Avanti, c’è posto … (ma non per tutti)

Un paese in cammino verso la modeità

Toando in India a distanza di 10 anni non si può non notare i profondi cambiamenti avvenuti, soprattutto nelle grandi città. Industrializzazione e turismo creano sviluppo e ricchezza, ma non per tutti, specialmente nelle campagne, dove sembra che il tempo si sia fermato.

S orridente e impeccabile nella sua camicia bianca, il giovane Raj Koli ci accoglie all’arrivo in aeroporto e ci accompagna in auto attraverso una Mumbai che trovo molto cambiata dalla mia ultima visita: molti edifici modei, case restaurate, arterie sopraelevate e un notevole traffico di auto private.
È notte, ma per qualcuno il lavoro continua. Ragazze in motorino, avvolte in scialli, stanno ritornando a casa dal lavoro nei call centers. «Nessun problema, questa è una città tranquilla, sicura per le donne» assicura Raj. Allineati sui marciapiedi vedo figure dormienti avvolte in teli, prova che il benessere raggiunto dall’India non ha toccato tutti.
Costeggiando Mahim Bay noto che sono scomparse le capanne dei koli, gli antichi abitanti di Bombay. Chiedo a Raj se vi sia relazione con il suo cognome. «Certamente, mio padre e tutti i miei antenati erano pescatori e vivevano sul mare, sull’isola di Colaba – spiega Raj -. Da bambino ho imparato a pescare; poi sono andato a scuola e ho potuto frequentare il college». Qualche anno fa il governo ha ripulito le spiagge, fatto togliere le capanne e trasferito tutte le famiglie koli in abitazioni modee.
«Ho quasi 25 anni e i miei mi a-vrebbero trovato moglie, come da tradizione; ma voglio aspettare almeno i trenta e farmi prima una posizione» continua iI ragazzo, che mostra di avere idee chiare.
Ricordo la visita che feci 10 anni fa a Sassoon Docks, il porto peschereccio sull’estrema punta dell’isola di Colaba. All’alba le pescivendole, sedute su grandi cesti di giunco, aspettavano l’arrivo dei battelli, mentre le donne koli camminavano fiere sui moli, nei costumi tribali ricchi di colore e specchietti. Avevano il diritto di vivere sul mare che circonda Mumbai, ora abitano come Raj case dotate di acqua ed elettricità, ma raggiungibili in due ore di treno.
Il giorno dopo mi rendo conto che l’atmosfera è cambiata nella vecchia Bombay: una fiera d’arte contemporanea è aperta accanto al museo archeologico. Qui si possono vedere ragazze con il cellulare, che vestono in jeans e frequentano locali alla moda, tra i quali un paio di gelaterie italiane.
Amy, Rashna e Aban sono tre dame che incontro sulla soglia di casa, un condominio sul lungomare che conduce alla Gate of India. Le saluto, mi fermo a chiacchierare, poi chiedo: «Siete parsi?». Stupite, annuiscono e scoppiano a ridere quando rispondo alla loro curiosità, spiegando che la pelle chiara e il profilo del naso non potevano che essere parsi.
«Siamo 65 mila a Bombay, ma in questi giorni siamo molti di più: è stagione di matrimoni e riceviamo le visite della diaspora. Dall’America, dall’Australia, da ogni dove arrivano e si fermano presso amici e parenti». Nel quartiere vi sono alcuni dei 9 grandi complessi di appartamenti parsi esistenti a Mumbai, chiusi e controllati da una guardia. Vedove, anziani e famiglie vi abitano e si sentono protetti.
Questa metropoli cosmopolita mi affascina anche per la sua ricchezza culturale e la possibilità di venire a contatto con gente di diversa estrazione e cultura.

HYDERABAD
Partiamo dal moderno terminal nazionale con un aereo della Jettlite, una delle nuove compagnie indiane, diretti a sud, nel cuore del subcontinente. Sorvoliamo un territorio aspro e scuro, segnato da fratture drammatiche, dighe e laghi artificiali, oggi oggetto di polemiche e ripensamenti, a causa delle conseguenze negative sull’ambiente e sulle popolazioni.
Hyderabad è estesissima; su una superficie di 170 kmq gli abitanti sono saliti in pochi anni a 5 milioni. Nel centro congestionato dal traffico è difficile camminare: non vi sono marciapiedi e il nuovo tecnologico convive con la vecchia India di accattoni, mucche, carretti e moto.
La città si è ampliata a ovest, nei nuovi quartieri di Cyber City, dove sono sorti alti edifici avveniristici, tuttora circondati da cantieri e lembi di campagna in cui pascolano le pecore. Sui quotidiani si vedono pubblicità che ricordano l’America: qui come a Mumbai si offrono case di lusso con aria condizionata e campi da golf, nonostante l’allarme sul futuro incerto per quanto riguarda l’energia e l’acqua.

GULBARGA

L’autista che ci guida in questo viaggio verso lo stato del Kaataka si chiama Shankar, è indù e sovente si ferma per donare offerte ai templi. Robusto, dalla pelle scura e dall’in-glese incerto, mi parla con orgoglio della sua famiglia. La moglie è un’in-segnante che ha lasciato il lavoro per curare i due figli. «Voglio che i ragazzi abbiano una buona educazione e li ho iscritti in una scuola privata». Poi li chiama al cellulare e me li passa, per farmi sentire l’ottima pronuncia della lingua inglese.
A Gulbarga, una delle città del nostro itinerario, ricche di preziose architetture islamiche, non vi sono solo moschee, santuari e fortezze, ma anche ottime facoltà universitarie.
Ceniamo nella family room dell’albergo, riservata alle donne e alle famiglie. Un gruppo di studentesse di farmacia mi circonda con curiosità. Anitra e Prathisha vengono dal Kera-la e vivono in ostello con le compagne Sindhu e Prachi provenienti da Hyderabad. Tutte hanno intenzione di conseguire una specializzazione all’estero, magari in Australia o in Inghilterra. Sono ragazze forti e decise, indù e musulmane, ma non si nota differenza nel comportamento.

BIJAPUR
Bijapur è una città dalla storia interessante. Capitale di un grande regno indù, venne conquistata dai sultani di Delhi, che la arricchirono di monumenti straordinari. Tra palazzi modei, moschee ed edifici antichi in pietra scura, incontro anche una chiesa cristiana dedicata a tutti i santi, come testimonia la scritta: «All Saints Catholic Church».
Non lontano, in un viale alberato, sorge la piccola chiesa di sant’Anna, dove incontro alcuni gesuiti e giovani studenti universitari che si preparano al sacerdozio. Vengono quasi tutti dal Kerala, hanno un viso aperto e sorridente; oltre allo studio, sono impegnati su vari fronti: Arun lavora negli slums della città. Sono 90 quelli non riconosciuti dal governo, per cui sono privi di elettricità, ricevono rifoimenti d’acqua ogni 8 giorni.
A Bijapur e dintorni, mi spiega padre Teyol, vi sono cinque gesuiti impegnati in varie opere a beneficio dei più poveri: gestiscono una scuola che ospita 480 ragazzi degli slums, dal 1°all’8° grado; vicino all’o-spedale islamico hanno aperto il centro di cura per l’Hiv, che colpisce duramente la popolazione, anche a causa di carenze alimentari, mancanza di igiene e prevenzione. Diverse congregazioni di suore sono presenti nella provincia e, in particolare, a MudoI, città distante 80 km, dove si occupano di circa 4 mila disabili.
La sera sono invitata a cena nella casa dei gesuiti, che ospita anche 45 bimbi orfani. Dopo la cena a base di riso e curry e servita dagli stessi bambini a tuo, mi chiedono di intonare un canto del mio paese.

