswagen Touareg fa 4,4 chilometri con un litro; una Nissan Patrol 6,9 eccetera. I consumi ufficiali (già molto elevati) sono però ben distanti dalla realtà. Un’inchiesta del dicembre 2007 ha dimostrato che le case automobilistiche dichiarano consumi falsi, inferiori fino al 50% a quelli effettivi. Così facendo anche le norme relative alle categorie d’appartenenza (Euro 3, Euro 4, ecc.)  perdono gran parte del loro significato.

Roberto Topino e Rosanna Novara




La notte è troppo lunga

Reportage: tra i bambini di strada della capitale argentina (2.a puntata)

Ci sono quelli della stazione dei treni. Quelli della metro. Quelli che stanno sotto un porticato. Sono chicas y chicos de la calle che si arrabattano per sopravvivere nelle strade, tra droghe, pericoli e polizia. E poi c’è lui, Mario, insegnante di arti marziali e factotum, ma soprattutto ex bambino di strada. Oggi investe molto tempo ed energie per aiutare i bambini direttamente, senza intermediari. Assieme a Mario abbiamo trascorso una notte tra le ranchadas di Buenos Aires, nascoste dietro le luci della città, metafora di una società che, ad un tempo, abbaglia ed esclude.

Buenos Aires.  Barracas è un quartiere della capitale cresciuto lungo il Riachuelo, un fiumiciattolo (oggi inquinatissimo) che sfocia nel Río de la Plata. Il barrio non ha la notorietà dei confinanti San Telmo e Boca.  È un quartiere senza pretese, proletario.
Sulla via Salom le case sembrano abbandonate. La strada, poco illuminata, è praticamente deserta, sia di passanti che di automobili.
L’abitazione in cui entriamo è una vecchia casa in assi di legno. All’interno ci sono due stanze ammobiliate in maniera essenziale.

Il bambino con il rosario  al collo

Fisico possente, viso da indio, baffi e pizzetto, giaccone, cappellino con visiera alla rovescia, di prim’acchito Mario Julio Sotelo, 47 anni, incute un po’ di timore. 
Un passato in Costa Rica e Stati Uniti, una piccola attività di messaggeria (portare documenti e cose da una parte all’altra della città), Mario fa volontariato al Centro Miguel Magone: insegna arti marziali ai piccoli ospiti.  Proprio al centro gestito dai salesiani lo abbiamo incontrato per la prima volta. «Nel mio piccolo anch’io cerco di aiutare i bambini di strada» ci aveva detto, invitandoci a visitarlo.
«Questa è la mia umile casa. Un livello poco sopra della ranchada della strada», avverte Mario, quasi per scusarsi. Con il termine ranchada si indica l’estemporaneo rifugio dei bambini di strada: il luogo dove si ritrovano in gruppo, dove dormono, dove stabiliscono il da farsi.
Che fanno i bambini nelle ranchadas? «Decidono le loro attività», spiega Mario, senza cercare di abbellire la situazione. «Attività che spesso sono furti; sono pochi i gruppi che vivono con l’attività di cartoneros». Quindi, il nostro ospite, che parla con visibile partecipazione emotiva, aggiunge: «E poi nelle ranchadas si consumano droghe».
Mario Julio Sotelo non è un assistente sociale, non è un religioso, certamente non è ricco, ma da anni segue i bambini di strada. Perché?
«Ne sento la necessità, perché io fui della strada. Anzi, di più se possibile, dato che sono orfano e non ho mai conosciuto i miei genitori. Sono cresciuto in istituto e in istituto (che comunque era un luogo rispettabile) ho imparato a sopravvivere».
La casa di Mario è aperta a tutti. «Ripeto – insiste – : questa è una ranchadita, non una vera casa, dove ci sono letti e comodità. Io vivo la casa e non il contrario. Mi basta l’essenziale. Vivo con mio figlio. Ho 3 forchette: una per me, una per lui ed una per il visitatore di tuo, che adesso è Maxi».
 L’interessato ascolta ed annuisce. «Maxi – prosegue Mario – lo conosco da qualche anno, ma da poco vive qui con me. Mi aiuta nel lavoro di messaggeria, che è un lavoro libero perché si fa all’aperto».

Nelle ruvide mani della polizia

Cappellino, capelli ricci, maglietta calcistica, un rosario tenuto a mo’ di collana, occhi espressivi, labbro superiore un po’ gonfio: è Massimiliano detto Maxi.
«Quando ero piccolo, rimasi con mio padre per 7 anni. Poi con mia mamma per 2 anni, finché lei non morì di Sida. Non volevo stare con i miei parenti e scelsi la strada. Da 6 anni non vedo alcuno di loro e non ho nessuna voglia di vederli».
Maxi, come si vive in strada? «Si apprendono sia cose buone che cose cattive. Quelle buone sono che impari a convivere con altre persone; quelle brutte è che impari a drogarti e a rubare».
Tu quante volte sei stato nelle mani della polizia?, domandiamo. «Un paio di volte. Non posso dire che tutta la polizia sia cattiva. Ci sono alcuni che ti portano da mangiare, altri che ti tengono tutto il giorno senza un bicchiere di acqua».
Maxi continua a raccontare, con tranquillità, senza particolare enfasi, quasi fosse una cosa normale. Spiega la sua ultima disavventura con le forze dell’ordine, quella che si è conclusa con il suo affidamento a Mario. «Nel portafogli dell’amico con cui ero hanno trovato della marijuana, una piccola dose. Dato che io non avevo alcun precedente di droga, ho detto che era mia per mio consumo personale. Sono stato 11 ore nel commissariato senza neppure il permesso di andare al bagno. E senza la possibilità di fare una telefonata».
«Alla fine è venuto Mario, ma anche per lui non è stato semplice perché non sapeva i miei dati personali, dato che mi conosceva soltanto come Maxi».
Massimiliano conclude la sua storia: «Io non sono una cattiva persona. Anche se la gente pensa subito così, appena ti avvicini per chiedere una moneta. Cominciano a guardare la loro borsa, il cellulare. Ma non tutti siamo eguali, come sa Mario che ha accettato di farmi da tutore».

Una telefonata alla mamma

Mentre parliamo arrivano altri 2 ragazzi. Si accomodano sul divano, mentre il figlio di Mario e la sua ragazza preparano loro un tè caldo. Uno dei due ha un labbro spaccato, ma non è a causa di quello che parla biascicando.
Mario gli dice di telefonare alla mamma, che da giorni lo sta cercando. «Pronto, mamma», la conversazione prosegue, come tutto fosse normale. La mamma si preoccupa della sua salute e lui la rassicura: «Sì, ho un po’ di tosse, ma va già meglio». Poi promette: «Domani passo da casa».  Il padrone di casa si fa passare la cornetta del telefono per tranquillizzare la mamma: «Questa notte lo faccio dormire da me».

Estacion Constitución, una «corte dei miracoli»

Mario non possiede un’automobile. Lui si muove in moto. Per questa sera, però, ha chiesto al vicino di casa la sua auto in prestito. Vuole portarci a visitare alcune ranchadas del centro. Ci faremo accompagnare dai 2 bambini, che ben conoscono i luoghi e i loro frequentatori. 
Arriviamo a Constitución. La stazione dei treni è una sorte di «corte dei miracoli», soprattutto durante la notte. Qui si incontrano cartoneros, bambini di strada, malviventi. Mario vuole farci parlare con i bambini che nella stazione hanno la loro base. Li troviamo senza difficoltà e ci sistemiamo sui gradini di una scala per conversare. Ma siamo subito disturbati da alcuni ragazzi più grandi, visibilmente alterati, che non gradiscono la nostra presenza. Mario, pur molto conosciuto in questi ambienti, decide però che è meglio uscire dalla stazione.

La ranchada di Maria

Facciamo pochi minuti di auto. Ci fermiamo nei pressi di un porticato dove dormono molte persone e famiglie con bambini.  I giacigli sono improvvisati, ma almeno ci sono le coperte. Tutt’attorno borse e sacchi di plastica riempiti con le cose personali. Qualcuno ha raccolto del cartone, per venderlo o per usarlo come riparo. E poi ci sono vari carrelli di supermercato, usati come mezzo di trasporto dei propri averi.
Viso da adolescente, bel sorriso, una sigaretta in mano, Martin è un po’ timido davanti alla videocamera ma, dietro richiesta di Mario, si convince a dire qualche parola.
Che fai qui? «Niente. Dormo. Sono solo, per questo sono venuto alla ranchada di Maria, che è un’amica».  E durante il giorno che fai? «Il giocoliere nelle strade».
Quanti anni hai, Martin? «Tredici. Sono di Buenos Aires. Vivo in strada dall’età di 9 anni. Mia mamma vive con il mio patrigno e una sorellina, ma non li vedo da molto tempo».
Come si vive in strada? «Freddo, fame, problemi con la polizia. Tutti i giorni».
Mario gli dice di mostrarci le mani.  Un po’ titubante, Martin apre le mani: sono rovinate come quelle di un manovale di lungo corso. «Sono i segni che lascia il Poxiran», spiega Mario.
La ranchada di Maria è in un angolo del porticato, davanti alle serrande di un negozio. Maglione verde, capelli lunghi e neri, la troviamo con un neonato in braccio: è il figlio di sua figlia (minorenne). Il figlio maschio, Victor, è un consumatore di droga. Caduto dal treno, ha subito l’amputazione di un piede. Una serie impressionante di disgrazie che atterrerebbe chiunque.
Invece, Maria riesce ancora a sorridere, mostrando la bocca sdentata. Ma il suo è un sorriso stanco. Quanti anni hai, Maria?, domandiamo, ormai bloccati dalla crudezza della situazione, incapaci di fare domande che abbiano un senso e che non abbiano il sapore di un’inutile curiosità. Maria risponde «29». Ci guardiamo sorpresi, perché non può avere l’età che dice. «Non è un vezzo», ci spiega Mario. «Maria non ha realmente cognizione della sua età».
Arriva anche la figlia con un amico e tutti fanno festa a Mario. Ma per noi è ora di salutare Maria e la sua famiglia e andare a visitare un’altra ranchada.

