«ADIRATEVI, MA NON PECCATE;  NON TRAMONTI IL SOLE  SOPRA LA VOSTRA IRA» 

la parabola del «figliol prodigo» (21)

«Disse il Signore a Caino: Perché sei acceso d’ira» (Gen 4,6)
«28 Allora si adirò e non voleva entrare. Suo padre perciò, dopo essere uscito, lo chiamava/invitava».

Abbiamo concluso la puntata precedente anticipando la reazione del figlio «anziano», cioè del fratello maggiore «si accese d’ira e non voleva entrare» (v. 28), svelando così la sua natura fratricida e la sua indole irrecuperabile: se è vero che il minore è scappato di casa, è altrettanto vero che il maggiore non vuole entrare. Il figlio minore è tornato da «un paese lontano» (v. 13) e ora sta dentro; il figlio maggiore, invece, che non si è mai allontanato fisicamente, resta fuori perché non è mai entrato.
Ancora una volta tocca al padre uscire e andargli incontro, nel tentativo di recuperare anche questo figlio che avrebbe dovuto essere un modello di esempio per la sua «anzianità». È evidente che nella reazione del fratello maggiore esplode un conflitto di frateità che non è solo un conflitto affettivo, ma ora, leggendo i vv. 28-29, scopriamo qualcosa di abissale e di tragico: il conflitto è fondato sugli interessi, sulla proprietà.

L’esodo e l’immobilità

Quando il maggiore chiede informazione a uno dei servi (v. 26) coglie lo stupore che colpì tutti i membri della famiglia: «Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello, quello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo» (v. 27). La straordinarietà dell’evento non è il ritorno del figlio, che in un certo senso può anche rientrare in una certa logica, ma nel fatto che il padre ammazza il vitello grasso, quello delle grandi occasioni.
In questo modo il padre ha dato al ritorno del figlio perduto un valore di grande significato: non un rientro qualsiasi, quasi fosse scontato, ma il passaggio dalla perdizione alla salvezza. Il padre celebra un vero «esodo» del figlio minore, che dalla schiavitù ritorna alla figliolanza, dall’Egitto dell’idolatria alla Terra Promessa dell’unica Pateità, dal deserto della disperazione al giardino della sua casa.
Di fronte a questo evento «universale di salvezza», il figlio anziano, invece di coinvolgersi e tuffarsi nell’ordito salvifico che lo interessa, perché chi ritorna è pur sempre suo fratello, reagisce in modo inatteso e sproporzionato: «Allora si adirò e non voleva entrare» (v. 28).
L’evangelista con tre sole parole riesce a esporre un mondo di contraddizioni: «Allora si adirò». In greco la parola «ira» si dice «orghê» e traduce l’ebraico «‛af», che letteralmente indica la narice del naso, che per i semiti è la sede dell’ira e della rabbia, perché la persona irata o arrabbiata gonfia le narici. L’ira gonfia di sé e non lascia spazio per gli altri. Poiché l’alito è caldo, è logico dire «si accende d’ira» oppure «bolle di rabbia».

Il giorno dell’ira

Anche di Dio si dice che «dalle sue narici saliva fumo, dalla sua bocca un fuoco divorante, da lui sprizzavano carboni ardenti» (Sal 18/17,9; cf anche Sal 2,5; 6,2; 7,7; ecc.).
In tutta la tradizione biblica, il tema dell’«ira di Dio» è una costante che manifesta la vera natura del Dio d’Israele prima e di Gesù Cristo dopo. L’ira in Dio esprime un atteggiamento radicale di opposizione assoluta al mondo del peccato e del rifiuto consapevole dell’amore di Dio e dell’agnello.
San Paolo parla di «giorno dell’ira della giustificazione e della giustizia giudicatrice di Dio» (Rm 2,5) e l’Apocalisse dell’«ira dell’agnello» e del «grande giorno dell’ira» a cui nessuno potrà resistere (Ap 6,16-17).
Dio si «adira» di fronte all’ingiustizia che soffoca la verità (Rm 1,18); il fratello «anziano», invece, «si adira» contro il padre che ammazza il vitello grasso per il ritorno del fratello. Egli è l’anti-dio, pur essendo esteriormente un uomo devoto, religioso e pio e purtroppo, non è un caso isolato, ma è il frutto di una lunga storia di usurpazione e di prevaricazione che in nome di una supposta e scontata religiosità, riduce Dio e il suo comandamento a un puro meccanismo di potere. Peggio: di possesso.
Il «figlio anziano» è un modello, anzi, la sintesi finale di un lungo processo che comincia fin dalle prime pagine della scrittura. Adam nel giardino di Eden «vuole essere come Dio» per disporre della salvezza del mondo «conoscendo il bene e il male» (cf Gen 3,5). Dio è un antagonista e concorrente che bisogna sconfiggere sul suo stesso piano, perché Adam si sente defraudato in un suo diritto: se Dio è Dio, perché io non posso essere «come lui»?
Il progenitore ha fatto scuola e, infatti, il figlio Caino mette subito in pratica la lezione, non accettando l’agire di Dio: «Caino si adirò in sé… Perché sei adirato in te?» (Gen 4,56). Il testo ebraico parla di «ira in se stesso», cioè, un’ira covata e alimentata contro il fratello Abele, i cui sacrifici erano più graditi a Dio. Caino crede di subire una ingiustizia e teme di essere esautorato dal secondogenito e quindi di perdere il suo diritto alla primogenitura (ne abbiamo parlato a lungo nella puntata n. 6, sviluppando lo schema «maggiore/minore» – cf Mc 1 (2007) 24-26).
L’ira di Caino è contro di Dio che giudica «ingiusto», ma la sua ira si compie nel sangue, perché uccide il fratello minore, Abele. L’ira del figlio «anziano» in Luca è contro il padre, perché si oppone radicalmente alla generatività del padre che «fu commosso nelle viscere» di fronte al figlio minore mezzo morto ai suoi piedi (v. 20).
Il figlio/fratello maggiore è «irritato», diventa duro come pietra e non sente ragione: di mezzo c’è la sua «roba» che è più importante del resto, compresa la vita del fratello. All’amore generante del padre corrisponde la durezza assassina del figlio/fratello.

Giona vuole insegnare a Dio il mestiere di Dio

Nell’AT c’è una figura che somiglia molto al fratello maggiore: è il profeta Giona che «arde d’ira» contro Dio (Gn 4,1) perché «s’impietosì riguardo al male che aveva minacciato di fare loro (ai niniviti) e non lo fece» (Gn 3,10). Giona non capisce il comportamento misericordioso e temporeggiatore di Dio, che fa di tutto per salvare la città di Ninive e i suoi abitanti, mentre egli vorrebbe lasciarla al suo destino di morte e distruzione. A questo scopo non esita a mettersi contro Dio, anzi ad andarsene «lontano dal Signore» (Gn 1,3 – 2volte), quasi per non essere complice nell’esercizio della giustizia di Dio che è la misericordia.
Anche il figlio maggiore, si dissocia dalla misericordia di suo padre, e se ne sta lontano perché «non voleva entrare»: egli non ha nulla da spartire con l’immondo figlio del padre (non dice mai «mio fratello»!), così come Giona non vuole condividere nulla con quei peccatori dei niniviti. L’uno si «disgusta di Dio», l’altro «si adira»; l’uno accusa Dio di essere troppo buono; l’altro rifiuta la frateità, perché non ammette che la pateità possa capire e accogliere e rigenerare. Giona preferisce la morte piuttosto che spartire qualcosa con un Dio pietoso; il figlio maggiore si gonfia d’ira perché il fratello non è morto lontano da casa.

Il padre consolatore e l’ekklesìa

Il padre invece non si smentisce mai, è sempre se stesso, coerente alla sua pateità/mateità con ciascuno dei due figli e con tutti e due insieme, anche se l’evangelista non dice che sia riuscito a farli incontrare e accettare. Era andato incontro al figlio minore tornato dissanguato e ora va anche incontro al figlio maggiore, che non vuole entrare per tentare di riportarlo alla ragione dei sentimenti e della verità. Il figlio minore era «lontano», il figlio maggiore è «fuori». Né l’uno né l’altro sono «con il padre», che deve fare la spola dall’uno all’altro.
Nonostante il figlio maggiore non voglia entrare, nonostante lo accuserà (v. 29) di essere tirchio, il padre gli va incontro: «Suo padre perciò, dopo essere uscito, lo chiamava/invitava» (v. 28). È sempre il padre che fa il primo passo e va incontro ai figli, perché è compito dei padri generare per primi. Quest’uomo rappresenta il Dio di Giona e il Dio di Gesù Cristo, che non guardano il proprio interesse, ma unicamente la salvezza degli altri.
Il testo greco dice però qualcosa di più e di più profondo, perché il padre «dopo essere uscito» non si limita a chiamarlo/pregarlo, ma «para-kàlei autòn». Il verbo è composto dalla preposizione «parà-», che indica prossimità o vicinanza, e il verbo «kalèō» che significa «chiamare». Chiamare in prossimità o accanto (a sé) significa dunque non solo «chiamare», ma anche «consolare/confortare». Nel NT lo stesso verbo si usa per indicare lo Spirito Santo, il «Paràcleto/Paraclito» appunto, che giustamente viene tradotto con «Consolatore» e per estensione «Avvocato» (colui che sta accanto all’accusato per consolarlo con la sua parola di difesa).
Anche il termine «chiesa» deriva dallo stesso verbo: «ek-klesìa» (ek- preposizione d’origine o provenienza). La Chiesa è «chiamata da… (Dio)» perché sia segno visibile del Paràcleto/Consolatore attraverso la testimonianza della misericordia e tenerezza di Dio, che ama tutti gli uomini con simpatia.
È questo il contesto semantico entro il quale dobbiamo vedere l’azione del padre che esce di casa per «chiamare/pregare» il figlio. Non è una semplice supplica, ma una vera vocazione. Con il suo gesto di andargli incontro, il padre pone di fronte al figlio maggiore la possibilità di rientrare nell’«ecclesialità», cioè nel circuito profondo della consolazione e della condivisione con chi è più nel bisogno. In altre parole il padre ancora una volta svela la vocazione del figlio maggiore, che è quella di andare incontro al fratello minore, perché solo così egli può ritrovare la sua dimensione di persona e di figlio di Dio, perché Dio lo chiama a essere strumento di consolazione, cioè figlio dello Spirito Santo che convoca tutti i fratelli e le sorelle alla sorgente della frateità/sororità che è la pateità di Dio.

La faccia perbenista della religione atea

Non accettare la pateità di Dio come fondamento della propria vita (Adam/Eva), significa non riconoscere la frateità con i propri consanguinei (Caino/Abele), diventare gelosi dei doni altrui (Giuseppe/fratelli: Gen 37,11) e impedisce la convivenza nella stessa «casa», come gli invitati alle nozze del figlio del re che «non vollero venire» (Mt 22,2-3).
In questa «volontà» negativa del figlio, c’è qualcosa di diabolico, perché la volontà designa una scelta consapevole e determinata: «non voleva entrare» è più grave e più terribile del semplice «non entrò», perché esprime l’opposizione radicale al fratello e al padre. L’ira del figlio maggiore è indirizzata verso il padre più che verso il fratello, perché ciò che lo scandalizza è il comportamento del padre che è esattamente l’opposto del suo. Egli non si riconosce nel padre e pertanto lo rifiuta e lo rinnega: non ha il coraggio o, se si vuole, l’incoscienza del fratello minore, perché non sarà mai capace di andare via di casa a motivo della «facciata di perbenismo» che deve conservare; ma restando, si isola in un individualismo tragico, narcisista e possessivo, che lo uccidono prima ancora che cominci a respirare. Quest’uomo è pieno di sé, anzi è pieno di desiderio di possesso da non essere più in grado di ritrovare se stesso.

L’ekklesìa, luogo di condivisione nella gioia

Nella quinta puntata del presente commento (cf MC 12 -2006, 61-63), abbiamo paragonato il figlio «anziano» al fariseo nel tempio, che, stando davanti a Dio «in piedi», disprezza il pubblicano che se ne sta in fondo, invocando solo pietà e misericordia (cf Lc 18,9-14). Ora ne abbiamo la definitiva conferma: egli è «geloso» della salvezza altrui, come i vignaioli nei confronti di chi riceve un salario generoso da parte del padrone della vigna (Mt 20,15).
La religione autentica si avvera quando qualcuno si salva e il credente ne giornisce, condividendone la felicità e vivendola come se fosse una gioia personale: «Vi sarà più gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione» (v. 7).
Questa è la chiesa: la condivisione della gioia con tutti coloro che incontrano Dio e la sua misericordia. Al contrario, il figlio «anziano», come la maggior parte dei cristiani da registro, vogliono un Dio che sanzioni e castighi secondo un metro di giustizia che corrisponda al loro vedere e sentire. Costoro non hanno mai incontrato il Dio di Gesù Cristo, ma solo la proiezione di un loro bisogno, solo la caricatura di un Dio come loro lo immaginano.
Non basta essere battezzati, o «andare» a messa la domenica, o fare pratiche di pietà o sopportare la «religione del dovere» per essere credenti nel Dio rivelato da Gesù Cristo, «perché l’ira dell’uomo non produce ciò che è giusto davanti a Dio» (Gc 1,20). È il destino delle persone religiose che credono di programmare Dio come un orologio ad alta precisione, purché Dio esegua alla lettera la loro visione di vita, sposi le loro idee e attui i loro desideri. Per loro quello che si è sempre fatto è la regola d’oro e la barra di navigazione; tutto ciò che si discosta dal proprio ordine, proviene dal diavolo. Essi passano (o perdono?) la vita a precisare, a distinguere, a valutare: non vivono, soffrono sempre e vogliono che anche gli altri debbano essere come loro.

Quando Dio è pazzo e si vuole rinchiudere

Bisogna vivere in uno stato di discernimento permanente, se non si vuole correre il rischio di «credersi dentro», mentre in realtà «si è solo fuori», come accadde alla stessa famiglia di Gesù: «Giunsero sua madre e i suoi fratelli e, stando fuori, mandarono a chiamarlo» (Mc 3,31); ma Gesù, «girando lo sguardo su quelli che erano seduti attorno a lui (in casa, cf v. 20), disse: … Chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre» (Mc 3,34-25). Da una parte il fariseo che disprezza il pubblicano, dall’altra la famiglia che reputa Gesù «fuori di sé», cioè pazzo (Mc 3,21).
Il religioso, il fariseo, l’uomo dell’istituzione mantiene sempre le distanze da ciò che accade e senza nemmeno accorgersene si ritrova immerso in un isolamento popolato da regole, doveri, tradizioni che uccidono la Parola di Dio (Mt 15,6) e rifiutano gli altri che non si possono gestire come si vorrebbe secondo la propria volontà.
Il figlio maggiore somiglia molto a coloro che si appellano all’immutabilità della teologia e della liturgia, perché nei tempi modei non vedono che dissoluzione e nefandezze. Essi sono «fuori tempo», perché vivono solo di se stessi e per se stessi e pur restando in mezzo agli altri sono soli, terribilmente soli e si consolano foicando con le tradizioni che essi stessi si danno, ma che riescono a contrabbandare come Parola di Dio (Mc 7,13).
Essi non «vogliono sapere» che la storia è il luogo dove lo Spirito Santo parla e agisce oggi non meno di ieri, perché «lo Spirito soffia dove vuole» (Gv 3,8).

Il figlio maggiore che è dentro di noi

Il «figlio anziano» è il prototipo, oggi, di quei tradizionalisti, inevitabilmente fondamentalisti, che vogliono bloccare l’azione dello Spirito a un particolare tempo storico che, di norma, coincide con il tempo delle loro convinzioni e rimpiangono il passato come il paradiso perduto e non si accorgono di essere «fuori», mentre s’illudono di essere «dentro». Essi, infatti, rifiutano un Dio non «adeguato» alla loro mentalità, rinnegano la fede dell’incarnazione e vogliono bloccare ogni processo di trasformazione che non sia «conversione alle loro idee» e alla loro religione, che non è fede nello Spirito Santo, ma religiosità superficiale ed evanescente, che si nutre di riti e non di vita, di rubriche e non di amore.
Il figlio maggiore è un caposcuola che ha seminato discepoli in ogni epoca: egli è dentro ciascuno di noi che cova l’ira e ci gonfia di gelosia, quando vogliamo un Dio «a nostra immagine e somiglianza», capovolgendo così la Parola di Dio che ci parla di un Dio «annientato» per amore e per giustizia: «Gesù Cristo… non considerò un bene esclusivo l’essere uguale a Dio, ma annientò se stesso prendendo la condizione di schiavo, diventando simile agli uomini» (Fil 2,6-7).
Gesù infatti è il Figlio primogenito che è venuto a cercare i fratelli minori per insegnare loro ad essere una sola famiglia, che possa pregare con una sola voce e una sola frateità: «Padre nostro, che sei nei cieli» (Mt 6,9), dove in quell’aggettivo «nostro» c’è la nostra vita o la nostra condanna.                                                         (continua – 21)

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella




SEPOLCRI IMBIANCATI (e lacrime di coccodrillo)

Le morti sul lavoro in Italia: numeri da guerra civile

Le chiamano «morti bianche», ma di quel colore hanno poco o nulla.  È una vera e propria strage
(1.300 morti all’anno, 900.000 infortunati), che avviene quotidianamente nell’indifferenza dei più.  E poi, sempre correlate agli ambienti di lavoro, ci sono  le morti silenziose, quelle che non finiscono sui media. Ma che uccidono altrettanto o di più.

Sembra un bollettino di guerra: tutti i giorni qualcuno muore sul lavoro. I giornali parlano soprattutto dei decessi dovuti ad eventi traumatici. Scoppi, incendi, frane, allagamenti, crolli, scontri, investimenti e, in genere, tutti gli eventi che causano decessi improvvisi, fanno notizia e vengono riportati dai grandi mezzi di informazione.
Purtroppo le morti bianche, che finiscono sulle prime pagine dei giornali, sono soltanto la parte più conosciuta degli eventi luttuosi correlati con gli ambienti di lavoro, ma c’è una parte, meno conosciuta e anche meno considerata, che viene spesso definita la strage silenziosa.
Negli ambienti di lavoro vengono utilizzate molte sostanze che sono dei veri e propri veleni. Gli acidi, ad esempio, sono irritanti e causano effetti immediati sulla cute e sulle mucose; il lavoratore sente subito l’effetto di queste sostanze e cerca di evitare il contatto con esse, limitando in parte i loro effetti nocivi. Altre sostanze, come l’amianto e il piombo, hanno un’apparenza che non fa sospettare un pericolo, ma possono avvelenare ed uccidere a distanza di tempo. Un cenno a parte lo meritano le radiazioni ionizzanti: non si vedono, non si sentono, ma possono causare, a seconda dei tempi e delle dosi, ustioni gravissime e tumori.
I lavoratori, quasi sempre, non vengono informati dei rischi che corrono, anzi spesso vengono indotti a credere che non ci siano rischi. Pertanto, possono cercare di difendersi soltanto dalle sostanze irritanti, ma non da quelle i cui rischi vengono taciuti e nascosti.