IL DECCAN
Per un breve tratto percorriamo la strada che collega Mumbai a Bangalore, dove il traffico è pesante, di soli camion. Proseguiamo su strade secondarie attraverso una campagna ben coltivata, dove la vita ha ritmi ancestrali. I contadini hanno steso il raccolto di sorgo e ceci sull’asfalto, perché vengano sgranati dalle ruote dei veicoli, per poi ripulirli dalla pula con i setacci e folate di vento. I carri sono trainati da buoi dalle lunga coa, dipinte in colore azzurro o rosso; lungo i fiumi e ai lavatorni le lavandaie usano le pietre come un tempo.
I siti archeologici che incontriamo in questo vasto altopiano sono numerosi e importanti per la storia del-l’arte indiana. Il triangolo d’oro, formato da Aiole, Badami e Pattadakal, conserva i preziosi templi di tre importanti fasi dell’architettura indù, dal v al ix secolo d.C. Numerose sono le classi scolastiche in visita, istituti d’arte e licei, provenienti da città molto lontane. Tutti amano farsi fotografare insieme a noi o fotografarci, chi possiede una fotocamera.
Hampi è un luogo magico. I resti di un antico regno indù sono sparsi in una vasta zona, attraversata da un fiume e punteggiata da grandi massi di granito. Monumenti, palazzi, templi, lunghi colonnati dei mercati sono sopravvissuti al tempo e alla distruzione portata dai sultani islamici. Restano anche le antiche canalizzazioni utilizzate per l’agricoltura, ma ridotte a oggetto archeologico, da quando è stata costruita una nuova diga, il cui vasto invaso ha provocato un’eorme quantità di zanzare che oggi infesta tutto il territorio.
A 25 km dal sito archeologico vi è un’acciaieria che assorbe grande quantità di energia e ha richiamato migliaia di persone, un tempo semplici contadini, per lavorare in questa industria. Fa parte della Jsw (Jindal South West), una compagnia che appartiene a uno dei magnati indiani, tra i primi nella lista dei ricchi della terra, come mi ha raccontato il vice direttore dell’acciaieria, signor Ugale, incontrato insieme alla sua famiglia in un ristorante dove ci eravamo fermati per il pranzo.

NAGA
«Mi chiamo Naga, come il serpente sacro, e dovrei avere 33 o 34 anni. Allora le nascite non venivano registrate – racconta la nostra guida mentre percorriamo l’area archeologica di Hampi -. Ho sofferto la fame da bambino; i miei erano molto poveri, della casta dei shudra, agricoltori. La mamma raccoglieva la legna in fascine, le caricava sul capo e andava a venderle, ma non sempre riusciva a comprare cibo per sfamarci».
Donne con fascine sulla testa se ne vedono ancora lungo le strade del Kaataka. Scalze, con anelli alle caviglie, vesti leggere dai colori vivi, il viso avvizzito dalla fatica e dal sole, a volte ricoperto dai monili tribali.
Da quando il sito archeologico di Hampi è stato dichiarato patrimonio dell’umanità, è aumentato il turismo culturale e Naga guadagna bene. «Ho studiato – continua Naga -. Sono entrato all’università con le quote riservate alle caste più basse. Dopo un anno di legge, ho conseguito il diploma di guida turistica e mi sono messo a lavorare. I miei mi hanno trovato una brava moglie che mi ha dato un bimbo, che ora ha 4 anni. L’abbiamo chiamato Ganesh, come l’elefantino figlio di Shiva, un nome che porta fortuna».
Naga vuole dare una buona educazione al figlio, che frequenta una scuola matea privata. Ora si sente forte e orgoglioso di mantenere tutta la famiglia, i nonni e perfino i due fratelli fannulloni, che non hanno voluto studiare.
Gli incontri con questi piccoli indiani, dalla pelle scura e gli occhi vivaci, ammirevoli per l’impegno e la determinazione, mi aiutano a capire il loro paese, che si sta evolvendo pur nelle contraddizioni di situazioni molto diverse.
Naga ha superato una doppia tragedia l’anno scorso. Dopo aver contribuito coi suoi risparmi alla dote di una nipote, figlia di quel perdigiorno del fratello maggiore, suo padre si è ammalato ed è rimasto paralizzato. La giovane moglie, costretta ai lavori pesanti di casa e di assistenza al nonno, ha perso la secondogenita, nata prematura.

GOA
II caldo, i colori, la polvere, il traffico, la povertà: l’India non lascia mai indifferente, quando si percorrono le sue strade in un viaggio che coinvolge profondamente anche l’anima.
Sono stanca di viaggiare in pullman. Lascio l’altipiano del Deccan con un comodo treno che da Hospet mi porta a Goa, attraverso la foresta tropicale, paragonata al bacino delle Amazzoni per ricchezza di biodiversità. La vista di tanto verde e cascate ricche d’acqua che scendono verso il Mar Arabico, è inusuale in India, paese profondamente segnato dal lavoro dell’uomo.
Goa è il più piccolo stato indiano (3 mila kmq), ma con il migliore tenore di vita per tutti i suoi abitanti, grazie alle miniere di ferro, le industrie di tecnologia avanzata, le buone scuole e, soprattutto, iI turismo. Sono diversi milioni i turisti occidentali che arrivano in inverno per godersi il sole e le splendide spiagge del piccolo stato indiano. È impressionante lo sviluppo dell’attività, dovuto alle esigenze di nuovi alberghi e alle richieste di seconde case da parte della nuova classe borghese indiana. Alcune zone sono già state rovinate dalla speculazione. Ma basta allontanarsi dalla costa per ritrovare il fascino delle antiche chiese, costruite nei secoli dai portoghesi.
Goa è una regione ricca di storia, che affonda le radici nel 3° secolo a.C., quando faceva parte dell’impero dei Maurya, per poi passare sotto il dominio dei regni indù dell’altipiano del Deccan. Nel 1312 fu occupata dal sultanato di Delhi; ma fu riconquistata nel 1370 dal re Harihara e per un secolo fece parte del grande impero indù di Vijayanagar, finché ricadde nuovamente sotto il dominio islamico, prima del sultano di Gulbarga, poi di quello di Bijapur, che ne fece la capitale del suo dominio. In fine Goa fu conquistata da Alfonso di Albuquerque (1510), che gettò le basi di quella che doveva diventare la splendida capitale della più importante colonia portoghese del subcontinente, centro di controllo per il traffico delle spezie che giungevano dall’Oriente e della diffusione della religione cristiana in tutto il continente asiatico.
La presenza portoghese durò per quattro secoli e mezzo. Quando infatti l’India si rese indipendente dal dominio inglese (1947), i portoghesi non vollero cedere la loro colonia e resistettero fino al 1961, quando furono cacciati dall’esercito indiano e Goa diventò (1987) il 25° stato della federazione indiana, il più piccolo e il più ricco.
Oggi, dell’inquieta storia dei secoli in cui indù e islamici alternarono su Goa il loro potere non rimane alcuna traccia; mentre abbondano gli edifici storici, cupole e campanili, che svettano tra gli alberi secolari che avvolgono la Vehla Goa.
Fa un certo effetto visitare la cattedrale, la chiesa di San Francesco, la basilica del Bom Jesus, dove i gesuiti custodiscono le spoglie di san Francesco Saverio, il grande missionario che portò il vangelo in Estremo Oriente. Rimango ancora più stupita nel vedere i numerosi drappelli di fedeli in preghiera, che a tutte le ore riempiono le cappelle ricche di decorazioni.

Il mio viaggio si conclude sul colle in cui sorge la piccola chiesa di Nostra Signora della Carità. Il sole sta tramontando nel Mar Arabico e lo sguardo spazia sulla densa foresta tropicale che nasconde case e mercati, segnata da fiumi e canali, percorsi da lunghe navi arrugginite, cariche di minerali. 

Di Claudia Caramanti

Claudia Caramanti




Taita obispo

Vent’anni fa moriva mons. Leonidas Proaño, profeta dei popoli indigeni

La vita di Monsignor Proaño è la cronaca di un sogno, che diventa promessa e dovere: «Agli indigeni vorrei dare terra, educazione, autostima, cultura e religione». Un missionario che l’ha conosciuto negli ultimi anni della sua vita pennella alcuni tratti della sua figura nel contesto sociale e culturale dell’Ecuador che l’ha avuto vescovo e in particolare di quello indigeno
che l’ha eletto padre.