Subte, linea «B», fermata «Florida»

Arriviamo in centro, a poca distanza dall’Obelisco e da Florida, la lunga via pedonale nota a tutti come paradiso dello shopping. E ai ragazzi di strada come un luogo dove si può «lavorare» bene, nonostante la presenza della polizia.
Ci fermiamo sulla scala della linea «B» della metro di Buenos Aires, a quest’ora della notte chiusa agli utenti. 
 Victor vive nella strada da 8 anni. Perché? «Mi piace», risponde alzando le spalle e ridendo. Un bambino, più piccolo di statura rispetto ai compagni, si fa avanti. È particolarmente vivace. Dice di avere 13 anni. Vive nella strada da poco, meno di un anno. Mario fa un cenno di conferma.
Dove dormite?, chiediamo. Invece di rispondere, due di loro ci mostrano come si rannicchiano sulle scale della metro durante la notte. Dormono sui gradini finché, al mattino, non si aprono le porte della metro o finché non passano i poliziotti a scacciarli.
«Chi sta fumando?», chiede Mario, con fare amichevole.

Pegamento, paco, o marijuana?

Il gruppo si è allargato ad altri, richiamati dalla presenza di Mario, una persona conosciuta ed affidabile. Tutti vogliono dire la loro. I ragazzi ridono divertiti e sventolano davanti alla videocamera una busta di pegamento e un sacchettino di marijuana. Mario li guarda, comprensivo ma non consenziente.  

Di Paolo Moiola

Paolo Moiola




AFRICA, UNITA?

La lunga strada verso gli Stati Uniti d’Africa

Per primo ci pensò Kwame Nkrumah, poi nacque l’Organizzazione degli stati africani, che divenne l’Unione africana. Oggi i capi di stato discutono sui tempi e modi per la creazione degli Stati Uniti d’Africa. C’è chi accelera e chi frena. Ma oltre all’unione degli stati occorre fare quella dei popoli. E l’identità
degli africani è ancora più legata al proprio clan che al continente.

«Un solo dito non può ammazzare un pidocchio» recita un proverbio africano. Ci ricorda che comunione e unità sono alla base della società sul continente. Basta entrare in un villaggio e subito, dopo i saluti, si comincia a cercare se esiste qualche collegamento famigliare, di consanguineità o matrimoniale. Trovato, non ci si chiama più per nome ma secondo il legame che esiste tra noi. Così è la mentalità africana in genere: ogni uomo o donna è collegato in qualche modo con gli altri.
Questo forte senso di comunità era però limitato, solo rivolto all’interno delle diverse tribù e gruppi etnici e dunque gli altri erano considerati estranei.  Con la colonizzazione e globalizzazione, gli africani si sono accorti che i loro vicini non erano dei nemici ma collaboratori per un mondo più grande e sicuro.  Dopo l’indipendenza, i diversi capi fondatori degli stati post coloniali sentirono il bisogno di unità per affrontare le sfide dello sviluppo insieme. Così nacque l’idea delle cornoperazioni regionali tra stati vicini. Ad esempio, il Mercato comune dell’Africa orientale e australe (Comesa), e la Comunità economica degli stati dell’Africa dell’Ovest (Cedeao / Ecowas), e altre aggregazioni ancora. 
A livello continentale prima nella forma di Organizzazione dell’Unità Africana (Oua), che diviene nel 2001 l’Unione africana (Ua). Ora si parla di Stati Uniti d’Africa e c’è chi vorrebbe un unico governo per tutto il continente il più presto possibile, scatenando non poche discussioni. L’uomo che spinge di più su questo è il presidente di Libia, Muhammar Gheddafi. Si dichiara «soldato per l’Africa» e sogna una confederazione di tutti gli stati africani senza aspettare troppo. Secondo lui, più si aspetta, più danni si fanno al continente.

«Africa must unite!»

Gheddafi sostiene che l’Unione africana ha fallito e che non c’è un futuro per i «micro stati» nel mondo odierno. L’unica salvezza per l’Africa è l’unità in un unico governo. L’antico slogan del dopo indipendenza torna attuale: «L’Africa deve unirsi!».
Alpha Oumar Konaré presidente della Commissione dell’Unione africana, è convinto che gli Stati Uniti d’Africa aiuterebbero lo sviluppo dei paesi più piccoli e deboli. Sostiene che una tale confederazione non minaccerebbe l’autonomia nazionale dei paesi, ma sarebbe un’opportunità per confrontare i problemi reali per l’autonomia, individuati nelle multinazionali e nell’economia mondiale.  Alcuni gruppi umanitari del continente appoggiano una tale proposta e sostengono che le barriere economiche tra gli stati dovrebbero essere tolte e che una cittadinanza africana sia una priorità. 
È stato il sogno dei padri fondatori dell’Africa post indipendenza, quegli uomini che hanno lottato contro il colonialismo. Un esempio fra tutti Kwame Nkrumah, il primo presidente del Ghana. Sognava un unico governo per tutta l’Africa con una sola capitale. Suggeriva addirittura Bangui, nella Repubblica Centroafricana, o Kinshasa, nella Repubblica democratica del Congo. Poi un unico sistema economico, e un programma di sviluppo economico e industriale, una moneta unica, così come una sola politica estera, un esercito e una cittadinanza africana.
Julius Nyerere, l’allora presidente della Tanzania affermava: «Lavoriamo per l’unità, con la convinzione che senza di essa, non c’è futuro per l’Africa».

Capi di stato riuniti

Così nella conferenza di Accra (Ghana) dei capi di stato africani, del luglio scorso, la questione è stata a lungo dibattuta.
Nella dichiarazione finale i capi di stato si dicono convinti «che l’ultimo obiettivo dell’Unione africana è la nascita degli Stati Uniti d’Africa, come previsto dai padri fondatori dell’Organizzazione di unità africana». Ma, come afferma il ministro degli esteri del Kenya, Raphael Tuju: «Il diavolo sta nei contenuti», ovvero: tutti sono d’accordo che l’unità è indispensabile, ma le modalità e i tempi con cui arrivarci fanno discutere. Per molti leader africani resta valido quel proverbio swahili che dice: «La strada per concretizzare questo sogno è disseminata di grandi ostacoli, tanto estei che interni». 
 Il piccolo gruppo di Gheddafi e del presidente senegalese Abdoulaye Wade, che vogliono un processo rapido con un singolo atto dai leader, sognano una rivoluzione che muterebbe i 53 paesi del continente dal mattino alla sera, in un unico stato, con un solo presidente e parlamento, sul modello statunitense.
Quelli che invece sostengono un approccio graduale sono: Thabo Mbeki del Sud Africa e Yoweri Museveni dell’Uganda. Quest’ultimo è molto categorico: «Mentre appoggiamo l’integrazione economica, siamo disposti all’integrazione politica solo con persone che sono simili a noi o almeno compatibili». La presidente della Liberia Ellen Johnson Sirleaf si dichiara favorevole ma dice: «Ci vorrà tempo». Si fa sentire anche il capo del Mozambico, Armando Guebuza: «Prima si deve sapere dove andiamo e come arrivarci», ovvero si deve pensare con i piedi per terra.
La maggioranza dei leader africani dunque frenano e pur ritenendo di importanza capitale l’unità, pensano che la questione deve essere tema di confronto sereno.
Ecco i due punti fondamentali nella dichiarazione di Accra il 3 luglio 2007:
1. Accelerare l’integrazione economica e politica del continente, compresa la formazione di un governo unico e, come ultimo obiettivo, la creazione degli Stati Uniti d’Africa.
2. Razionalizzare e rinforzare le Comunità economiche regionali per armonizzare le loro attività…, in modo da condurre alla creazione di un mercato comune africano, con una tempistica rivista e più breve, per accordare l’economia con l’integrazione politica.
Si favorisce quindi l’integrazione delle strutture economiche regionali. L’idea di un passaporto unico africano non è inclusa nella dichiarazione finale.  

Con i piedi per terra

Prima si devono riconoscere le differenze enormi che esistono tra i paesi africani. Non solo politiche, economiche, ideologiche, ma anche sociologiche e culturali. Se c’è un filo comune nella maggioranza dei gruppi etnici africani, esiste anche un’enorme diversità.  La gente dovrebbe essere sensibilizzata a sentirsi più «africana», che membro di una specifica nazione o gruppo etnico o tribù. Si potrebbe fare un esempio del Marocco che prova a entrare nell’Unione europea pur appartenendo alla Lega Araba. Un punto importante sarebbe determinare cosa comporti l’«africanità» e che cosa unisce i popoli, prima di procedere ad un’unità politica senza alcun accordo tra la gente.
È vero che in questi ultimi anni sono diminuite le guerre civili, ma esiste ancora all’interno di molti stati una enorme polarizzazione e disuguaglianza tra gruppi etnici e tribali. Per esempio in Etiopia, Sudan, Zimbabwe, e altri ancora. Come potrà un paese diviso in se stesso fare parte di una più grande federazione? Forse hanno ragione quelli che spingono per un maggiore consolidamento all’interno degli stati stessi. 
La differenza è anche nel modo di concepire l’esercizio di potere. È anche vero che ci sono progressi di democrazia nei paesi africani e la libertà di espressione e diritti umani sono maggiormente rispettati, ma ci sono ancora forme di governo non democratiche come la stessa Libia e lo Zimbabwe. Ma allora quale stile di governo si vuole per gli Stati Uniti d’Africa? Un modello simile agli Usa? Si discute se questo tipo di approccio sarà appropriato per esercitare il potere sui popoli africani così diversi sul piano sociologico.
Quale sarà la sorte dei singoli stati federali e quale sistema per l’elezione del governo? Non è da sottovalutare l’attaccamento al potere dei capi di stato e politici attuali. Confederazione significherebbe la delega del loro potere a un livello superiore, e anche molte «poltrone» si perderebbero. Ma i problemi veri sono di tipo economico. L’Africa di oggi si presenta come un continente di miserie che dipende per sviluppo e sicurezza dai suoi «padroni coloniali» e dalle multinazionali. Questi non hanno interesse che la situazione migliori, anzi approfittano di debolezza e povertà per arricchirsi. Una dipendenza economica, finanziaria e dunque politica.

Ancora colonialismo?