La sicurezza costa, ma con la globalizzazione…

Col passare del tempo, con la diffusione delle informazioni e con l’applicazione delle leggi di tutela dei lavoratori, gli ambienti di lavoro sono migliorati e la possibilità di ammalarsi a causa delle sostanze utilizzate è progressivamente diminuita.
Purtroppo, di pari passo, a causa degli investimenti per la sicurezza e le spese per i risarcimenti per i malati professionali, il costo del lavoro è aumentato con la conseguenza che gli industriali hanno cominciato a chiudere gli stabilimenti nelle aree progredite per aprirli nei paesi del cosiddetto terzo mondo, dove si lavora per una miseria e non c’è nessuna tutela dei lavoratori né dell’ambiente.
Si chiama globalizzazione, dà un risparmio immediato nella produzione, ma aumenta la disoccupazione nei paesi industrializzati.
La disoccupazione, in questi paesi, è causa di una grave crisi economica e sociale, che porta alla difficoltà per molte persone di realizzare i propri progetti familiari, di avere dei figli oppure di dare loro un’istruzione adeguata.
Si assiste quindi ad un progressivo impoverimento culturale e generale della nazione e spesso ad un aumento della criminalità, nonché alla diffusione delle tossicodipendenze, che per molti rappresenta la fuga da una realtà difficile da accettare. L’impoverimento culturale rende inoltre la nazione meno competitiva rispetto ad altri paesi e quindi progressivamente più soggetta alla necessità di importare prodotti esteri.
È evidente e comprensibile che il lavoratore occupato, che guadagna bene, produce e compra, determinando un miglioramento dell’economia generale della sua nazione.

Le fonderie,  prodotti e scorie tossiche

Il discorso delle malattie professionali è molto vasto, richiederebbe un trattato e non si può riassumere in queste poche pagine, pertanto in questo numero parleremo soltanto dell’industria siderurgica della produzione dell’acciaio rinviando ad altri numeri futuri le altre lavorazioni.
Le fonderie si dividono in due grandi gruppi: quelle di prima fusione e quelle di seconda fusione.
La prima fusione è quella degli altifoi dove si fanno reagire il carbone e il minerale ferroso, ricavando il ferro, che viene, per l’appunto, fuso per la prima volta.
Le fonderie di seconda fusione partono dai rottami ferrosi e sono le più diffuse.
A causa del grande calore necessario per la fusione, tutte le attrezzature che vengono utilizzate contengono materiali refrattari e resistenti al calore, che sono la silice libera (che causa le silicosi) e l’amianto o asbesto (che causa l’asbestosi).
La silicosi e l’asbestosi sono due malattie simili, provocate rispettivamente dall’accumulo di silice o di amianto nei polmoni, con la conseguente progressiva riduzione della capacità respiratoria.
La silicosi e l’asbestosi sono le malattie professionali che si riscontrano più frequentemente tra gli operai, che hanno lavorato nelle fonderie.
La fusione dell’acciaio richiede anche l’utilizzo di altri metalli (cromo e nichel soprattutto), che servono per ottenere materiali di qualità superiore (acciai inossidabili).
L’acciaio, dopo essere stato ridotto in fogli sottili, definiti lamiere, subisce ancora trattamenti chimici di superficie per aumentare la sua resistenza alla corrosione.
Le lamiere, infine vengono arrotolate e spedite in altre fabbriche dove verranno tagliate, stampate e veiciate per fare manufatti di tutti i tipi, dalle automobili, agli elettrodomestici.
Queste lavorazioni determinano un grande inquinamento sia degli ambienti di lavoro, che di quelli estei.
Evidente è la formazione di polveri di silice e di amianto, ma non bisogna trascurare la produzione di diossine, di policlorobifenili, di polveri sottili e di metalli pesanti che vengono dispersi sia nell’aria, che nelle acque di scolo.
Per quanto riguarda la produzione di diossine, va detto che le acciaierie sono le più grandi produttrici di queste pericolosissime sostanze, che, purtroppo, tendono ad accumularsi nel terreno e nei tessuti delle persone che vivono nei paraggi o che si nutrono con i prodotti coltivati nei pressi di queste industrie.
Noto è il riscontro di diossine nel latte dei bovini allevati in aree dove sono presenti acciaierie.
Un altro rischio di notevole importanza riguarda la presenza di cromo e di nichel, due metalli, che sono stati riconosciuti come cancerogeni certi dalla comunità scientifica internazionale.
Abbiamo spiegato prima che questi metalli sono stati utilizzati per la formazione di leghe speciali e per i trattamenti di superficie dell’acciaio ed è pertanto normale trovarli negli scarichi industriali e nelle aree occupate dalle acciaierie.

Lo scandalo  «Dora cromata»

Una vasta area di Torino è stata per quasi un secolo occupata dalle cosiddette Ferriere, che producevano acciai speciali.
La fonderia e la fabbrica, in cui si svolgevano le operazioni di cromatura, si trovavano nell’area della Spina 3, che attualmente viene definita Vitali, dal nome della preesistente acciaieria, ora demolita, dove sono in corso lavori per la realizzazione di un quartiere residenziale.
Le analisi effettuate prima dell’inizio dell’apertura dei cantieri hanno riscontrato la presenza di una quantità impressionante di cromo esavalente nella falda sottostante l’area, a pochi metri dalla superficie.
Tutti i dettagli dei sondaggi si possono leggere nei 3 box a parte, dove vengono illustrati dati, che provengono dai documenti ufficiali del comune e della ditta che esegue i lavori.
Anche senza leggere i risultati degli studi effettuati, è evidente che l’area è inquinata da qualcosa di provenienza industriale. Qualche mese fa, un cittadino, che passava su un ponte della Dora a Torino, ha notato che da alcuni scarichi fognari usciva un liquido verde brillante e ha fatto delle fotografie, che sono state pubblicate da un giornale locale.
L’ipotesi più verosimile è che si trattasse di cromo esavalente sottoposto a trattamento chimico per trasformarlo in cromo trivalente, meno pericoloso, che assume un colore verdastro.
Ancora in questi giorni è possibile notare un liquido, dal caratteristico colore giallo del cromo esavalente, uscire da un cunicolo e versarsi direttamente nella Dora, nel punto dove si trovavano gli scarichi dell’acciaieria.
È da tempo che i cittadini, che abitano la zona inquinata, segnalano la loro preoccupazione. Anni fa, uscì un articolo su un giornale di Torino in cui si riportava la denuncia del comitato di quel quartiere: la popolazione locale lanciava l’allarme, diffidando politici, amministratori torinesi e imprese a costruire aree residenziali su terreni altamente contaminati dalla preesistente acciaieria. Si parlava proprio della contaminazione della Dora con liquidi pericolosi defluiti dalla fabbrica, della mancata bonifica dei terreni, dei tumori che avevano colpito gli operai in pensione e altro ancora.
Dopo l’uscita dell’articolo gli amministratori locali assicurarono che era tutto sotto controllo e che non c’era problema di sorta, che erano state predisposte vasche di filtrazione, che l’area era stata bonificata. Venne, forse, aperta un’inchiesta, ma i lavori andarono avanti perché le Olimpiadi erano imminenti e bisognava realizzare il villaggio per i giornalisti. Uno sguardo ai progetti, alle mappe e ai documenti ufficiali ha consentito di chiarire tutto.
L’area, impregnata di cromo esavalente, non è stata bonificata e attualmente il metallo cancerogeno sta inquinando la falda idrica e la Dora.

Thyssen, Thyssen 

Abbiamo cercato altre informazioni con i mezzi a nostra disposizione e abbiamo scoperto che, poche centinaia di metri a monte anche l’acciaieria Thyssen Krupp ha versato nella Dora e nelle fognature, tonnellate di cromo e di nichel, due metalli cancerogeni di prima classe.
I dati precisi degli scarichi pericolosi sono reperibili in rete sui siti dell’Ines (Inventario Nazionale delle Emissioni e loro Sorgenti) e dell’Eper  (European Pollutant Emission Register), che sono registri integrati nati nell’ambito della direttiva 96/61/CE, meglio nota come direttiva Ippc (Integrated Pollution Prevention and Control). Questi registri consultabili da tutti sono il risultato di un approccio integrato alla gestione ambientale, che coinvolge i governi, le industrie e il pubblico e dà la possibilità a chiunque di esercitare il proprio diritto di accesso alle informazioni ambientali.
Recentemente l’Arpa ha confermato l’esattezza dei dati, ma ha spiegato che non è tanto importante la quantità di materiale versato, ma piuttosto la concentrazione di questi materiali scaricati nella Dora, con l’autorizzazione della Provincia di Torino.
Un tecnico dell’Arpa ha spiegato che 500 chilogrammi di cromo sciolti nella quantità totale di acqua versata nella Dora in un anno (più di sei milioni di metri cubi) restano diluiti al punto da rientrare nei limiti di concentrazione previsti dalla legge per gli scarichi industriali.
Va chiarito che il rispetto dei limiti di legge (non solo in questo caso) non mette al riparo la popolazione dai rischi per la sua salute, perché mezza tonnellata di materiali altamente e certamente cancerogeni, anche se diluita parecchio, resta sempre mezza tonnellata e sarebbe giusto chiedersi dove è andata a finire, visto che in alcuni punti del Piemonte la concentrazione di cromo esavalente nella falda supera i limiti consentiti.

La legge, a tutela di chi? 

La legge prevede dei limiti per la concentrazione di cromo nelle acque, ma ci sono due normative. Il limite sanitario di concentrazione ammissibile nell’acqua potabile è di 50 µg/litro come cromo totale, mentre la norma di tutela ambientale pone invece il limite di 5 µg/litro di cromo esavalente. Il superamento del limite previsto per le acque di falda impone la ricerca delle cause e l’eventuale bonifica. In questi casi il sindaco, come massima autorità sanitaria, può disporre la chiusura dei pozzi.
La legge, in questo caso, non tutela la salute dei cittadini, perché gli esperti confermano che il cromo presente nell’acqua potabile è quasi tutto esavalente, per via della sua solubilità, pertanto è possibile bere acqua «a norma di legge» con quantità notevoli e pericolose di cromo esavalente. 

Di Roberto Topino e Rosanna Novara

Torino / Lo scandalo «Dora cromata» (1)

ACQUA AL «CROMO ESAVALENTE»

Bonificare costa, fa ritardare i programmi delle imprese costruttrici e, in buona sostanza, ritarda l’arrivo dei profitti. Tutte «buone» ragioni per minimizzare il problema o far lavorare l’oblio. Tanto i danni sulla salute si vedranno tardi e comunque vallo a dimostrare…

Nel corso delle indagini ambientali, condotte nel 2002 presso la sede dell’ex acciaieria Vitali a Torino (1), è stata riscontrata una situazione di contaminazione dovuta alla presenza di cromo esavalente in concentrazioni eccedenti il limite di 5 µg/litro fissato dal DM 471/99 per le acque sotterranee. Con un massimo pari a 455 µg/litro in corrispondenza del pozzo di monitoraggio P4.
La sorgente principale del cromo esavalente è stata individuata nelle vasche di neutralizzazione e di filtrazione, nonché nell’area di terreno dove era presente la lavorazione di cromatura. In virtù dell’elevato valore di cromo esavalente riscontrato, è stata decisa l’installazione di un sistema di pompaggio e di trattamento con solfato ferroso dell’acqua di falda, definito Pump & Treat, che, come prevedibile, ha dato risultati modesti.
Gli ultimi monitoraggi indicano che i valori di concentrazione del cromo esavalente, dal 2003 al 2005, sono rimasti superiori ai valori stabiliti dal DM 471/99 e dal DLgs 152/06 e pressoché costanti sia nell’area dello stabilimento, che immediatamente a valle di esso. Un documento del 7 settembre 2006 conferma che la principale contaminazione nella falda è costituita dal cromo esavalente in concentrazioni, rilevate in occasione delle più recenti campagne di monitoraggio della falda, fra 10 e 50 µg/litro, con un picco di 282 µg/litro, presso il già citato pozzo P4.

Il sito dell’acciaieria, fin dall’inizio del ‘900 sede di attività di tipo industriale siderurgico, ha una superficie di 250.000 metri quadri, che dovrebbe essere destinata ad uso pubblico e residenziale.
Tale area è risultata contaminata da scorie di acciaieria con superamento dei limiti consentiti da parte dei principali metalli pesanti (nichel, cromo e cromo esavalente). L’inquinamento è stato riscontrato anche all’esterno del sito, dove sono stati trovati degli strati di riporto contenenti scorie di acciaieria. Il volume delle scorie è stato stimato in circa mezzo milione di metri cubi. Sono stati riscontrati anche altri contaminanti in quantità superiore ai limiti. Visto l’elevato volume di scorie di acciaieria presente e considerato che il costo di conferimento in discarica è stato stimato pari a circa 80 milioni di euro (nel 2003), l’intervento di rimozione di tutta la massa dei rifiuti è stato valutato non compatibile con il valore dell’area.
È stato deciso di rimandare ad un approfondimento con la Smat la decisione di autorizzare lo scarico delle acque provenienti dal trattamento nella rete fognaria o nelle acque superficiali. Le determinazioni più recenti consistono nella preclusione alla realizzazione di pozzi ad uso idropotabile, nell’area costituita dalla prevedibile estensione della situazione di contaminazione da cromo esavalente dopo un tempo di 50 anni.
La Provincia di Torino ha richiesto alcune integrazioni, perché ritiene che dopo lo spegnimento dell’impianto Pump & Treat, con un possibile nuovo aumento dei valori di cromo esavalente, bisognerebbe installare un pozzo di monitoraggio nel punto limite presunto di contaminazione. La Provincia ha anche richiesto un monitoraggio di carattere permanente e la registrazione sugli strumenti urbanistici dei vincoli derivanti dal permanere di acque sotterranee contaminate, al fine di garantire nel tempo la tutela della salute pubblica ed una adeguata protezione dell’ambiente.

Il cittadino potrebbe porsi alcune domande: non era il caso di informare la popolazione, che sembra all’oscuro di tutto?; non conveniva bonificare l’area subito, invece di programmare interventi di monitoraggio per 50 anni? l’acqua e la salute delle persone non sono beni preziosi? non valgono di più del costo stimato per la bonifica? perché in nessun punto dei documenti acquisiti viene precisato che il cromo esavalente è un cancerogeno di prima classe al pari del benzene, dell’amianto, delle ammine aromatiche e delle radiazioni ionizzanti?

R.Topino e R. Novara

(1) E precisamente nel quadrilatero compreso tra via Borgaro, via Verolengo, via Orvieto e corso Mortara.

Torino / Lo scandalo «Dora cromata» (2)

Il cromo e i suoi composti

È un elemento chimico, appartenente al IV periodo ed alla prima serie di transizione del sistema periodico degli elementi. Non è molto diffuso in natura (circa 100 ppm sulla crosta terrestre), dove non è mai libero, ma combinato in diversi minerali, tra cui la più importante è la cromite. Il cromo si presenta come un metallo bianco argenteo, le cui proprietà meccaniche dipendono dal grado di purezza. A temperatura ambiente, il cromo resiste abbastanza bene a molti agenti chimici, tra cui l’ossigeno, ma viene attaccato facilmente dagli acidi non ossidanti diluiti, come l’acido cloridrico, solforico e fluoridrico.
I principali composti del cromo corrispondono a stati di ossidazione di questo elemento, che vanno da -2 a +6, con una netta prevalenza per gli stati +2 (bivalente), +3 (trivalente) e +6 (esavalente). Per valenza si intende la capacità dell’elemento di formare legami covalenti (molto stabili e ad elevatissimo contenuto energetico) con altri elementi. Nel caso del cromo +2 abbiamo ad esempio l’ossido cromoso CrO, dove entrambi gli elementi cromo ed ossigeno sono bivalenti; il cromo +3 dà con l’ossigeno l’ossido cromico Cr2O3, mentre il cromo +6 dà il triossido di cromo CrO3. Diversi composti del cromo, tra cui l’ossido cromico (verde cromo) ed il cromato di piombo (giallo cromo) PbCrO4 hanno un largo impiego come pigmenti per veici e nella lavorazione del vetro e della ceramica, mentre altri sali, tra cui l’allume di cromo, il solfato basico di cromo, il cromato ed il dicromato di sodio, vengono impiegati per la concia delle pelli, nell’industria tessile e delle tinte, nonché per la preparazione di diversi prodotti chimici.
La maggior parte dei composti del cromo, in particolare di quello esavalente, presentano un elevato grado di tossicità per tutti gli organismi viventi, poiché si comportano come energici ossidanti delle sostanze organiche, caratterizzanti la materia vivente.

R.Topino e R. Novara

Roberto Topino e Rosanna Novara




Quelle donne dell’8 maggio

Buenos Aires / Visita ad un quartiere in cerca di riscatto

L’8 de Mayo è un barrio costruito su un’enorme discarica alla periferia di Buenos Aires. La gente vive sui rifiuti e spesso vive dei rifiuti. Ma i residenti hanno saputo organizzarsi, costituendo una comunità combattiva ed orgogliosa. Anima, mente e braccia del «Progetto comunitario 8 di Maggio» sono donne. Come Lorena, Nora, Monica, Andrea … Tante mujeres per una grande lezione di dignità. Ecco i loro racconti.