Per ricordare in modo appropriato e degno mons. Proaño, si dovrebbero raccogliere le voci del suo paese e della sua gente. Ancora oggi il segno da lui lasciato è oltremodo evidente, nonostante siano passati due decenni dal giorno della sua scomparsa e altri personaggi ne abbiano invaso e occupato il posto che gli apparteneva. La sua memoria rimane intatta; non c’è traccia di mito nei ricordi, ma nostalgia per questa persona importante e autorevole, che sapeva voler bene ai poveri ed era da essi amata.
Posso dire di averlo conosciuto da vicino per essere stato assieme a lui nei mesi introduttivi della mia presenza missionaria a Riobamba, quando mons. Proaño si era ritirato a vita privata e viveva a Santa Cruz, il centro dei raduni e degli incontri della diocesi. Sono stati due mesi preziosi, in cui ho potuto approfittare della sua esperienza.
Oggi, ho al mio attivo vent’anni di Ecuador, pienamente a contatto con il mondo degli indigeni; quegli stessi indigeni che continuano a riferirsi a mons. Proaño come loro vescovo, anche se in realtà a Riobamba si è ormai insediato da tempo un successore titolare, con altre direttive e differenti opzioni pastorali.
Per ricordare mons. Proaño bisognerebbe infine lasciare che l’Ecuador sveli la sua storia, dagli infiniti scenari e contraddizioni, rincorrendone gli eventi fino al punto in cui la terra tocca il cielo: sulle alte montagne della cordigliera dove vivono gli amici di «Taita Obispo» (papà vescovo), come nella lingua quichua gli si rivolgevano confidenzialmente i «suoi» indigeni.
La cultura coloniale
L’Ecuador è un paese multiculturale: in modo più o meno conflittuale vi coesistono la cultura meticcia e le culture delle nazioni indigene. La wipala, bandiera dei sette colori, simbolo dell’impero incaico dei «quattro orizzonti» (Tawantinsuyo) simbolizzava l’insieme di popoli integrati nello stato Inca, «liquidato» dalla conquista spagnola.
Il dominio coloniale provocò il cambiamento delle strutture sociali. La ridistribuzione della popolazione e delle ricchezze a favore dell’apparato coloniale causò la fine delle varie forme di arte urbana, espresse fino a quel momendo in oggetti di lusso per la corte e i templi. Furono distrutte le reti viarie, le irrigazioni e venne sconvolto il sistema tradizionale dei seminati. Immense estensioni di terra passarono nelle mani degli spagnoli e molte specie di piante e animali che per gli indigeni avevano un carattere sacro, furono fatte scomparire. Anche lo sviluppo delle tecnologie adeguate al medio ambiente ebbero termine. Gli indigeni si videro obbligati a consumare quello che non producevano e a produrre quello che non consumavano.
Tuttavia, nonostante la sottomissione e lo sfruttamento a cui erano soggetti, gli indigeni continuarono a essere legati alla terra e conservarono la coesione comunitaria. Terra e comunità continuano ancora oggi a essere i due baluardi con i quali gli indigeni difendono i propri valori culturali e comportamenti sociali.
Nell’epoca coloniale, che si prolungò per circa tre secoli, la classe dominante si espresse ideologicamente attraverso la religione. La chiesa gestì questo campo come patrimonio esclusivo e le gerarchie superiori erano integrate da elementi che provenivano dai settori dominanti.
Nella vita quotidiana di tutta la società si impose la rigidità dogmatica e a ogni cosa venne praticamente attribuito un significato religioso. Il modo di pensare e sentire, le tradizioni e i costumi, i divertimenti e le feste erano regolate dalla autorità ecclesiastica.
Oggi gli indigeni professano in maggioranza la fede cristiana; molti, però, conservano tracce e lineamenti culturali propri. Le loro credenze rivelano idee panteistiche e la morale sfugge i rigidi precetti cristiani, ma continua a conformarsi agli antichi precetti: non rubare, non mentire, non oziare.
Solamente con il diffondersi delle idee del liberalismo in Ecuador cominciò a formarsi una nuova cultura. I vincoli commerciali del paese con altre nazioni e lo sviluppo della borghesia mercantile promossero condizioni per il passaggio dalla cultura coloniale a una nuova, più modea e tollerante.
I cambiamenti socio-economico e le idee liberali, però, non apportarono benefici alle zone rurali. Gli indigeni continuarono a vivere e lavorare relegati nelle fattorie dei proprietari terrieri, da dove uscivano solo occasionalmente; soprattutto rimaneva negata loro ogni possibilità di esprimere le richieste e far valere il propri diritti. Emarginati dai vantaggi della vita urbana, esclusi dalla vita politica, disseminati lungo la cordigliera andina, si ribellavano all’oppressione solo mediante il reclamo delle terre.
In un paese dalle marcate contrapposizioni sociali come l’Ecuador, la cultura non è omogenea, ma essa include elementi comuni derivati dalla cultura popolare spagnola, ben radicati anche nelle piccole città della provincia. E quanto la cultura popolare spagnola venne ha contatto con le culture indigene, soprattutto nella cordigliera, è avvenuta una speci di simbiosi, un nuovo tipo di cultura articolata con elementi di origine distinta. Un esempio sono le feste popolari nelle zone rurali. 
Da quando l’Ecuador si affermò come repubblica indipendente, nel 1830, lo stato si è sempre mostrato incapace di garantire l’uguaglianza etnica dei suoi abitanti, ma attento solamente a rispondere agli interessi di una incipiente nazione ispano-ecuadoriana; per cui lo stato non è riuscito, e nemmeno ha cercato, di captare e raccogliere le caratteristiche e necessità dei popoli indigeni. In questo modo si sanzionò legalmente l’opposizione che già esisteva tra la cultura degli oppressori e le culture conquistate e oppresse.
La cultura Proaño
A partire dalla metà del secolo scorso, in Ecuador ha cominciato a farsi strada ed affermarsi una nuova cultura, tenacemente promossa da mons. Proaño, vescovo di Riobamba, diventato subito una figura di contrasto e di rottura con la cultura dominante, punto di riferimento a cui gli opposti schieramenti si rivolgevano con venerazione o di avversione. Ciò che mons. Proaño diceva, insegnava e promuoveva per gli indigeni diventava parola sacra, da ricordare e attuare.
Quella del vescovo di Riobamba è diventata una forma culturale profondamente radicata e, oggi, nessuno può dialogare con il mondo indigeno senza tenee conto, senza avere una conoscenza previa del fattore umano, religioso e culturale identificato con la figura di mons. Proaño.
Anche per la chiesa stessa, per il suo approccio pastorale alla variegata realtà culturale del paese, in modo particolare al mondo indigeno, nulla fu più come prima. Il «metodo Proaño» (che molto si arricchì attingendo alla fonte delle grandi Conferenze episcopali di Medellín e Puebla) insegnò alla chiesa a diventare comunità di fede incarnata in un contesto particolare come quello rappresentato dal mondo indigeno.
«Ascoltare la parola di Dio e metterla in pratica». Questo imperativo che Proaño fece proprio per sé, ispirò anche un metodo pastorale molto vincolante, che obbligava coloro che lavoravano con lui ad andare a qualsiasi riunione «disarmati», cioè, disposti a vedere la realtà, possibilmente con gli occhi della gente che la vive e soffre, collaborando ad ampliare questa visione con una informazione teorica che aiuti a capire le cause e le conseguenze di tale realtà.
Poi, in un momento di riflessione più profonda, la realtà veniva passata al vaglio delle aspettative di Dio; il risultato pratico doveva dare vita a un’azione capace di scatenare un nuovo vedere, un nuovo giudicare e un nuovo attuare.
Vent’anni dopo
Oggi, insieme alla coscienza della dominazione subita, gli indigeni hanno maggior consapevolezza del valore della propria cultura. Ciò include anche il rapporto con la propria lingua, il quichua, in confronto con lo spagnolo, lingua ufficiale (e dominante) dello stato ecuadoriano.
Come idioma ufficiale lo spagnolo fu imposto fin dall’epoca coloniale. È la lingua che si usa nelle leggi, nelle istituzioni statali, nell’insegnamento, nei mezzi di comunicazione collettiva, in tutti gli ambiti e istanze della vita pubblica. Si usa anche nella letteratura e nelle pubblicazioni scientifiche e tecniche.
Le lingue dei popoli indigeni sono state invece relegate agli ambienti familiari e sono rimaste circoscritte a forme di comunicazione limitata. Uno sforzo significativo per avviare un sistema educativo bilingue è stato fatto. Purtroppo l’insegnamento della lingua propria è sempre rimasto facoltativo, l’organizzazione dei corsi è sempre stata fatta in modo approssimativo; altrettanto deficitaria è stata la disponibilità di insegnanti validi e materiale didattico adeguato.
Nelle culture e lingue si radicano l’essenza e il senso di identità storica degli indios. Ogni persona che prende coscienza politica della propria oppressione, sa che deve appoggiarsi sulla lingua e sulla cultura per poter affermare la propria personalità e dignità. Sotto questo punto di vista, la spinta data dall’azione di mons. Proaño è stata fondamentale.
Oggi, per la prima volta, si vedono indios in posti pubblici; fatto, questo, che distrugge la figura stereotipata dell’indigeno. Si nota un rinnovamento culturale che porta alla maturazione di nuovi paradigmi di rapporti sociali; la rinnovata presa di coscienza dà i suoi frutti anche a livello politico. La capacità degli indigeni di far fronte comune contro le ingiustizie del sistema si ripercuote sulla situazione culturale del paese intero. Le rivolte e i sollevamenti indigeni sono attività di forte intensità sociale, che hanno generato molti studi e tesi accademiche.
La convivenza tra le culture non è cosa facile da acquisire. Multiculturalità e interculturalità suppongono una posizione ideologica infestata da interessi politici ed economici; imposta questioni di identità, alterità, differenziazione, originalità, razzismo ecc. Tuttavia bisogna sempre tener presente che la pluralità di culture interagenti non comporta la rinuncia alle differenze, ma piuttosto la loro accettazione in una unità equilibrata e totalizzante. Non si tratta di rinunciare alla cultura propria, ma di rivendicare e accettare la permeabilità delle culture secondo un processo di coesistenza che faccia del bene a tutti.
Questo criterio, alla base della pedagogia elaborata da mons. Proaño, è oggi obbligatorio per chiunque voglia avvicinarsi alla pastorale indigena. Molte idee del vescovo sono state accettate e il metodo «vedere-giudicare-agire» è premessa obbligatoria per ogni programma pastorale. Anche la pastorale d’insieme è oramai ovvia e presente ovunque.
Certe persone hanno sviluppato in maniera impressionante il dono di comunicare con la gente: vengono subito capite e altrettanto rapidamente suscitano entusiasmo. Una di esse è stato mons. Proaño. Ancora oggi, basta nominarlo che all’indigeno si accende il cuore e diventa subito pronto a riattivare i ricordi.
Per quanto mi riguarda, invece, continuo a pensare che il vangelo non sia un’opera «chiusa», ma continui ad affermarsi nella storia come composizione permanente, grazie a testimonianze encomiabili e straordinarie; ma esistono anche versioni nuove basate su come il vangelo è stato creduto, amato e praticato. Sarebbe bello e opportuno si pubblicasse finalmente «Il vangelo di nostro Signor Gesù Cristo secondo Proaño, vescovo degli indios». 

Di Giuseppe Ramponi


UNA VITA SPESA PER L’UOMO E LA COMUNITà

Leonidas Eduardo Proaño Villalba, nasce il 29 gennaio 1910 a San Antonio di Ibarra, nella provincia di Imbabura, nell’Ecuador settentrionale. È il figlio unico di Agustín e Zoila, una coppia di poveri, ma onesti lavoratori. La coscienza delle sue umili origini ne ispirerà l’approccio pastorale e il metodo pedagogico. Mons. Proaño, infatti, era solito ricordare continuamente le sue radici povere, accorgimento che gli permetteva di essere accettato dalle persone a cui si rivolgeva come uno di loro, povero tra i poveri.
Nel 1923 entra nel seminario minore della città natale. Vi rimane fino al 1930, quando inizia gli studi di filosofia e teologia presso il seminario maggiore «San José» della capitale Quito. Gli anni della formazione danno a Proaño il «gusto» per lo studio e l’apprendimento finalizzati all’impegno pastorale. Al tempo stesso il futuro vescovo matura la scelta evangelica, decisa e radicale, per i poveri e inizia a coltivare un profondo senso di disagio per la chiesa ecuadoriana del tempo, che giudica essere chiusa, conservatrice, ipocrita e troppo attaccata a potere e privilegi.
Nel 1936 viene ordinato prete e con il ministero sacerdotale inizia anche un più serio impegno a favore dei più poveri, contadini e indigeni soprattutto, schiacciati da un sistema feudale oppressivo che li riduce a veri e propri servi della gleba. È perciò con una certa sorpresa che il 18 marzo 1954 Proaño viene nominato vescovo della diocesi di Riobamba, nella provincia del Chimborazo.

Sono questi anni di fermento per la chiesa universale; gli anni della celebrazione del Concilio Vaticano II, che rafforzano la visione ecclesiale del giovane vescovo: l’immagine di una chiesa serva e non padrona, popolo in cammino e non staticamente arroccata sulle sue posizioni e privilegi, povera tra i poveri e non sodale dei poteri forti del paese.
Sono soprattutto gli indigeni, in assoluto la parte più disprezzata della popolazione, a godere dell’attenzione pastorale di mons. Proaño. Alcune iniziative – come la concessione di terre di proprietà della diocesi a una cornoperativa indigena e l’inizio di una pastorale di insieme che rafforzi il senso di comunità in una società altrimenti divisa in caste e animata da fortissimi pregiudizi razziali – lo rendono famoso e al tempo stesso gli accrescono la fama di prete scomodo che, insieme all’etichetta di comunista, si porterà dietro per tutto il resto della sua vita. Anche la creazione di Radio Erpe. (Escuelas radiofónicas populares de Ecuador) gli attira le ire delle classi «nobili» e potenti del paese, che scorgono intenti rivoluzionari nella volontà di Proaño e dei suoi collaboratori di coscientizzare gli indigeni attraverso programmi di alfabetizzazione bilingue (quichua e spagnolo), vita contadina e approfondimento della parola di Dio alla luce della realtà della gente e dei fatti quotidiani.
Gesù Cristo è per lui qualcuno con il quale arriva a stabilire una relazione personale: è il suo confidente e allo stesso tempo la sua forza. Come essere umano vive una ricerca incessante. Non si conforma con niente, non ristagna in quello che conosce, si lancia verso lo sconosciuto, mantiene uno spirito aperto a tutto quello che succede nella chiesa e nel mondo. Lo spirito di ricerca, sempre aperto all’ascolto lo rende umile, lo mette in una situazione di discepolo, prima che di maestro. In alcune occasioni dirà: «Sono un apprendista cristiano». L’avventura della ricerca lo anima a leggere con occhi sempre nuovi la parola di Dio, a scoprie la novità. La fedeltà alla ricerca è per lui fedeltà alla realtà sempre cambiante, sempre interpellante. Questo fino alla sua morte, avvenuta vent’anni fa, il 31 agosto 1988.

HA DETTO DI SE STESSO

«C redo nei poveri e negli oppressi. Credere nei poveri e oppressi è credere nei “semi del Verbo’’. Credo nelle loro grandi potenzialità, particolarmente nella capacità di ricevere il messaggio di salvezza, di capirlo, accoglierlo e metterlo in pratica. È vero che i poveri ci evangelizzano: per questo la Conferenza di Puebla parlò del «potenziale evangelizzatore dei poveri’’.
Credo nella chiesa dei poveri, perché Cristo si è fatto povero, nacque povero, crebbe in una famiglia povera, scelse i discepoli tra i poveri e fondò la sua chiesa nei poveri. Per tutto questo, allo stesso tempo che faccio la mia professione di fede nei poveri, oso prendere le parole vibranti di felicità di Cristo: Io ti benedico, Padre, perché hai tenuto nascoste queste cose ai savi e sapienti di questo mondo e le hai rivelate ai piccoli».

«T utta la mia vita è stata piena di lotte e conflitti. Penso di essere un uomo intransigente quando si tratta di difendere valori trascendentali non certamente speculativi, ma incarnati nell’esistenza umana. Sono stato intransigente nella difesa della verità perché ho sempre voluto che come uomini concreti fossimo dalla parte della verità. Sono stato intransigente nella difesa della giustizia perché sempre mi è piaciuto che come uomini praticassimo la giustizia. Quello di cui sono più grato ai miei genitori è l’educazione permanente nella libertà e verso la libertà. Sono stato intransigente nell’amore alla pace che ha come base la giustizia e l’amore; la pace che non è “una cosa che costa poco’’; la pace che si conquista con la lotta per eliminare ogni forma di oppressione e sfruttamento, di ingiustizia e discriminazione. Sono stato intransigente nella difesa dell’amore e dell’amicizia, perché ho voluto una grande autenticità nelle relazioni umane».

«P er tutta la vita ho lottato per la verità, per la vita, per la libertà, per la giustizia, valori del Regno di Dio. Questa lotta è stata molte volte bruciante. Se in quelle occasioni, ho offeso qualcuno con le mie parole e dichiarazioni, gli chiedo sinceramente perdono e, a mia volta, perdono di tutto cuore chi mi ha offeso. Sono nato povero, senza amarezza ho provato il sapore della sofferenza e delle incertezze della povertà. Divenuto sacerdote e poi vescovo, ho scelto la povertà e i poveri. Ho amato i poveri, in modo particolare gli indigeni. Come prova che ho amato la povertà, consegno il fatto di non aver accumulato beni per mio uso personale».
(Dall’autobiografia: Creo en el hombre y en la comunidad)

Giuseppe Ramponi




Piccola luce, grande speranza

Pasqua a Rumuruti, tra le vittime delle tensioni etniche e politiche

Da villaggio di frontiera, Rumuruti è cresciuto a dismisura per l’immigrazione di molte etnie del Kenya; una scintilla ha fatto esplodere le tensioni tra le due opposte culture di pastori e agricoltori, provocando una reazione a catena di distruzione e morte. I missionari hanno accolto gli sfollati e provveduto all’emergenza; ora si stanno attivando per ricostruire soprattutto il tessuto sociale, più difficile
delle ricostruzioni materiali.