Anche in Africa negli ultimi 20 anni le politiche inteazionali di aggiustamento strutturale hanno imposto la privatizzazione del settore pubblico.
Ma questa svendita ai privati delle imprese e servizi statali ha avuto come risultato il trasferimento dell’enorme patrimonio nazionale nelle mani degli stranieri, in particolare delle multinazionali. Insieme al debito estero, illegittimo e opprimente, questo fatto ha rinsaldato la dipendenza estea e ha aumentato il trasferimento di ricchezze del continente verso i paesi e le istituzioni multilaterali occidentali, come ha riconosciuto la «Commissione per l’Africa» nel 2005. Una commissione istituita da Tony Blair, allora premier britannico, nel 2004 e composta da 17 «saggi», di cui 9 africani, con il compito di elaborare un piano coerente e globale dei reali cambiamenti che avrebbero contribuito a realizzare un’azione energica e proficua per il continente africano.
Questa fuga di capitali, agevolata dalla liberalizzazione, ha raggiunto proporzioni allarmanti che ammontano a oltre la metà del debito estero, secondo i dati della stessa commissione. Secondo Christian Aid (grossa Ong britannica) la liberalizzazione commerciale da sola è costata alla regione più di 270 miliardi di dollari in un periodo di 20 anni.  Il vero problema, dunque, sta nel fatto che i leader africani dipendono dai paesi ex coloniali e dalle multinazionali.
Il peso economico e ideologico degli occidentali è ancora enorme.
Occorrono governanti che sappiano liberarsi da questi legami e possano, oltre a prendere decisioni rigorose, avere la determinazione di attuarle. La lentezza dell’integrazione e la mancanza di solidarietà, riflettono l’assenza di volontà, comune a molti leader africani, di mettere gli interessi fondamentali del continente davanti a quelli nazionali o personali, per avanzare in modo decisivo verso una vera unità. 
La partecipazione popolare alle decisioni e alle politiche pubbliche è importante per una reale unione. Questo significa che il successo degli Stati Uniti d’Africa dipende dagli africani stessi, ma allora il mandato deve venire dalle popolazioni.  Il documento pubblicato dall’Unione africana nel 2006 sembra aver compreso tale principio e dichiara che: «L’Unione deve essere degli africani e non soltanto degli stati e dei governi». Ma questo, per ora, sembra essere rimasto solo nella carta.

 Ricchezza di valori
 
Ma è proprio perché esistono questi problemi e sfide che l’Africa in un modo o nell’altro si deve unire. Ha molto da guadagnare. Mettere insieme tutte le sue risorse culturali, umane, naturali ed economiche darà un grande impulso allo sviluppo.  Le culture sono ricche di valori umani. Un incontro e dialogo di tutte le diversità che si trovano sul continente porterebbe ad un enorme vantaggio per tutto il mondo. Ma sembra che questo aspetto venga trascurato mentre dovrebbe essere sfruttato per determinare, ad esempio, il sistema educativo dell’unione.
Hanno ragione quelli che dicono che i singoli paesi d’Africa, nell’attuale sistema economico mondiale non hanno posto. Un’unione, in qualsiasi forma fosse realizzata, aiuterebbe l’Africa nelle negoziazioni con gli altri blocchi economici sui mercati inteazionali. È solo così che i prodotti africani avrebbero il valore che meritano. Quelli che fanno affari lo hanno capito da tempo. Si dice che oggi l’Africa è il grande mercato dei telefonini. Infatti le compagnie di telecomunicazione cellulare coprono ormai intere regioni del continente. Anche le banche commerciali stanno aprendo filiali sulla base delle unioni economiche regionali.
Ci sono alcuni segnali positivi: le guerre tribali e civili all’interno degli stati africani sono diminuite e si va verso una stabilità politica, con governi più o meno democratici.  Ma occorre del tempo e l’integrazione regionale, come base di una più grande federazione, è la risposta dei dirigenti africani riuniti alla conferenza di Accra nel luglio scorso. Forse una risposta evasiva, visto che i raggruppamenti regionali degli stati africani non sempre funzionano così bene.  

Di Nicholas Nyamasyo Muthoka

Nicholas Muthoka




Volontari «governativi»

Dal quartier generale del Peace corps (corpi di pace)

Prestano servizio in 67 paesi del mondo.  Sono giovani (e meno giovani) cittadini statunitensi. Sottoposti a regole ferree di comportamento e sicurezza. Li finanzia il governo americano, per promuovere l’immagine «buona» dello «Zio Sam». O anche qualcosa di più.

Manhattan, New York city, quartiere generale del Peace corps, letteralmente «corpi di pace». Le misure di sicurezza per entrare nell’edificio sono rigidissime. Mi accorgo subito che sto per entrare in un palazzo dove hanno sede gli uffici federali più svariati, la polizia sorveglia tutte le entrate e per i visitors, come me, il controllo è ancora più severo.
Finalmente mi fanno accedere all’ufficio del Peace corps. Ad accogliermi un’enorme bandiera americana e la faccia ben immortalata del presidente Bush. Mi presento, spiego che credo nei valori della pace e della democrazia e dico che voglio prestare servizio all’estero come volontaria. Mi chiedono se sono cittadina americana e non appena rispondo no, l’interesse della persona con cui stavo parlando svanisce.
Solo i cittadini americani possono partecipare. L’unica eccezione è se hai già presentato domanda per la cittadinanza e se sei in attesa di ricevere la green card (documento che permette di lavorare negli Usa, ndr). Mi offrono depliant e materiale informativo in abbondanza. L’organizzazione deve investire molto nella promozione del programma a vedere dagli opuscoli che producono. Slogan attraenti come «Ti sei mai chiesto cosa c’è dopo?» , «Un viaggio di speranza» o «La vita sta chiamando. Quanto lontano andrai?» ricoprono i muri e riempiono le pagine degli opuscoli. Continuo a chiedermi, (la stessa domanda la pongo all’impiegato che ho di fronte), perché se i Peace corps promuovono valori quali la pace e lo sviluppo, non può ammettere tutti coloro che vogliono contribuire a questa missione? Perché un movimento dallo scopo universale deve avere delle barriere nazionali nella propria struttura?

Voluti da J.F. Kennedy

Bisogna risalire la storia di 45 anni: è il 1 marzo del 1961 quando un ordine esecutivo istituì il Peace corps come agenzia federale indipendente degli Stati Uniti d’America. L’atto di fondazione fu approvato dal Congresso il 22 settembre 1961 con il «Peace Corps Act» che dichiarò la missione dell’ente.
Il Peace corps promuove la pace e le relazioni amichevoli tra gli stati mettendo al servizio di paesi e aree interessate uomini e donne degli Stati Uniti d’America. Persone qualificate e desiderose di prestare servizio, anche in condizioni di vita difficili, al fine di aiutare i popoli di tali paesi a soddisfare i loro bisogni e a crescere.
A monte dell’istituzione del movimento sono gli anni ‘50, il secondo dopo guerra e il delinearsi del bipolarismo. Vari senatori americani già in quel periodo avevano proposto la formazione di un esercito di giovani americani «missionari della democrazia». Alcuni tentativi portarono alla luce organizzazioni private non religiose che iniziarono a mandare volontari nei paesi in via di sviluppo.  Ma solo nel 1959 l’idea di creare un programma nazionale divenne realistica e soprattutto trovò l’appoggio di John F. Kennedy il quale fece stanziare dei fondi e coinvolse rinomati accademici per studiae la fattibilità e delineae gli obbiettivi. Nixon si oppose apertamente così come altri, che dubitarono dell’adeguatezza di far intervenire in contesti così rischiosi giovani collegiali, impreparati e spesso mossi solo dalla curiosità dell’esotico e ricerca dell’avventura.
Secondo Kennedy invece, il movimento dei Peace corps sarebbe servito a promuovere l’immagine positiva degli Stati Uniti nel «Terzo Mondo», così come veniva definito all’epoca l’insieme disomogeneo dei paesi in via di sviluppo. Gli americani non dovevano solo essere visti come i cattivi o come gli yankee imperialisti, in particolare nelle neonate nazioni dell’Africa o dell’Asia post coloniale.
La macchina organizzativa iniziò rapidamente a crescere, le selezioni avvenivano su tutto il continente americano e prevedevano un test attitudinale e uno linguistico (da capire quali lingue straniere potevano essere richieste considerando la varietà dei contesti geografici in cui i volontari avrebbero prestato servizio). In due anni dalla sua fondazione il movimento aveva raggiunto 7.300 volontari che servivano in 44 paesi. Nel 1966 il numero toccò i 15.000 volontari, il più elevato nella storia dei Peace corps. Con un pizzico di malizia viene da pensare che forse non è una coincidenza che tra il 1952 e il 1966, con lo sviluppo decisivo del movimento di decolonizzazione, la maggior parte dei paesi nel Sud del mondo raggiunse l’indipendenza e si delineò un nuovo assetto delle relazioni inteazionali.

propaganda o facciata?

Mentre il movimento cresceva si prefiguravano nuove prospettive di intervento. Se all’inizio i progetti si focalizzavano unicamente sul settore educativo e quello agricolo, a partire dagli anni ‘80, sotto la presidenza di Reagan, vennero sviluppati interventi nell’ambito della creazione di attività produttrici di reddito e del microcredito.
La composizione del movimento e dei suoi volontari sembra abbia sempre riflettuto l’evoluzione del contesto socio politico interno degli Stati Uniti e abbia subìto gli effetti dei tagli o degli aumenti di bilancio voluti dalla maggioranza in carica. Negli anni ‘80 ad esempio, i fondi furono drasticamente ridotti e il numero dei volontari scese a 5.000. Dopo l’attacco dell’11 settembre 2001, invece, l’amministrazione Bush pensò fosse importante aumentare la presenza dei Peace corps per contrastare il sentimento antiamericano emergente in molte aree del pianeta. Rientra nella lotta al terrorismo proclamata dai conservatori l’approvazione per il 2004 di un bilancio di 325 milioni di dollari per sostenere il movimento e l’obiettivo di duplicare in 5 anni la dimensione dell’organizzazione.
«La reputazione americana non è mai stata così minacciata come in questo periodo – dichiara il politologo Joseph Kennedy – e la necessità dei Peace corps non è mai stata così urgente. Occorre mostrare al mondo la faccia migliore degli Stati Uniti d’America, la generosità della nostra nazione».
Risulta quindi importante agli occhi della direzione del movimento rinnovare l’immagine esportata in modo da riflettere al meglio lo spaccato buono della società americana.
Nel 2002  Gaddi Vasquez è il primo ispano-americano nominato direttore dell’agenzia. Il suo principale obbiettivo diventa quello di reclutare volontari che rappresentino tutti i gruppi etnici del melting pot americano. Campagne specifiche sono indirizzate a gruppi minoritari della società, quali afro-americani, latini, per arrivare anche ai nativi dell’Alaska e agli indiani della first nation. Si vuole cercare di coinvolgere le varie fasce d’età della popolazione e per questo vengono adottate misure per incentivare gli over 50 a servire nel corpo di pace.  Questi hanno una più lunga esperienza e maturità da mettere al servizio e possono contribuire in modo unico alla missione dei Peace corps. Circa il 5% dei volontari nel 2006 aveva più di 50 anni.
Nel 2007 quasi 8.000 volontari americani hanno prestato servizio in 73 paesi del mondo. L’età media è di 27 anni, il 59% dei partecipanti è di genere femminile e solo il 7% è sposato. Si può dire che la forza dei Peace corps è qualificata, con il 97% di membri laureati. Il bilancio del 2006 si chiude con 318 milioni di dollari.

Cosa offre in cambio

Viene spontaneo chiedersi cosa offra il Corpo di pace in cambio di 27 mesi vissuti lontani da casa in condizioni disagiate? Perché un giovane o un anziano americano dovrebbero essere incentivati a prendee parte? I vantaggi che l’organizzazione è in grado di offrire sono molti e spesso servono da incentivo per convincere classi della società emarginate a prendere servizio. Forse tali gruppi vedono il Peace corps non tanto come la possibilità per aiutare i bisognosi, ma piuttosto come l’opportunità per riscattarsi socialmente e per avere determinati benefit.
I volontari sicuramente possono rivendere sul mercato del lavoro l’esperienza che fanno all’estero, per cui il primo beneficio è in termini di formazione e di sviluppo di determinate competenze. I volontari rientrati ricevono assistenza per l’inserimento lavorativo e soprattutto hanno vantaggi diretti nell’assunzione federale. Possono infatti essere assunti dagli svariati uffici federali senza seguire l’iter di selezione ma su base discrezionale dell’agenzia che li assume. I volontari che hanno prestato servizio al loro rientro  ricevono una copertura sanitaria, che copre addirittura le spese dentistiche, per 18 mesi (è bene ricordare che l’assistenza sanitaria negli Stati Uniti è totalmente privata). Inoltre possono beneficiare di speciali programmi di studio post universitario con agevolazioni a livello di tasse scolastiche e di iscrizione.
Infine, per meglio reintegrarsi al rientro a casa,  si riceve un fondo perduto di 6.000 dollari quale forma di supporto alla transizione.
Non stupisce a questo punto vedere alcune statistiche sui giovani che hanno prestato servizio nel Peace corps e notare come molti di loro abbiano proseguito la loro carriera in ministeri, uffici federali, Università o addirittura all’interno della stessa struttura sul territorio Usa.

Un’esperienza

Tory ha 27 anni e ne ha trascorsi più di due  in Kenya al servizio del Peace corps. I suoi genitori negli anni Ottanta avevano fatto domanda per entrare nel movimento ed erano stati accettati ma poi decisero di non partire. Lei è cresciuta in parte con il loro rimpianto e ha deciso di completare il percorso. Ci spiega come il programma negli Usa sia conosciuto da tutti e che rappresenti un sogno per molti. Le prime fasi della sua selezione sono avvenute nel campus universitario. Tory ha studiato psicologia e letteratura inglese.
Dopo la selezione è accettata e parte per Nairobi dove trascorre 10 settimane in cui riceve formazione riguardo il paese, le misure di sicurezza, nozioni di sopravvivenza, igiene e sanità. Una parte del training si concentra sull’apprendimento della lingua locale. Dopo questa prima fase viene assegnata ad un villaggio del paese dove vivrà per due anni insegnando inglese nella scuola locale e organizzando corsi di formazione per gli insegnanti sulla diffusione dell’Hiv. Ogni 4 mesi torna in capitale per una riunione con tutti i volontari e con i quadri locali dell’organizzazione.
I Peace corps sono inoltre tenuti a compilare rapporti dettagliati sul loro servizio e fornire informazioni sull’area in cui sono dislocati.  Le chiedo cosa pensa delle accuse che vengono mosse ai volontari di essere spie americane, pedine non consapevoli di un più ampio progetto di impronta neo-colonialista. Mi risponde solo che per lei l’esperienza è stata unica e meravigliosa. Non può immaginare di essere stata una spia del suo governo. Oggi lavora in Tanzania per una fondazione che finanzia progetti in ambito sanitario. Gran parte di quello che fa si basa sulla sua precedente esperienza in Kenya.

L’impatto che non c’è

Non è facile tracciare un bilancio conclusivo su un argomento così ampio e dibattuto quale quello del Peace corps. Chiunque abbia lavorato in un paese in via di sviluppo ha avuto modo di conoscere qualche rappresentante del movimento, di vederli ubriacarsi in capitale o affrontare lunghi tragitti nella savana in bici dotati di caschetto di protezione. Di alcuni non era facile cogliere lo scopo del loro intervento, altri invece erano preparati e professionali.
Le campagne di selezione in America così come la storia del movimento sembrano chiarire che al primo posto della missione dei Peace corps non vi è la promozione della pace o dello sviluppo ma piuttosto l’esportazione di un’immagine positiva degli Stati Uniti d’America, la faccia buona di una nazione che altrove condanna alla guerra e alla privazione di diritti fondamentali.
Tuttavia sembra legittimo quanto meno dubitare dell’impatto dell’azione dei Peace corps in termini di sviluppo e di miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni locali. Non si tratta infatti di un approccio co-partecipato allo sviluppo, e neppure di progetti strutturati e sostenibili, ma della dislocazione capillare sul territorio di donne e uomini americani inquadrati da una sovrastruttura governativa che cura soprattutto i propri interessi politici. 

Di Ermina Martini

Voci dal campo

Quei giovani dal viso arrossato

Li ho visti impiegati in più settori: educazione, salute, promozione dei giovani, ecc… direi che in nessun caso hanno compiti operativi diretti: per esempio, quelli assegnati a un dispensario sono incaricati solo della sensibilizzazione (niente cure).
Tutto si riassume a due categorie: ci sono ragazzi che sanno fare qualcosa e ragazzi che non sanno fare niente.
I primi sono impiegati in modo efficace nei settori in cui c’è più bisogno: penso soprattutto a quelli assegnati a dei licei pubblici come insegnanti di inglese, chimica, fisica… Materie in cui il personale locale scarseggia e in cui la prestazione di un laureato americano si rivela molto utile. O penso anche al volontario che in Mali ha lanciato l’idea delle banche culturali (operazione volta a conservare e diffondere la cultura africana).
Quelli che non sanno fare niente: si ritrovano ad avere compiti di animazione e sensibilizzazione presso qualche dispensario, centro per giovani, ecc… Il risultato del loro lavoro è tutt’altro che scontato. Se una ragazza americana che non ha mai visto un verme e non sa dov’è la Guinea deve andare in giro a parlare del «verme di Guinea», è probabile che il risultato non sia un successone. Di sicuro l’operazione richiederà anche una mobilitazione abbastanza importante di altre persone in appoggio.
Poi c’è chi semplicemente non sa fare niente e non fa niente. In questi casi i danni sono limitati.

Mi sembra che questo illustri bene il principio del Peace corps. Ovvero poco importa che il volontario abbia qualcosa da apportare, da dire o da fare: il principio che anima l’istituzione è che questa permette di formare generazioni di giovani americani che attraverso l’esperienza in un paese povero rientrano più sensibili, informati, aperti. Il Peace corps serve al «terzo mondo» molto meno di quanto questo serva al Peace corps e, attraverso di lui, agli Stati Uniti. Credo che questo fosse uno degli obiettivi di John F. Kennedy, padre dell’istituzione.
Ma penso anche che questo rifletta tuttora un’idea che gli Usa hanno del resto del mondo: questo esiste in funzione di quanto può apportare all’America. I paesi poveri servono a far fare un’esperienza umana a dei giovani, di cui approfitteranno solo gli americani.
Il lato B di questo paradigma è che il semplice fatto di essere americani è una fonte di legittimazione della propria presenza. Soprattutto in un paese povero: io americano, per quanto ignorante, avrò sempre qualcosa da portare a te, africano magari multi laureato.
 
Alcuni dati confermano questa mia ipotesi:
1. Non esiste selezione: se di buona costituzione fisica, qualunque americano dai 18 anni in su è accettato.
2. I Peace corps godono di un forte riconoscimento sociale quando rientrano: facilitati sul lavoro e nell’ottenimento di borse per l’università. Molti ex fanno carriera in istituzioni inteazionali…
Fino a qui comunque stiamo parlando di un servizio globalmente innoquo. E al limite riuscito rispetto al primo obiettivo esposto sopra: è vero infatti che le condizioni molto rudi in cui vivono e lavorano i volontari permettono una grande prossimità alla popolazione e una conoscenza del contesto invidiabile. Per esempio parlano tutti le lingue locali, e questo fa loro onore.

Veniamo al sospetto che pesa sull’istituzione: che sia un’agenzia di informazione per il governo americano. Possibile, ma non direi che sia davvero un’agenzia.
La mia opinione è che l’istituzione dei Peace corps non sia in origine un’agenzia, ma che sia stato e sia tuttora molto semplice per la Cia usarla come copertura per un buon numero di suoi agenti.
Insomma il Peace corps non è una spia, ma una spia può facilmente essere mandata in un paese come Peace corps.
Dopo di ché, credo che i rapporti d’attività che loro inviano siano tutti registrati in qualche servizio di informazioni. Ma è difficile che il ragazzo che passa un anno sperduto nell’Africa profonda a fare poco o niente abbia delle informazioni interessanti per Washington. Immagino che con le tecnologie attuali gli Usa ne sappiano di più da un satellite che da un volontario.

Di sicuro i Peace corps non sono tutti spie, ma questo è evidente. Molto probabilmente alcuni di loro sono agenti che si passano per volontari. Difficile sapere il livello di connivenza tra la Cia e la direzione. Teniamo presente che i Peace corps dipendono dal Ministero dell’interno e non da quello degli esteri.
Il fatto che siano tenuti a rispettare delle procedure di comunicazione in codice e delle procedure di sicurezza quasi militare, non significa granché, si pensi che il personale delle Ong in situazione di emergenza fa la stessa cosa.
E che il ruolo di informazione del governo – tuttora probabilmente esistente – in realtà tocca un numero limitato di volontari consenzienti e inviati in alcuni punti caldi ben precisi.
Il resto sono ragazzi di buona volontà e spirito di avventura o solidarietà. Esistono molti siti e i blog fatti dai Peace corps. Che la Cia li utilizzi per aggioare i suoi archivi?                                      
  L.A.

Ermina Martini