Al Centro comunitario del barrio «8 de Mayo» è arrivato l’Hospital móvil del comune. L’ospedale mobile è un camion attrezzato con due ambulatori medici. Un vero lusso, che risalta ancora di più quando, sulla strada sterrata e fangosa, passa un carretto trainato da un cavallo.
«Buenos dias». «Hola!». In attesa di salire la scaletta che porta all’ambulatorio ci sono soprattutto mamme,  alcune con il pancione, altre con i bambini accanto. Per i piccoli il camion è una vera e propria attrazione: tenerli fermi un attimo per la visita medica, è un’impresa.
Con l’ospedale mobile si cercano di affrontare le necessità sanitarie di base della popolazione dei quartieri più poveri. L’8 di Maggio è uno di questi. Anzi, è un barrio che, oltre ai problemi consueti degli insediamenti cosiddetti informali (mancanza di acqua corrente, fognature, elettricità, strade), ne ha un altro, molto pesante: è cresciuto infatti su una discarica e quasi non bastasse, oltre a questa tara genetica, sorge nelle vicinanze del Ceamse, una megadiscarica pubblica (riquadro a pagina 58). In siffatte condizioni, è chiaro che per i suoi abitanti i problemi di ordine sanitario sono numerosi e svariati.
Mentre sull’ospedale mobile le visite proseguono spedite, nel Centro comunitario un giovane medico ed alcune infermiere attendono altri pazienti. Il medico ci racconta che lui visita soprattutto gente con problemi di carattere dermatologico (dermatiti, infezioni della pelle, ecc.).
La struttura del Centro comunitario è la realizzazione più concreta ed utile di cui la comunità è riuscita a dotarsi. Il merito è dell’associazione Proyecto comunitario “8 de Mayo”, che per le sue attività ha trovato l’appoggio di Icei, una Organizzazione non governativa italiana (1).
Per «benedire» l’esistenza del Centro, basterebbe la presenza, al suo interno, del comedor popular che ogni giorno serve un pasto adeguato a più di 200 bambini del barrio. Un numero importante.
Oggi il barrio 8 de Mayo ospita 1.500 famiglie, circa 5.000 persone, con un’alta percentuale di pibes (bambini). Tuttavia, sono molte di più – si parla di 12.000 – le famiglie che, in questa immensa periferia della Gran Buenos Aires, stanno occupando terre inquinate.
Per sapere di più del barrio e dei suoi problemi, lasciamo il Centro per un’abitazione vicina, dove ci attendono alcuni leaders della associazione «8 de Mayo».

Nora, mamma da record 

Uno di questi è Nora, donna molto impegnata nella comunità ma conosciuta anche per un’altra sua caratteristica. 
«Ho 7 figli che mi regalò Dio», esordisce seria. Sette figli sono tanti, però non sono un evento eccezionale da queste parti. Lo sono tuttavia per Nora, perché lei non è la madre biologica di alcuno di essi: tutti e 7 sono suoi figli adottivi. Non sappiamo se è un record, ma certamente è una cosa fuori del comune.
Racconta: «Io non avevo né bambini né una famiglia. Un giorno incontrai Cesar, un uomo che aveva bisogno di una persona per stare dietro ai suoi figli, che andavano in strada ed erano abbandonati. Cesar divenne mio marito ed io mamma di 7 bambini, un regalo di Dio». Nora e Cesar sono insieme da 4 anni.
«Adesso ho una famiglia piuttosto numerosa, ma mi sento bene perché vedo che i bambini stanno bene. È migliorato il loro rendimento scolastico e in generale la loro vita». Il più grande ha 19 anni, la più piccola 8.
Come la maggioranza della gente del barrio, anche Nora non ha un lavoro stabile. Attualmente lavora per il Centro comunitario e per il programma Pro niño. E Cesar, chiediamo?
«Mio marito non lavora da 2 mesi. Per fortuna, c’è il Centro che provvede al sostentamento della famiglia».
Come tutti gli abitanti dell’8 di Maggio, Nora e Cesar vivono in una abitazione costruita sopra una discarica (basurero) e vicino alla discarica pubblica del Ceamse. «Il problema principale è la contaminazione della terra, dell’acqua, dell’aria. I bambini si ammalano».
Alla discarica pubblica, soprannominata «la quema», lavorano molti degli abitanti del barrio. Un lavoro non gradevole, ma tuttavia fondamentale per la sopravvivenza di molte famiglie.
«Mio figlio più grande – racconta Nora – lavorava alla quema. Ma si ammalava spesso e noi dovevamo spendere in medicamenti, quindi ha smesso. In ogni caso, abbiamo pensato che noi avevamo la responsabilità di mantenerli».
E lo stato che fa? «Si preoccupa di chi non ha mezzi soltanto quando ha bisogno del voto. Per i bambini il futuro che spero è che possano studiare, che non debbano soffrire ciò che noi abbiamo sofferto».
Il marito di Nora, Cesar, ha ascoltato con attenzione l’intervista alla moglie. Indossa un cappellino ed una tuta. Ha un’aria pacifica e parla sottovoce. È lui che a Nora ha portato in dote ben 7 figli. «Sì – ammette -, Nora è una gran signora».
«Il governo pensa che con 400 -600 pesos una famiglia possa vivere, ma ovviamente non è così. Nessun governo e nessun politico pensa alla gente. Il mio pensiero è sempre stato comunista. Soltanto un governo comunista serve, nonostante quanto si dica sul comunismo».
Cesar è stato uno dei fondatori del quartiere… «La prima cosa fu la presa di possesso dei terreni. Era l’8 di maggio, da qui il nome del barrio. Ci fermammo giorno e notte. E cominciammo a segnare i terreni».
Le occupazioni sono illegali ma è difficile che qualcuno – pubblico o privato – reclami dei terreni contaminati.
«Questo barrio – conclude Cesar – funziona bene, ma io vorrei che tutte le villas miserias sparissero».

Monica e Andrea 

Monica è timida. Lunghissimi capelli neri, corporatura robusta. Il viso è giovane, gli occhi un po’ tristi.
Ha 5 figli, ma come tutti non ha un lavoro sicuro. «Lavoro nel comedor dell’8 di Maggio. E vado alla quema, dove raccolgo alluminio, cobre, cartone, giornali. Tutto ciò che si può vendere, insomma. La gente va alla quema perché non ha lavoro e ha molti figli da mantenere».
Domandiamo a Monica del lavoro alla discarica. «Usciamo di casa verso le 3.30 o le 4 del pomeriggio, raggiungiamo l’entrata del Ceamse e lì aspettiamo di entrare. C’è un ponte dove si raccoglie tutta la gente (molta) che spera di arrivare per prima. Aspettano fino a che la polizia non dice che si può entrare. Abbiamo un’ora di tempo».
Andrea invece non ha ancora famiglia. È giovane e molto carina. Non abita all’8 di Maggio, ma qui trascorre la maggior parte del suo tempo.
«Lavoro con piccoli e adolescenti dell’8 de Mayo. Ho cominciato con i più piccoli con il tema del gioco. Ci capivamo bene. Un giorno sono passata ai giovani con cui mi trovo altrettanto bene».
Per vivere Andrea lavora in un centro culturale, ma la sua esistenza è scandita dal tempo che trascorre tra i giovani del barrio.
«Non è un lavoro né un’attività di volontariato, è una forma di vita. Lavoro giocando, ma non è un gioco: è il tentativo di cambiare una realtà».
Andrea, come descriveresti questo luogo? «Un posto è le persone che lo abitano. La mia vita ha un senso per merito di questo luogo e di questa gente, anzi di questi amici».
Due dei giovani dell’8 di Maggio sono qui. Damian e Isaias alla quema lavorano già da anni. Ti spiazzano perché dicono di essere felici di lavorarvi. Poi capisci che, a quell’età, è facile giudicare in modo inadeguato i fatti della vita.
Damian cominciò a lavorare alla quema all’età di 12 anni. Oggi ne ha 17. Ha la spensieratezza della sua età come confermano le sue risposte.
Gli domandiamo cosa provi a lavorare alla discarica. «Per me non significa nulla lavorare lì – risponde con fare apparentemente sicuro -. A me piace perché nessuno ti dice nulla. Non hai orario. Se vuoi vai, altrimenti no. E poi non è un lavoro duro. E si guadagna bene: 150-200 pesos alla settimana lavorando un’ora al giorno».
Insomma, a sentire Damian lavorare nella discarica è un lavoro come un altro, anzi migliore. Non si discostano molto le risposte dell’amico. Maglietta di una squadra di calcio, capelli corti, un orecchino al lobo sinistro, Isaias ha 15 anni e da 3 lavora alla quema.
«Sì, è un lavoro duro però mi piace. Lavoro dalle 5 alle 6 del pomeriggio. Partiamo da qui alle 4 e torniamo alle 7. Io raccolgo soprattutto cartone e metalli. E altre cose da vendere. Guadagno dai 10 ai 20 pesos al giorno».
Monica, Damian e Isaias sono alcune di quelle mille persone che ogni giorno si recano alla quema per trovare nei rifiuti la loro sopravvivenza.

Lorena, la mente (politica) 

Lorena Pastoriza è la padrona di casa, ma soprattutto è la leader riconosciuta della comunità cresciuta attorno all’«8 di Maggio». La sua casa dista poche decine di metri dal Centro comunitario.
Quella di Lorena è un’abitazione privilegiata dato che è in muratura. È composta da una grande stanza, sommariamente arredata con un fornello, un tavolo, un divano e l’immancabile televisione; accanto c’è un’altra stanza, un piccolo bagno e un soppalco.
La padrona di casa si accomoda sul divano, si versa un mate, si accende una sigaretta e tranquilla volge lo sguardo verso la telecamera. Lorena, avete invaso e preso possesso di una  terra che non era proprio un giardino verde e profumato. Tutt’altro… «Sì, viviamo sopra una discarica e ne abbiamo un’altra di fronte». Lorena anticipa la nostra obiezione. «Non abbiamo scelto noi di venire qui – ci spiega – . È stata una necessità. Dopo anni di impoverimento generalizzato, dopo aver lasciato un paese senza cultura e senza educazione, uno dei tanti problemi fu quello della casa. A causa di ciò migliaia di persone occuparono terre incolte e discariche. L’8 di Maggio fu il primo, ma poi altri ne crebbero: adesso ci sono 8 barrios consecutivi nati da un’occupazione».

La basura, morte e vita 

«Il problema è grande – ammette sconsolata Lorena -. Quotidianamente noi tutti, e soprattutto i nostri bimbi, soffriamo di scabbia, diarree con sangue, infezioni della pelle, impetigine. Ma queste sono soltanto le malattie visibili. Poi ci sono le altre, più subdole: piombo nel sangue, leucemie, cancro. Però è molto difficile denunciare questa contaminazione perché è un problema invisibile. Di più, non abbiamo acqua potabile, c’è una luce precaria, non c’è un sistema fognario… E non c’è alcuno che ascolta i nostri reclami. Non è una cosa incredibile in un paese che parla tanto di diritti umani?».
Eppure, la basura, l’immondizia, è allo stesso tempo tesi ed antitesi. Sui rifiuti gli abitanti di questi barrios abitano e si ammalano, ma allo stesso tempo con essi sopravvivono. Una sorta di némesi.
«La basura condiziona la nostra esistenza, perché viviamo di essa. Non è un problema soltanto dell’8 di Maggio, ma di tutto il paese. Dopo la crisi del 2001, sempre più famiglie hanno trovato nella spazzatura una anzi l’unica forma di sussistenza».
Lorena si riferisce al fenomeno dei cartoneros un fatto incredibile in un paese che era considerato il granaio del mondo. Ma c’è di più… «Da un lato – spiega -, abbiamo molti compagni che vanno in capitale a cercare cibo avanzato nei sacchi della spazzatura della gente che là abita: ciò che loro buttano a noi serve per sopravvivere. Dall’altro, stiamo assistendo ad un fenomeno nuovo: molti vanno alla discarica pubblica, quella che noi chiamiamo la quema. La gente ci va quotidianamente per cercare non soltanto cibo, ma anche carta, naylon, cartoni, elettrodomestici e qualsiasi cosa che possano vendere. Ci vanno donne, giovani, anche bimbi: è un lavoro di tutta la famiglia».
Insomma, l’alternativa è tra essere cartonero o quemero. Con la sostanza che non cambia: si tratta sempre di affondare le mani nella spazzatura, negli avanzi, negli scarti.
«Per questo ci siamo organizzati tra noi: per far capire che ci sono persone che decidono le nostre condizioni di vita. Questa è la cosa più angosciante. E per questo lottiamo: per cambiare alcune di queste situazioni». Lorena non crede al caso, ma analizza le cause che determinano gli eventi. «La nostra vita è legata a decisioni prese da altri che ci capitano sulla testa. Come quando dobbiamo andare a lavorare a 14-15 anni, senza poter vivere l’adolescenza e la gioventù: questo non può che produrre tristezza e risentimento in qualsiasi persona».
Lorena non reclama privilegi, ma soltanto pari opportunità, almeno per i figli. «Perché i nostri partono già svantaggiati: non hanno preparazione e istruzione per poter avere un lavoro degno». Ed aggiunge con una punta di amaro sarcasmo: «Possono al  massimo aspirare ad essere cartoneros professionisti o essere premiati come il miglior ciruja dell’anno (3)».
È un circolo vizioso da cui è difficile uscire. «Oggi i nostri figli non possono andare alla scuola obbligatoria (non dico all’università) perché magari non hanno un paio di scarpe. Ma se lo stato non riesce a garantire neppure il minimo, allora milioni di bambini partono già svantaggiati e probabilmente i pochi che hanno tutto domani saranno i loro padroni e li sfrutteranno o li faranno lavorare in pessime condizioni. Così il cerchio è completo».
Eppure, nonostante la triste realtà, i sogni di Lorena e delle donne dell’8 di Maggio resistono. «Sappiamo che è molto difficile, ma non vogliamo continuare a mangiare basura. Ciò che sogno per i nostri figli è che possano essere uomini e donne felici e che possano avere un progetto per il futuro. Che abbiano un buon lavoro. Insomma, nulla di particolare, ma il minimo per una vita degna. Oggi noi non l’abbiamo, perché, per sopravvivere, dobbiamo rimestare nella spazzatura».

E alla fine, rimasero
soltanto i poveri 

«Mi ricordo una bella canzone che dice: “Son los sueños los que todavía tiran de la gente” (sono i sogni quelli che ancora spronano la gente). Mi viene in mente quando sono pessimista che abbiamo un sogno che ci accumuna e ci sospinge. Non so se sarà possibile per noi vedere il cambio, ma credo che il nostro sogno lo vedranno i nostri figli. Per questo lottiamo. Per questo portiamo avanti la nostra mensa comunitaria: affinché i nostri figli abbiano garantito un piatto caldo tutte le sere. Per questo pensiamo ad un progetto di sradicamento del lavoro infantile, per dare ai nostri bambini la possibilità di frequentare la scuola, come tutti i bambini dovrebbero fare. Dobbiamo lottare per rompere queste barriere che ci vengono imposte tutti i giorni e che ci impediscono di progredire». Lorena parla con passione e trattiene a stento le lacrime.
«Tra i poveri come noi c’è solidarietà, ma non possiamo fare affidamento sullo stato, che preferisce fare o politiche estemporanee o politiche assistenzialiste per i poveri, considerati strumenti per guadagnare voti. Non si pensa mai ad una politica pubblica per cambiare le cose».
Chiediamo a Lorena di tornare agli anni più duri, quelli immediatamente successivi al crollo del 2001, per capire come si manifestò la solidarietà con gli argentini della classe media, anch’essi colpiti dalla crisi. La risposta è dura: «La nostra lotta iniziò nel 1997 con le associazioni dei piqueteros, seguiti da asentados (4), contadini, indigeni, etc.; tutti movimenti per i quali la soluzione era una lotta non individuale ma collettiva. Arrivò il 2001, quando la gente più povera fu costretta ad uscire per le strade non soltanto a fare “piquete”, ma a saccheggiare i negozi. Allora la classe media ci disse che la nostra lotta era la loro lotta. Mi ricordo la canzone che andava di moda: “Piquete y cacerola la lucha es una sola”. Alla fine però loro si accordarono. Così, terminata la fase acuta della crisi, la classe media toò nelle proprie case e toò a vederci come negri. E noi – il povero, il piquetero, l’asentado e tutti coloro che hanno i diritti violati – rimanemmo soli». Lorena chiude il discorso con aggettivi molto duri nei confronti della classe media. Potere del disincanto e della delusione.
La leader dell’8 di Maggio è severa anche con i Kirchner e con il peronismo in generale. «I peronisti hanno la capacità di farsi camaleonti. Quando sai che viene il lupo ti prepari per combatterlo, ma quando il lupo viene travestito da agnello, che fai? Continuiamo con le stesse politiche, continuiamo a ricevere gli stessi 150 pesos al mese come sussidio sociale per il capo famiglia che non ha lavoro, ma che può avere 4-5-6 figli. Peccato che la canasta basica (il reddito minimo di sopravvivenza) per una famiglia con uno o massimo due figli sia di 950 pesos. Insomma, i successi macroeconomici di Kirchner non hanno evitato che noi si debba andare alla quema per vivere e mangiare».