Q uest’anno, Pasqua del Signore 2008, ho cambiato: ho lasciato l’ambiente familiare del santuario della Consolata in Nairobi per la missione di Rumuruti. Sono solo 232 km di strada, tutto asfalto, ma è passare da un mondo all’altro, dall’altopiano alla bassa pianura, dalla città alla frontiera. E là dove l’asfalto finisce è Rumuruti.
Scendendo da Nyahururu, a 2.366 metri slm, dopo 35 km ci si affaccia sulla piana di Rumuruti (1.845 m. slm). Il luccichio delle lastre zincate rivela la presenza del grosso villaggio, che ha le sue radici nei tempi dei coloni inglesi, che ne avevano fatto un punto di riferimento per le loro grandi aziende.
FRONTIERA ESPLOSIVA
Fino al 1990 Rumuruti era una manciata di case allineate lungo la strada, con la prigione come attività produttiva principale, e qualche negozio al servizio dei contadini e pastori di quella vasta area semi-arida; oggi è un villaggio cresciuto a dismisura per la continua immigrazione di gente di tutte le etnie: kikuyu, attirati dalle vaste fattorie dei coloni, lottizzate e messe in vendita a prezzi accessibili; turkana scappati da Baragoi (nel distretto Samburu) a causa degli scontri con i samburu; kalenjin (tugen e altri) in cerca di nuovi pascoli dal Baringo; samburu in fuga dalla siccità e dagli scontri con pokot e turkana.
Questa immigrazione di migliaia di persone ha certamente rotto gli equilibri di un tempo, in una zona che era principalmente di passaggio e per gran parte aperta alla pastorizia stagionale. Rumuruti era un villaggio di frontiera, cuscinetto tra varie etnie, terreno aperto e/o ripulito da presenze stabili e prolungate, a causa dei tanti ranch di migliaia di ettari dei grossi proprietari dediti soprattutto all’allevamento.
Dopo l’indipendenza, i coloni, a maggioranza di origine sudafricana, pensarono bene di andarsene, perché il loro modo di trattare i lavoratori locali non li aveva resi amabili. Andandosene, vendettero le loro farms ai migliori acquirenti. Alcune andarono nelle mani di altri grossi proprietari neri e bianchi (come la farm della famosa italiana Kuki Gallmann, o la farm-eden del Colchecchio di un altro italiano), altre furono vendute a gente comune, suddivise in piccoli appezzamenti, non sufficienti a produrre abbastanza per sfamare la famiglia. Altre furono vendute da truffatori a ignari contadini, che si son ritrovati con titoli di proprietà falsi in mano.
Una situazione esplosiva, aggravata dal fatto che spesso due vicini provengono da due culture diverse: l’agricoltore e il pastore. L’agricoltore tiene le sue due vaccherelle di razza nella stalla e cerca di coltivare al massimo i suoi pochi ettari di terra. Il pastore se non ha almeno cento vacche, senza contare le capre, non si sente realizzato. Ma cento vacche non possono vivere in un terreno sufficiente per due. Allora le vacche del pastore trasbordano e invadono il campicello del vicino agricoltore, divorando fino alle radici mais, cavoli, patate e tutto quello che vi è piantato…
Poi ci sono i vicini impoveriti: non sono più pastori, perché hanno perso il bestiame quando son dovuti scappare dalle loro aree originarie; non sono ancora agricoltori, perché non hanno mai avuto la possibilità di imparare. Allora vivono di lavori precari, giornalieri. Ma quando è secco, e può essere secco per lunghi mesi ogni anno, lavoro non se ne trova. Ecco allora che la via più semplice per sopravvivere è quella di rubacchiare.
RIFUGIATI NELLA MISSIONE
Lo scorso marzo, il 6 per l’esattezza, uno di questi poveracci è stato pescato a rubare capre in un villaggio a poco più di 10 km da Rumuruti. La gente del villaggio, esasperata dai continui rubalizi, ha fatto quello che purtroppo succede molte volte in Kenya, quando essa si sente abbandonata dall’apparato di sicurezza dello stato: ha linciato il malcapitato a sassate. La reazione degli amici del morto non si è fatta attendere: aizzati (e finanziati) da un altro gruppo di pastori, con connessioni politiche più potenti, si son scagliati sul villaggio uccidendo e bruciando.
Questo ha innescato una reazione a catena senza precedenti in un’area pur avvezza a tensioni e scontri. Risultato: in pochi giorni più di 20 morti, tra cui donne e bambini, case bruciate, scuole chiuse, gente in fuga, soprattutto tra i contadini, negozi chiusi, mercato del bestiame rimandato a tempi migliori.
Rifugiata in un primo tempo nei posti di polizia o nelle scuole, la gente, soprattutto donne e bambini, ha optato per la sicurezza della missione cattolica di Rumuruti, mentre la maggioranza degli uomini ha trovato sistemazione precaria tra la gente della stessa tribù alla periferia del villaggio. La missione ha aperto le porte a quelli che sono eufemisticamente chiamati Inteally Displaced People (Idp), gente «spiazzata» all’interno della propria nazione: l’inglese è incredibile a inventare sigle per tutte le situazioni.
I rifugiati interni hanno «occupato» la missione: donne e bambini nel grande salone polivalente; vecchi e ragazzi nelle classi dell’asilo; cucina in un angolo del centro pastorale; magazzino del cibo in una classe delle elementari; bagni: tutti occupati e (in breve) straripanti; acqua, fino a bruciare la pompa del pozzo…
In questa situazione padre Mino Vaccari non ha perso la calma. Chiamati a raccolta il suo viceparroco, padre Juan Puentes, le suore Dimesse, Peter Wambugu, il catechista del centro, gli altri catechisti e la gente del consiglio pastorale, ha in breve messo la missione in condizione di poter accogliere tutti con dignità e senza panico, mantenendo anzi il ritmo delle attività ordinarie soprattutto a pasqua.
NOTTE DI Venerdì santo
In questa situazione sono arrivato bel bello la mattina del venerdì santo, a pochi minuti dalla conclusione della via crucis. Dopo i primi contatti con i padri Mino e Puentes, è subito ora di pranzo. Non me la sento di andare subito in giro e sparare foto alla pazza. Prima vorrei capire dove sono.
A me tocca presiedee la celebrazione della Passione, alle 4 del pomeriggio; loro vanno a celebrare in due delle tante cappelle della vastissima missione (circa 90×60 km). Dopo la celebrazione, con il passio cantato, è subito notte, come al solito qui, prima delle sette è già buio. Dopo la cena faccio un giro con padre Juan nelle zone dormitorio. Nel grande salone alcune donne sono indaffarate a stendere in terra i grandi teloni di politene offerti dalla Croce Rossa, altre tirano fuori coperte dai sacchi ammassati sulle scalinate, solitamente riservate agli spettatori, altre preparano i bambini per la notte…
Entriamo salutando, quasi in punta di piedi. Cerco di cogliere l’atmosfera, scattando un po’ di foto senza flash per non attirare l’attenzione dei bambini, ma la luce è così povera che i risultati sono penosi. Allora sparo un paio di flash e… i bambini tornano in vita: di colpo mi trovo davanti alla lente un sacco di mani ondeggianti, riesco a convincere i piccoli che voglio le loro facce non le loro mani, ma ormai non si può più fotografare sul serio. Metto via la macchiana fotografica, scambio un po’ di saluti, cerco di memorizzare ogni particolare dell’ambiente, e poi buona notte.
Ci muoviamo verso le aule dell’asilo, dove i ragazzi più grandi e gli anziani si stanno preparando per la notte. Qui c’è un sacco di luce. In una classe i ragazzi stanno stendendo i soliti teli di politene; in un’altra stanza, i vecchi hanno già arrangiato il tutto e qualcuno sta già per sdraiarsi. Sulla porta due vegliardi pensosi, appoggiati ai loro bastoni, tristezza sul volto, sguardo distante, forse pensando alla loro casetta perduta, alle vacche rubate, al calore del fuoco scoppiettante nella notte fredda, all’odore familiare del tè che borbotta sul fuoco. Ora, qui, solo la prospettiva di un’altra giornata di tedio, lontano da casa, una notte su un giaciglio duro e freddo, in compagnia di vicini e magari amici, ma non certo la famiglia.
Per i ragazzi nell’aula vicina è invece un altro affare, non consapevoli della tragedia vivono questo momento come un grande gioco. Chiacchieriamo un po’, frateizziamo, ma niente foto. Mi sembra di aggiungere violenza a violenza.
MATTINO DI SABATO SANTO
Sole rosso stamattina, promessa di pioggia. La vita in missione comincia presto. Entro nella chiesa ancora buia, cerco l’interruttore della luce, nell’angolo dietro la porta laterale. C’è qualcosa in quell’angolo, cerco di non calpestarlo. Accendo un neon per me. Tra un salmo e l’altro, mi scappa l’occhio. Il fagotto nell’angolo si muove, due gambe emergono dall’ombra, un bastone… si alza, esce… Allora mi ricordo del vecchio turkana cieco, che ogni mattina è il primo a entrare in chiesa e si rintana là, in quell’angolo, all’ombra del tabeacolo, in silenziosa preghiera.
A colazione ci vediamo con i due missionari. I piani del giorno son presto fatti. Pulizia, distribuzione del cibo, appuntamento settimanale con i ciechi e i poveri, controllo dell’acqua, manutenzione ai bagni che sono a rischio di travasare, preparazione della veglia pasquale, incontro con i 70 che riceveranno il battesimo durante la veglia, connessione del generatore alla chiesa nel caso (normale) che la luce manchi, e tante altre piccole cose ordinarie e straordinarie…
Armato di macchina fotografica comincio a osservare la vita che ricomincia negli spazi sicuri della missione. Mamme e bambini cominciano a emergere dal salone. I vecchi sono seduti su una scalinata per riscaldarsi al primo sole dopo una notte umida e fredda. E non è solo il freddo che li rende mesti, ma è l’incertezza del futuro.
Le mamme sono già indaffarate a lavare i panni e con i panni i loro bambini più piccoli, attente a usare l’acqua con parsimonia. Anche se animata dai colori dei panni che si stanno progressivamente impossessando di ogni siepe, rete e filo della missione, la scena dà tristezza, perché quello che normalmente è gestito in privato, ora è davanti agli occhi di tutti, non essendoci spazi privati per l’igiene personale, senza arrivare al lusso di una doccia.
Bimbi e bimbe più grandi sono sparsi qua e là nel campo da pallone e quello di pallavolo. Un gruppetto gioca in un angolo: una buchetta nella terra e una manciata di sassi, e il tempo passa in allegria. Alcuni maschietti ha messo le mani su un pezzo di fil di ferro. Tutti son concentrati sulle mani del più grandicello che piega e ripiega per dar forma a quelli che dovrebbero essere un paio di occhiali.
Più in là alcune bambine vanno su e giù negli scivoli dell’asilo, mentre altre si ammucchiano su un girello fatto girare a tutta forza. Una bimbetta dalla risata facile è tutta bagnata nel tentativo di aiutare la mamma a lavare i panni. Più in là, un capanello di bambine ha trovato un nuovo gioco: sono indaffarate a rifare le trecce alla loro mamma. In un angolo riparato dal vento, dietro il centro pastorale, è la «cucina» dei rifugiati. La luce radente del mattino esalta il fumo e plasma il vapore delle pentole fumanti, piene di uji (misto di latte e farina) per la colazione mattutina.
Una ragazza in età scolare mescola e rimescola la bollente mistura prima di versarla agli anziani che, lasciato il conforto del sole, attendono, non proprio pazienti, la loro razione. La colazione diventa momento di socializzazione, tanto più che durante il giorno c’è ben poco da fare.
L’uji bollente ridona un po’ di caldo, ma la tristezza rimane. Il pensiero va alle case bruciate o saccheggiate, ai bambini senza scuola e futuro incerto, all’insicurezza generale, al timore dei vicini di etnie diverse.
Come tornare a casa, ricostruire, se sono stati proprio i tuoi vicini a bruciarti la casa e rubarti tutto? I grandi, le autorità fan presto a dire «tornate a casa»; ma quale casa? E chi offrirà la sicurezza necessaria? La polizia? Sì, di giorno si fanno vedere, ma «gli altri» si muovono di notte.
Intanto la gente arriva alla spicciolata, per tutti c’è l’uji bollente, mentre un gruppo di donne e di ragazze (a tuo) stanno già lavorando per il pranzo. Oggi è githeri (mais a fagioli), più cavoli e zucche. Primo passo è la pulizia e selezione del granturco e dei fagioli. I larghi coperchi delle pentole diventano setacci, mani veloci, occhi svelti, concentrazione, tanti sorrisi e poche parole, la selezione va veloce. In poco tempo due grosse pentole borbottano sul fuoco per le tre-quattro ore necessarie alla cottura. La scena ha un suo fascino indicibile: il fumo, il sole, la pula, i colori dei vestiti… provo e riprovo a catturare l’atmosfera grazie alla flessibilità della macchina digitale.
I POVERI DI SEMPRE…
Il sole è ormai alto nel cielo; nella missione si vanno radunando due gruppi diversi, uno di fronte alla chiesa, l’altro nel campo di pallavolo. Davanti alla chiesa ci sono donne e vecchi, ciechi e no, quasi tutti turkana (ben riconoscibili dai loro oamenti), più alcuni samburu o di altri gruppi. L’aspetto tradisce l’estrema povertà. Sembra che in particolare gli immigrati turkana (immigrati perché Rumuruti non era certo la loro area tradizionale, come non lo era delle altre etnie) trascurino i loro vecchi e i loro bambini. Questo gruppo comunque costituisce i poveri di sempre… oggi in competizione con i rifugiati dei cui privilegi (razioni di cibo, distribuzione di coperte e vestiti) vorrebbero poter godere.
Nel campo di pallavolo un grosso gruppo, donne in particolare, si stanno radunando intorno al catechista Peter Wambugu, incaricato di cornordinare l’assistenza ai rifugiati in cooperazione con la Croce Rossa. Sono i rifugiati che hanno cercato protezione nella stazione di polizia o in case di amici e conoscenti a Rumuruti, quasi duemila persone. Oggi è il giorno della razione settimanale, distribuita in collaborazione tra governo e Croce Rossa. Tutti si allineano in ordine per il rituale della registrazione e del controllo dei nomi.
C’è nell’aria mestizia, timidezza e pudore. Gente abituata a essere in totale controllo della propria vita, famiglie relativamente benestanti e contadini che riuscivano comunque a produrre il loro cibo, si trovano ora a mendicare e dover dipendere completamente da altri. C’è uno stridente contrasto tra il catechista che deve urlare i nomi per farsi sentire e il timido sussurro di chi deve registrare la propria indigenza.
Chi è registrato si sposta verso l’aula-deposito, ammassandosi in ogni zona d’ombra, visto che il sole è ormai cocente. Finalmente, con la lentezza di un rito, i sacchi di mais vengono allineati e aperti sui grandi teli di politene. Su un altro telo trova spazio un mucchio di vestiti assortiti. I nomi vengono chiamati; sporte, secchi, sacchi si vanno riempiendo. Le donne che hanno ricevuto la razione per la famiglia preparano l’involto con cura, mentre attendono di accedere al mucchio dei vestiti… Quando non si ha più niente non si può essere schizzinosi.
Mezzogiorno è passato da un pezzo; mi chiamano per il pranzo. La distribuzione continua. A tavola cerco di sapere di più, di capire che ne sarà di questa gente. Padre Mino mi assicura che il nuovo commissario distrettuale è in gamba e ha preso sul serio la questione della sicurezza. È vero, le autorità vogliono che i bambini ritornino a scuola, che le scuole riaprano il martedì dopo pasqua e la gente torni a casa. Probabilmente le scuole che hanno anche il dormitorio per gli alunni potranno riaprire, anche perché in tutte ci sono distaccamenti di soldati e poliziotti.
Ma la gente è esitante a tornare a casa. A quale casa? Per ritornare hanno bisogno di due cose essenziali: sentirsi sicuri ed essere aiutati a ricominciare. In questo momento realizzare il secondo obiettivo sembra più facile che assicurare il primo. Infatti, mentre ci sono amici e organizzazioni che possono aiutare a ricostruire (di questo padre Vaccari non ha dubbio), non basta la presenza delle forze di sicurezza per far sentire la gente tranquilla e soprattutto per ricostruire rapporti umani profondamente lacerati. Per tutta la comunità sarà una grande sfida.
Rumuruti continua a restare terra di «missione» e non solo perché i cattolici sono una minoranza (circa il 10% della popolazione), non solo per la povertà estrema e la natura semi-arida della regione, ma anche perché le ferite causate da anni di violenza richiederanno un lunghissimo paziente servizio di annuncio, guarigione, trasformazione e riconciliazione.
LUCE DI SPERANZA
La sera arriva presto. Alle sette cominciamo la veglia pasquale. Un grande fuoco è acceso nel cortile, attorno moltissima gente. Alcuni dei rifugiati guardano incuriositi da lontano; la maggioranza di loro non è cattolica. I chierichetti mi aprono il passo a fatica. Cominciamo attorno a quel fuoco la celebrazione della vita che vince la morte, della luce che scaccia le tenebre, dell’amore che guarisce l’odio.
Entrando nella chiesa alzo il cero dalla luce tremolante e canto quelle parole grandissime: «Cristo è la luce del mondo!». Mi fa pensare quell’annuncio accompagnato da quel segno così debole. Nella notte buia punteggiata dalle stelle, che in questo angolo di mondo sfavillano ancora, perché l’inquinamento non è ancora arrivato e la luna non è ancora sorta, la fiammella di quel piccolo cero osa proclamare la più grande speranza. Che splendida pazzia! E in quel posto, tra quella gente così provata da povertà, divisione, violenza, ingiustizia, sradicamento.
E il miracolo della pasqua diventa vero ancora una volta anche a Rumuruti. Quella notte battezzo oltre 70 persone, uomini e donne, vecchi e bambini, kikuyu e turkana, samburu e kipsigis… L’acqua della vita che verso abbondante, l’olio che guarisce e consacra, lo Spirito che santifica. In quella piccola chiesa nella piana desolata di Rumuruti continuava a nascere un popolo nuovo capace di dire no al tribalismo, all’odio, all’indifferenza, all’ingiustizia. 

Di Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




CARI MISSIONARI

Ricordi
indimenticabili…

Carissimo Direttore,
sono tornato da poco dal mio secondo viaggio in Etiopia. Sono carico di ricordi indimenticabili, di volti espressivi che ho sempre davanti agli occhi e di sguardi limpidi che dicono tutto.
Ho visto la nuova scuola di Daka Bora (pietre argillose) con i nuovi banchi e fra poco arriverà l’acqua in quella terra arida. Questi progetti sono stati pensati dai nonni «vigili» di Borgo Valsugana, di cui fa parte anche il sottoscritto, e sono stati realizzati grazie ai contributi e al grande cuore di uomini, donne e associazioni varie di Borgo Valsugana.
Sono stato a Waragu e Minne, villaggi poverissimi, senza acqua, luce, mezzi di trasporto. Ho trascorso giorni indimenticabili e ho visto l’altra faccia del mondo. Sono stato uno di loro fra loro. Abitano in capanne poverissime, con 7-10 bambini; vivono di pastorizia e agricoltura. Hanno una grande dignità e non si lamentano mai. Tutto viene trasportato a d’orso d’asino o sulle spalle delle donne, uomini e bambini. Salutavo tutti ed ero contraccambiato. Sono stato ospite nelle loro capanne e mi hanno offerto del pane e un bicchiere d’acqua in segno di amicizia.
Erano felici quando ho donato un paio di pantaloni all’anziano, una saponetta alla maestra, un pullover al sacerdote locale e un paio di scarpe ad un ragazzo. Le donne mi hanno sorriso quando ho portato presso le loro capanne, le taniche d’acqua o la grossa fascina di legna al posto dei loro figli.
Padre Paolo Angheben, uomo di Dio e luce per tutti gli indigeni, dirige in queste località due scuole elementari, frequentate da 2.200 bambini e con 40 maestri che vengono stipendiati con gli aiuti che arrivano dall’Italia. Con 10 euro all’anno si può adottare un bambino a distanza e aiutarlo a frequentare le scuole.
Ho conosciuto la donna etiope, che soffre, piange, ride, consola, sopporta. Donna che ama e vuole essere amata. Donna umile, tenace, che cammina per ore portando i bambini o altri pesi sulle spalle. Donna infelice, perché a volte è umiliata e violentata. Donna che spera in un futuro migliore. Ragazze che studiano duramente per cambiare il volto del loro paese. Donna di fede, che prega e bacia il pavimento della chiesa. Donne con in braccio i figli ammalati, che aspettano per ore in silenzio il loro tuo per essere visitati, curati o vaccinati presso la clinica della missione, gestita da due suore e infermiere polacche.
Sono stato nella cittadella di Asella, a 2.600 metri di altezza e 60 mila abitanti, dove ho conosciuto padre Silvio Sordella, missionario instancabile e di fede incrollabile. Ho visitato l’orfanotrofio da lui fondato e diretto per tanti anni, con i vari laboratori: luogo di salvezza, speranza e di futuro per centinaia di bambini. Alcuni di essi mi hanno preso per mano e mi hanno mostrato le loro camerette e vari locali. Erano felici di stare con me (anche per le caramelle).
Per il 2009 il mio sogno (o utopia?)  è la costruzione di un ponte sul fiume Minne (ponte della stella, della speranza, della vita?) del costo di 8 mila euro circa. Durante la stagione delle piogge (la nostra estate) per le forti correnti né uomini, né animali, né mezzi di trasporto lo possono attraversare.
Un pensiero costante durante il mio viaggio è stato quello del mio cugino missionario, padre Giovanni De Marchi, vissuto e morto da santo, come lo ricordano tutti quelli che lo hanno conosciuto in vita in questo paese. Le suore della Consolata in Addis Abeba mi hanno raccontato qualche piccolo aneddoto della sua vita, soprattutto hanno rievocato l’incontro, in quello stesso luogo una ventina di anni fa, di due figure carismatiche e spirituali, umane e cristiane: Madre Teresa di Calcutta e padre Giovanni d’Etiopia.
Iddio e la Consolata proteggano e benedicano sempre tutti i missionari e le suore. Un grazie sincero per la loro ospitalità ai padri Paolo a Waragu, Jorge Pratolongo a Modjo e il superiore Antonio Vismara ad Addis Abeba che mi hanno permesso di vivere questa esperienza indimenticabile.
Auguri di ogni bene anche a voi e complimenti per gli articoli pubblicati sulla rivista: fanno pensare e riflettere.
Giovanni De Marchi
Borgo Valsugana (TN)

Lunga vita anche a lei, signor Giovanni, perché possa continuare a sognare e vivere con lo stesso entusiasmo del suo omonimo cugino, per il bene di quelle popolazioni per le quali il grande missionario ha speso tutta la sua vita.

Scherzi della memoria

Spett. Redazione,
in relazione alla mia lettera da voi pubblicata su Missioni Consolata, maggio 2008, apprezzo la risposta del dott. Azzalin. Lungi dal voler prolungare inutilmente una polemica, che del resto mi interessa poco, vorrei solo sottolineare l’impossibilità di capire che le osservazioni esteate dal dott. Azzalin fossero rivolte solo ed esclusivamente al gruppo di cui fa parte (invito chiunque a rileggere l’articolo). Accetto senz’altro questo punto di vista pur continuando a non condividee la sostanza.
Negli anni 2001-2003 ho lavorato per l’Apa a Kahawa, presso il dispensario della missione. Il dottor Azzalin ed io dunque ci conosciamo personalmente e i nostri contatti non sono certo stati saltuari, almeno fino a quando le nostre strade si divisero. Del resto mi rendo conto che entrambi abbiamo oltrepassato la cosiddetta mezza età ed è possibile che la memoria cominci a giocare qualche scherzo. Consiglio al collega, che saluto commosso, buoni libri ed esercizio fisico. A futura memoria.  
Cordialmente
dr. Massimo Fugazza
via e-mail

PREGHIERA ALLA MADRE DI DIO CON TRE MANI

C ari amici, vi mando questa mia preghiera per condividere con voi i miei sentimenti, dopo il riconoscimento del Kosovo come uno stato indipendente. Nessuno voglio offendere; vorrei solo informarvi che sono stati calpestati i diritti di un popolo intero: il mio.
Purtroppo, non è l’unico a chiedere giustizia. Ma io, ammirando tutti quelli che combattono contro ogni forma d’ingiustizia e discriminazione in questo mondo, chiedo un po’ di attenzione per questo colpo mortale che ha subito il mio popolo. Non sono solo io; sono più di dieci milioni di persone in lutto per lo strappo di Kosovo.
Vi mando la mia preghiera e vi chiedo di pregare insieme a me, perché il Kosovo torni parte della mia Serbia, con tutto l’amore e rispetto agli Albanesi e agli altri popoli che vivono nel mio paese, che hanno diritto alla loro lingua, alla loro cultura, alla loro religione, che hanno diritto all’autonomia, ma non hanno diritto di strappare la parte più preziosa della mia terra.

Prega per noi, Madre di Dio con Tre Mani.
Prega per noi serbi cristiani.
Hanno strappato Kosovo e Metohija
il cuore della mia Serbia.

Hanno rubato il mio passato.
Memoria storica e mille monasteri:
Gracanica, Decani, Pec patriarcato
dove si pregava in serbo da secoli.

Madre di Dio con Tre Mani,
vorrei pregare per la pace;
ma l’ho persa dal mio cuore,
contratto dall’immenso dolore.

E l’unico pensiero nella mente mia,
Kosovo e Metohija sono la Serbia;
pensiero doloroso e perenne,
Kosovo e Metohija, la serba Gerusalemme.

Ringrazio Te e i nostri santi Padri
per la forza che avevano le nostre madri,
che persero figli, mariti e fratelli
nel campo dei Merli.

Con il Tuo sostegno e la Tua protezione,
loro crebbero la nuova generazione,
insegnandole l’amore, il perdono e il coraggio
e ad opporsi al peccato e al malvagio;

e trasmettevano nei secoli della storia
la fede, la lingua, il cirillico:
le tre perle della nostra nazione
per non perderci nella globalizzazione.

Aiuta anche noi, Madre di Dio con Tre Mani,
a crescere figli nel timore di Dio, e cristiani
e che non dimentichino, Santa Maria,
Kosovo e Metohija sono la Serbia.

Snežana Petrovic,
Rovereto (Trento)




Paolo di Tarso: bimillenario della nascita

I l 28 giugno scorso, nella basilica di San Paolo fuori le mura, Benedetto xvi ha ufficialmente inaugurato l’«Anno Paolino», per commemorare il secondo millennio della nascita di san Paolo. Lo «speciale anno giubilare», che si chiuderà il 29 giugno del 2009, sarà caratterizzato da numerose iniziative pastorali, religiose e artistiche, con lo scopo di conoscere e far conoscere meglio la figura del più grande missionario di tutti i tempi e la ricchezza gigantesca del suo insegnamento. In secondo luogo, la celebrazione avrà una «dimensione ecumenica», secondo le parole stesse del papa: «L’apostolo delle genti particolarmente impegnato a portare la Buona Notizia a tutti i popoli, si è totalmente prodigato per l’unità e la concordia di tutti i cristiani».
L’annuncio di tale evento era già stato dato l’anno scorso, il 28 giugno 2007, nella stessa basilica paolina. Accogliendo con gioia tale annuncio, abbiamo voluto in qualche modo anticipare le celebrazioni, dedicando alla figura del grande missionario il calendario 2008 e invitando i nostri lettori a camminare per tutto l’anno in corso «sulle orme di Paolo, apostolo delle genti». E continueremo nei prossimi numeri di Missioni Consolata a presentare alcuni aspetti della personalità e dell’insegnamento del grande evangelizzatore.

P er la sua importanza nella storia delle origini del cristianesimo Paolo è stato definito «il primo dopo l’Unico», cioè secondo solo a Gesù Cristo. È chiamato pure «tredicesimo apostolo», un titolo che egli rivendica nelle sue lettere ogni qual volta i suoi avversari cercano di screditare la sua missione: più volte si definisce «apostolo per vocazione», cioè chiamato direttamente da Cristo. Al tempo stesso, con i più intimi non esita a dichiararsi servo: «Servo di Cristo», dal quale si sente «afferrato», e «servo di tutti» per amore di Cristo (1Cor 9,19-23). Senza l’infaticabile e coraggiosa impresa missionaria di Paolo, il cristianesimo avrebbe rischiato di rimanere a lungo una fra le tante sette giudaiche. Egli ha aperto le porte della chiesa, ha spalancato gli orizzonti dei discepoli e delle discepole di Gesù e ha portato la Buona Notizia al mondo intero.
Ci sembra superfluo dire che, a duemila anni dalla sua nascita, san Paolo è ancora attuale: lo è sempre stato e lo sarà per tutti i secoli a venire. Tuttavia, è utile evidenziare uno dei suoi tratti fondamentali, capaci di ispirare e rinnovare il nostro essere discepoli di Cristo nel mondo in cui viviamo oggi: un mondo globalizzato, multiculturale, di incontri e scontri di civiltà… Un mondo con molti tratti simili a quelli in cui è vissuto il grande apostolo.
«Paolo è nato bifronte» ha scritto un esegeta, nel senso che appartiene a due civiltà che non si amavano affatto: quella giudaica e quella greca. Per di più, nei suoi viaggi missionari è entrato in contatto con molti popoli, diversi per stirpe, etnia, lingua e cultura; ha incontrato uomini e donne di differenti situazioni economiche e sociali: di tutti ha riconosciuto la dignità della persona e la chiamata a fare parte dell’unica famiglia di Dio, nella quale «non c’è più né pagano né ebreo, né greco né barbaro, né schiavo né libero, né uomo né donna» (Gal 3,28). Non è stato facile per Paolo giungere a tale convinzione, se si tiene presente che, almeno fino all’età di 28-30 anni, nelle preghiere del mattino aveva recitato, come ogni pio israelita, una tripla benedizione: «Io ti benedico, o Dio, per non avermi creato pagano, ma ebreo, per avermi creato libero e non schiavo, uomo e non donna».
Uomo senza frontiere, Paolo aveva compreso che una cosa è il vangelo e un’altra la cultura dei popoli. Con la sua vita e i suoi scritti ha lavorato con passione per costruire un’umanità unificata nell’abbraccio misericordioso di Dio: umanità egregiamente espressa con l’immagine delle molte membra che formano un solo corpo. Egli continua a insegnare che la chiesa, nella sfida di inculturare concretamente il messaggio di Cristo, può avere forme molto diverse e che nessun popolo può legittimamente imporre agli altri stili di essere, di sentire, di pensare, di agire e di celebrare.

di Bnedetto Bellesi

Benedetto Bellesi