L’EREDE

Intervista a don Marino Basso, rettore del Santuario della Consolata di Torino

Prete «da cortile», come si definisce egli stesso, don Marino guida ormai da qualche anno il cuore spirituale della città di Torino. In occasione della festa del 20 giugno lo abbiamo incontrato e gli abbiamo rivolto qualche domanda. Ci ha parlato di Maria, ma anche di una città che, seppur in rapido cambiamento, continua ad aprire il suo cuore alla Madre di Dio.

Alcuni dicono che nel volto somigli un po’ all’uomo che più di ogni altro ha legato il suo nome al santuario, essendone stato il rettore per ben 46 anni: il beato Giuseppe Allamano.  Ma le similitudini non si fermano qui. Don Marino è nato a Chieri, nell’aria dell’Allamano e dei grandi santi castelnuovesi. «L’aria mi ha fatto bene, ma la strada è ancora lunga…» dice ridendo.
Parecchia polvere mangiata negli oratori di periferia e della cintura torinese come vice curato: la pastorale nel sangue. Poi, un’altra comune esperienza con il santo predecessore: dal 1992 al 1997 è rettore del seminario maggiore. Un’esperienza che don Marino definisce «bellissima», al servizio di più di 70 studenti di teologia. Infine, dopo un’altra breve parentesi pastorale, arriva la «mazzata». «Nel 2001, all’età di 45 anni, sono stato nominato rettore del convitto e pro-rettore del santuario della Consolata. L’incarico a pieno titolo l’ho ricevuto il 2 febbraio 2006. Per uno che veniva dal lavoro sul campo, negli oratori, il cambio è stato grande. Mi sono dovuto abituare».
L’incontro con don Marino  si svolge in una saletta del convitto: «Luoghi frequentati dall’Allamano», mi ricorda. Gli chiediamo:

La gente continua anche oggi ad essere affezionata alla Consolata e al suo santuario?
Nel giugno 2004, durante la meditazione della novena, il cardinale  disse che il santuario della Consolata era «il cuore spirituale della diocesi». Il santuario è sempre visitato, abitato da qualcuno che viene a trovare la Consolata nella calma e nel silenzio. Le cappelle laterali permettono di raccogliersi nella libertà più personale e trovare l’intimità per incontrare la madre di Dio.
In questo silenzio della Consolata, che si avverte quando si entra nel santuario, c’è tutta l’attenzione ministeriale di Maria. Sembra che rimanga nel quadro invece, nel silenzio, si apre all’accoglienza e all’ascolto. Frutti di quest’attitudine sono la consolazione, la pace, la calma interiore, il grande dono di sentirsi visitati, anche nelle sofferenze più profonde, dalla Madre di Dio.
La chiesa sempre aperta permette un servizio a tempo pieno, anche nell’ora del pranzo, di cui la gente approfitta per venire a pregare o semplicemente a rimanere in silenzio. È certamente il luogo nel quale la gente viene in una situazione di felicità o in un momento di grande sofferenza e alla Consolata apre il cuore. Ciò che la Consolata raccoglie tutti i giorni, solo lei lo sa, di bello e di brutto, io faccio solo un po’ da segretario. Ciò che lei opera ogni giorno è racchiuso nel segreto della relazione che lei opera ogni giorno con chi a lei si affida.

Avvertite anche voi il senso di stanchezza spirituale che sembra avvolgere le nostre comunità di fede?
Più che di senso di stanchezza parlerei di calo matematico, quello sì innegabile. Si tratta di una diminuzione che noi avvertiamo soprattutto nel numero di persone che si avvicinano al sacramento della riconciliazione, che resta il servizio peculiare che offriamo qui alla Consolata. Al calo numerico cerchiamo di sopperire con la qualità, che è rimasta invariata, frutto anche di un continuo lavoro di preparazione e aggioamento. La gente, comunque, continua a venire perché sa che alla Consolata c’è sempre qualcuno pronto ad ascoltarla e ad offrire il perdono di Dio. E non sono solo torinesi, ma arrivano anche dalla Val d’Aosta, dalla Val di Susa, dalla diocesi di Ivrea. Giusto per dare due cifre: il santuario accoglie, per difetto, 1 milione e150 mila persone all’anno. Questa cifra corrisponde al conteggio che abbiamo fatto nell’anno 2006 con il contapersone sulle porte. In un anno passa praticamente la città di Torino.