Queste donne

Lorena Pastoriza ha trasmesso ai suoi due figli, Facundo ed Elias, non soltanto il proprio sorriso ma anche la propria voglia di resistere e combattere per cambiare lo status quo. Una giovane donna che, pur avendo proprie ed enormi difficoltà, non ha esitato ad adottare Maria, una bambina bellissima ma sola al mondo.
Lorena, gentile, ma determinata, anzi testarda. Non si è tirata indietro durante le violente proteste del 2001, né nei conflitti con la polizia, né quando (di recente) si è trattato di occupare il locale municipio.
Lorena, Nora, Monica, Andrea: forti, queste donne dell’«8 de Mayo».

di Paolo Moiola

Esperienza- Nella discarica del Ceamse

UN GIORNO DA «QUEMEROS»
(con Alejandro, Elias, Isaias, Graziela)

Alejandro, Elias, Isaias, Graziela sono ragazzi dell’8 de Mayo. Due di loro, neppure sedicenni, vanno regolarmente a lavorare alla discarica, conosciuta come la quema. Oggi anche noi li seguiremo. I ragazzi ci foiscono di qualche indumento logoro e di un sacco di juta per la raccolta. Dobbiamo sembrare dei perfetti quemeros.
Ci incamminiamo a piedi dalla casa di Lorena. La discarica del l’azienda pubblica Ceamse (1) sta oltre l’autostrada. Si cammina per una mezz’ora fino a raggiungere un grande prato, luogo di ritrovo e di partenza. Prima del ponte che fa da confine con l’area del basurero, è schierato un cordone di polizia. Ad attendere davanti ai poliziotti che precludono l’entrata, sono già in molti, tutti muniti di sacchi e contenitori, alcuni con carretti, in parecchi con le biciclette. Mentre attendono l’ora convenuta, molti giovani si preparano aspirando colla (droga dei poveri) da buste di plastica o carta.
Finalmente scocca l’ora: il cordone si apre e la gente in attesa scatta. Le biciclette si lanciano come per la partenza di una gara. A pensarci bene, è una gara: prima si arriva alla discarica, meglio ci si serve.
Si cammina per un bel tratto, su una strada sterrata percorsa da camion del Ceamse, in mezzo a campi incolti e colline artificiali. Ecco, un bivio: da una parte si va alla discarica dove ci sono soprattutto rifiuti alimentari, dall’altra dove i rifiuti sono indistinti. Noi scegliamo questa seconda destinazione.
Ecco la meta. Ecco la spazzatura. È una distesa impressionante sulla quale le persone si disperdono. Nuovi del mestiere, seguiamo i nostri accompagnatori. Saliamo sui rifiuti. Si sprofonda un po’, ma per fortuna neppure troppo, perché i rifiuti più vecchi sono stati compressi. L’odore è forte, ma non c’è tempo per pensare perché occorre sfruttare ogni minuto. Occhi esperti individuano la plastica, il metallo, l’oggetto o il cibo. Insomma, tutto quanto possa essere venduto, riutilizzato o mangiato. La gente lavora in silenzio, sotto gli occhi della polizia che però si mantiene a relativa distanza, vicino alle ruspe ferme dell’impresa.
L’ora a disposizione dei quemeros è terminata. Bisogna andarsene. Si fà il percorso a ritroso. I quemeros escono carichi del frutto del loro lavoro. Poco oltre il ponte che segna il confine della discarica, c’è un casolare dove si può già vendere qualcosa. Ci sono le bilance per pesare i prodotti. Alcuni hanno trovato di più. Altri di meno. Tutti toeranno domani, stessa ora, stesso luogo.
Un’esperienza inusuale? Per due giornalisti «occidentali» (2) forse, ma tanto normale da essere quotidiana per milioni di persone in giro per il mondo. Facile capire i pensieri che si affollano nella testa: da una parte, c’è un mondo che consuma (troppo) e getta via (di nuovo, troppo); dall’altra, c’è un mondo (maggioritario) che vive o sopravvive degli scarti altrui.

Paolo Moiola

(1) Sul Ceamse – Coordinación Ecológica Area Metropolitana Sociedad del Estado – si veda: www.ceamse.org.gov.ar.
(2) Il redattore e il fotografo Davide Casali.

Buenos Aires/ I cartoneros, il «tren blanco» e Maurizio Macri

«LADRI» DI SPAZZATURA

Da alcuni anni l’Argentina è in lenta convalescenza, come dimostrano gli alti indici di crescita economica. Ma l´uscita dalla malattia è lungi dall´essere compiuta e una ricaduta è sempre dietro l’angolo.
Per capirlo basta uscire la sera e vedere quanti sono i cartoneros (1) che, con destrezza ed efficienza, frugano nei sacchetti e nei bidoni della spazzatura, raccogliendo quanto può servire a guadagnare qualche pesos: i cartoni e la carta (da qui, appunto, il nome di cartoneros), vetro e lattine, plastica, ferro, senza dimenticare gli avanzi di cibo utili per riempire la pancia.
I cartoneros vanno in giro in gruppi di 3-4 persone, spesso della stessa famiglia: la donna o l’uomo o entrambi con i figli. Per il loro lavoro si aiutano con carrelli dei supermercati o con carretti a 2 ruote, a volte trainati da un cavallo. Durante la notte, prima dell’arrivo dei camion della spazzatura, percorrono tutti i quartieri bene o della classe media di Buenos Aires (e delle maggiori città argentine), anche le zone centrali, dove stanno la Casa Rosada, il Congresso, l’obelisco, le vie dello shopping. Fanno il loro lavoro con dignità, senza curarsi degli sguardi di chi non è abituato a queste scene o di chi non vuole ammettere che c’è un’Argentina che, ogni giorno, per sopravvivere deve affondare le mani nei rifiuti.
I cartoneros non soltanto non fanno danni, ma svolgono addirittura una meritoria opera sociale dato che con la loro raccolta recuperano e riciclano una parte consistente dei rifiuti urbani, riducendo il conferimento alle discariche o agli inceneritori (2). Non tutti però sono d’accordo. Nei quartieri più ricchi o più turistici (Recoleta, Palermo, ecc.), una parte dei residenti non sopportano la presenza di queste persone nelle strade, anche perché, nello svolgere il loro lavoro, i cartoneros rompono i sacchetti delle immondizie e insudiciano il selciato…
Ma il nemico numero uno è il nuovo sindaco di Buenos Aires, Mauricio Macri, leader emergente della destra menemista, soprannominato il «Berlusconi argentino». Da tempo Macri parla di togliere i cartoneros dalla strada («Los vamos a sacar de la calle»), di incarcerarli («meter presos») perché rubano la spazzatura («se roban la basura»).
Così, a fine 2007, è stato soppresso il cosiddetto Tren blanco, treno che i cartoneros utilizzavano in gran numero per arrivare in città dalle periferie e per tornare a casa nella notte con il loro carico di rifiuti recuperati. Ci sono state proteste, occupazioni di strade e piazze. Ma il sindaco continua per la sua strada, sicuro dell’appoggio della popolazione più benestante e degli operatori turistici.
Nel frattempo, come in ogni paese, qualche impresario argentino ha fiutato il business del riciclo dei rifiuti. Insomma, anche sulle briciole strappate dalle mani dei cartoneros si può fare profitto.

Paolo Moiola

Note:
(1)  Le cifre parlano di 20.000- 40.000 cartoneros nella sola Buenos Aires. Il massimo si ebbe nel 2001, il periodo più acuto della crisi argentina.
(2)  Nel marzo 2008 a Bogotà, in Colombia, si è tenuto un convegno dei «recicladores» del mondo. Si legga il settimanale Carta del 14 marzo 2008.

Paolo Moiola




Dacci oggi il nostro barile quotidiano

La maledizione dell’«oro nero»

Sul pianeta Terra stiamo consumando più petrolio di quanto riusciamo a produe. E la tendenza è in forte aumento, perché Cina e India crescono rapidamente. Tutti gli stati cercano di garantirsi «riserve strategiche» per il futuro. L’Africa è l’ultima frontiera. Le sue potenzialità su nuovi giacimenti sono ancora elevate. Ma perché l’oro nero ha portato solo corruzione, guerre civili, povertà? E mai migliori condizioni di vita dei popoli africani? Se si riuscisse a bloccare la fuga delle rendite petrolifere non occorrerebbe più l’aiuto allo sviluppo. E l’Africa ci guarderebbe da eguali.

«L’Africa è all’alba di un nuovo boom petrolifero: il golfo di Guinea è diventato il nuovo terreno di gioco delle compagnie del petrolio. Queste prevedono di investirci tra i 30 e i 40 miliardi di dollari in dieci anni». Così il giornalista francese Xavier Harel, esperto di questioni africane e di petrolio, descrive il processo in corso nel suo libro – inchiesta Afrique, pillage à huis clos (Africa, saccheggio a porte chiuse). Processo  in forte accelerazione a causa della vertiginosa crescita dei prezzi del greggio sul mercato mondiale.
Il continente detiene tra l’8 e il 10% delle riserve mondiali del prezioso olio, contando tra 80 e 100 miliardi di barili di riserve già verificate. Dati confermati  dalle statistiche della British Petroleum (gigante inglese dell’energia), che segnala 117 miliardi di barili.
La zona più ricca è il Golfo di Guinea, dove  Nigeria, Angola, Guinea Equatoriale, Congo Brazzaville, Gabon e Camerun (nell’ordine) sono i maggiori produttori del continente. Ad eccezione del Sudan, grande produttore in Africa dell’Est (vedi box).

Sempre più in basso

Con la «paura» energetica, il prezzo del greggio è passato dai 70 dollari al barile del 2007 ai 135 di metà 2008 (vedi box). È diventato redditizio fare investimenti per perlustrazioni petrolifere là dove un tempo non lo era, o ancora, sfruttare il petrolio «non convenzionale», carissimo da estrarre.
Anche il miglioramento delle tecnologie ha permesso la ricerca su fondali marini fino (e oltre) i 3.000 metri di profondità. Si è passati dall’offshore (dall’inglese «costiero»), definito fino a 500 metri di profondità, all’«offshore profondo» (500 – 1.500 metri). Mentre ora si va verso l’«offshore ultra profondo» (1.500 – 3.000 metri).  Allo stesso modo si sta cercando petrolio in profondità anche nel deserto in Mali, Niger (dove un giacimento è stato trovato) e in Kenya, paesi che non ne hanno mai prodotto. In effetti, rispetto a quanto succede in altre zone del mondo, le mappe petrolifere dell’Africa si stanno ancora disegnando e c’è molto spazio per la scoperta di nuovi giacimenti. Quindi grandi e piccole compagnie (le cosiddette majors), sono tutte a caccia di permessi di «prospezione», anche in paesi ancora vergini.
Per questo motivo Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna e infine anche la Cina, considerano oggi «strategico» il continente africano, che fino a 5-10 anni fa era trascurato. Interessa in particolare il Golfo di Guinea, dove vi moltiplicano gli investimenti.
Gli Usa consumano, ogni giorno, un quarto della produzione mondiale di greggio, oggi stimata a 87 milioni di barili quotidiani. Dai 19,5 milioni di barili inghiottiti ogni giorno passeranno a 25,5 milioni nel 2020. Allo stesso tempo la produzione nazionale scenderà da 8,5 a 7 milioni di barili. Già a partire dalla prima amministrazione Bush (2001) il petrolio diventa una priorità strategica per gli Usa, essendo sinonimo di indipendenza energetica.
La Cina ha un’economia in crescita di quasi il 10% annuo. Dal 2005 è il secondo consumatore mondiale di petrolio e il suo bisogno arriverà al 20% di quello prodotto sul pianeta nel 2010. Con la sua popolazione di un miliardo e 400 milioni di abitanti, il cui tenore di vita è in aumento, ha sempre più bisogno di energia. La sicurezza di riserve di petrolio a medio e lungo termine è dunque fondamentale. Obbligatorio buttarsi a capofitto nella ricerca di nuovi giacimenti e nello sfruttamento di quelli conosciuti nel continente, trascurato dal punto energetico fino a pochi anni fa.
Uno dei problemi dell’Africa sub sahariana è che non possiede le tecnologie e le possibilità di investimenti necessari per sfruttare i propri giacimenti di petrolio. Questo impone agli stati africani l’avvalersi di compagnie europee e statunitensi (e ultimamente cinesi). Fin qui nulla di così grave. Il problema è che grazie a personaggi senza scrupoli di varia nazionalità, dirigenti della majors, banchieri, intermediari, politici occidentali, venditori di armi e, non ultimi, i capi di stato africani, scatta il meccanismo del saccheggio o «evaporazione» dei soldi «pubblici» del petrolio africano. Saccheggio che assume dimensioni impensabili.

Quanto pesa sulle economie africane

I giacimenti africani sono (o potrebbero essere) generatori di un’enorme ricchezza per i rispettivi paesi. Le cifre in gioco fanno impallidire quelle dell’aiuto versate ogni anno dai paesi occidentali allo scopo di «sviluppare» l’Africa. Una stima dell’Unione africana parla di 148 miliardi di dollari che annualmente «lasciano» illegalmente l’Africa, per essere depositati su banche europee o nei paradisi fiscali. Illegalmente, perché si tratta di fondi pubblici, che dovrebbero essere acquisiti dal Tesoro.
Questa cifra approssimata per difetto va confrontata con 25 miliardi di dollari ricevuti ogni anno come aiuti dai paesi africani. Le élite di questi paesi avrebbero su conti privati esteri tra i 700 e gli 800 miliardi di dollari di denaro pubblico. Conti spesso protetti e alimentati in modo non «tracciabile». Xavier Harel sostiene che: «La fuga di capitali è uno dei principali ostacoli al decollo dell’Africa».
In Nigeria le entrate dell’oro nero costituiscono il 98% di tutte le ricette in valuta e in Angola il 90%.
Facendo le proiezioni sulle produzioni dei giacimenti già sfruttati (escludendo quindi le future scoperte) di sette paesi dell’Africa dell’Ovest (Nigeria, Angola, Congo, Guinea Equatoriale, Gabon, Ciad e Camerun), il Pfc Energy, ufficio studi statunitense, ha valutato le somme generate dal petrolio tra il 2002 e il 2019 intorno ai 183 miliardi di dollari, che vanno dai 110 miliardi per la Nigeria ai 2 miliardi per il Ciad. Piccola precisazione: i conti sono fatti con un costo del barile a 22,50 dollari!

Povertà, guerre civili e instabilità politica

Ma cosa portano, nella realtà, le rendite petrolifere in Africa? A sud del Sahara il petrolio sembra fare rima con povertà, corruzione, instabilità politica e guerre civili.
Con una certa sorpresa scopriamo che i paesi africani produttori di petrolio sono agli ultimi posti della classifica rispetto all’Indice di sviluppo umano delle Nazioni Unite. Nigeria e Angola, i maggiori produttori del continente, figurano addirittura tra gli ultimi della classe, nella zona definita a «basso sviluppo umano» (158.ma la prima e 162.ma la seconda). La Guinea Equatoriale occupa il 127° posto (grazie al basso peso demografico), il Congo il 139°, mentre il Camerun è 144° e il Sudan 147°, fino al Ciad al 170° posto su 177 paesi classificati. Nessuno si salva.
Un altro aspetto devastante è che questi paesi hanno tutti un enorme debito estero. Questo è dovuto al fatto che i vari capi di stato hanno chiesto sempre maggiori prestiti alle istituzioni inteazionali, garantendo con le riserve petrolifere dei loro paesi.
Non lascia ombra di dubbio il rapporto d’informazione della commissione Affari esteri del parlamento francese su «Il ruolo delle compagnie petrolifere nella politica internazionale e il suo impatto sociale e ambientale», citato da Harel nel suo libro. «In Africa, la manna petrolifera non ha aiutato lo sviluppo, i capi di stato l’hanno utilizzata per comprare armi in Angola e in Congo – Brazzaville, in Gabon, in Camerun, in Nigeria. Non si riesce a scoprire dove sia andata la rendita dovuta al petrolio, perché il debito aumenta, le popolazioni sono impoverite e le infrastrutture sono in uno stato deplorevole. Mantenere al potere delle dittature, corruzione, violenza larvata, attentati ai diritti umani e all’ambiente; questo è il bilancio, poco glorioso, dello sfruttamento petrolifero in tutta l’Africa».
L’Angola che – dicono gli esperti – avrebbe superato la Nigeria come produzione nel mese di aprile, è uno dei paesi più corrotti del mondo (secondo la classifica annuale dell’Ong Trasparency Inteational occupa il 147mo posto su 179), ha le infrastrutture ai minimi termini e le condizioni di vita dei suoi abitanti sono a livelli bassissimi (speranza di vita a 42 anni, mortalità infantile entro i 5 anni di 260 su 1.000 nati vivi, tre bambini su dieci sotto i 5 anni malnutriti, ecc.). Ma sempre l’Angola mostra negli ultimi anni una crescita economica record: 18,6% nel 2006, con proiezioni della Banca mondiale al 25%!
Racconta Harel a MC: «È un paese che ha il reddito petrolifero che è completamente esploso. Era a 1 milione di barili tre anni fa. In Angola c’è un boom economico non indifferente. Non che i soldi siano ben gestiti. Ce ne sono tantissimi, che potrebbe essere come un paese del Golfo (Persico, ndr), invece non esistono ricadute sulla popolazione. È un Brasile in peggio. Una piccola élite immensamente ricca e gli altri nelle bidonville a perdita d’occhio».
Senza contare che con i soldi del petrolio José Eduardo dos Santos e Jonas Savimbi, i due rivali della guerra civile, hanno pagato armi per tre decenni.
Molte altre sono le guerre civili alimentate dai soldi del petrolio: in Repubblica del Congo, Sudan, Ciad. E ancora l’instabilità politica generata in Nigeria, Guinea Equatoriale.

Corruzione? Sì grazie

«Le compagnie hanno bisogno di rinnovare le loro riserve, ovvero scoprire nuovi giacimenti e metterli in produzione. Per questo devono lavorare in un certo numero di stati, e ottenere i permessi. Normalmente ci sono delle aste, ma bisogna dire che spesso non funziona così, e che se si vuole essere “ben piazzati” occorre “accordarsi” con il regime del paese». Ci ricorda Xavier Harel. Da qui mazzette colossali, fondi occulti versati su conti svizzeri o nei paradisi fiscali, con triangolazioni tali da far perdere ogni traccia.
Ma non basta. La fuga di capitale pubblico si realizza anche dotandosi di compagnie di intermediazione. In Congo ad esempio Denis Gokana, un alto dirigente della Snpc (Società nazionale del petrolio del Congo, impresa di stato per la commercializzazione del petrolio), vendendo a prezzi ribassati a una società d’intermediazione (di cui è il principale azionista), la quale poi rivende il greggio a prezzi di mercato, riesce a incassare una commissione di 3,3 milioni di dollari per carico. Il meccanismo è stato ripetuto almeno per 45 carichi. E tutto con la benedizione del presidente Denis Sassou Nguessu, che di Gokana è padrino e creatore.
Senza contare i famosi «carichi fantasma» intere navi cisterna che lasciano il porto di Pointe Noire, sfuggendo a ogni contabilità ufficiale, per essere spartiti tra pochi eletti.

Di sangue e di petrolio

Un altro caso scuola sono i soldi rubati allo stato nigeriano dal dittatore Sani Abacha. Alla sua morte nel 1998 il nuovo governo indaga e tenta di recuperare il denaro pubblico. Il sanguinario Abacha ritirava i soldi in contanti dalla banca centrale della Nigeria, per poi versarli su altri conti nazionali o in società offshore (società basate nei paradisi fiscali, dove per legge, non è possibile risalire ai nomi degli azionisti).
In seguito i soldi transitavano verso conti in Svizzera, Gran Bretagna, Lussemburgo, Francia, Bahamas a nome di sua moglie, suo figlio o un suo consigliere della sicurezza. La stima è di 3 – 4 miliardi di dollari rubati tra il 1993 e il ’98 di cui 2,2 sono stati rintracciati e in parte restituiti allo stato nigeriano.  L’aspetto buffo è che i soldi recuperati non risultano generati da rendite petrolifere, per un paese dove il petrolio rappresenta il 98% delle esportazioni. «Il sistema messo in piedi dalle compagnie petrolifere è talmente ben rodato, che è diventato impossibile tracciare le mance o altre commissioni accordate dalle compagnie ai regimi indelicati» dichiara Enrico Monfrini, avvocato svizzero incaricato dalla Nigeria di recuperare il soldi presi da Abacha. E la Cina? «È il principio dello scambio: i cinesi costruiscono strade, dighe, aeroporti, contro concessioni di esplorazione e sfruttamento petrolifero – ricorda Xavier Harel -. Non sono più trasparenti che europei e nordamericani, usano le stesse pratiche.  Ancora più opache, perché quando si fa del baratto si possono ancora di più falsare i prezzi, valorizzando i barili di petrolio come si vuole. Costruisco una diga per 1 milione di barili. Se li valorizzano a 50 dollari al barile, poi ne versano 10 su un conto in Svizzera, nessuno riuscirà a verificarlo. Le manipolazioni sono ancora peggiori, perché le possibilità di controllo sono più deboli». 
I cinesi sono affamati di riserve energetiche e per questo pagano molto di più delle grandi compagnie come ExxonMobil e Total (MC, dicembre 2007).  E questa concorrenza favorisce i capi di stato e facilita la corruzione.

Deboli segnali di cambiamento

In Ciad la Banca mondiale (Bm) ha cercato di fare un esperimento interessante. Scoperto il petrolio occorreva costruire le infrastrutture e anche un oleodotto di 1.070 km che attraversasse tutto il Camerun fino al Golfo di Guinea. La Bm è stata chiamata in causa dalle compagnie petrolifere come garante (e finanziatore). Ha imposto al Ciad che l’85% dei redditi da petrolio fossero destinati a cinque settori prioritari per il paese: salute, educazione, sviluppo rurale, infrastrutture, acqua; il 5% fosse investito nella regione di estrazione (Doba, nel sud del paese) e il 10% depositato su un conto «per le generazioni future».  Un collegio di sorveglianza è incaricato di verificare la buona gestione di queste risorse. Ma la crisi intea (vedi MC aprile 2008) e i difficili rapporti con il Sudan, hanno spinto il presidente Idriss Deby a dirottare parte delle rendite petrolifere nell’acquisto di armi, allo scopo di «garantire la sicurezza dello stato». Non tutto è perduto, occorre tenere il meccanismo sotto controllo.
Un altro tentativo per ridurre il saccheggio è stata l’«Iniziativa per la trasparenza dell’industria estrattiva» (Eiti), un’idea lanciata da Tony Blair al G8 di Johannesburg nel 2002. Vorrebbe rendere trasparenti i pagamenti delle compagnie petrolifere ai paesi in cui esse estraggono, con l’obiettivo finale di ridurre il livello di corruzione. Molti stati vi antepongono la questione di «confidenzialità» sugli affari.
Il meccanismo consiste nell’avere un auditor indipendente che certifica tutti i versamenti delle compagnie al governo del paese di estrazione. Questi dati sarebbero pubblicati e confrontandoli con il bilancio dello stato, un qualunque cittadino potrebbe facilmente identificare i casi di appropriamento illecito.
Nel 2003 sette paesi aderirono all’Eiti, ma nessuno ha ancora pubblicato i dati.  Xavier Harel la definisce: «Una falsa buona idea che permette al G8 di affermare che si occupa del problema, mantenendo però lo status quo». «Non credo molto nell’iniziativa Eiti – ci racconta il giornalista –  perché funziona su base volontaria. In cinque anni non ha permesso di produrre statistiche affidabili sulle rendite petrolifere dei paesi produttori. Con l’eccezione dell’Azerbaigian».
I paesi aderiscono all’iniziativa, ma poi non pubblicano i dati, non c’è un avanzamento. A maggior ragione con l’impennata dei prezzi del barile, e quindi dei possibili guadagni, anche illeciti, nei prossimi anni.

Spunta la società civile

«L’importante è che c’è una pressione sempre maggiore della società civile, che inizia a portare qualche frutto». Xavier Harel si riferisce alla campagna internazionale «Pagate quello che pubblicate» lanciata da un centinaio di Ong, prima fra tutte la britannica Global Witness.
La campagna punta a obbligare le compagnie estrattive basate in Europa e Stati Uniti (petrolio e minerali) a pubblicare quanto versano agli stati produttori. Global Witness ha pubblicato interessanti e approfonditi rapporti sui legami tra petrolio, corruzione, povertà e conflitti in diversi paesi africani. 
Una piccola modifica giuridica nei paesi di origine delle majors, porterebbe enormi benefici alle popolazioni dei paesi esportatori. «C’è una recente proposta di legge al congresso americano (il parlamento Usa, ndr) che vorrebbe costringere tutte le compagnie estrattive, comprese quelle del petrolio, a rendere pubblici i dati sui soldi versati a paesi esteri superiori a 100.000 dollari. È il primo vero risultato del lobbing della società civile. Un primo passo enorme se si realizzasse».
Diventando legge negli Usa, le compagnie americane, per non essere svantaggiate rispetto alle colleghe europee, farebbero in modo che fosse integrata come convenzione all’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico).  È quanto è successo per la legge anticorruzione. In questo modo diventerebbe valida per tutte le compagnie occidentali.
Non è una proposta del governo ma del congresso. Il senatore che l’ha presentata dice che ci vorranno magari anni per farla passare.
«È comunque un fatto che la gente inizia a prendere coscienza del problema dell’opacità di queste transazioni e di tutte le conseguenze. La pressione della società civile e dei media fa poco a poco andare avanti le cose».
Secondo Joseph Stiglitz, economista premio Nobel, già alto funzionario della Banca mondiale: «I paesi industrializzati possono aiutare a garantire la trasparenza con una semplice misura: autorizzare le deduzioni fiscali solo per le royalities e gli altri pagamenti ai governi stranieri se la compagnia rivela totalmente quello che ha pagato e il volume delle risorse naturali estratte».
Stiglitz scrive nel suo ultimo libro La Globalizzazione che funziona: «Quello di cui questi paesi (ricchi in materie prime, ndr) hanno bisogno, non è un sostegno finanziario esterno maggiore, ma essere aiutati per ottenere il massimo valore dalle loro risorse e per spendere bene i soldi ricevuti».
Se il reddito delle materie prime che l’Africa esporta, delle quali il petrolio è in assoluto quella che rende di più, andasse sui conti degli stati e non su quelli senza nome nei paradisi fiscali, se questo denaro fosse reinvestito per sviluppare l’economia dei paesi produttori, migliorae le infrastrutture, la salute, l’educazione, i paesi africani avrebbero abbastanza risorse senza dover chiedere aiuti pubblici ai paesi industrializzati, che sono gli stessi a fare man bassa delle loro risorse naturali. 

Di Marco Bello


L’impennata del prezzo del petrolio

CARO BARILE, MA QUANTO MI COSTI

In pochi mesi il prezzo del barile di petrolio (unità di misura pari a 159 litri) è schizzato da 70 dollari a 135 (nel momento in cui scriviamo). E ce ne accorgiamo subito quando andiamo a fare il pieno di carburante. Ma l’aumento incide su tutti i trasporti e quindi sui generi trasportati. Il prezzo del barile trascina quindi con sé il costo di tutto quello che consumiamo nel quotidiano.
Ma si tratta del prezzo reale del greggio? Quali sono i meccanismi che hanno portato a questa crescita improvvisa? Ce lo spiega Xavier Harel, giornalista esperto in questioni petrolifere e africane.

«L’aumento del costo del petrolio è il risultato di una domanda che cresce molto rapidamente da parte dei paesi emergenti, soprattutto Cina e India, ma anche Medio Oriente e paesi del Golfo. Crescita combinata con una produzione che ha difficoltà a seguire. Questo crea una forte tensione tra la domanda e l’offerta su tutta la filiera petrolifera.
Ci sono 1,4 miliardi di cinesi con 16 automobili ogni 1.000 abitanti (quando negli Usa si parla di 812 e in Italia di 588). Ma il loro livello di vita è in aumento, si compreranno la macchina e inizieranno a consumare carburante. Quando si parla del 20% della popolazione mondiale, l’impatto sul consumo di petrolio è considerevole.
Alla fine degli anni ‘90 i paesi Opec (Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio) avevano una capacità di produzione non utilizzata dell’ordine di 10-12 milioni di barili al giorno. Questo vuol dire avere impianti pronti e funzionanti che aprendo un po’ di più il rubinetto potevano aggiungere sul mercato queste quantità. Oggi se gli stessi paesi decidono di aprire si aggiungono solo 2-3 milioni di barili al giorno. Si dice che il mercato è in “fuga”.

Secondo problema: le grandi compagnie petrolifere private producono solo il 15% del greggio e i paesi produttori non hanno necessariamente voglia di investire nella produzione.
Recentemente c’è stata una dichiarazione del re dell’Arabia Saudita Abdoullah il quale non vuole mettere in produzione nuovi giacimenti, perché li vuole conservare per le generazioni future.
La domanda mondiale è di circa 87 milioni di barili al giorno, e l’Arabia (che ha le più grandi riserve del mondo) ne produce 11 milioni e non vuole mettee di supplementari. Subito dopo viene la Russia, con quasi 9 milioni, ma la sua produzione sta diminuendo. Poi il Messico che è un grande esportatore, ma la sua produzione diminuisce molto rapidamente. In Venezuela la produzione stagna.
Per i più grossi produttori, i grandi giacimenti stanno andando verso l’esaurimento e la diminuzione di produzione è rapida. Questo crea un’inquietudine sul mercato, per i prossimi 2, 3, 5 anni.

Questione di riserve? Non è solo una questione di riserve, ma anche di estrazione. Si sta cercando del petrolio “non convenzionale”, come le sabbie bituminose (Canada) e petrolio extra pesante (Venezuela). L’estrazione è estremamente cara, ma oggi è diventata redditizia.
Se si considerano le riserve del petrolio extra pesante il maggior produttore al mondo diventa il Venezuela.
I giacimenti sono colossali. Ma la questione è metterli in produzione. E i paesi ricchi di petrolio non convenzionale decidono di gestire loro le proprie ricchezze. Ad esempio il Venezuela non investe massicciamente nell’estrazione ma preferisce tenere il petrolio per il futuro.

C’è anche della speculazione che è la punta dell’iceberg. Il petrolio viene venduto in anticipo. Gli industriali acquistano i diritti di avere petrolio a 5 anni (ma anche a tre mesi). Il padrone di una raffineria ha bisogno di essere sicuro che gli consegneranno petrolio in modo continuo, per poter produrre la benzina. Quindi acquista sul mercato un diritto che garantisce che in un mese gli daranno del petrolio a 130 dollari. Ma può anche acquistare un diritto a 5 anni. Oggi si sta vendendo il petrolio del 2016. In questo caso c’è speculazione nel senso che esistono fondi di investimento che fanno delle scom­messe, ma alla fine si arriva a un contratto d’acquisto di petrolio fisico.
La speculazione può funzionare un momento, può amplificare il prezzo. Ma se il petrolio è così caro oggi è perché c’è un vero problema».

(a cura di Marco Bello)

PAESI (SUB SAHARIANI) PRODUTTORI

Quattordici paesi produttori di cui 10 esportatori. Ecco i principali.

Nigeria – Capacità di produzione media 2,5-2,6 milioni di barili al giorno nel 2005, primo produttore africano sesto esportatore mondiale. È  sceso a 1,8 milioni di barili al giorno nel 2006 a causa delle violenze nel delta (vedi MC febbraio 2007). Il 98% delle sue entrate sono dovute al petrolio. Più della metà è prodotto da Shell. Il petrolio del delta del fiume Niger è di ottima
qualità.

Angola – Produzione media circa 2 milioni di barili al giorno. La metà è estratto dalla Cina. Sta vivendo un vero boom economico con crescite del Pil intorno al 20%. Ma i soldi vanno in infrastrutture e nelle tasche di pochissimi. La gente è sempre più povera.

Guinea Equatoriale – Produzione si avvicina ai 400.000 barili al giorno, in forte crescita negli ultimi anni. Sfruttamento totale da parte di compagnie statunitensi, ma ora stanno entrando i cinesi. La famiglia del presidente Teodoro Obiang Nguema gestisce tutta la ricchezza del petrolio.

Sudan – Verso i 500.000 barili al giorno. Primo fornitore della Cina.

Repubblica del Congo (Congo Brazzaville) – 260.000 barili al giorno. Nuovi giacimenti di petrolio «non convenzionale» del tipo sabbie bituminose scoperti da Eni (2008) che ne ottiene la concessione.

Gabon – Produzione di circa 250.000 barili al giorno. La produzione in decrescita per esaurimento riserve. Primo paese sfruttato in Africa dalla fine degli anni ’50.

Camerun – Produzione di circa 63.000 barili, in stallo e verso la diminuzione.

Costa d’Avorio – Produzione di 50.000 barili al giorno va verso i 100.000 e le rendite del petrolio hanno già superato quelle di cacao e caffè. Sfruttata da compagnie statunitensi, nell’assenza di trasparenza totale.

Ciad – Produzione di 160.000 barili al giorno.

Mauritania – Giacimenti in via di sfruttamento.

Sao Tomé e principe – Scoperti giacimenti, subito sopo il colpo di stato (2003). Non ancora sfruttati.

Senegal – Riserve provate.

Niger – Giacimento trovato nel 2005.

Uganda – Giacimento trovato.

Praticamente in tutti i paesi africani si stanno facendo ricerche di greggio.

Qualche dato su cui riflettere

Consumi

Domanda mondiale
di petrolio
87 milioni
di barili al giorno

Consumo medio
giornaliero Usa
(il più alto del mondo)
 20 milioni
di barili, in crescita

Consumo medio
giornaliero Cina 
circa 17 milioni,
è in forte crescita

Produttori

Arabia Saudita è il primo produttore mondiale
(petrolio convenzionale)
11 milioni
di barili pompati ogni giorno

La Russia è il secondo con
9 milioni
di barili

L’Africa produce oggi circa
9,9 milioni
di barili al giorno
 (di cui 4,7 in Africa Occidentale,
Elevabile a 6 milioni
al giorno con
investimenti adeguati)

Le riserve provate dell’Africa sono
da 80 a 100 miliardi
di barili
(10% delle riserve
mondiali),
ma molto resta da scoprire

Marco Bello




Indipendenza piena

Intervista a un rappresentante del movimento tibetano indipendentista

Mentre il Dalai Lama chiede alla Cina l’autonomia del Tibet, il Movimento internazionale per l’indipendenza del Tibet (Itim) lotta per la piena indipendenza, non solo dell’attuale Regione autonoma del Tibet (Rat) ma anche per i tibetani presenti in altri stati della Cina, come Amdo e Khamdo.

S ongtsen è il re che per primo, nel vii secolo, riuscì a unire il Tibet in un’unica nazione. Ma è anche colui che, sposando una principessa cinese, gettò le basi affinché la Cina potesse rivendicare la sottomissione della regione alla dinastia Tang.
Oggi Songtsen è il soprannome che il rappresentante a Lhasa del governo tibetano in esilio si è dato. È giovane e idealista. Forse troppo, tanto da contestare lo stesso Dalai Lama e la sua «morbidezza» mostrata, rigettando l’indipendenza del Tibet a favore di una maggiore autonomia.
Songtsen è anche il rappresentante dell’Inteational Tibet Independence Movement (Itim).

I tibetani a Dharamsala si dividono tra autonomisti e indipendentisti. Che idea prevale qui nel Tibet?
Il Dalai Lama si è trasformato in politico e il suo governo è un governo fatto di monaci-politici. Noi rigettiamo l’idea dell’autonomia, che costringerebbe i tibetani a sottomettersi agli Han. Vogliamo inoltre un’indipendenza di tutte le popolazioni tibetane, non solo del Tibet politico, ma anche dell’Amdo e del Khamdo.

E come pensi di raggiungere questi obiettivi? Non c’è nazione che appoggerebbe politicamente la vostra richiesta. I movimenti pro Tibet in Europa e in America sono assolutamente tutti pro Dalai Lama.
Quando guardo le manifestazioni davanti alle ambasciate di Cina in Europa o in Usa, vedo che tutti i manifestanti portano cartelli con la scritta Free Tibet. Free Tibet, hai capito? Non Autonomy for Tibet. Penso che siano stati conquistati dalla figura del Dalai Lama, ma che lottino per qualcosa a cui il Dalai Lama non crede più.

Tibet indipendente vorrebbe dire tornare al Tibet anteguerra? Era un Tibet violento, dove Panchen Lama e Dalai Lama si fronteggiavano con propri eserciti, devastando le campagne… Un Tibet ben lontano dall’idea di nazione pacifica e mistica che abbiamo in Occidente.
No, non vogliamo tornare a quel Tibet. Non vogliamo il feudalesimo, il ritorno all’aristocrazia, alle lotte fra i vari monasteri. Ciò che vogliamo è salvare il meglio della nostra cultura. Un Tibet non chiuso in se stesso. Se il Tibet fosse stato più aperto e avesse allacciato rapporti diplomatici e di amicizia con altri stati, forse la Cina non avrebbe potuto invaderci così facilmente.

Il Dalai Lama vorrebbe per il Tibet il ritorno a uno status politico come quello assicurato da Mao Zedong tra il 1950 e il 1959. Molti tibetani sarebbero d’accordo.
Perderemmo però la nostra identità. Noi vogliamo essere gli artefici del nostro futuro. Ogni popolo ha il diritto di vivere nella sua terra come desidera. Possiamo avere rapporti di buon vicinato con la Cina, ma non vogliamo che sia Pechino a dirci quello che dobbiamo fare.

Eppure c’è stato un miglioramento delle condizioni di vita dei tibetani grazie alla Cina.
Ma sempre sulla base delle esigenze di Pechino. Non ci servono infrastrutture, case modee, industrie inquinanti. Gli Han hanno comprato tutto. Non siamo padroni di nulla.

È esattamente quello che gli indiani di Dharamsala lamentano nei confronti dei tibetani: con i milioni di dollari che arrivano dalle varie associazioni, fondazioni, governi, i tibetani sono divenuti proprietari di gran parte di Dharamsala, relegando gli indiani a cittadini di serie B.
La soluzione sarebbe fare rientrare questi tibetani dal loro esilio. Ma solo con la totale indipendenza potremo convincerli.

Che ruolo avrebbe il Dalai Lama in un vostro ipotetico governo?
Ne sarebbe il capo, esattamente come lo sono stati i Dalai Lama precedenti. Non possiamo perdere una figura così rispettata. È il nostro passaporto per il mondo. 

Di Piergiorgio Pescali

Piergiorgio Pescali




Sedotti e abbandonati

Nel Mustang, sulle orme dei guerriglieri tibetani

Nella valle del Mustang, incastonata tra vette himalayane, c’è un Tibet etnico, risparmiato dall’occupazione cinese: indipendente o autonomo per secoli, nel 1950 il Nepal lo annesse al proprio regno, su richiesta dello stesso re del Mustang, prima che fosse l’Armata Rossa di Pechino a decretae la morte. Per due decenni la valle fu la base dei guerriglieri Khampa che, sostenuti e poi abbandonati dagli Usa, lottarono per l’indipendenza del Tibet, provocando più danni alla causa tibetana che all’esercito cinese.

Lo Monthang è una minuscola valle nepalese che si incunea per una sessantina di chilometri nell’altopiano tibetano. Come già successo per altre aree del loro impero coloniale, gli inglesi ne storpiarono la dizione in Mustang, nome con cui oggi viene comunemente identificata la regione.
Circondata da montagne alte più di 6 mila metri che ne garantivano la sicurezza, per almeno due decenni, tra la fine degli anni Cinquanta e il 1974, la valle del Mustang è stata la base del Chusi Gangdruk, l’esercito dei guerriglieri Khampa in lotta per mantenere l’indipendenza del Tibet invaso dalla Cina. Una lotta impari, ma che venne sostenuta dalla Cia, la quale offrì addestramento e armi alla guerriglia.
Fu Gyalo Thondup, fratello del Dalai Lama, a organizzare il collegamento tra i leaders Khampa e la Cia, celandone l’esistenza allo stesso leader spirituale tibetano. E fu ancora Gyalo Thondup che, nel campo profughi di Kalimpong, scelse il primo gruppo di tibetani per essere addestrati. La prima missione fu organizzata nell’ottobre 1957, quando Athar Norbu e Lhotse, vennero paracadutati a 100 km da Lhasa per incontrare il leader della resistenza Khampa, Gompo Tashi Andrugtsang.
A Leadville, nel Colorado, fu anche allestito un campo di addestramento attraverso il quale passarono circa trecento tibetani.
La grande differenza di ideali e di obiettivi che divideva il movimento tibetano dalla Cia è ben mostrata dalle parole di due protagonisti: l’ex guerrigliero Tenzin Tsultrim e l’ex agente Cia Sam Halpe. «Quando andammo in America nutrivamo grandi speranze – afferma Tenzin Tsultrim -. Pensavamo addirittura che gli americani ci avrebbero dato anche una bomba atomica».
A queste speranze controbatte Sam Halpe: «Lo scopo di organizzare un movimento di guerriglia in Tibet era esclusivamente fatto per tenere occupate le truppe cinesi. Non c’era assolutamente l’idea di portare il Tibet all’indipendenza».

Il primo gruppo di guerriglieri venne insediato nel Mustang nel 1960, sotto la guida di Baba Yeshe, un ex monaco buddista. L’anno dopo la Cia iniziò il rifoimento di armi e munizioni. Nel periodo di maggior fervore, il Chusi Gangdruk arrivò ad annoverare 2.100 uomini armati, accompagnati da altri 4 mila tra famigliari e rifugiati; un totale di 6 mila persone che andarono a raddoppiare la popolazione di una valle che, già in condizioni normali, faticava a produrre cibo a sufficienza per tutti. Accolti con benevolenza e solidarietà dagli abitanti di Lo Monthang, anch’essi di etnia tibetana, i Khampa punteggiarono la valle di campi militari. A Samar sorgeva uno degli accampamenti più grandi del Chusi Gangdruk.
Assieme a Pema, una donna il cui padre era stato assoldato a forza come portatore dai Khampa, salgo sino al luogo dove era stato allestito l’avamposto. «Da qui partiva il sentirnero che conduceva in Tibet» dice indicandomi col dito un leggero solco tracciato tra il pietrisco. «E là – continua portandomi in una grotta – c’era il quartier generale della guerriglia. A volte vedevo anche degli occidentali; seppi dopo che erano americani».
Il Congresso Usa stanziò 500 mila dollari all’anno per finanziare la rivolta, ricevendo in cambio documenti sottratti ai militari cinesi durante le incursioni. Fu grazie a uno di questi attacchi che la Casa Bianca ebbe la conferma dell’avvio della Rivoluzione culturale, del disastro causato dal «Grande balzo in avanti» e, cosa più importante, della crescente disaffezione di Mao verso Mosca.
Quando poi, all’inizio degli anni Settanta, Pechino e Washington cominciarono a riallacciare i rapporti, la Cia interruppe ogni ulteriore appoggio ai ribelli tibetani.

Senza più finanziamenti e consulenti, il Chusi Gangdruk si trasformò in una banda di predoni: ogni villaggio viveva nel terrore delle incursioni dei guerriglieri affamati. Neppure i monasteri vennero risparmiati: «Numerosi thangka e opere d’arte sono state trafugate per finanziare la guerriglia» mi dice l’abate del Jampa Lhakhang, il principale monastero di Lo Monthang.
Jigme Palbar Bista, Lo Gyelbu (re) della valle, afferma che «la guerriglia ha privato Lo Monthang di preziosi manufatti religiosi, ma ora stiamo cercando di riparare al danno con l’aiuto di studiosi e amici occidentali». Persino la sua biblioteca è stata saccheggiata di libri di scritture buddiste risalenti al 1425.
«La simpatia con cui avevamo accolto i Khampa si tramutò in odio e paura» mi dice Nyima Tsering, il padrone della locanda di Samar in cui alloggio. Lo stesso Dalai Lama afferma che «la guerriglia fu strumentalizzata dalla Cia, che abbandonò i Khampa nel periodo di maggior bisogno. È una triste pagina di storia per tutto il popolo tibetano. La rivolta armata ha causato molto più danno ai tibetani che ai cinesi».
Fu quindi con estremo sollievo degli abitanti che nel luglio 1974 la voce registrata del Dalai Lama, risuonò in tutte le basi del Chusi Gangdruk, invitando i militanti a deporre le armi. «Fu una delusione per tutti – ricorda a Dharamsala Hlasang Tsering, ex guerrigliero, poi divenuto presidente del Congresso dei giovani tibetani -. Potevamo accettare di essere abbandonati dalla Cia e dal mondo intero, ma non dal Dalai Lama. Furono molti che preferirono suicidarsi piuttosto che arrendersi». Altri decisero di trasgredire gli ordini del Dalai Lama, ma furono sterminati dall’esercito nepalese. I superstiti si rifugiarono in India, dove vivono tuttora nella consapevolezza che la loro lotta, biasimata e dimenticata da tutti, è stata inutile. E dannosa per lo stesso Tibet. 

Di Piergiorgio Pescali

Piergiorgio Pescali




Sì al dialogo (purché sia serio)

Intervista al Dalai Lama

Lo abbiamo incontrato nella sua residenza in esilio a Dharamsala (India), durante la rivolta anticinese a Lhasa; nonostante la dura repressione, il Dalai Lama continua a credere nel dialogo con Pechino, per la creazione di un Tibet democratico e autonomo. Purché i negoziati siano seri.

T enzin Gyatso, conosciuto in tutto il mondo come il xiv Dalai Lama, incarnazione del Buddha della compassione Avalokitesvara, è, dal 1959, anno in cui fuggì in India, la figura chiave della lotta tibetana contro la Cina. Nel 1989 gli è stato conferito il premio Nobel per la Pace.

Iniziamo con una domanda ovvia, ma che suscita sempre perplessità: perché nel 1959 ha lasciato il Tibet?
Perché se fossi rimasto, i cinesi mi avrebbero preso in ostaggio e questo avrebbe potuto causare una sollevazione popolare.

Cosa ha dato l’esilio a lei e ai tibetani che l’hanno seguita?
La consapevolezza che la via del Buddha è l’unico insegnamento adatto per noi tibetani. Seguendo gli insegnamenti buddisti abbiamo riscoperto un nuovo vigore della vita. Sì, posso dire che l’esilio mi ha migliorato. Per questo posso ringraziare i cinesi.

Democrazia per il Tibet. Questo è quanto lei chiede per la sua terra. Nel passato i suoi predecessori non sono però stati dei campioni di democrazia.
Sì, è vero. È per questo che, una volta assicurata al Tibet l’autonomia, mi ritirerò perché la mia figura potrebbe essere d’ingombro a un cammino democratico. Personalmente, poi, sono vecchio e non voglio ricoprire alcuna carica pubblica. Diciamo che andrò in pensione, farò il Dalai Lama a tempo pieno, dedicandomi alla disciplina buddista.
Che obiettivo si pone come guida spirituale e politica dei tibetani?
Fermare il genocidio culturale in atto. Ma per fermarlo bisogna creare i presupposti per un dialogo con Pechino. Ho già detto più volte che non voglio l’indipendenza del Tibet, ma l’autonomia all’interno della nazione cinese.

Osservando le manifestazioni in atto in Europa, in America, in India e Nepal, i sostenitori della causa tibetana portano striscioni inneggianti all’indipendenza tibetana, non all’autonomia. Siamo sicuri che all’interno del suo governo tutti lottino per la stessa causa? Non possiamo dar torto alla Cina quando chiede una prova tangibile dell’unità di intenti nel suo governo.
Free Tibet non significa necessariamente Tibet indipendente. Significa solamente che vogliamo che la Cina interrompa la politica di aggressiva colonizzazione, accettando che i tibetani ricoprano posizioni di vera responsabilità all’interno del Tibet.

Già ora le ricoprono: Qiangba Pungcog, presidente della Regione autonoma tibetana è tibetano.

Tibetano, ma anche filocinese.
Allora dovreste essere più chiari e dire che non è questione di mettere figure tibetane all’interno del governo, ma figure ben specifiche, indicate da voi. È questo il punto di attrito.
Forse.

Altro punto di attrito riguarda i diversi concetti di cosa intendere per Tibet. Il «vostro» Tibet è un Tibet etnico, comprendente anche le regioni del Gansu, Sichuan, Qinghai e parte dello Yunnan. In pratica si tratterebbe di raddoppiare la superficie sulla quale volete applicare le vostre richieste.
Noi non possiamo dimenticare i 4 milioni di nostri fratelli tibetani che vivono al di fuori dai confini amministrativi del Tibet.

È quindi un dialogo tra sordi. E parlando di sordi non mi riferisco solo ai cinesi.
Noi abbiamo già eliminato dal nostro vocabolario la parola indipendenza. Ci siamo già mossi verso la loro richiesta.

Lei di sicuro. Ma non i manifestanti pro-Tibet, non gli attivisti del Congresso giovanile, non i reduci della guerriglia Khamdo. Un compromesso con la Cina e un suo ritorno a Lhasa non risolverebbe i problemi all’interno del Tibet e, soprattutto, aprirebbe crepe nel vostro movimento.
Cerchiamo però di trovare qualche soluzione.

È ottimista?
Sì. Il regime cinese deve cambiare. È solo questione di tempo. I cinesi stessi non vogliono più vivere isolati dal mondo. Cercano la democrazia. È un processo lento iniziato nel 1989 con Tienanmen.

Quale Tibet sogna?
Un Tibet all’interno di una Cina in cui è possibile vivere in un unico paese con due sistemi. È un approccio già usato con Hong Kong e ha funzionato. Perché non utilizzarlo anche con il Tibet?
Ancora una volta ripeto che il Tibet deve rimanere con la Cina. È nell’interesse stesso dei tibetani.

Perché il Tibet non è Hong Kong: cultura, tradizioni, lingua, storia sono differenti. Pechino non si fida dei tibetani. È un ricorso storico.
Ma per trovare una soluzione ognuno deve cedere qualcosa e al tempo stesso dobbiamo fidarci l’uno dell’altro. Un Tibet simile, inoltre, è già esistito tra il 1950 e il 1959, quando il presidente Mao sovrintendeva il processo di integrazione. È a quel Tibet che guardo.

Lei ha più volte detto che il prossimo Dalai Lama verrà scoperto fuori dalla Cina. In questo modo ha sfidato apertamente le autorità di Pechino perdendo un’altra occasione di dialogo.
La prossima reincarnazione, nel tempo in cui i tibetani sono costretti all’esilio, sarà per forza di cose trovata fuori dalla Cina.

Ci saranno quindi due figure religiose, così come lo è stato per il Panchem Lama? Un Dalai Lama a Lhasa eletto con il beneplacito di Pechino ed uno «ufficiale» a Dharmasala?
È molto probabile che sia così. Starà ai tibetani decidere a quale dei due tributare gli onori e la loro fede.

Lei ha parlato anche di genocidio culturale. Cosa intendeva dire?
Oramai a Lhasa la lingua più parlata è il cinese e così nelle altre città del Tibet. Nelle scuole, negli uffici pubblici il cinese è la lingua ufficiale. Inoltre molti monasteri sono stati chiusi, altri sono stati saccheggiati se non distrutti completamente. Questo intendo quando parlo di genocidio culturale.

La violenza è sempre da evitare? Ci sono dei casi in cui lei approva l’uso della violenza?
Sì, ci sono dei casi estremi in cui la violenza può essere un’arma utilizzabile, ma sempre con l’intento di salvaguardare la dignità dell’uomo. Per esempio durante le guerre mondiali o durante la guerra di Corea, quando, per garantire la democrazia e la pace nel mondo futuro, si sono combattute delle guerre. O per salvaguardare i principi del buddismo. Ma è molto pericoloso l’uso della violenza, anche quando la si utilizza con intenti positivi. Spesso la violenza genera altra violenza.

Molti tibetani giudicano la non violenza un’arma non più proponibile per raggiungere gli scopi prefissati dal suo governo.
Specialmente le giovani generazioni. Lo so, sono al corrente che molti mi giudicano troppo morbido, addirittura troppo filocinese. Ma cosa otterremmo con la violenza? Siamo un piccolo popolo, non possiamo contare su alcun aiuto esterno in caso ingaggiassimo una guerriglia con la Cina. La Cina è potente militarmente ed economicamente e ha rapporti diplomatici con tutto il mondo. Realisticamente parlando: quale paese romperebbe rapporti con la Cina per aiutare il piccolo popolo tibetano?

Nel 2007 durante la sua visita in Italia, il papa non l’ha ricevuta. È rimasto deluso?
I rapporti tra Vaticano e Cina sono molto delicati, per certi versi simili a quelli che abbiamo noi tibetani con il governo di Pechino. Ultimamente sembra che tra Pechino e il Vaticano sia ripreso il dialogo. In questo nuovo corso, un incontro con il Santo Padre avrebbe potuto creare delle difficoltà, quindi ho accettato di non interferire. Del resto avevo già incontrato Benedetto xvi nel 2006.

Lei si è dichiarato contrario al boicottaggio dei giochi olimpici. E anche qui la sua opinione è totalmente opposta con i movimenti pro-Tibet in Occidente, che invece lottano affinché vengano boicottate.
Ho detto che appoggio i giochi olimpici e spero che si svolgano tranquillamente. Se poi alcuni capi di stato non saranno presenti all’inaugurazione, questo sarà una loro scelta.

Il governo cinese l’ha invitata più volte ad andare a Pechino e a visitare Lhasa. Perché ha sempre declinato l’invito?
Cosa accadrebbe se andassi a Pechino e tornassi senza aver concluso alcun accordo? I tibetani si rivolterebbero e rischieremmo di infiammare di nuovo il Tibet con altre rivolte e altri dolori. 

Di Piergiorgio Pescali

LACRIME DI SPERANZA
Associazione donne tibetane a Lhasa

Una leggenda tibetana narra che Jetsun Dolma, dea femminile consorte di Avalokitesvara, la divinità di cui il Dalai Lama è l’incarnazione umana, sarebbe nata da un fior di loto sbocciato dopo essere stato innaffiato da una lacrima del marito. Di lacrime, nel Tibet ne sono state versate tante nel corso della sua storia, e non sempre a causa degli stranieri, ma ultimamente il dolore del popolo si è fatto più lacerante. E con i mezzi di informazione imbavagliati, non è facile avere notizie da questo immenso altipiano. Eppure qualcosa riesce sempre a trapelare attraverso le fitte maglie della censura. Merito di quei tibetani che, a rischio della propria libertà, accettano di fare da tramite tra il loro mondo ingabbiato e il nostro.
Dolma, nome fittizio dietro a cui si cela la rappresentante a Lhasa del Movimento delle donne tibetane, è una di queste figure. Sfruttando abilmente la tradizione secondo cui le donne non si occupano di politica, di sera Dolma smette gli abiti dell’insegnante di scuola primaria e veste quelli di attivista in lotta per l’autonomia del suo paese. «Il governo controlla principalmente i tibetani di sesso maschile e questo ci permette di ottenere notizie senza destare troppi sospetti» spiega nella sua casa alla periferia della città.
È grazie a Dolma e a tibetane come lei che riusciamo a sapere quel che realmente sta accadendo in Tibet. Un incarico rischioso, certo, ma Dolma, assieme a poche altre sue compagne, continua a lavorare per la causa. «Mio marito è stato incarcerato ed è morto in un laogai (i campi di prigionia cinesi, nda). Da allora ho deciso di dedicare la mia vita per la liberazione del mio popolo».
Le lacrime del marito imprigionato, hanno fatto nascere in Dolma il fiore della speranza. Con questo fiore sfida pericolosamente il regime nel segno della non violenza che suo zio, monaco buddista al monastero di Sera, le ha impartito.

Intervista a miss Tibet 2007

Anche la bellezza serve alla causa

Il confronto che oppone Pechino al Dalai Lama non si limita allo scontro politico. La comunità tibetana in esilio in India, infatti, ogni anno elegge una Miss che, con disappunto della Cina, partecipa ufficialmente anche ai concorsi inteazionali. L’attuale Miss Tibet in carica è Tenzin Dolma, 22 anni, eletta lo scorso ottobre.

Che responsabilità ti ha dato portare la fascia di Miss Tibet 2007?
«Quella di rappresentare una terra che vuole rendersi libera e lotta per raggiungere tale fine. Voglio anche rappresentare tutte le donne tibetane, mostrare al mondo e alla nostra comunità che anche noi possiamo raggiungere traguardi inteazionali. Il mio titolo servirà a far sapere al mondo che il Tibet è un paese libero».

Sei nata in India e non hai mai conosciuto il Tibet. Ti senti più indiana o tibetana?
«È vero, sono nata in India, ma i miei nonni sono scappati dal Tibet e i miei genitori mi hanno insegnato a rispettare la nostra cultura. Mi sento tibetana al 100%. Se non lo fossi, non avrei partecipato al concorso».

Si può partecipare a un concorso anche per notorietà, per girare il mondo e non necessariamente per ideologia.
«Non per noi tibetani. Se si partecipa a Miss Tibet sappiamo che molte strade ci verranno precluse. A differenza di altre Miss, la fascia di Miss Tibet non porta fama o denaro».

Ritoeresti in Tibet se la Cina accogliesse le richieste del Dalai Lama e lui rientrasse a Lhasa?
«Immediatamente».

Oltre a un Tibet libero, cosa sogna Miss Tibet 2007?
«Vorrei vedere il paese dei miei nonni, l’Amdo. E naturalmente sposarmi e avere bambini liberi di andare nel loro paese».
E per te stessa?
«Vorrei diventare modella e girare il mondo».

Cosa ha detto il Dalai Lama del concorso? L’ha approvato?
«Certo! Sua Santità ha anche parlato direttamente alle finaliste. Ha suggerito di essere sempre umili e riservate, ma soprattutto di sentirsi sempre tibetane».

All’interno della comunità tibetana in molti, specialmente i monaci più tradizionalisti, hanno criticato il concorso.
«Sì, ma bisogna adeguarsi ai tempi. Se aiutare la causa tibetana significa passare anche attraverso strade non tradizionali nel senso stretto della parola, penso si debba percorrere anche quella strada. Io, però, non mi preoccupo delle critiche: a me è bastata l’approvazione di Sua Santità il Dalai Lama».

Di Piergiorgio Pescali

Piergiorgio Pescali




Tanti amici (ma a parole)

Reportage dal paese delle nevi

Invaso e colonizzato dalla Cina, da più di 50 anni il Tibet lotta per difendere la propria cultura e libertà, riscuotendo grande interesse e simpatia da parte dell’opinione pubblica mondiale, grazie soprattutto al carisma del suo leader, il Dalai Lama. La solidarietà, però, rimane al livello teorico: nessuno stato osa inimicarsi la potenza cinese. Ma anche tra i tibetani crescono le tensioni, mettendo in discussione il ruolo politico del loro leader.

La storia, insegnano i cinesi, è una spirale: pur essendo in continuo movimento, ciclicamente ritorna su se stessa, riproponendo eventi già accaduti nel passato. Le manifestazioni avvenute recentemente in Tibet sono la conferma di questa teoria.
Cina e Mongolia hanno sempre cercato di controllare gli altipiani tibetani, influenzando in modo determinante la cultura della regione. I mongoli, ad esempio, hanno condotto la setta dei Gelukpa a prevalere su quella degli Sakya, dando inizio alla discendenza dei Dalai, termine mongolo che significa «oceano», e di cui il lama Tenzin Gyatso è oggi il xiv rappresentante.
Ma nel dizionario tibetano esiste un altro concetto, indispensabile per capire i meccanismi che hanno segnato le fasi storiche della regione: cho-yon. Tradotto in modo approssimativo, cho-yon indica la relazione secolare che lega un maestro spirituale al suo protettore laico.
Presenza ingombrante e violenta
La storia del Tibet, sin dal xii secolo, quando i mongoli si affacciarono in queste lande, si è sempre basata su questa immagine della doppia relazione. L’abilità o meno dei vari governanti nell’amministrare questo rapporto, ha spostato l’equilibrio del potere verso Lhasa o verso Pechino.
Il fatto è che i vari regnanti tibetani non hanno mai mostrato grandi capacità nel manipolare l’arte del governo: le rivalità tra i vari monasteri, vere e proprie città stato appartenenti alle diverse sette buddiste e ognuno con propri eserciti di monaci guerrieri, hanno costretto i Dalai Lama o i loro reggenti a chiedere l’aiuto ora della Cina, ora della Mongolia, sino a rivolgersi addirittura alla Russia zarista, per mantenere unito il paese.
La presenza cinese in Tibet si è sempre mostrata ingombrante, e spesso violenta, in particolar modo durante gli ultimi anni dell’impero Manciù, quando il generale Zhao Erfeng era soprannominato il «macellaio dei lama». Da parte loro, i governanti tibetani non hanno mai fatto nulla per ricercare simpatie altrove. L’unico tentativo di allacciare relazioni diplomatiche con un paese occidentale, fu fatto con la Germania di Hitler, la cui ammirazione per le religioni orientali e per la teosofia di Madame Blavatsky portava i suoi interessi nelle regioni indoeuropee. Una pagina non proprio edificante che oggi i tibetani cercano di nascondere.
È in questo contesto che i cinesi di Mao Zedong sono arrivati in Tibet, all’inizio accolti con favore dai monasteri fedeli all’altra autorità spirituale del paese: il Panchen Lama, allora in disaccordo con il Dalai Lama. La politica maoista fu quella di mantenere lo status quo della regione, evitando cambiamenti repentini e iniziando un dialogo con il Dalai Lama sulla base del cho-yon.
Fu invece sopraffatto dagli eventi. Nel 1959 il segretario del Partito comunista dello Sichuan, Li Jingquan, contro il volere dello stesso presidente, diede inizio alla politica d’integrazione totale: le proprietà vennero requisite, i monasteri chiusi, la lingua tibetana vietata nelle scuole e negli uffici pubblici. In poche settimane la situazione precipitò e il Dalai Lama fuggì in India.
Solo dopo il 1980 i cinesi cominciarono a cambiare politica verso il Tibet, accogliendo una delegazione di tibetani in esilio guidata dal fratello del Dalai Lama, riaprendo i monasteri, inserendo la lingua tibetana nelle scuole e iniziando il dialogo con il governo in esilio in India. Ma, come accaduto per altre regioni, lo sviluppo economico voluto da Pechino è stato interpretato diversamente dai tibetani: l’arrivo di migliaia di Han, la costruzione della ferrovia del Qinghai che collega Lhasa a Pechino in 48 ore, lo sviluppo turistico della regione, sono ragioni sufficienti per accusare la Cina di voler annientare la cultura locale.

Paura per tutti

È all’interno di questo quadro storico che sono tornato in Tibet, dopo essere stato testimone delle manifestazioni della scorsa primavera, cercando di comprendere cosa stesse accadendo realmente al di là delle simpatie che tutti noi abbiamo verso un popolo pacifico, oppresso da un regime che sta ancora cercando di trovare un nuovo equilibrio dopo la morte del Grande Timoniere.
Appena messo piede a Lhasa si comprende immediatamente che molto è cambiato nella società: i vicoli della parte vecchia, solitamente brulicanti di gente, sono deserti e così il mercato, che in questo periodo dell’anno ospita migliaia di pellegrini e mercanti provenienti dagli altipiani ancora innevati.
La normalità è tornata nella capitale tibetana, continuano a recitare i proclami ufficiali. Ma è una normalità fittizia, dettata dalla dura lex chinensis, che esclude ogni forma di dissenso, specie se espresso in forma autonomista.
L’Armata Rossa ha spento le fiamme della rivolta, ma tutti sanno che le braci ardono ancora sotto il sottile manto di cenere. E tutti hanno paura. Hanno paura i tibetani, che cominciano a sentirsi abbandonati dal mondo; ma hanno paura anche i cinesi i quali, nell’anno che avrebbe dovuto sancire l’apoteosi dell’economia asiatica, vedono gli occhi del mondo puntati sulla parte sbagliata della nazione. Guardiamo tutti non verso Pechino, dove si svolgeranno in pompa magna i giochi olimpici, ma al Tibet e, in misura minore, allo Xinkjiang, regione dove la repressione si esprime in forme più violente e subdole rispetto a quella tibetana.
«Pechino è infuriata: dopo aver perso i giochi olimpici del 2000 ed aver atteso questi per oltre un decennio, ora i tibetani e gli uiguri stanno rovinando tutto» afferma Mark Allison, collaboratore di Amnesty Inteational a Hong Kong. Allison aggiunge anche che la Cina non ha ancora svelato il «mistero» che circonda la figura di Gedhun Chuekyi Nyima, il quale dal 1995, anno in cui il Dalai Lama lo ha riconosciuto come undicesima reincarnazione del Panchen Lama, è tenuto segregato in un luogo segreto dalle autorità di Pechino. «Aveva sei anni all’epoca ed è stato riconosciuto da Amnesty come il più giovane prigioniero politico del mondo». Dice Allison.

Dagli slogan all’oblio

Ma quanto si concentrerà l’attenzione dell’Occidente sul Tibet? «Remember Burma», ricordati la Birmania, ammonisce Tenzing Dorma, professore di storia alla Tibet University di Lhasa, riferendosi all’oblio in cui è piombato il paese del sudest asiatico dopo l’ondata di interesse durante la repressione dei monaci birmani.
«Gli scontri del 14 marzo sono stati i più violenti dal 1989 ad oggi» dice Pasang Norbu, un monaco originario di Golmud. «Personalmente non ho visto nessuna vittima, ma molte famiglie tibetane lamentano la mancanza di questo o quel famigliare». Se Parigi valeva bene una messa, quanto varrà Pechino? Sicuramente più dei 19 morti, ufficialmente dichiarati dalle autorità, o dei 99 proclamati dal governo in esilio.
A parole «siamo tutti tibetani», ma quando si tratta di mettere in pratica gli slogan espressi durante i cortei di piazza, ecco che si preferisce delegare chi sta più in alto. Si chiede il boicottaggio dei prodotti cinesi, ma quando si tratta di comprare abbigliamento, Hi-Fi, computer, accessori per la casa, entrambi gli occhi vengono chiusi di fronte ai prezzi concorrenziali del made in China. Ancora una volta il portafogli prevale sulla coscienza: meglio che il boicottaggio lo facciano gli altri, magari i governi e magari su prodotti che non vengono venduti nei supermercati.
E così, tra i tibetani, si sta sempre più radicando la sindrome del falso amico. Un attivista indipendentista che vive a Lhasa, il cui nom-de-guerre, Songsten, rievoca il primo re che nel vii secolo unificò il Tibet, ricorda che nessuno stato occidentale ha mai voluto riconoscere il Tibet come nazione indipendente. «Si è sempre preferito assecondare il volere della Cina. Al massimo premevano per garantirci uno status di autonomia. Ma nessuno ha mai appoggiato le richieste di indipendenza».
Del resto già nel 1715 il padre gesuita Ippolito Desideri, che studiò presso l’Università di Sera e grande amico del vii Dalai Lama, incluse il Tibet entro i confini cinesi in una mappa da lui disegnata. E fu lo stesso Tibet a rigettare le offerte di relazioni diplomatiche avanzate da alcuni stati europei durante la prima metà del Novecento.
Solo con la Germania nazista, come già accennato, si stabilirono stretti contatti, sino a consentire a una spedizione antropologica alla ricerca della «razza pura» di girare in lungo e in largo la regione. «La spedizione nazista di Est Schafer, voluta da Himmler, ebbe l’appoggio del Kashag. Fu l’unica spedizione ufficialmente a scopo scientifico, a poter soggioare in Tibet per più di un anno» spiega Christofer Hale, autore del libro La crociata di Himmler – La spedizione nazista in Tibet nel 1938.
E ancora, fu lo stesso Dalai Lama ad accettare, il 26 ottobre 1951, l’«Accordo in diciassette punti» che sanciva «il ritorno del popolo del Tibet alla grande famiglia della madrepatria, la Repubblica popolare Cinese».

Dal karma al materialismo

Tutti questi insegnamenti che la storia ci propone, devono essere ricordati per capire le innumerevoli sfaccettature che offre la questione tibetana. «Abbiamo sbagliato nel passato. Lo hanno fatto i nostri padri e le loro colpe oggi ricadono su di noi. È la legge del karma, la legge di causa-effetto che regola la vita di tutto l’universo» ammette Tsultrim, vice abate del monastero di Pel Kor a Gyantse.
Alla legge del karma, i cinesi contrappongono la legge del materialismo, fatta di industrializzazione accelerata che ha costretto il governo centrale a promuovere un largo afflusso di Han e di turisti sin dal 1984. Ed anche se questo processo non era premeditato per spostare a favore degli Han l’equilibrio demografico del Tibet, come comunemente è fatto credere, è stato proprio questo a concentrare l’attenzione dei tibetani sul problema etnico.
Non è un caso che le rivolte di marzo, siano state più violente nel cosiddetto Tibet etnico, cioè in quelle regioni, come il Gansu o il Sichuan, separate politicamente dal Tibet, ma abitate da etnie tibetane. Lo stesso Dalai Lama, in base a questa classificazione cinese, sarebbe nato in Cina, visto che l’Amdo oggi non fa parte della Regione autonoma tibetana. Qui, al risentimento verso i cinesi, si aggiunge un senso di isolamento dalla «madrepatria», che si esprime attraverso forme di protesta che sfociano in veri atti di sfida. È proprio in una cittadina del Gansu, a Hezuo, che i rivoltosi sono riusciti a compiere l’azione più spettacolare: ammainare la bandiera cinese e issare quella tibetana.
Una sorta di Iwojima modea, prontamente occultata dalle autorità cinesi, che si sono affrettate a ripristinare lo status quo precedente. «La Cina afferma che il Tibet ha avuto uno sviluppo economico enorme grazie alla modeizzazione; è vero, ma per questo sviluppo abbiamo dovuto sacrificare, oltre alla cultura, il nostro ecosistema» ricorda uno studente incontrato in un ristorantino nei pressi dell’università.
Durante gli anni Sessanta, per compiere il «grande balzo in avanti» e divenire la prima potenza mondiale produttrice d’acciaio, tutte le regioni cinesi furono sottoposte a sistematici saccheggi naturali. Ma queste devastazioni ecologiche, accompagnate da installazioni nucleari e militari, non furono subite solo dal Tibet, bensì in tutta la Cina, come ha esaurientemente spiegato Jasper Becker, nel suo libro La rivoluzione della fame. Cina 1958-1962: la carestia segreta.
Il già citato Xinkjiang, ad esempio, ha patito distruzioni ben peggiori che ancora oggi si ripercuotono sulla popolazione e sulla cultura locale. Purtroppo per gli uiguri, loro non hanno un Dalai Lama e una religione «esotica» ed «affascinante» come quella buddista in grado di affermarsi tra l’opinione pubblica occidentale.

Un esilio in tensione

Inoltre, è anche vero che nella regione di Dharamsala, i tibetani, grazie ai finanziamenti ricevuti dalle organizzazioni pro-Tibet dell’Occidente, hanno «colonizzato» tutte le attività commerciali, allontanando gli autoctoni e creando tensioni che, seppur non siano mai degenerate in scontri, cominciano a causare qualche perplessità nel governo indiano.
M.K. Bhadrakumar, ex ambasciatore indiano a Mosca, Islamabad e Kabul, che mi accompagna a Dharamsala, spiega che «Dharamsala è su suolo indiano, ma oramai è come se fosse una città straniera per noi. Non abbiamo alcun controllo sulla comunità tibetana in India. Da ospiti sono diventati padroni». Poi, davanti ad una tazza di tè salato, continua: «Sono sicuro che le manifestazioni di Lhasa sono state organizzate, se non dall’entourage del Dalai Lama, dalle organizzazioni estremiste tibetane, che compongono il mosaico politico della comunità in esilio».
Le relazioni tra New Delhi e Dharamsala, ottime fino a qualche anno fa, si stanno deteriorando. Ora che l’India ha iniziato a interloquire con la Cina, la questione tibetana si sta facendo sempre più bollente e il governo di Manmohan Singh spinge affinché anche il Dalai Lama accetti di intavolare un dialogo fruttifero con Pechino. «Il problema non è tanto il Dalai Lama» spiega a New Delhi Subramanian Swamy, esperto in Cina e consigliere economico del governo Singh, «ma i suoi consiglieri, poco inclini al compromesso con Pechino. La comunità tibetana in India è formata da innumerevoli gruppi in contrasto tra loro e ognuno di questi gruppi ha, all’interno del governo tibetano in esilio, un suo rappresentante.
Uomini come Tsewang Rigzin, presidente del Tibetan Youth Congress, o Tenzin Choeving, dello Students for a Free Tibet, sono in aperto contrasto con il Dalai Lama e chiedono che il Tibet diventi una nazione completamente indipendente. Il Dalai Lama deve mediare tra tutte queste posizioni».
Il ruolo del leader tibetano, quindi non è così indiscusso come potrebbe sembrare. Il dover mediare tra opinioni in contrasto tra loro, ora che anche l’India preme affinché apra un dialogo con la Cina, lo pone di fronte a un bivio cruciale.
Se fino ad oggi, l’ambiguità del suo status politico-religioso garantito dall’esilio, gli ha assicurato la leadership, ora che è costretto a scegliere nei fatti quale politica perseguire, è inevitabile che all’interno della comunità si creino delle fratture forse insanabili. Se sceglie la linea dura si potrebbe alienare le simpatie dei governi sino ad ora a lui solidali come India e Nepal; viceversa, rigettando definitivamente l’idea dell’indipendenza (già rifiutata nei suoi discorsi sin dalla fine degli anni Ottanta), i gruppi più oltranzisti rischierebbero di rifiutare la sua figura di leader e continuare una lotta separata.
Il Dalai Lama, oramai figura ingombrante anche per l’India che lo ospita, sente la pressione del tempo che fugge e deve cercare di trovare una soluzione soddisfacente più per lui che per la Cina. Nella logica del cho-yon ora è lui ad aver bisogno di Pechino. 

Di Pergiorgio Pescali

Piergiorgio Pescali




Tetto del mondo … occupato

Introduzione al Dossier

La rivolta anticinese del marzo 2008 e relativa repressione hanno riportato alla ribalta il dramma del Tibet, dal 1949 occupato dalla Cina e oggetto di una colonizzazione genocida.
In quasi 60 anni si stima che circa 1,2 milioni di tibetani siano morti in conseguenza dell’occupazione cinese; il 90% del patrimonio artistico e architettonico tibetano è stato distrutto; il trasferimento massiccio e ininterrotto di coloni cinesi (7 milioni) ha ridotto i tibetani a una minoranza nel proprio paese (6,5 milioni); la sistematica politica di discriminazione delle autorità cinesi ha emarginato la popolazione tibetana in tutti i settori, scolastico, religioso, lavorativo; lo sviluppo economico in atto in Tibet arreca benefici quasi esclusivamente ai coloni cinesi…
E la tragedia continua: migliaia di tibetani sono in carcere per reati di opinione; lingua, religione, storia, cultura sono negate; le donne sono sottoposte al controllo delle nascite mediante sterilizzazioni forzate e aborti; il fragile ecosistema del Paese delle Nevi è compromesso da sfruttamento delle risorse, deforestazione, stoccaggio di materiale radioattivo…

Negli ultimi 50 anni la questione tibetana ha attratto su di sé un reale interesse che, pur se a fasi altee, continua fino ai nostri giorni. Numerose risoluzioni dalle Nazioni Unite (1959, 1961 e 1965), del Congresso Usa, del Parlamento Europeo e di molti parlamenti nazionali hanno deplorato il governo cinese per le violazioni dei diritti umani e delle libertà democratiche, ma senza concreti risultati.
Le Olimpiadi di Pechino riportano il problema del Tibet e di altre minoranze etniche cinesi sotto i riflettori inteazionali. Alcuni capi di stato hanno deciso di boicottare l’apertura dei giochi olimpici… Basterà tale protesta per piegare il colosso cinese a intavolare un dialogo serio e costruttivo per risolvere il problema? I dubbi sono molti, ma non bisogna perdere la speranza.

di Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Sotto la sabbia

Ai confini (2a)

Il lutto, la perdita di una parte della propria esistenza. Occorre rielaborare, ma anche riorganizzarsi. E per questo può essere necessario un appoggio sociale. Come i gruppi di mutuo aiuto. E per gli immigrati ci sono pure altre difficoltà. La necessità di adattarsi, senza però perdere la propria cultura.  

Tema doloroso, quello della morte. Imbarazzante, pungente, difficile da affrontare. La perdita di una persona cara è l’abbandono di un pezzo di vita, di  pochi o tanti fotogrammi che hanno composto il nastro di un’esistenza. Morte e lutto sono trasversali a tutte le etnie, a tutte le culture e gli strati sociali. E se la ferita è tanto profonda per il cittadino italiano, quali e quante risposte trova l’immigrato in un contesto di alterità? Lontano dalla propria rete familiare e dal medesimo tessuto sociale. Ne abbiamo indagato alcuni aspetti, nell’anno del dialogo interculturale.

La ricerca profonda

Lutto deriva dal latino lugere, ossia piangere. È un concetto che si lega indissolubilmente alla sofferenza e al momento delle lacrime. Certo è che, in primis, il lutto scardina e scompagina il nostro esistere. È  uno schiaffo in pieno giorno, una caduta dall’alto, un male dentro che non trova conforto. Soprattutto dalla perdita fisica della persona cara. Perché, in realtà,  qualsiasi separazione a cui l’essere umano è sottoposto nel corso della propria esistenza è un lutto. Un evento che implica uno stravolgimento e rende imperativo l’accettare che  una parte della vita si è conclusa ma che rimane intatta nella memoria e in fondo al cuore.
È il momento della ricerca del senso, di un’evoluzione più profonda, di un «ritrovarsi» in maniera autentica.
Ma cosa accade dentro la scatola umana quando si affronta tale esperienza? «Il lutto, sia esso relativo alla morte fisica di una persona, oppure a una separazione tra viventi o anche una migrazione da un contesto geografico e sociale verso un altro, necessita di tempo per essere elaborato» sono le parole di  Désirée Boschetti, 34 anni, psicologa psicoterapeuta. «L’elaborazione è un percorso emotivo attraverso il quale la persona non dimentica quanto è accaduto ma trova la forza per guardare avanti, in un certo qual modo  è la sofferenza a venire elaborata, cessando di essere invasiva e distruttiva e mantenendo inalterato il ricordo».
Il tempo diventa protagonista di un processo umano complesso e tortuoso: quello dell’elaborazione. L’orologio non si ferma, ore e minuti proseguono la loro corsa. Come avviene l’elaborazione di una sofferenza così inspiegabile? «Alcune fasi psicologiche sono ricorrenti davanti a un evento luttuoso. Si passa dallo shock iniziale, alla rabbia, alla depressione e alla tristezza, fino a giungere a una sana riorganizzazione della vita stessa. Ri-progettare l’esistenza alla luce del fatto che «l’altro» non c’è più, ri-organizzare spazi fisici e sociali. Ma come sempre questa è la prassi antologica, poi ogni lutto è a sé. Nel peggiore delle ipotesi può capitare che si faccia fatica ad uscire dalla fase depressiva, bloccando e rendendo così patologico il percorso di elaborazione. Questo accade spesso quando la relazione tra le persone era di tipo simbiotico e pertanto non si perde solo l’altra  persona ma una parte centrale della  propria identità».

Scollamento dalla verità

«Sotto la sabbia» è un film di François Ozon che, con delicatezza, restituisce allo spettatore il dramma di una moglie, che alla scomparsa in mare del marito mette in moto una scissione tra mondo reale e mondo immaginario, negando la morte anche davanti alla realtà finale.
È il dramma della separazione improvvisa, della sparizione che non offre neanche la possibilità di un ultimo commiato. «Quando la negazione è così rigida si ha uno scollamento netto dalla verità dei fatti che tende a diventare patologico. Quando parliamo di “elaborazione” tutto è soggettivo. Entrano in gioco le differenti personalità, il rapporto con il defunto, il tipo di decesso, se improvviso o “atteso”,  altri lutti recenti in famiglia e soprattutto se era una relazione pacifica o conflittuale. In questo caso, quando non è più possibile ricucire i conflitti e permangono “sospesi” verbali e affettivi, tutto si complica».
Per non passare dal dolore della perdita al dramma della non accettazione e all’incapacità di ricominciare a vivere, esiste un antidoto che si possa iniziare a prendere da «viventi»? «Sicuramente più sincera e autentica è la relazione  tra le persone,  meno il tema della morte diventa tabù e più diventa semplice salutarsi. Per quanto possibile è dunque fondamentale cercare di esteare i disagi e i conflitti, esprimerli e trovare insieme delle soluzioni. E soprattutto non nascondere “segreti significativi”, taciuti importanti della propria vita,  che possano venire alla luce dopo il decesso della persona e che possano danneggiare l’altro, mettendo alla prova l’autostima e obbligandolo a ridefinire un passato che ormai trova impregnato di finzione».

Gruppi di mutuo aiuto

In una società centrata sull’individuo e sull’individualismo non si sente la necessità di ritualizzare il lutto, di risocializzarlo? Quanto siamo cambiati e quanto si è modificata socialmente e storicamente l’esperienza del  lutto?
Marina Sozzi, docente di tanatologia (parte della psicologia che studia l’elaborazione del lutto) presso l’Università di Torino e Direttrice scientifica della Fondazione Fabretti, ci spiega: «In Occidente, fino agli inizi del Novecento, la morte di una persona si costituiva come evento sociale e pubblico. In diverse zone dell’Europa meridionale, in particolar modo in quelle rurali, esistono ancor oggi diversi rituali che coinvolgono gran parte della comunità. Queste modalità  permettono di “addomesticare” la morte.
È invece peculiare della nostra epoca modea evitare il disagio emotivo che causa il morire. Respingere e dissimulare la morte comporta però un alto prezzo da pagare. La sofferenza interiore per la perdita e la solitudine che l’accompagna incrementa le sindromi depressive e la difficoltà a ritornare a una vita normale».
Sembrerebbe quasi che parlare di morte sia diventato osceno e che la tristezza non possa essere manifesta. La privatizzazione del lutto, dunque, l’ha reso un evento troppo psicologizzato e poco sociale. Esistono rimedi o progetti per riconsiderarlo a livello comunitario e far sì che la gente si senta meno sola?
«La Fondazione Fabretti di Torino ha recentemente aperto un servizio di supporto al lutto totalmente gratuito che comprende uno sportello in città, gestito da uno psicologo esperto in materia, alcuni gruppi di mutuo aiuto, una campagna informativa presso i cittadini, la formazione dei medici di base e la collaborazione con la curia e con le molteplici associazioni di volontariato. Questo dovrebbe creare una rete di solidarietà estendibile a macchia d’olio, una specie di comunità protettiva per arginare stati di solitudine».
Nello specifico come si differenzierà lo sportello dai gruppi di mutuo aiuto e come sensibilizzerete gli operatori sanitari?
«Lo sportello si traduce in un centro di ascolto in cui è lo psicologo a valutare quali strade consigliare all’utente. I gruppi di mutuo aiuto, che nei paesi anglosassoni esistono già da diversi anni, si basano sulla formazione  di gruppi che “condividono” il medesimo disagio. Il mutuo aiuto inizia con l’auto aiuto, ossia nel momento in cui la persona riconosce l’esistenza di un problema e si attiva per risolverlo.
L’esperienza di condivisione giova a esprimere i propri sentimenti, a riflettere sulle proprie modalità di comportamento, ad aumentare le capacità individuali nel far fronte ai problemi, sia psicologici sia pratici. Ma anche  a incrementare la stima di sé e a facilitare la nascita di nuove relazioni sociali e di una migliore qualità della vita. A supportare il gruppo ci sarà un esperto, non per tecnicizzare ma per pilotare le dinamiche emotive.
La sensibilizzazione e la formazione presso i medici di base faciliterà invece la possibilità di dar valore a una relazione umana medico-paziente in modo tale che l’operatore sanitario individui campanelli d’allarme importanti nelle persone in lutto e sappia indirizzarli verso il nostro servizio.
Si cercherà inoltre di coinvolgere la curia affinché si creino nuove figure di assistenti spirituali, meno attenti all’orologio ma più aperti al dialogo e pronti a ridare speranza nella vita».

Immigrazione e lutto ovvero: adattarsi

Un’operazione capillare, dunque, per sanare ferite ma anche per ricordare al mondo che senza la condivisione è impossibile sconfiggere il malessere.
Ma cosa succede quando l’unica esperienza inevitabile della vita avviene durante la migrazione? Ne parliamo con Javier Gonzáles Diez, dottorando di ricerca in Scienze Antropologiche presso l’Università degli Studi di Torino,  studioso di religione e immigrazione, oltre che assegnatario di differenti borse di studio sul tema tanatologico, sia presso il Centro Piemontese di Studi Africani che presso il Centro interculturale della Città di Torino.
«Indubbiamente le domande di senso, in questo caso,  aumentano di intensità. Oltre a chiedersi il perché della morte, ci si chiede anche perché si muore altrove. In un altrove dove diventa ancor più complicato “normalizzare” la situazione funebre.
La lacerazione della morte necessita infatti di una sorta di spiegazione e questo può accadere solo con gli appositi rituali funebri. L’esperienza migratoria richiede un surplus di risposte sia esistenziali che antropologiche. La stessa migrazione è di per sé un trauma del quale a volte non si incontrano giustificazioni e trovare la morte in una parentesi simile lo è ancor di più».
A volte si banalizza pensando che le concezioni funebri degli immigrati vengano importate in misura identica in un contesto di alterità, senza considerare la difficoltà o l’impossibilità ad attuarle. E, ancor più sovente, non è una questione di cui interessarsi.  «La popolazione autoctona tende a dar per scontato alcune usanze funebri senza considerare che sono il frutto di un percorso storico e culturale basato sul cristianesimo. Il migrante deve invece trovare una soluzione in base alla propria religione, dovendosi dunque adattare al contesto in cui vive. Incontrando pure degli ostacoli che possono essere di tipo legislativo o pratico.
I musulmani, ad esempio, per quanto riguarda il primo caso hanno l’esigenza religiosa di essere seppelliti entro 24 ore dal decesso ma secondo la nostra legislazione occorre attendere 2 o 3 giorni. Questo è un chiaro intoppo legislativo.
Dal punto di vista pratico un rituale fondamentale per accompagnare l’anima durante il trapasso è il lavaggio  del corpo che prevede però uno spazio apposito (negli ospedali ad esempio) con una fonte di acqua pura, ossia utilizzata solo per quella evenienza. Questo è un limite che potrebbe essere superato da una maggiore sensibilizzazione e dalla buona volontà delle istituzioni, dando così il giusto rispetto che meritano i rituali delle culture “altre”. In tal senso sono in corso progetti pionieristici nel Nord Italia ma è prematuro parlarne».
Ma limitazioni di vario genere e prepotenti  gap culturali non provocano nell’ immigrato sensi di colpa a livello religioso e la necessità di doversi giustificare con sè stessi e con la famiglia rimasta nel paese d’origine? «Se consideriamo che i musulmani, per religione, dovrebbero essere inumati nella sola terra senza bara, è chiaro che siamo davanti a un adattamento forzato. A cui devono rispondere legittimando la scelta imposta, come quella della bara, e aggirando per quanto possibile la situazione. Magari scegliendo la bara più sottile e quindi più a contatto con la terra. È un po’ come se la nostra società guardasse dalla finestra la capacità di adattarsi da parte degli immigrati.
In questo senso c’è ancora molta strada da fare. Basterebbero minime modifiche nelle legislazioni, ma soprattutto maggiore informazione, attraverso convegni e dibattiti, per poter ridefinire il concetto di comunità multietnica».
Il lutto, nel suo stravolgente dirompere, può dar vita a delle nuove forme di aggregazione? «Sì, a volte sono proprio le difficoltà pratiche legate al rimpatrio della salma e alla burocrazia a esso relativa a mettere in comunicazione mondi che nei propri paesi d’origine erano agli antipodi. Si creano così  nuovi spazi sociali, nuove reti comunitarie. Dal dolore non fuoriesce sempre solo depressione e isolamento. Attoo al credo religioso, alla solidarietà e al bisogno comune si possono formare nuovi gruppi con personali identità».

Una permanenza transitoria

Il significato del rimpatrio ci offre l’idea di quanto l’immigrato consideri il suo vivere «altrove» ossia nel nostro «qui» una permanenza transitoria, ben distinta dal concetto di eternità che può essere vissuta solo nel proprio paese d’origine.
Un ritorno alla terra, in comunione con i propri avi. Il senso della famiglia, delle amicizie e delle tradizioni che la lontananza non può spezzare. «Il desiderio di portare a casa il defunto è prioritario per noi rumeni. C’è un senso di appartenenza alla propria comunità e alle proprie radici molto forte. Soprattutto in ambito rurale, tutta la collettività partecipa al rituale funerario che assume così connotati festivi. Il funerale non deve essere consumato in fretta.
Qui (in Italia, ndr), il tenore di vita è più alto ma si è perso il senso delle tradizioni più profonde. La “fretta” è diventata una costante della vita e ha cancellato l’importanza del sapersi assaporare il momento. Un passaggio doloroso, come quello di una  morte, ha bisogno di sospendere la corsa. Di riflettere, di organizzarsi, di compatire insieme».
Sono le parole di  Rodica Manciu, mediatrice culturale rumena presso l’Ospedale infantile Regina Margherita di Torino. «Da noi la veglia funebre dura tre giorni, durante i quali la vita è sospesa. Tutta la comunità accorre a casa dello scomparso, che non rimane mai  solo.
Al defunto viene lasciata una candela tra le mani, che possa illuminargli la strada verso l’aldilà. Si mangia qualcosa, si beve, si canta  e soprattutto si parla. È un dialogo diretto sulla vita, sulla morte e sulla naturalezza che tutto ciò deve avere. La paura viene esorcizzata attraverso un’autentica ritualità partecipativa».
Queste parole chiariscono l’esigenza di riportare alla terra natia il defunto. Ma i costi sono elevati e la burocrazia infinita.
Come e chi interviene a favore degli immigrati in tale situazione? Ne parliamo con Ranà Nahas, mediatrice culturale musulmana dell’associazione Alma Mater di Torino: «Le pratiche sono lunghe, il rapporto con le Istituzioni non sempre fluido. Attoo all’imam si forma la nostra comunità religiosa, che solitamente lavora insieme per arginare gli ostacoli. Quando l’esigenza è quella di rimpatriare la salma vengono richiesti  degli aiuti finanziari durante la preghiera quotidiana. Solitamente c’è molta solidarietà.
Se il defunto viene sepolto in Italia (recentemente è stato creato uno spazio apposito per i musulmani nel  Cimitero Parco, di Torino Sud), invece, si segue l’iter di presentare la documentazione al Comune che, in caso di indigenza, procura la bara e gli oamenti funerari. 
Il cammino è ancora in salita. Sarebbe auspicabile che l’informazione fosse estesa anche alla comunità italiana, affinché ci fosse un sentire comune che creasse una rete sociale sensibile più estesa e compatta in questi momenti».

Riconoscere le culture ma senza stereotipi

Come trasformare il nostro pensiero affinché si possa considerare «multietnica» la società in cui viviamo? Ci dice ancora Javier Gonzales: «La concezione in voga è quella del “pacchetto culturale”,  ma nessuna cultura va impacchettata. All’interno di un’etnia ci sono gli individui e sono loro, differenti gli uni dagli altri per mentalità e vissuto personale, a fare delle scelte. Si rischia sempre di toccare le estremità di un discorso: da un lato appiattire tutto, negando che ci siano differenze. Dall’altro estremizzare creando solo stereotipi culturali. L’ideale sarebbe riconoscere le diversità, senza applicare delle etichette, altrimenti si ricade nella società segregazionista che tanto assomiglia al modello di apartheid.
Le soluzioni non arrivano mai dall’alto, attraverso scelte autoritarie o politiche, le decisioni vanno condivise attraverso il dialogo, rendendo le persone parti attive nella negoziazione delle scelte. Questo è il modello della vera società multiculturale che profuma di elasticità mentale, informazione e soprattutto della capacità di ascoltare». 

Di Gabriella Mancini

Gabriella Mancini