Quante persone gestiscono di fatto tutte le attività del santuario?
Siamo in un momento di «bassa marea». Eravamo più di venti preti nel 2001, oggi siamo in sei ad occuparci direttamente dei servizi al santuario. Il cardinal Poletto ci ha confermato, che nel corso del 2008 alcuni preti lasceranno il loro ministero pastorale e verranno qui a darci una mano e spero tanto che la Consolata lo aiuti in questo proposito. Chi lavora al santuario passa almeno tra le 4 e le 6 ore al giorno in confessionale. Ora io sono fermamente convinto che questo tipo di ministero richieda necessariamente del riposo per poter offrire un servizio qualificato come quello che la Consolata è chiamata a rendere alla diocesi di Torino e anche alle diocesi vicine. Per essere buoni confessori bisogna prima di tutto essere degli uomini riposati. Essere riposati permette di poter pregare di più, formarsi adeguatamente e  servire meglio. Si rischia altrimenti di non avere la necessaria calma per ascoltare chi si rivolge a noi e si corre il rischio di diventare insofferenti. Le persone percepiscono immediatamente se siamo distratti, nervosi, stanchi. In questo modo, un servizio già reso carente dalla mancanza di personale rischia di allontanare la gente invece di avvicinarla. Questo è uno dei pochi luoghi in diocesi dove l’ascolto è sempre garantito, ed occorre darlo al massimo.

Chi sono, oggi, i visitatori tipo del santuario della Consolata?
Tantissime persone. È difficile anche solo immaginare quante generazioni sono passate per la porta del santuario nella sua storia millenaria. Eppure, resta un profondo legame filiale della gente con la Madre di Dio. In questo santuario c’è una tradizione così radicata di affetto sincero e manifesto nei confronti della Madonna, al punto che anche i non credenti ci vengono. Ci viene chi magari sta percorrendo un cammino di fede o chi ha qualche cruccio. In qualsiasi momento del giorno possono arrivare il giurista, l’avvocato, l’imprenditore di fabbrica, il primario dell’ospedale, il docente universitario, insieme al popolo, alla gente più comune senza titoli onorifici o accademici. Tutti con il bisogno di sentire come la mateità di Maria diventi avvolgente, avvolgente come l’abbraccio della madre al figlio, come si vede nella tela.
Questo vale anche per i cristiani che arrivano da più lontano, per i tanti migranti che, pur portando da casa le loro tradizioni e devozioni, hanno anche adottato la Patrona di Torino. La Consolata, ha un ministero che travalica le etnie; tutti, davanti a lei, si sentono mateamente amati.  La Vergine ci apre a una realtà che supera la diocesi, le etnie, le nazioni. Oserei dire che supera anche le religioni. Un esempio? Abbiamo mamme musulmane che portano i bambini a vedere la Consolata. Nella sura 19 del Corano, infatti, si parla della madre del profeta, di Gesù. C’è una grande venerazione per Maria e le mamme accompagnano volentieri i bambini a vederla; si fermano all’ingresso, indicando il quadro della Madre di Dio. Tempo fa abbiamo fatto una prova stampando immaginette della Consolata con l’«Ave Maria» scritta in arabo. Per rispetto di chi vive la fede islamica, avevamo omesso il termine «Madre di Dio», sostituendolo con «Madre di Gesù» e tentando così di venire incontro a una diversa sensibilità religiosa, senza rinunciare alla verità, ma mitigandola per poter dare  un annuncio anche a chi farebbe fatica a riceverlo in un linguaggio così dogmatico. Le immagini si sono esaurite molto velocemente.

Che cosa offre di specifico, oggi, il santuario della Consolata a chi lo visita?
Quando nel 2001 il cardinal Poletto ha ridisegnato la realtà del  santuario per renderla al passo con i tempi e le necessità della diocesi, è stato molto chiaro sui servizi che si serebbe aspettato dalla Consolata: celebrazioni liturgiche esemplari, possibilità costante di accedere al sacramento della riconciliazione e alla direzione spirituale, formazione dei confessori, enfasi sulla spiritualità mariana. A tutto ciò ha aggiunto un quinto punto che rappresenta per noi una novità e che ci qualifica ulteriormente: il cammino di accompagnamento dei «ricomincianti». Si tratta di un insieme di percorsi di riavvicinamento alla fede per coloro che ricominciano a credere. Abbiamo iniziato cinque anni fa aiutando più di 100 persone attraverso questo particolare ministero.  A questo servizio collabora anche suor Raffaella, missionaria della Consolata;  credo infatti che chi in qualche modo ha il carisma del primo annuncio possa aiutarci a formare queste persone per i quali la fede è una riscoperta totale. Non facciamo nessuna pubblicità, le persone si passano loro la voce da uno all’altro.
Oltre a tutto ciò il santuario non ha iniziative specifiche, per esempio nei confronti del mondo giovanile: tutti quelli che chiedono di poter fare un cammino vengono accompagnati, anche giovani, ovviamente. Desideriamo però che loro stiano il più possibile nelle loro parrocchie di provenienza; il santuario è una clinica un po’ particolare, specializzata per le «malattie spirituali», quelle malattie di cui uno si rende conto e che hanno bisogno di un momento di accompagnamento. Poi, basta. Il santuario può essere definito come un luogo senza frontiera, quella frontiera che invece ha la parrocchia. Dal santuario si può entrare ed uscire senza che nessuno ti chieda di dove sei o dove vai.
Dal suo osservatorio un po’ speciale, dovendo chiedere alla Consolata una grazia per la Torino di oggi, che cosa penserebbe? Che ferita o che progetto metterebbe nelle sue mani?
Dal nostro piccolo osservatorio abbiamo una percezione che sembra essere paradossale se letta nel contesto della vita di oggi. Viviamo infatti nel tempo che tutti dicono essere della comunicazione, il tempo dei telefonini… A quest’enfasi sulla comunicazione – e quindi sulla relazione, corrisponde invece una malattia profonda, radicata, a volte senza speranza che è la solitudine. Anche  solitudine da Dio, ci si sente abbandonati da  lui proprio per l’incapacità di una strutturazione positiva nell’ambito della fede. C’è poi l’esperienza della solitudine nelle relazioni umane. Relazioni ferite, saltate, interrotte, frantumate, a volte frutto di un abbandono. Gli anziani continuano a dire che i figli li hanno abbandonati, hanno preso la loro vita e si sono dimenticati di loro; i giovani dicono che nessuno si prende cura di loro. A metà della loro vita, alcuni quarantenni continuano a dire che sono talmente scissi tra il lavoro e la famiglia, da vivere interiormente delle grandi lacerazioni, create proprio da questa solitudine. C’è certamente anche il problema della solitudine di chi è immigrato. Noi raccogliamo grandi sofferenze, e anche grandi confidenze  da chi giunge e dice: «Nella mia terra… quando io ero…». Si coglie una grande fatica nell’inserimento di queste persone. Non dico che la città non sia accogliente, ma forse non ha strumenti per accogliere tutti, per creare ponti nelle solitudini.
La Consolata vuole incontrare le solitudini e non soltanto per consolarle, ma per costruire. La vera consolazione sta nell’aiutare a fare i primi, piccoli passi per riprendere i cammini interrotti, per riguadagnare coraggio interiore e anche per ridare speranza. Se c’è un frutto della consolazione è proprio la speranza di non sentirti perduto. Penso che l’Allamano avrebbe accolto questa inquietudine del cuore dell’uomo e avrebbe fatto certamente miracoli, come sapeva fare lui. La Consolata gli avrebbe suggerito qualcosa, così come continua a suggerire, nella storia, la medicina giusta per quest’infermità del cuore dell’uomo. Per l’uomo di oggi è importante sapere che alla Consolata c’è sempre qualcuno che ti accoglie, che ti ascolta: prima di tutto la Consolata stessa, e poi i preti che lavorano con lei al santuario.

Come rettore del santuario è l’erede dell’Allamano. Che cosa invidia di più al suo predecessore?
Aver avuto il Camisassa… questo non è un giudizio sui miei collaboratori, per la carità. In realtà, qui con me ho dei grandi Camisassa. Il guaio è che io non sono l’Allamano, e quindi loro fanno più fatica del Camisassa a capire che cosa vorrei fare. Il rapporto fra l’Allamano e il Camisassa, quello stile, ecco il punto a cui dovremmo tendere come comunità. Il vostro fondatore è riuscito a concretizzare l’intuizione donatagli dalla Consolata perché il Camisassa è stato capace di essere il tessitore del sogno missionario dell’Allamano. La loro frateità, il loro progettare e lavorare insieme, il loro volersi bene sono i punti che ci ispirano nel nostro vivere e costruire insieme. E devo dire che ci stiamo riuscendo. Il primo miracolo che la Consolata fa tutti i giorni al santuario è che tra noi preti ci si voglia bene.  Si lavora bene, ci si aiuta,  si è sereni, giorniosi… si è contenti di essere alla Consolata. Questo è il dono più grande che la Madonna può fare ogni giorno a noi, che in fondo siamo preti di parrocchia, di oratorio, ma felici di essere alla Consolata. 

Di Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli