Chi vuole uccidere sulukule?

Reportage: breve viaggio nei quartieri di Istambul

È un antico distretto a poca distanza dal Topkapi, il palazzo del sultano. Insediamento rom da oltre mille anni, un tempo Sulukule era frequentato da turisti, che vi trovavano cibo, musica e danze. Poi arrivò il degrado, non spontaneo. Oggi le ruspe (e i gas lacrimogeni) lo stanno radendo al suolo. In nome della politica e della speculazione edilizia.

Istanbul. «Per la fine della primavera verranno a demolire le case rimaste, la prossima estate non saremo più qui», la signora Uyar parla con Ferdin Davaroglu in una stradina di Sulukule, i lembi del suo lungo vestito toccano l’asfalto, mentre si accarezza i pochi capelli che escono dal velo colorato. Con fronte corrugata e sguardo rassegnato continua: «Ma noi non sappiamo dove andare».
Ferdin, che ha vissuto in Svizzera ed è tornato a Istanbul per stare vicino agli anziani genitori, risponde: «Avete accettato di vendere le vostre case, ora cosa possiamo fare? Dovevate parlarne prima, dieci anni fa, quando l’area di Sulukule è stata inserita nel progetto di riqualificazione urbana del Comune di Fatih, essendo considerata una delle zone fatiscenti della città di Istanbul. Ma voi vi svegliate solo ora, oramai non vi resta che andarvene». Il piccolo gruppo di residenti che si è raccolto intorno a noi rimane in silenzio. I bambini continuano a giocare tra le macerie e nel frattempo passa un signore, Ferdin lo ferma: «Murat è stato coraggioso, non ha venduto la sua casa e forse c’è ancora qualche speranza». Murat annuisce ma non nasconde una certa ansia, mentre parla la sigaretta che tiene in mano trema leggermente: «Ho fatto la mia scelta, ma non nutro speranze, so che la legge non tutela noi residenti, ma serve a dare sempre più potere al Comune e alle società private che vincono gli appalti. Non so cosa succederà, l’unica cosa che posso fare è aspettare».

La notte di Sulukule 

È un susseguirsi di voci, passaparola, lettere e avvisi ufficiali: scadenze, ultimatum, numeri civici, cognomi, proprietari e affittuari, municipalità, gli elementi del dramma ci sono tutti, e si confondono in un’unica forte paura, poiché nessuno può dire con certezza cosa succederà nel futuro immediato a Sulukule. L’unica certezza si ha quando ci si sveglia la mattina e tre, quattro case vicine sono state demolite, come se la notte e il buio concedessero l’impunità a questi operatori nottui, e la luce del giorno, le voci e l’attività facessero svanire, come dopo un brutto sogno, i lati più controversi della questione.
Purtroppo non è così, e in una bella mattina primaverile di metà marzo gli abitanti di Sulukule sono usciti e hanno trovato delle croci rosse sui muri delle case.
«La Municipalità di Fatih ha fatto marchiare le case con grosse croci rosse realizzate con bombolette spray, – spiega Cihan Baysal, attivista che sta scrivendo un rapporto sulla difesa dei diritti dei residenti di varie parti della città per la Istanbul Bilgi Üniversitesi, famosa perché si occupa di temi sensibili per la Turchia, come il genocidio degli armeni – sono gli edifici che saranno demoliti nei prossimi giorni, forse nelle prossime ore. È una vera vergogna. Stiamo riunendo vari gruppi per contestare questa pratica, dipingeremo sulle croci e faremo stendere grandi lenzuoli bianchi fuori dai balconi. Nel distretto di Basibuyuk sono stati usati gas lacrimogeni contro i residenti, molti sono stati picchiati e feriti gravemente. Abbiamo tutti paura che succeda anche a Sulukule. Erdoğan ha fatto una conferenza stampa in cui ha accusato i manifestanti di non essere al corrente nel modo giusto dei piani del governo, ma è apparso nervoso e a disagio».

Quando James Bond 
era di casa

Antico distretto della città di Istanbul, Sulukule sorge a ridosso delle mura costruite dall’imperatore Teodosio nel V sec. d.C., nella municipalità di Fatih, a qualche fermata di autobus dal centro turistico di Sultan Hamet e da Topkapi, il palazzo del sultano.
Fonti scritte risalenti al 1054 attestano la presenza di musici, acrobati, giocolieri e domatori di orsi arrivati su cavalli, bambini e donne con lunghe gonne che praticano la chiromanzia, accampati lungo le mura bizantine. Scambiati al tempo per egiziani, in realtà arrivavano dal nord-est dell’India e fuggivano dalle invasioni musulmane. Sotto Mehmet il Conquistatore, nel XV sec., l’abitato da temporaneo divenne permanente: oggi rappresenta il più antico insediamento rom del mondo. Luogo unico, dal forte valore simbolico per una popolazione vittima di discriminazione e per un’Europa in cui la convivenza tra culture è un dichiarato obiettivo politico, i suoi 3.500 residenti ne rappresentano il vero patrimonio.
Nei secoli, all’ombra delle antiche mura, la comunità è cresciuta e ha dato vita a un tessuto sociale attivo e vivace: l’interazione degli abitanti di Sulukule con la città è uno dei rari esempi di integrazione riuscita di una comunità rom, che vive nel rispetto delle tradizioni e del proprio stile di vita.
È necessario fare un passo indietro fino al periodo precedente il 1992, quando gli abitanti erano circa 20.000 e il quartiere uno dei più vivaci e turistici di Istanbul. Il cuore della cultura rom, musica e danza, si era riproposto in vere e proprie attività redditizie: le case d’intrattenimento erano almeno 40, e costituivano il nucleo della socialità e dell’economia locali. In un’atmosfera calda e accogliente, il capo famiglia e i figli maschi suonavano, la moglie cucinava e le figlie danzavano. Gli abitanti di Istanbul e i numerosi turisti erano attratti dalle melodie e dalle danze orientali di famosi musicisti e danzatrici. «Nel 1992, quando Tayyip Erdogan era sindaco di Istanbul, il Comune e la Polizia hanno chiuso le attività, sostenendo che fossero illegali perché non si pagavano le tasse –  spiega Hacer Foggo di Sulukule Platform, gruppo di attivisti nato dalla Sulukule Romani Culture Solidarity and Development Association -. Gli abitanti sostengono che le tasse venivano pagate regolarmente, ma che non veniva rilasciata alcuna ricevuta di pagamento».
Da allora il quartiere si è spopolato e impoverito, alcune famiglie non possono permettersi di pagare i servizi base come acqua e luce. La disoccupazione e il tasso di criminalità sono aumentati, e l’area si è gradualmente trasformata in un vero e proprio slum in cui non mancano prostituzione, spaccio e delinquenza.
La storia di Sulukule è ora al capolinea: le sue stradine in salita, gli edifici bassi e colorati che si rincorrono lungo i vicoli fiancheggiati dalle antiche mura, le case in legno e pietra con gli interni variopinti e le decorazioni floreali dei soffitti, tra non molto rimarranno solo nella memoria degli anziani e nelle scene del film «Arkadas» di Yilmaz Guney girato nel 1974, o in quelle di «Agente 007. Dalla Russia con amore» del 1963, in cui James Bond si ritrova in una rissa in una Sulukule dall’atmosfera noir. Per il 2010, quando Istanbul sarà la capitale europea della cultura e il progetto della municipalità di Fatih sarà completato, nell’area ci saranno 480 nuove casette in stile ottomano, un palazzo di uffici, un centro culturale, un hotel e un grande parcheggio. 

Espropriazioni con la forza

Il progetto è stato definito nel 2003, ma è nel 2005 che il Parlamento turco approva la legge 5.366 sul recupero e il riutilizzo delle zone storiche fatiscenti, meglio conosciuta come «legge sugli espropri». «La legge 5.366 dà tutti i privilegi agli enti locali, mentre gli individui e i proprietari degli immobili non sono considerati – spiega il prof. Alper Unlu della Istanbul Technical University, uno degli istituti più prestigiosi del paese per gli studi di architettura e ingegneria -, così i diritti della popolazione rom sono brutalmente calpestati. Si sta verificando una sorta di inganno: il progetto è presentato come un piano di recupero sociale ma in realtà le autorità stanno mandando via le persone in modo poco chiaro. Le basi legali per procedere all’espropriazione e alla demolizioni non esistevano, gli enti locali hanno preso decisioni ad hoc per legittimare gli espropri».
Appellandosi a questa legge, il 13 luglio 2006 il Comune di Istanbul, la municipalità di Fatih e il Toki, l’«Amministrazione centrale alloggi», firmano un accordo in cui si rende operativo il progetto di recupero di diverse zone della Istanbul storica, tra cui Sulukule. Lo slogan del progetto è People first. A nulla servono le proteste degli abitanti del quartiere, che, non invitati a partecipare all’incontro, si riuniscono davanti alla sede centrale del Comune di Istanbul. Ong e associazioni per la tutela dei diritti umani vengono coinvolte, comincia una vera e propria campagna in difesa dei diritti dei residenti rom e per la tutela della loro cultura e del loro spazio vitale. La risposta del governo turco arriva nell’ottobre 2006: con un provvedimento ad hoc si autorizzano le espropriazioni forzate dei terreni di Sulukule, lasciando così un’unica possibilità, la vendita degli immobili.
«Queste persone dovrebbero avere la possibilità di integrarsi nel tessuto urbano: mancano occasioni di incontro, scuole, posti di lavoro – continua Alper Unlu -. La legge è dalla parte dei developers, le società private che prendono in gestione interi terreni e ne “riqualificano” lo status costruendo e vendendo gli immobili. Nei loro progetti l’aspetto sociale non è considerato. Non si tratta neanche di un vero restauro: si conservano le facciate degli edifici ma si demolisce tutto quello che c’è dietro, e si ricostruisce non rispettando le funzionalità originarie dell’immobile. Questo modo di procedere è contrario all’etica professionale e darà ai residenti il diritto di andare in tribunale. Dobbiamo aspettarci grossi conflitti».     
Nonostante il professor Unlu sostenga che, alle porte del 2010, quando Istanbul sarà «Capitale europea della cultura» (con Essen e Pécs) , Comunità europea e Unesco valuteranno negativamente i risultati di questo progetto mettendo in imbarazzo il governo turco, il sindaco di Istanbul Kadir Topbaş continua a presentare il progetto come una iniziativa sociale senza precedenti, dichiarando che la sua attuazione rappresenta la via diretta alla risoluzione dei problemi dei residenti. Le case saranno ricostruite e saranno dotate di tutti i servizi, il quartiere verrà rivalutato e gli immobili si apprezzeranno.

Una guerra 
contro i poveri

«Qui siamo poveri e ignoranti, il livello di scolarizzazione è molto basso, solo il 50% dei bambini va a scuola, le famiglie non hanno soldi per comprare i libri. Per questo la gente non si rende conto di quello che sta succedendo – dice Ferdin Davaroğlu – se non fosse stato per due o tre di noi che si sono ribellati saremmo già tutti sulla strada. Quello che dice il governo è pura propaganda, nessuno di noi qui ha i soldi per acquistare un immobile o pagare rate mensili. La maggior parte di noi non ha i servizi essenziali, vive in condizioni di pura sussistenza ed è impensabile chiederci dei soldi. Vogliono mandarci via ma noi non ce ne andremo, la mia famiglia vive qui da generazioni, non me ne andrò mai. Sono turco e amo questo paese, ma in questa situazione mi sento rom».
Il primo round di demolizioni riguarda 620 immobili di proprietà e 432 immobili in affitto, i terreni diventano proprietà statale. In ogni immobile vivono dalle due alle dieci famiglie, considerando che le condizioni di povertà costringono spesso più nuclei famigliari a una convivenza forzata. I 620 immobili verranno demoliti e ricostruiti, i proprietari possono decidere se andarsene e ricevere una compensazione calcolata su 500 lire turche al metro quadro, accontentandosi di un totale che varia dalle 7.000 alle 25.000 lire turche a seconda delle dimensioni dell’immobile, oppure possono acquistare il nuovo immobile a prezzi agevolati e con, a detta delle autorità, numerose facilitazioni. Il comune ha già ricevuto 314 richieste per comprare i nuovi immobili, solo 8 di queste sono state avanzate da famiglie rom. Il prezzo dei nuovi immobili è il triplo e spesso il quadruplo della compensazione. 
Gli affittuari dei 432 immobili da demolire saranno invece dislocati in appartamenti di periferia dove le rate mensili sono comunque troppo alte.
«Il piano sta procedendo molto velocemente – spiega Asli Kiyak, architetto e attivista di Human Settlement Association e Sulukule Platform -, siamo in tribunale ogni giorno per contestare il modo di procedere del Comune che non rispetta i diritti dei residenti e demolisce edifici storici senza autorizzazioni dal Ministero dei beni culturali.  Le persone sono state convocate singolarmente per colloqui con i responsabili della municipalità, per evitare che si creassero gruppi o comitati di solidarietà. La stampa è stata usata per far vedere che il Comune stava definendo il progetto insieme ai residenti, ma in realtà è stata un’operazione propagandistica per creare consenso e far sì che le case venissero vendute prima degli espropri».
 «Siamo stati minacciati – dice Hüseyin Küçükatasayci, 53 anni, guida di un carro trainato da cavalli -. Ho avuto paura che la mia casa venisse espropriata da un giorno all’altro, così ho venduto tutto. Ora vivo lontano da qui, in un palazzo in periferia, ma quando i vicini hanno visto il carro con i cavalli parcheggiato davanti al portone hanno protestato, e io sono tornato a Sulukule con la mia famiglia e il mio carro. Dormiamo da mia madre». Il lavoro di Hüseyin è trasportare i turisti, l’estate lavora nelle Princes Islands.
Nonostante i ricorsi alla Corte di giustizia e gli appelli alla Commissione europea per i diritti umani, 35 edifici sono stati demoliti. In Sulukule street è stata demolita la casa di legno a due piani della famiglia Güldür, che quel 21 febbraio 2007 alle 9.30 si trovava ad Ankara. La Municipalità di Fatih ha successivamente presentato scuse ufficiali alla famiglia.

«Lo facciamo per voi» 

Duecento  famiglie hanno venduto le loro case a privati e società, che da una ricerca dell’associazione Sulukule Platform risultano essere collegati all’AKP di Tayyip Erdoğan e che hanno intenzione di speculare sui nuovi immobili. «Sulukule non è un caso isolato – dice Hacer Foggo di Sulukule Platform – i distretti di Küçükbakkalköy e Kağıthane, abitati prevalentemente da rom, sono già stati distrutti e ricostruiti, e la popolazione dislocata». Il sospetto è che le autorità vogliano portare nelle periferie i rom, socialmente e politicamente molto deboli e senza strumenti per difendere i propri diritti. «Le nuove case che costruiranno a Sulukule hanno tutte il garage, considerando che qui solo il 5% della popolazione ha una macchina, è chiaro che il progetto non è fatto per gli attuali residenti. Se si va avanti di questo passo, le famiglie rom scompariranno dal quartiere» conclude Hacer.
La protesta ha raggiunto gli alti ranghi della politica e il CHP, il Partito repubblicano del popolo all’opposizione, ha invitato un gruppo di rappresentanti degli abitanti del quartiere al Parlamento di Ankara, dove il presidente della Sulukule Romani Culture Solidarity and Development Association, Şükrü Pündük, ha potuto illustrare la situazione e ha dichiarato di non essere contrario al recupero di Sulukule, ma di voler creare un tavolo di lavoro in cui insieme a governo e Comune di Istanbul sieda anche la popolazione rom.
«Non siamo contrari al risanamento degli immobili – afferma Şükrü,  ci sono situazioni veramente drammatiche e c’è bisogno di un intervento delle istituzioni. Pensiamo però che le decisioni non possano passare sulla testa di noi residenti, e che la popolazione rom abbia il diritto di proporre una propria soluzione che non rischi di tagliarci fuori da Sulukule».
Il parlamentare europeo Joost Lagendijk ha visitato l’area e ha proposto alle autorità un approccio partecipativo al problema. Due giorni dopo altri nove edifici sono stati demoliti. «Questa mossa ha confuso tutti» spiega Asli.
Il 20 marzo 2008 Tayyip Erdoğan, in uno dei suoi discorsi televisivi alla popolazione, afferma: «È molto strano quello che sta succedendo in merito al progetto su Sulukule. Quelli che protestano non ci sono mai stati, non ci hanno mai vissuto. Altrimenti si esprimerebbero in un altro modo. Se fossero sinceri e sensibili ci direbbero grazie, per aver salvato Sulukule dallo sfacelo e per trasformarlo in uno spazio moderno, in linea con la contemporaneità, dotato di tutti i servizi ma nello stesso tempo, storico. Questo è quello che stiamo facendo perché noi amiamo Istanbul». Nel frattempo elettricità e acqua sono state tagliate in molte altre case, dove «ancora bollivano le pentole sui fornelli», come riporta un comunicato stampa dei residenti. (1a puntata – continua)

Di Alessandra Cappelletti

Alessandra Cappelletti




Milanesi con occhi a mandorla

Milano: quattro passi in «chinatown»

Lo storico «quartiere Sarpi», ormai conosciuto come «Chinatown» per la massiccia presenza di cinesi, è stato un esempio di convivenza multietnica, fino al 12 aprile 2007, quando è diventato teatro di scontro con la polizia. Varie associazioni lavorano per eliminare tensioni e pregiudizi; ma l’integrazione è ancora lontana: mentre i vecchi meneghini rimasti nel quartiere non hanno problemi, i giovani milanesi hanno paura di «contaminarsi».

Milano, una mattina d’inizio primavera. «Ve la dico io la soluzione ai problemi del quartiere: facciamo imparare ai nostri giovani il cinese e tutto si sistema». Nessuno si aspettava l’intervento di Luisa, sciura milanese 85enne, che con il suo trolley, come tutte le mattine da decenni, stava facendo ritorno a casa dal mercato rionale.
Alle parole di Luisa seguì un lungo momento di silenzio, interrotto dalla stessa donna: «Io, in quello che oggi voi chiamate Chinatown, ci sono nata e sto bene oggi come stavo bene allora». E i problemi, la viabilità spesso interrotta dalle merci scaricate dai grossisti, gli scontri che il 12 aprile di un anno fa hanno portato alla ribalta gli screzi tra la comunità cinese e i residenti italiani? «Niente di così esagerato come l’ha presentato la maggior parte dei mass media. Se a volte non si va d’accordo è perché non ci si capisce – replica l’effervescente signora -, per questo, oltre a dire a loro di imparare l’italiano, anche noi dovremmo imparare il cinese».
Magari fosse tutto qui. Il gruppetto di cinesi e italiani che, prima sbigottiti poi sorridenti, ascoltano le parole di Luisa, sa bene che di questi tempi le cose non sono così facili, anche se di strada ne è stata fatta e, poco alla volta, le cose nel quartiere stanno cambiando.

Il quartiere storico milanese tra la zona della Moscova, ovvero pieno centro, e il Cimitero monumentale, ha mutato volto in una mezza dozzina di anni, non di più. Quella che sembrava una piccola presenza, la comunità cinese, con i propri ristoranti, qualche parrucchiere e sparuti bazar di articoli vari, si è estesa in brevissimo tempo a macchia d’olio, rivoluzionando l’aspetto di decine di vie, comprese quelle più grosse, come via Bramante e la «famosa» via Paolo Sarpi. Ovvero, quella della rivolta, durata un pomeriggio, dei cinesi contro i vigili che sistemavano multe come fossero noccioline sui cruscotti dei furgoni di carico-scarico.
La vecchia Milano qui non esiste più, e l’appellativo Chinatown è più che corretto: 9 negozi su 10 e altrettante facce dei passanti provengono dal paese degli occhi a mandorla.
E l’integrazione a che punto è? «Per capire come stanno veramente le cose, bisogna andarci, a Chinatown» dice chi ci ha a che fare. Abbiamo seguito il consiglio. E il privilegio è stato quello di andarci guidati da un cinese, uno che quelle «nuove» vie le conosce bene: il nostro Caronte si chiama Zhang Xin, ha 29 anni ed è arrivato in Italia, da Shangai a Milano, quattro anni fa. Parla bene la lingua (anche se ammette di avere faticato parecchio), ha terminato gli studi e oggi di mestiere fa il fotografo professionista, la prima delle sue due passioni. «La seconda è il far cadere le barriere – esordisce strizzando l’occhio -. Proprio per questa ragione con altri ragazzi come me ho creato l’Associazione studenti cinesi di Milano».
Xin (è il suo nome, che in Cina segue il cognome) ha un buon ricordo del suo paese, ma vuole rimanere in Italia perché, oltre a piacergli e offrirgli sbocchi professionali, vuole essere utile ai suoi connazionali. Come? «Costruendo ponti di conoscenza reciproca». Per questo ha fondato l’associazione, di cui è presidente, e ha accettato di buon grado di accompagnarci per le vie della Chinatown milanese. Con lui, tre giovani «colleghi»: Lu Xiumin, ragazza 27enne che sta studiando design all’università, Liu Geng e Lu Xiao, 29 e 26 anni, studiosi di automazione al Politecnico.

Che il microviaggio si preannunci interessante lo si capisce dal primo incontro, quasi casuale, del gruppo: è un giornalista cinese, redattore di Europa China News, bisettimanale nato nel 2001 e voce autorevole della comunità del sol levante in Italia. Con lui un veloce scambio di battute, di più non può, deve chiedere il permesso al direttore che oggi non c’è.
Questioni di gerarchia, ma qualcosa si sente di dire: «La situazione è molto meno tesa rispetto a qualche mese fa; forse a breve si arriverà a un accordo per la questione delle merci dei grossisti». Sì, perché la gran parte dei problemi nasce da loro, quella miriade di negozi all’ingrosso che popola i marciapiedi delle strette vie di Chinatown, e che obbliga furgoni di ogni dimensione a fermarsi in mezzo alla via bloccando il passaggio di tutti gli altri malcapitati: automobilisti, motociclisti e persino mezzi pubblici come i tram.
Dopo mesi di tira e molla, la soluzione a cui accenna il giornalista cinese è quella concordata (sembra in via definitiva, ma non si può mai dare per certo) tra Comune di Milano e rappresentanti dei commercianti cinesi: tutti i negozi all’ingrosso verranno spostati a partire da prima dell’estate 2008 in una zona periferica del sud cittadino, nel quartiere Gratosoglio, e le vie di Chinatown diventeranno Ztl, zone a traffico limitato.
Un bel progetto, che rischia però di rimanere sulla carta, se tutte e tre le parti in causa non sono d’accordo. Tre, proprio così. Perché oltre ai cinesi e Comune, voce in capitolo la vogliono avere anche i residenti e i commercianti italiani del quartiere. Che, come è logico, vogliono vederci chiaro, a cominciare da Luigi Anzani, padrone della celebre cappelleria Melegari, da 90 anni in via Paolo Sarpi.
«Come cittadini prima e negozianti poi vogliamo essere tutelati – spiega l’Anzani dopo averci ricevuto tra centinaia di cappelli d’ogni epoca -. Prima cosa quindi la legalità, da qui nasce la convivenza». Parole che trovano d’accordo anche l’associazione Vivisarpi, gruppo spontaneo cittadino che si batte per la vivibilità del quartiere.
Poco più in là della cappelleria, un negozio di massaggi reiki è anche la sede dell’Associazione Cinesi in Milano, che ogni giorno espone i giornali locali e inteazionali in vetrina. «Basta discriminazione, siamo milanesi anche noi» dice il cartello appeso a lato del negozio.

Girato l’angolo, ci s’imbatte nella parrocchia del quartiere, quella della Santissima Trinità, condotta da tre sacerdoti tra cui don Dario Bolzani, 33 anni, che cornordina uno degli oratori più multietnici della città, tanto che, dal mese di aprile dello scorso anno, è stato affiancato da un prete cinese altrettanto giovane, il 30enne Li Jinsheng; grazie a lui la comunità mandarina, ogni domenica alle tre e mezza del pomeriggio, può seguire la messa nella propria lingua d’origine.
«Uno dei piccoli ma importanti passi per migliorare sempre più un’integrazione che già c’è» spiega don Dario. Per avvicinare ancor più i ragazzi, egli ha creato il brillante sito internet: www.parrocchiatrinita.it. Un’integrazione che significa convivenza pacifica, in cui non bisogna evitarsi ma, poco alla volta, cercare di conoscersi.
Nel frattempo, la visita prosegue. E le immagini, gli spunti sono davvero tanti. Poco più in là dell’ampia e bassa chiesa, due vigili in bicicletta entrano in un’erboristeria salutando con garbo la commessa. È un giro di routine, per controllare come va la «trasparenza» dei negozi, dopo l’ultimo spauracchio segnalato, quello delle erboristerie che si trasformano in cliniche dell’orrore, luoghi nel cui retro vengono praticati aborti illegali.
La segnalazione è arrivata da un’urgenza ospedaliera di una donna, poi salvatasi per il rotto della cuffia, a cui l’interruzione di gravidanza clandestina era andata male. Ma, nei controlli delle forze dell’ordine nei giorni successivi, non era stato trovato niente che potesse rimandare a tali pratiche. «Qualcosa sotto-sotto ci deve pur essere – afferma Gianni, 45enne italiano che a Chinatown fa affari con un’oreficeria -, ma come spesso accade, è l’alone di mistero attorno a una comunità chiusa come quella cinese che alimenta voci che poi, di bocca in bocca, rischiano di andare al di là della realtà».
Un esempio di quello che sta dicendo Gianni lo spiega, ridendo ma non troppo, uno dei personaggi più «importanti» del nostro viaggio: Hu Xiao, 40 anni, proprietario di una catena di market tra Milano e Torino, e di un centro di smistamento alimentari a Pero, fuori Milano. «Bella la barzelletta sui nostri morti, vero?» domanda Xiao con sarcasmo, rivelandoci di essere molto contrariato da quando, tempo fa, un quotidiano italiano ha pubblicato un articolo sui cinesi che non muoiono mai. «Avevo anche pensato di intentare una causa per diffamazione al quotidiano Libero, visto che pensa che i nostri morti li facciamo arrosto e li mettiamo a tavola – continua Xiao -. Sono stato due giorni fa a un funerale di un mio caro amico; al prossimo, invito tutta la redazione di quel giornale».
In Italia da 10 anni, il piccolo imprenditore cinese è un punto di riferimento nel quartiere per la sua serietà. «Vai da Xiao che sa tutto» è stato infatti il consiglio di uno dei grossisti di via Paolo Sarpi, quando il nostro traghettatore Xin gli ha chiesto di suggerirgli un rappresentante della comunità cinese da potere incontrare.

E il tempo passato con Xiao è stato molto istruttivo: ci ha fatto visitare il suo market di via Niccolini, tenuto in modo impeccabile. «Ogni dieci giorni riceviamo una visita della Asl – spiega -; le multe per qualsiasi errore sono salate, sui 3mila euro; ma è un bel po’ che non le prendiamo». Ci permette pure di parlare con i due commessi e con la giovanissima cassiera, che quasi con vergogna si scusa per non riuscire a parlare italiano: «Meno male che quasi tutti i nomi dei prodotti sono in doppia lingua e i prezzi bene in vista» riesce a dirci con l’aiuto di Xin.
Soprattutto Xiao ci ha raccontato la sua storia. «Vengo dalla campagna attorno a Shangai, come il 95% della gente di Chinatown» spiega mentre ci consegna il suo biglietto da visita, in cui spicca la scritta Group Hu Italy. «Ci chiamiamo quasi tutti Hu, siamo così numerosi che abbiamo superato i Brambilla, il cognome milanese per eccellenza» scherza l’imprenditore cinese.
Lui, le dinamiche dell’immigrazione mandarina in Italia (oggi il 5% del totale) le conosce bene. «La nostra famiglia in Cina si indebita fino al collo per farci venire qui – continua Xiao -. Quando arriviamo, ci facciamo ospitare da conoscenti e alla prima opportunità di lavoro ci dedichiamo 24 ore su 24, per saldare prima possibile il debito familiare». A molti va male, devono tornare in Cina. Xiao, invece, è uno di quelli che ce l’ha fatta, ha una piccola fortuna. «E ora che posso, cerco di dare lavoro a più connazionali possibili» conclude.
Proprio mentre dice ciò, gli si avvicina un cinese di mezz’età, chiedendogli qualcosa. Dopo qualche minuto, una stretta di mano e Xiao lo saluta. «Fa il muratore, ma ha problemi di permesso e non trova un impiego serio, spero di poterlo aiutare» chiarisce in un italiano impeccabile. «È vero che pochissimi cinesi sanno l’italiano, ma guai a fae loro una colpa – aggiunge -. Lavorano tutto il giorno a contatto solo con connazionali, la sera crollano di stanchezza. Quando trovano il tempo di studiare la lingua?».

A questo punto sopraggiunge la sciura Luisa, si ferma e, appoggiandosi al suo bastone, s’intromette di nuovo per dirci con il suo forte accento milanese: «È gente perbene, questa. Vivo nel palazzo qui a fianco da 50 anni, posso garantirlo»; e così dicendo, rivolge lo sguardo all’imprenditore, che ricambia con un ampio sorriso. Lei conosce Xiao, così come lo conosce Guido, 84 anni; questi, mentre Luisa parla, s’intrattiene con Geng (uno dei quattro ragazzi dell’associazione) per imparare formule di saluto cinesi, che poi ripete in modo molto buffo.
Xiao e i suoi giovani dipendenti cinesi, Luisa e Guido sono gli ultimi incontri di questo «passaggio» da Chinatown. «C’è qualcuno che manca all’appello – aggiunge Guido -. Sono i ragazzi italiani. Qui per le strade non se ne vedono da tempo, ed è un peccato: non possiamo essere solo noi anziani a dialogare con i giovani cinesi; devono farlo loro, prima che sia troppo tardi». Può darsi che abbia ragione. Forse per superare le incomprensioni bisognerebbe parlarsi, e «contaminarsi» un po’ di più. 

Di Daniele Biella

Daniele Biella




Utopia o realtà

Pensieri sulla democrazia

Il dibattito sulla democrazia in Africa continua. A prima vista, c’è un plebiscito per il modello occidentale da parte delle élite politiche africane. Ma alcuni decenni di pratica democratica sul continente testimoniano il fallimento di queste utopie. Cosa copre questo umanismo di facciata? E quali sono le ragioni del fallimento delle esperienze democratiche africane?

La svolta degli anni ’90 con la conferenza di la Baule aveva messo gli africani faccia a faccia con un dilemma: optare per  la democrazia, e quindi beneficiare dell’aiuto occidentale, oppure continuare con le loro politiche autoritarie, con le implicazioni dal punto di vista della governance economica e sociale. In questo caso avrebbero rinunciato essi stessi al sostegno dei paesi sviluppati. Quando François Mitterand lanciava questo ultimatum, la maggior parte dei paesi africani versava in una crisi economica e sociale senza precedenti. Il carattere strutturale di queste crisi non ha lasciato scelta ai paesi, che hanno tutti deciso di abbracciare la democrazia pluralista, per ottenere la manna finanziaria occidentale.

Ma ci si è presto resi conto che questa accettazione della democrazia era avvenuta a denti stretti. In realtà la situazione economica e sociale era così catastrofica che le misure terapeutiche previste dalle istituzioni finanziarie inteazionali accentuarono ulteriormente i problemi.
Analizzando il nuovo contesto dei paesi africani, l’intellettuale camerunese Achille Mbmbe vi denota tre fattori caratteristici.
Primo. La democratizzazione è stata accompagnata dall’informalizzazione delle economie  e delle strutture statali: dispersione del potere, mutilazione dello stato nel senso di indebolimento delle capacità amministrative, assenza di visione prospettiva che alimentava reazioni di panico di fronte a situazioni di rischio impreviste, da cui il ricorso sistematico alla violenza.
Secondo. Si assiste a una specie di fenomeno di «diffrazione sociale», ovvero la comparsa di eventi come le guerre, lo spostamento forzato di popolazioni, i massacri, ma anche il sorgere di poli diversi di autorità e giurisdizione, la molteplicità delle identità e delle alleanze, tutte cose che accrescono l’instabilità strutturale.

Terzo. Si nota, infine, l’assenza del modello teorico e di una tradizione di riflessione critica e autonoma sullo stato di diritto, le forme di cittadinanza e le istituzioni della democrazia sul continente. Ne risulta l’assenza di un progetto politico degno di questo nome, ideato da uomini e donne con una vera ambizione per l’Africa. Bisogna ammettere che le esperienze democratiche africane sono, la maggior parte almeno, dei fallimenti. Ma è soprattutto il fiasco delle élite politiche che non hanno saputo essere all’altezza delle loro responsabilità storiche. Queste consistevano prima di tutto a dare allo Stato-Nazione un contenuto e un valore, che trascendesse gli interessi identitari o di comunità.

Certi analisti hanno subito preso il pretesto di questi insuccessi per dichiarare, imprudentemente, che l’Africa non è adatta alla democrazia. Se consideriamo gli standard democratici come la separazione dei poteri, le elezioni libere e trasparenti, il multi partitismo e la protezione delle minoranze, è difficile affermare che questi sono esclusiva di una razza di uomini, di un continente o di un gruppo di paesi o di continenti. Corrispondono, pensiamo, a delle aspirazioni universali, fondate sulla storia stessa degli uomini. Così, l’appropriazione di questi standard può rispondere a degli approcci diversi, non solo in funzione della cultura politica di ogni popolo, ma anche, e soprattutto in funzione dell’ideale socio-politico che ogni popolo vuole fare proprio.
Il problema è quindi meno nei principi democratici, forzatamente generali, e più nella capacità degli africani ad abbandonare la via del mimetismo per essere veramente creativi. Lo si vede dove le élite politiche del continente fanno prova d’immaginazione e soprattutto di volontà politica di far loro l’ideale democratico. Qui la base istituzionale della democrazia è più solida.

Certe teorie politiche, che constatano il fallimento degli Stati-Nazione hanno pensato di cambiare la democrazia classica con un approccio consensualista. L’hanno chiamata «democrazia consensuale». Ma questa presenta talmente tante similitudini con il sistema dei capi tradizionali, che fa temere il ritorno al monolitismo e al potere personificato. Il popolo francese, ad esempio, non ha sempre vissuto in uno stato democratico. Ha conosciuto poteri monarchici con varianti assolutiste.  È proprio sul fondamento di questo passato che le lotte sociali si sono sviluppate e hanno portato la democrazia.
Non possiamo fondarci su dei pensatori socio-storici per definire l’evoluzione politica di un paese o di una nazione. Il male dell’Africa sta dunque in una carenza endemica delle élite politiche, incapaci di elevarsi al livello di visione nazionale per integrare armoniosamente l’insieme di entità etniche che compongono le comunità nazionali africane. Mancanza di trascendenza politica e di una reale volontà delle élite di portare le masse africane verso la costruzione di veri Stati-Nazione, la democrazia resterà sempre un’aspirazione e una linea d’orizzonte.

Di Germain Bitiu Nama

Germain Nama




Vivere per chi muore

Scelte di confine (prima puntata)

Diagnosi nefasta e prognosi di vita breve. Le terapie cosiddette «attive» salutano il paziente. Si varca la soglia del quotidiano e si entra in una terra di confine. Anticamera tra vita e morte. Diamo voce a chi, stringendo un patto con il tempo che segna i passi dell’uomo, sceglie di rendere meno doloroso il trapasso. Con il sostegno alla terminalità, dove meta ultima non è la guarigione bensì una morte dignitosa.

Siamo esseri a termine. Ma non facciamo che dimenticarcene. La «rimozione» non guarda in faccia nessuno, si estende a tutte le fasce sociali. Non è però un processo così immediato: esclude il non fare, alimenta l’azione, annulla il pensiero consapevole, annienta la profondità. Siamo specchio di una società in cui l’idea dell’uomo infallibile detiene una supremazia assoluta, sotto tutti gli aspetti, anche quello della salute.
La malattia va negata, la sofferenza taciuta, la morte cancellata. In questa prospettiva parlare di ferite, nel corpo e nello spirito, esige un cambio di paradigma.
Lo facciamo lasciando la parola a chi, per scelta, ha deciso di vivere quotidianamente con i malati terminali. Di essere taumaturgo del corpo e dell’anima per chi la «terminalità» non può più far finta che non esista. 

cure … palliative?

«Il medico di cure palliative agisce laddove non ci sono più spazi per le terapie attive convenzionali e rivolge le sue cure a malati cosiddetti terminali, con un’aspettativa di vita minore o uguale a 120 giorni». Così racconta Piergiacomo Rubatto, 46 anni,  medico presso la Fondazione per l’assistenza e la ricerca oncologica (Faro) di Torino. E sfata un equivoco semantico, secondo il quale l’attributo palliativo identifica un intervento superfluo. «Anticamente il sostantivo pallium indicava il mantello con cui i pellegrini si riparavano durante i loro viaggi presso i santuari, con l’intento di avvolgerli, proteggerli ed essere fonte di calore.
A questa idea iniziale si rifanno le cure palliative. Se non servono a guarire nel senso stretto del termine, servono a prendersi cura del paziente sino alla fine».
Ma in termini tecnici come ci si prende cura del paziente? «L’obiettivo è ridurre al massimo grado la sofferenza della persona malata, con un buon controllo dei sintomi. Alleviare dal dolore la persona permette non solo di intervenire sulla corporeità dell’individuo ma di restituirgli quella dignità umana,  indispensabile per migliorare la qualità del tempo che gli rimane da vivere».
Se il controllo di una complessa sintomatologia alla fine della vita è importante, inscindibile da questo è l’approccio relazionale e umano che il «palliativista» non può non avere.
«Alla base del nostro lavoro c’è la consapevolezza di varcare l’uscio di case segnate dal dolore. L’attività tecnica del controllo dei sintomi si lega indissolubilmente al rapporto relazionale con il malato e con l’intera famiglia. Nell’assistenza domiciliare il ruolo della mini équipe (medico e infermiere) è quello di affrontare i sintomi fisici dei pazienti ed emotivi dei parenti, con un’autentica condivisione del malessere psicologico».
Da cosa nasce la sua scelta di lavorare con la terminalità? Ha iniziato dopo la laurea o è una decisione recente? «Sono specializzato in chirurgia e ho lavorato per 15 anni come chirurgo al San Giovanni Vecchio e all’ospedale Valdese di Torino. Con il passare degli anni ho iniziato ad avvertire una pungente insofferenza verso quella che si può definire la catena di  “montaggio e smontaggio” della sala operatoria. Precisione, tecnicismo ma poca relazione umana. Dopo anni di lavoro mi sono riconvertito a quella che era la mia vera indole, il mio credo di quando ho iniziato gli studi: il rapporto diretto con il malato e i suoi disagi».
Da chirurgo a medico di cure palliative. Lasciando, se vogliamo peccare di cinismo, un titolo prestigioso per scegliere di accompagnare l’uomo alla fine dei suoi giorni. «In ospedale il malato è l’anello che ruota intorno al sistema. Nel percorso di cui stiamo parlando sono gli operatori a ruotare intorno al malato. L’uomo è immancabilmente al centro.
Non mi manca il prestigio del chirurgo. Sono nel posto dove volevo essere e quello che ritengo più fondamentale per il mio mestiere è essere credibile verso sé stessi e verso gli altri. La credibilità la leggi negli occhi dei tuoi pazienti e delle loro famiglie, condividendo quel pezzo di strada che porta al passo più importante delle nostre vite».

A casa o in hospice?

L’intervento di supporto alla terminalità attraverso le cure palliative può essere realizzato sia a domicilio che in hospice. Il dottor Alessandro Valle, 47 anni, cornordinatore del personale Faro, specialista in oncologia ed esperto in cure palliative, ci spiega: «La Fondazione Faro nasce a Torino nel 1983 per volontà di alcuni medici oncologi dell’ospedale San Giovanni Antica Sede. Dal 1989 avvia un programma di assistenza domiciliare medica e infermieristica, gratuita, ai malati oncologici in fase avanzata della malattia.
Nel 2001 apre al terzo piano dell’ospedale San Vito di Torino l’hospice con 14 stanze a un letto, con una poltrona per un familiare, per un totale di 10-20 posti. L’obiettivo è ricreare il più possibile un ambiente familiare, accogliente, che rispetti la dignità e l’integrità della persona.
Non esistono per questo orari precostituiti di visita e, per quanto possibile, si cercano di organizzare  momenti comunitari di intrattenimento».
L’hospice ha veramente un aspetto tranquillizzante. Situato nel verde della collina torinese, gode di una vista che, in qualche modo, rinfranca lo spirito. Il suo interno è l’espressione della «misura d’uomo». L’ambiente non è impregnato di quel nauseabondo odore medicalizzato degli ospedali, è impossibile perdersi perché troppo piccolo e ogni stanza è caratterizzata da un’icona floreale. Dall’iris al girasole, in un tutt’uno con l’idea che nulla muore per sempre, che bellezza e purezza sopravvivono anche al più drammatico degli eventi.
I luoghi della palliazione spaziano dunque dal domicilio all’hospice. Cosa li distingue e caratterizza?
«Le cure palliative a domicilio non hanno ragione d’essere se la famiglia stessa non è in grado di integrare le attività assistenziali. La famiglia è il peo su cui si basa l’intera cura.
Peo di appoggio pratico, affettivo e psicologico. Si potrebbe definire un’azione congiunta di mini équipe con la famiglia. Coordinazione e dedizione assoluta di ambo le parti conducono a un accompagnamento armonico. Le famiglie che non possono garantire tale impegno si rivolgono all’hospice».
Sono persone sole, senza famiglia i degenti dell’hospice? «Assolutamente no. I malati cosiddetti  “soli” sono sinceramente rari ma non tutte le famiglie, per quanto numerose possano essere, hanno possibilità di tempo e disponibilità emotiva per  seguire l’evoluzione della malattia  oncologica, in particolar modo in area metropolitana».

testa e cuore

Quale profilo professionale e umano è più consono all’operatore di cure palliative e su che criteri si basa la selezione del personale?
«Dopo anni di lavoro posso dire che il neolaureato o il medico con troppa esperienza non si confà al profilo giusto del candidato. Il primo perché non ha ancora acquisito una certa scioltezza nella professione e non ha gli strumenti giusti per trattare casi delicati.
Per contro, la troppa esperienza pecca a volte di rigidità mentale, di schemi prefissati e di poca flessibilità. Inoltre viene detto un no categorico a chi desidera collaborare con noi in attesa di altro nella propria vita: concorsi, master, etc. Su questo siamo tassativi, chi sceglie questa strada non può farlo per  poco tempo e con leggerezza».
Quali allora i giusti ingredienti? «Motivazione, competenza e inclinazione alle relazioni umane. Senza questa triade non esiste il medico o l’infermiere di cure palliative. Per quanto concee il medico non viene richiesta una determinata specializzazione. Chi viene da noi a cercare lavoro si mette al servizio dell’umanità più fragile, più ferita. Deve farlo con testa, cuore, elasticità mentale e di tempo. L’orologio perde il suo significato, il tempo acquista valore in quanto le giuste parole servono a curare quello che la medicina non può più guarire. L’esperienza, poi, chiude il ciclo. Aiuta a trovare soluzioni, gesti e complicità anche nei momenti più disperati».
Ma in questo olimpo di umanità, ci sarà qualcuno che prova a sbarcare il lunario per convenienza e non per sincera attitudine. «Le persone che non dichiarano apertamente di voler far altro nella vita e si improvvisano medici o infermieri di cure palliative hanno vita breve.
Sono loro stessi a rendersi conto che se non si ha una forte motivazione è impossibile convivere quotidianamente con la morte. Inoltre i nostri operatori, una volta superato il colloquio, sono sottoposti a un periodo di formazione e tirocinio della durata di cinque settimane, complessive di 30 ore teoriche globali e un duro tirocinio articolato in quattro settimane presso il servizio domiciliare e una in hospice. Dopodiché devono superare un esame e altri sei mesi di prova.
Questo iter serve a palesare anche il più piccolo disagio e a scoprire il vero talento dal fasullo».
La gente che prende posizioni nette nella vita o che, come in questo caso, fa scelte forti spesso è unita da un sentire comune, da una sorta di appartenenza a una stessa filosofia di vita. Cosa distingue il file rouge degli operatori Faro? «Oserei dire un pizzico di follia, nel senso di essere un po’ anticonformisti, di non essere allineati, di privilegiare la ricerca del  senso delle cose della vita, rispetto all’etichetta, al prestigio esteriore.
Ognuno di noi, per una ragione o per l’altra, ha fatto una scelta di rottura rispetto a ciò che era o faceva prima, abbandonando spesso luoghi di cura dove non esprimeva al meglio il proprio potenziale».
senza camice

Scelte alternative, dunque, come alternativo e controcorrente è lo stesso fatto di non nascondersi dietro il camice bianco, ma di essere sempre in borghese. Nel servizio domiciliare  come in hospice.
Una prospettiva meno autorevole, più accessibile che rinuncia al «costume» come identificazione di uno status sociale, censurando così tutte quelle dinamiche che il camice stesso crea: divisione, rottura, freddezza. E, in fin dei conti, poca utilità.
Sono le parole di Raffaella Oria, 35 anni, da 10 anni infermiera Faro, a dipingere al meglio quanto le interrelazioni emotive non necessitino di travestimenti.
«Già nei quattro anni in cui lavoravo come infermiera presso il reparto di ginecologia oncologica del Sant’Anna di Torino, sentivo l’esigenza di fermarmi di fronte alla terminalità. Era come se una spinta intea, molto viscerale, qualcosa di somigliante al mio io più profondo, mi invitasse a spostare il paravento o ad aprire la porta di una stanza in cui stava avvenendo un decesso.
Volevo essere lì e far sentire la mia presenza fisica e mentale». Parole e aspetto di Raffaella Oria non tradiscono il suo potenziale umano. E non stupisce che lavorare con i malati terminali sia da 10 anni la sua missione.
Abbiamo avuto modo di seguirla da vicino, a domicilio, e ho sperimentato quell’energia carezzevole, femminile, fatta di un universo interiore che si muove a passi di danza, in una terra di passaggio. Dove di quella danza c’è un bisogno infinito. «L’esperienza domiciliare mi ha dato la possibilità di esprimere al meglio la mia inclinazione ai rapporti umani e di responsabilizzarmi professionalmente. Senza nessun camice, esponendomi in prima persona per quello che sono realmente. Posso dire che è stata la vita stessa e l’esperienza a formare la mia umanità più vera. Quella che, oggi, riesce a intervenire nei momenti più complessi, a cogliere un disagio psicologico della famiglia, a cercare il giusto conforto. Dieci anni fa non sarebbe stato lo stesso».
Le abbiamo visto fare un gesto di cura e di amore. Che non posso dimenticare. Era il commiato fisico ad un corpo ormai senza vita. La tenera ricomposizione di quest’ultimo. Forse non rientra più nella sua sfera di competenza, perché lo fa?
«Un corpo non è solo un oggetto esanime, bensì una vita intera. Fatta di tanti fotogrammi che compongono un ciclo di amore, di pensieri, di speranze. E, purtroppo, è un corpo ferito dall’abuso sanitario. Merita un ultimo saluto dignitoso, una carezza che possa estendersi dall’ultimo respiro in poi. Tecnicamente rimuovo gli eventuali dispositivi (medicazioni, cannule endovenose o catetere) e poi provvedo all’igiene del corpo e, se la famiglia lo desidera, alla vestizione. I tempi sono fondamentali.
Non esiste fretta ma una dolce fluidità. Un ultimo, lungo saluto che soffia ancora di vita».
Dopo tanto morire, ci sono dei momenti in cui si rischia il bu-out (dall’inglese bruciarsi: lento processo di logoramento che porta a non disceere la propria vita da quella delle persone a cui si bada)? Come comportarsi?
«Mi è capitato di avere nello stesso anno quattro casi di pazienti anagraficamente simili a me. Questo, alla lunga, sfocia in un meccanismo di immedesimazione e di grande fragilità. La soluzione? Chiedere ferie e farsi aiutare dai colleghi, snellire il carico di lavoro o prendere in cura pazienti di diversa fascia anagrafica».
Cosa le ha insegnato questo lavoro, cosa si porta dietro nel suo quotidiano?
«Mi ricorda, in ogni istante, di vivere sempre il momento. E di farlo nel miglior modo possibile, dando la priorità alle cose che veramente contano».

«ascensori dell’anima»

Ma se le cure palliative servono a prendersi cura fisicamente ed emotivamente del paziente e della famiglia, esiste da qualche parte una «palliazione» dell’anima?
Ne parliamo con Gianpaolo Paoletto, 41 anni, cappellano dell’ospedale Molinette (San Giovanni Battista di Torino) e assistente spirituale in hospice Faro.
«Il nostro tempo è caratterizzato dall’incapacità del non fare. È un tempo inscatolato in cui diventa fattore ansiogeno trovare uno spazio libero per la mente e per il cuore.
La profondità di noi stessi è ciò che più inquieta l’uomo moderno. Che anche di fronte alla morte continua a ricercare l’azione per far finta che nulla di trascendentale si stia verificando».
Quale potrebbe essere allora un accompagnamento spirituale per l’uomo che sta compiendo i suoi ultimi passi?
«Smettere di vivere la vita in una prospettiva orizzontale, prendere l’ascensore in salita e in discesa, per accedere a quei meandri interiori del nostro io assoluto, che mai come in quel momento dovremmo conoscere. Solo così è possibile una sorta di pacificazione, seppur estremamente difficile.
Non è compito dell’uomo di fede indottrinare il malato terminale ma è parte della sua missione aiutare a trovare delle risposte, a chiarire alcuni interrogativi sulla vita e sulla sofferenza. Questo lo si può fare solo se si fuoriesce da una rigidità mentale e si allarga la prospettiva della spiritualità. Essendo di conforto all’uomo, a prescindere dal credo personale».
In un  film capolavoro del regista svedese Ingmar Bergman «Sussurri e grida», dove la tematica è l’agghiacciante terminalità della giovane protagonista, il colore rosso delinea propriamente questo tunnel verso l’interno dell’anima. E l’unica consolazione finale è il rapporto umano, quello sincero della donna con la governante, complice per esperienza personale di tale dolore.
È l’unica in grado di accompagnarla amorevolmente verso l’epilogo.
Questo viaggio verso l’anima può essere veramente facilitato da un’autentica relazione umana?
«Certamente. La relazione profonda tra due esseri si incontra esclusivamente nell’autenticità. E quando questo accade in prossimità della fine di una vita, assume un aspetto miracoloso.
Spesso incontro malati che vorrebbero sul serio prendere quest’ascensore verso la propria profondità ma sono gli stessi familiari a non consentirlo, occupandogli e occupandosi assurdamente il poco tempo che resta. Un ulteriore escamotage per nascondere le proprie paure».

Per Non perdere l’identità

Il timore di esprimere la propria fragilità, di ammettere di essere in scadenza ci toglie la leggerezza, ci rende responsabili di fronte a parole che mai avremmo pensato di poter pronunciare. Con un padre, un figlio, una moglie. E non sempre si trovano consolazioni anagrafiche, magari legate alla senilità, davanti alla notizia di una malattia incurabile.
A volte si incontrano famiglie con bambini o adolescenti a cui la malattia dei genitori segna profondamente un momento della loro esistenza, e non solo.
In questo senso il lavoro organico della mini équipe di cure palliative è pronto a richiedere, davanti a un particolare disagio emotivo all’interno di una famiglia, il supporto di uno psicologo.
«L’obiettivo del nostro lavoro è quello di aiutare il malato a trovare un punto emotivo di quiete, conducendolo al trapasso senza un’eccessiva disperazione.
L’approfondimento psicologico nei confronti del paziente o della famiglia aiuta a veicolare quelle che sono le effettive necessità, i bisogni inespressi della persona e a restituirgli il senso della propria storia». Così racconta Stefania Chiodino, 50 anni, cornordinatrice degli psicologi in Faro.
«La malattia sgretola, avvilisce e svilisce. Inizia scardinando l’autostima in termini fisici, esteriori, e poi si scava un percorso nelle pieghe più intee per colpire l’autentica identità della persona. Il nostro operato cerca, per quanto possibile, con la collaborazione dell’interessato, di riavvolgere quel nastro vitale e di agire sull’autostima del soggetto per aiutarlo a rivalorizzarsi e a riconoscersi».
Come avviene un cammino del genere? «Solo con una stretta relazione, il tempo e la fiducia reciproca. Un esempio: per un nostro paziente riconoscersi corrispondeva al piacere culinario. Per lui è stato un momento di autenticazione personale vedere come tutta la nostra équipe partecipasse alla preparazione del suo piatto preferito. Piccole cose di ogni giorno, semplici, ma che ridanno personalità a una vita».
La terminalità è una fase della vita sui generis, esula dalle condizioni psichiche ordinarie. Ci sono silenzi del malato a cui l’altro non sa come rapportarsi. Esistono chiavi di lettura e parole giuste per un commiato da una persona amata?
«Non ci sono strategie. L’esperienza mi ha insegnato che a volte quel silenzio che il parente legge come tormento è in realtà un’assenza. In un posto lontano, forse una vera terra di confine, dove l’uomo sente meno dolore.
Il nostro lavoro non è nel consigliare frasi d’effetto ma nel capire le necessità dell’altro e, se queste riguardano il commiato, favorie la realizzazione nel modo più sereno possibile».
Un intervento che si può definire circolare. «Direi di si. Lo chiamiamo “Progetto protezione famiglia” e agisce, preventivamente, rivolgendosi a famiglie fragili, ossia con bambini e adolescenti all’interno, patologie psichiatriche, marginalità sociali, etc. Accompagnandole con programmi di sostegno psico-sociale fin dalla diagnosi della malattia, seguiamo i malati terminali e offriamo un servizio di supporto al lutto per contrastare la solitudine e prevenire il lutto patologico».

Un numero limitato di volte

C’è una frase di Paul Bowles tratta dal libro «Il tè nel deserto» che esprime questa incapacità dell’essere umano a ricordarsi di essere parte di una parabola che, prima o poi, metterà la firma al fondo della pagina: «Poiché non sappiamo quando moriremo si è portati a credere che la vita sia un pozzo inesauribile, però tutto accade solo un certo numero di volte, un numero minimo di volte. Quante volte vi ricorderete di un certo pomeriggio della vostra infanzia, un pomeriggio che è così profondamente parte di voi che, senza, neanche riuscireste a concepire la vostra vita. Forse altre quattro o cinque volte, forse nemmeno. Quante altre volte guarderete levarsi la luna, forse venti…  eppure tutto sembra senza limite».

Di Gabriella Mancini

Gabriella Mancini




RICCHI E POVERI

Summit dell’Organizzazione della Conferenza islamica

L’undicesimo summit dell’Organizzazione della conferenza islamica si chiude con un grande successo. Tenutosi a Dakar
(Senegal) dal 13 al 14 marzo, ha prodotto il documento fondamentale dell’organismo. Che punta a dargli maggior dinamismo
e ruolo a livello internazionale.


Dakar. I capi di stato dell’Organizzazione della conferenza islamica (Oci) hanno adottato all’unanimità il 14 marzo scorso una nuova Carta fondamentale. Questa sostituisce il testo del 1972, e vuole dare un nuovo slancio all’organizzazione che rappresenta 1,3 miliardi di musulmani, in 57 stati membri.
Il segretario generale dell’Oci, il turco Ekmeleddin Ihsanoglu, durante la conferenza stampa di chiusura del summit, ha qualificato il risultato come un «grande momento» per la vita dell’organizzazione.

un Nuovo slancio

«Questo è stato un incontro storico, abbiamo voltato pagina. Dal 1972 nessun summit ha avuto tanto successo, in particolare per quello che riguarda la Carta», ha indicato Ekmeleddin Ihsanoglu, che è stato confermato al suo posto, al termine di un primo mandato di quattro anni. Ihsanoglu ha detto che questa Carta «nuova fiammante» costituisce un «passo significativo nella storia e per l’avvenire dell’Oci».
Essa esprime «la nuova visione del mondo musulmano, il nuovo slancio verso l’organizzazione e, finalmente, mette la nostra casa in ordine per dargli più vigore e dinamismo» oltre che aprire la via per un maggiore riconoscimento al ruolo internazionale dell’organizzazione islamica.
La nuova versione della Carta dell’Oci include la questione dei diritti umani, della buona governance e la democrazia. Il tutto per adattare la missione dell’organismo al contesto attuale. In effetti, la precedente era stata adottata in piena guerra fredda. Il testo sancisce chiaramente che «gli stati membri sostengono e favoriscono, a livello nazionale e internazionale, la governance, la democrazia, i diritti umani, le libertà fondamentali e lo stato di diritto».

Palestina e Fondi

Per quanto riguarda la Palestina, un articolo del documento chiede una soluzione politica al conflitto, con un sostegno al «popolo palestinese per dargli i mezzi di esercitare il suo diritto all’auto determinazione e creare il suo stato sovrano».
Nelle sue risoluzioni, il summit di Dakar ha chiesto ai membri dell’Oci di fornire «finanziamenti complementari» per il Fondo di solidarietà islamico per lo sviluppo (Fisd), lanciato nel maggio 2007.
Il Fisd, che punta a un capitale di 10 miliardi di dollari, è concepito per promuovere la solidarietà all’interno della Ummah (comunità) islamica, nella quale coabitano i ricchi stati produttori di petrolio, come quelli del Golfo Persico, e paesi tra i più poveri del mondo.
Secondo il segretario generale, i contributi totalizzano attualmente 2,6 miliardi di dollari e non ci sono stati nuovi impegni in favore del fondo. L’attesa del gruppo africano rispetto al debito estero dei paesi membri non è stata soddisfatta durante l’incontro di Dakar.

Dialogo interreligioso?

La questione dell’islamofobia è stata pure largamente discussa nel corso dei lavori. Ekmeleddin Ihsanoglu, ha stimato che «le religioni dovrebbero capirsi meglio e trovare dei mezzi per meglio rispettarsi».
Al margine del summit, i presidenti del Sudan, Omar Hassan al Bechir e del Ciad, Idriss Déby Itno, hanno firmato, grazie alla mediazione del presidente senegalese Abdoulaye Wade e del segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-Moon, un accordo di pace (il sesto tra i due paesi dal 2005, ndr) per «mettere definitivamente fine» al contenzioso che oppone i loro due paesi (si veda MC,  aprile 2008).
L’Organizzazione della conferenza islamica è nata dopo l’incendio «criminale» della moschea di Al-Aqsa di Gerusalemme, provocata da un ebreo nell’agosto 1969. Al Qods (Gerusalemme, in arabo) città santa per giudaismo, cristianesimo e islam, è stata poi dichiarata dall’Unesco patrimonio mondiale in pericolo nel 1982. L’incendio servì come pretesto per la creazione dell’Oci, il 25 settembre di quell’anno a Rabat, in Marocco. L’organizzazione fu poi ufficializzata nel 1972 con l’adozione della sua Carta fondamentale a Djeddah, città dell’Arabia Saudita che da allora ospita il seggio provvisorio del segretariato generale della struttura.
Presenti nomi illustri

Tutti i paesi membri erano presenti a Dakar. C’era il re del Marocco, Mohamed VI,  i presidenti Abdelaziz Bouteflika (Algeria), Omar Bongo Ondimba (Gabon), Mahmoud Ahmedinejad (Iran), il presidente dell’Autorità palestinese Mahmoud Abbas, solo per citae alcuni. Il re d’Arabia Saudita, uno dei principali finanziatori dell’Oci si è fatto rappresentare dal principe Fayçal Bin Abdulaziz Al Saoud, ministro degli affari esteri. Importante è stata anche la presenza del segretario generale delle Nazioni Unite, il koreano Ban Ki-Moon e il presidente uscente della Commissione dell’Unione africana, il maliano Alpha Oumar Konaré.
Il presidente senegalese Abdoulaye Wade è stato eletto presidente in esercizio dell’Oci,  per un mandato di tre anni. Il prossimo summit dell’organizzazione è previsto nel 2011 in Egitto. 

di Sidiki Kouyaté

SVILUPPO O INVESTIMENTI?

«L’incontro di Dakar, deve essere visto come momento a partire dal quale l’Organizzazione della Conferenza islamica (Oci) ha deciso di investire seriamente in Africa» dichiara Cheikh Tidiane Gadio, ministro senegalese degli Affari esteri, al termine dell’incontro con una trentina di suoi omologhi per produrre la revisione della Carta fondamentale dell’organismo. Incontro che si è svolto a Dakar l’11 marzo, preparatorio al vertice politico dei capi di stato. «Non possiamo fare unicamente l’elemosina ai paesi poveri, ma dobbiamo mettere in piedi un meccanismo che permetta una ripartizione più equa della ricchezza tra i paesi musulmani».

E la nuova Carta dovrebbe andare in questo senso, come sostiene il segretario generale dell’Oci, Ekmeleddin Ihsanoglu: «L’Oci non è più quello del 1972 e il suo campo di azione si è esteso. Il mondo in cui viviamo non è più bipolare come all’epoca della guerra fredda». Le modifiche della Carta saranno in profondità, assicura il ministro Gadio, orientate a ridurre le differenze tra paesi musulmani poveri e quelli ricchi. «Lo spettro  di un mondo musulmano a due velocità, con una parte che va avanti e l’altra che ristagna o va indietro rende vulnerabile l’intera Ummah (comunità islamica, ndr)» così si era espresso il presidente della repubblica senegalese Abdoulaye Wade nel maggio 2007, al termine di una riunione dei governatori della Banca islamica di sviluppo.

Sempre a Dakar, prima del summit, si era tenuta una conferenza che ha visto la partecipazione di oltre 60 Ong islamiche che hanno anche incontrato i dirigenti dell’Oci. «Una nuova pagina è stata voltata nel settore della cooperazione tra operatori umanitari, governi e organizzazioni inteazionali» ha dichiarato Atta Manane Bakhit, vice segretario generale dell’Oci. La dichiarazione che ha concluso i lavori chiede ai governi del mondo islamico di sostenere le rispettive Ong. Si impegnano, inoltre a creare un centro che analizzi i bisogni in termini umanitari degli stati membri. Si pensi ad esempio che circa il 60% dei rifugiati di tutto il mondo si trovano in paesi musulmani (fonti Oci).
Atta ha anche detto che occorre collaborare di più con tutte le Ong della comunità umanitaria mondiale.

Il Senegal, che è l’unico paese dell’Africa sub sahariana che ha ospitato due volte il summit (il primo nel 1991) si prepara all’evento da quattro anni. In particolare dal punto di vista infrastrutture, con centinaia di cantieri stradali e sei hotel di alto livello. Un investimento di 152 milioni di euro per le strade e 365 milioni per gli hotel. Fondi in parte privati e in parte pubblici, ma quasi tutti provenienti dagli stati del Golfo Persico (tra i quali il Fondo saudita di sviluppo, il Fondo kuweitiano e la Banca islamica di sviluppo).
Un’iniezione finanziaria che contribuirà, a medio termine, alla crescita economica del paese, che dovrebbe raggiungere, secondo la Banca mondiale il 5,7%, rispetto al 5,1% del 2007.

di Marco Bello

Sidiki Kouyate e Marco Bello




(Danni) per tuttti i gusti

Tipologia, effetti e problemi delle varie sostanze

Dosi, tempi d’intervallo, situazioni contingenti cambiano gli effetti delle varie droghe sull’individuo. Ma i danni ci sono sempre e comunque. E sulla marijuana, la droga «leggera» da consumare in compagnia degli amici, occorre sapere che...   

Quali sono i principali tipi di droga, i loro effetti sull’organismo, la loro eventuale tossicità ed i problemi di tipo sociale, che l’assunzione di queste sostanze comporta.

LE AMFETAMINE (DISCO, DOPING SPORTIVO)

Appartengono a questa categoria l’amfetamina, la destro-amfetamina, la metamfetamina, il metilfenidato, la fenmetrazina, il dietilpropione, la piperazina, ecc. Per la loro capacità eccitante, alcune di queste sostanze vennero usate dai piloti di guerra, nelle loro missioni. Molti derivati delle amfetamine sono sostanze allucinogene o empatogene. Attualmente le amfetamine non sono più usate in medicina, salvo in rare eccezioni come nel trattamento della narcolessia. La metamfetamina è molto diffusa nel mercato illegale: anni fa si consumava prevalentemente per bocca, mentre ora si presenta in forma solubile da sniffare o iniettare (crystal), o da fumare (ice, shabu, yabaa). Poiché si sviluppa rapidamente la tolleranza verso queste sostanze, i consumatori cronici tendono ad aumentare progressivamente le dosi ed i tempi d’intervallo tra le assunzioni si riducono drasticamente.
Appartengono a questa categoria le dance drugs, che si usano nei rave parties e nelle discoteche; tra queste abbiamo l’ecstasy o Mdma (3,4-metilenediossi-N-metilamfetamina); la ketamina, un anestetico usato in medicina veterinaria, ma utilizzato come droga con nomignoli, quali kit kat o Special k; il Ghb o gammaidrossibutirrato, detto ecstasy liquida, essendo un liquido incolore, inodore ed insapore, ricavato da solventi industriali e mescolabile a cibi e bevande ed utilizzato come droga da stupro, perché dopo circa 20 minuti, la vittima diventa incapace di opporre resistenza, perde i freni inibitori, la sua coscienza viene alterata e la sua memoria si blocca per 2-4 ore, riprendendosi completamente solo dopo 8-12 ore, ma senza il ricordo della violenza subita.

Gli effetti
Queste sostanze sono potenti stimolanti del sistema nervoso centrale e si comportano come la cocaina, con effetto molto più prolungato. A basse dosi agiscono solo come stimolanti, mentre ad alte dosi incidono notevolmente sul ritmo cardiaco e sulla pressione arteriosa, per cui possono essere pericolose per chi presenta dei problemi cardiovascolari. Inoltre, le amfetamine sopprimono l’appetito e sono state usate in passato nelle cure dimagranti. Sono state usate poi come antidepressivi, per resistere al sonno e come doping sportivo.

I problemi
L’uso continuato per 3-4 giorni (uso in binges) è di solito seguito da un crollo psicofisico. Nell’uso cronico di alte dosi, si possono avere disturbi nelle relazioni personali e sociali, problemi psichiatrici e comportamenti aggressivi. I soggetti, che si iniettano alte dosi di queste sostanze, spesso presentano un decadimento fisico, dovuto in parte a denutrizione.

La tossicità
Si possono avere problemi psichiatrici, neurologici e/o cardiovascolari. L’abuso di queste sostanze, per vincere l’affaticamento, può portare al colpo di calore, cioè ad un forte ed incontrollabile aumento della temperatura corporea, legato all’eccessivo sforzo fisico, che può essere mortale. Ad alte dosi, le amfetamine sono tossiche per il sistema nervoso centrale, poiché provocano una deplezione acuta di dopamina e di serotonina in alcune zone del cervello; pare inoltre che distruggano le sinapsi o addirittura gli stessi neuroni. In quest’ultimo caso, il fenomeno è irreversibile e questo spiega il danno neurologico permanente.

LA CANNABIS (MARIJUANA E HASCISC)

La cannabis sativa, varietà indica, cioè la canapa indiana è una delle più antiche piante coltivate e sono note da millenni le sue proprietà farmacologiche. Questa pianta contiene, in ogni sua parte, circa 400 principi psicoattivi, di cui il principale è il delta-9-tetraidrocannabinolo (THC), che si trova soprattutto nelle infiorescenze delle piante femmina.
Le preparazioni usate come droga sono le foglie ed i fiori secchi (marijuana) e la resina concentrata (hascisc). Di solito, la marijuana contiene il 3-5% di THC, mentre l’hascisc il 7-14%. Queste sostanze si possono fumare pure o mescolate a tabacco (spinello o canna), oppure assumere per bocca, sotto forma di tisane o dolci. Da qualche tempo si stanno facendo, soprattutto nelle serre del Maghreb, degli incroci botanici, che hanno portato alla formazione della cosiddetta canapa rossa, che contiene concentrazioni di THC anche 10 volte superiori alla varietà classica e che serve a preparare un super-hascisc, chiamato srunk.
Gli effetti
I derivati della cannabis sono molto lipofili, quindi il THC arriva subito al cervello, che è costituito per buona parte da grassi, dove si accumula poiché non viene eliminato facilmente. Questo principio attivo si accumula nell’organismo e si ritrova anche dopo mesi, dall’ultima assunzione; esso può perciò essere la causa dell’instabilità di molte persone, soprattutto giovani.
Con il fumo, il THC si assorbe subito ed il suo effetto si manifesta in pochi minuti, mentre l’assorbimento per bocca è più lento e variabile. La durata dell’effetto varia dalle 3 alle 5 ore circa, ma può essere più lungo, nel caso dell’assunzione orale.
La cannabis, come le altre droghe, ha i suoi recettori specifici a livello di sistema nervoso centrale e periferico, per cui è in grado di modificare molte funzioni dell’organismo. Si spiegano perciò tutti gli effetti che la cannabis ha sul sistema nervoso centrale (molto potenziati dal contemporaneo consumo di alcol), sull’apparato cardiovascolare, sul sistema endocrino, respiratorio, immunitario e riproduttivo. A basse dosi, i derivati della canapa hanno effetti sedativi, rilassanti ed euforizzanti, per cui danno ebbrezza, buon umore e golosità. Ad alte dosi, provocano notevoli alterazioni sensoriali e percettive, nonché distorsioni spazio-temporali.
L’effetto ha un tipico andamento a ondate, con alternanza di fasi di alterazione e di fasi di lucidità. I principi attivi della cannabis hanno interessanti proprietà farmacologiche, ad esempio combattono la nausea ed il vomito nelle chemioterapie antitumorali, stimolano l’appetito e per questo possono risultare particolarmente utili per i malati di AIDS, per i quali la perdita di peso è uno dei disturbi più precoci e responsabile, per buona parte, dell’evoluzione della malattia. Inoltre tali principi riducono la spasticità muscolare, abbassano la pressione intraoculare ed hanno azione analgesica.

I problemi
La tossicità acuta della cannabis è trascurabile e finora non si sono mai registrati casi di morte per una dose eccessiva. Sotto il suo effetto si riducono la capacità di concentrazione, l’attenzione e la memoria. Si possono, inoltre verificare reazioni ansiose, di panico, psicosi tossiche e la sindrome amotivazionale, che rende apatici, con riduzione della capacità di giudizio, nonché perdita d’interesse verso la propria persona e l’ambiente circostante. Attualmente è in discussione, se la canapa possa portare alla luce delle forme latenti di schizofrenia. Sotto l’effetto della cannabis, si assiste ad un aumento della frequenza cardiaca e della pressione arteriosa, ad una marcata irrorazione congiuntivale (occhi rossi) e ad un aumento del consumo di ossigeno, da parte del miocardio. Per quanto riguarda l’apparato respiratorio, il fumo dello spinello sembra essere molto più cancerogeno di quello da tabacco.

COCAINA

Questa droga deriva dalle foglie di due specie di coca: l’Erythroxylum coca, coltivata nelle valli amazzoniche umide del Perù e della Bolivia e l’Ery­throxylum novogranatense, coltivata sulle montagne aride del Perù settentrionale e della Co­lombia. Attualmente ci sono coltivazioni illegali di queste piante, al di fuori delle aree tradizionali, particolarmente in Colombia. La cocaina è il principale alcaloide della coca (0,5-1% delle foglie secche). Essa ha tre fondamentali azioni farmacologiche: è un anestetico locale, un vasocostrittore ed un potente stimolante del sistema nervoso centrale. Il cloridrato di cocaina, che si presenta come una polvere bianca solubile in acqua, si sniffa, cioè si inala, e si inietta. La cocaina-base, non solubile in acqua, nella forma di pasta di coca o in quella di freebase o crack si fuma. Il fumo ha la stessa intensità e rapidità di azione di un’iniezione endovenosa. Gli effetti di una dose di cocaina durano circa 40-60 minuti per chi sniffa e molto meno (10-20 minuti) per chi si buca o fuma. Si ha successivamente un rapido ritorno alla normalità, molto più rapido nel secondo caso; tale ritorno può essere vissuto come sgradevole e deprimente, per cui si tende a ripetere quanto prima l’assunzione di un’altra dose. Si instaura così il fenomeno del craving, cioè del consumo compulsivo della sostanza.

La tossicità
La cocaina agisce sulla dopamina e sulla noradrenalina, entrambe neurotrasmettitori. In particolare la dopamina, la molecola del piacere, attiva il «Sistema di facilitazione comportamentale», che facilita i comportamenti finalizzati a conseguire delle gratificazioni, quindi determina disinibizione nelle relazioni sociali e nella ricerca del partner. Un’analoga azione è svolta dalle amfetamine e dall’alcol e spesso quest’ultimo è consumato contemporaneamente alla cocaina; in questo caso si forma, per azione del fegato, un metabolita  detto cocarnetilene, che è una sostanza fortemente tossica e che incrementa l’effetto della cocaina. Quando, però, il livello di dopamina presente nelle sinapsi è eccessivo, si può verificare uno stato psicotico, caratterizzato da idee deliranti, prive di fondamento e di tipo persecutorio. Il cocainomane si convince così di essere vittima di qualche complotto, per cui può avere reazioni anche molto violente.
La noradrenalina attiva, invece, l’«emotività negativa», per cui aumenta lo stato di allerta ed il soggetto diventa apprensivo. Aumentano le risposte di paura-allarme, quindi la cocaina può stimolare uno stato di reattività aggressiva. Peraltro questa, come le amfetamine, è una droga fortemente eccitante, che permette un’iperattività senza sentire la fatica; ciò è dovuto all’azione della cocaina sul glutammato, la molecola dell’iperattività; è la droga in giacca e cravatta, usata da managers, atleti, attori, ma anche da chi vuole tirare al tardi fino all’alba. Gli effetti della cocaina sono variabili da persona a persona, in base alle caratteristiche soggettive: alcune si sentono più energiche, altre più logorroiche, nervose ed irritabili.
Se si esamina l’immagine PET del cervello di un cocainomane, si può vedere che le aree colorate in rosso, rappresentanti le zone cerebrali, in cui c’è un corretto utilizzo del glucosio (la molecola energetica utilizzata dalle nostre cellule) si riducono progressivamente, man mano che aumenta il consumo della sostanza. Aumentano, nell’immagine, le zone gialle di scarso apporto e quelle blu, di apporto critico. In tal modo il cervello va progressivamente in crisi. Inoltre, in carenza di nutrimento, si hanno alterazioni vascolari, che hanno gravi ripercussioni anche sul sistema cardiovascolare.

I problemi
L’uso occasionale della cocaina non presenta grossi problemi (salvo le controindicazioni in caso di ipertensione o di altre malattie cardiovascolari). L’uso cronico, invece, può creare o aggravare dei problemi psichiatrici e, come già visto, il soggetto viene colto da mania di persecuzione. Sono frequenti allucinazioni visive e tattili (sensazione di insetti sotto la pelle). Il soggetto diventa sempre più aggressivo e violento.

La tossicità
Una dose tossica di cocaina può essere compresa nel range 70-150 mg per una persona di 70 Kg. La dose mortale è incerta e variabile da una persona all’altra. I danni, che la cocaina produce alla salute sono molteplici. Innanzitutto, a livello di apparato cardiovascolare, la cocaina aumenta la pressione arteriosa e favorisce l’occlusione delle coronarie, con conseguente rischio d’infarto. Inoltre produce aritmie (extrasistole, tachicardia, fibrillazione). Spesso si riscontrano alterazioni cardiache in soggetti giovani, facilitate dall’azione tossica combinata di alcol e di cocaina; a quest’ultima sono attribuibili gli infarti in giovane età, in assenza di altri fattori di rischio. Per quanto riguarda l’apparato respiratorio, se la cocaina viene fumata, la sua forte azione vasocostrittrice sui tessuti produce danni sia a livello della mucosa nasale, che tende alla necrosi, sia a livello polmonare. Si parla di crack lung, cioè polmone da crack, per descrivere una patologia caratterizzata da dolore al torace, difficoltà respiratorie e tosse con emissione di sangue. Bisogna tenere presente che, se si verifica un deficit della capacità respiratoria, ciò significa che c’è un minore apporto di ossigeno agli organi, per cui esso è più necessario, cioè il cervello ed il cuore. La cocaina ha la capacità di abbassare la soglia epilettica di un individuo e quindi di scatenare le convulsioni, che possono ripetersi a intervalli sempre più brevi, fino a risultare fatali. In alcuni casi, il disturbo epilettico da cocaina si manifesta con delle assenze temporanee, in cui la coscienza è alterata, confusa e non più vigile. Inoltre, sempre in tema di danni al cervello, i cocainomani presentano un rischio di ischemia cerebrale quattordici volte superiore alla norma. In questo caso, la causa può essere attribuita allo spasmo delle arterie craniche, con ridotto apporto di sangue al cervello (quella più frequentemente colpita è l’arteria cerebrale media), oppure ai microinfarti cerebrali, che sono associabili all’uso della cocaina. Quest’ultima può essere causa di TIA, cioè di attacchi ischemici transitori. In cocainomani di lunga data, alcune aree del cervello, soprattutto nei lobi frontali, ad un esame TAC o PET risultano atrofizzate o di dimensioni ridotte e ciò si traduce in un comportamento privo di regole morali e di senso comune, caratterizzato da forte impulsività e mancanza di riflessione, cioè, in pratica, una sorta di demenza. A ciò si aggiungono, nel tempo, i disturbi dell’attenzione, le crescenti difficoltà di attenzione ed un deficit di memoria. Attualmente non ci sono dati sufficienti, per stabilire l’entità dei danni a distanza, per coloro, che hanno usato la cocaina per anni, ma poi si sono disintossicati, né siamo in grado di prevedere cosa succederà nel tempo ai figli di madri cocainomani. A tal proposito, uno studio compiuto negli Usa ha evidenziato che il 31% dei neonati della popolazione urbana è positivo, per la presenza di cocaina nel corpo. Teniamo presente che la cocaina passa facilmente attraverso la placenta, quindi raggiunge il feto e si distribuisce nella sua circolazione. La cocaina esplica la sua azione vasocostrittrice sull’arteria ombelicale, riducendo l’apporto di ossigeno e di sostanze nutritive al feto; possono perciò verificarsi aborti spontanei, distacchi di placenta o parti prematuri. I bambini così esposti presentano basso peso alla nascita, riduzione delle dimensioni del cranio e del cervello e malformazioni all’apparato genito-urinario. Inoltre essi presentano riflessi meno validi, sono più irritabili ed interagiscono meno con l’ambiente. La cocaina è in grado di passare anche attraverso il latte materno, quindi, in caso di madre cocainomane, l’allattamento al seno va rigorosamente sostituito con quello artificiale. Infine la cocaina può produrre alterazioni ormonali, come l’ipertiroidismo, l’ingrossamento delle ghiandole mammarie e l’impotenza nei maschi, l’amenorrea e la perdita di fertilità nella donna, nonché la ricerca di situazioni di tipo sessuale, caratterizzate da una forte trasgressività, per cui è quasi costante nei maschi il ricorso a esperienze con i transessuali.

OPPIO, MORFINA, EROINA E ALTRI OPPIOIDI

L’oppio deriva dal lattice del papavero sonnifero (Papaver somniferum), originario dell’area mediterranea. Esso contiene alcaloidi molto usati in medicina, come antidolorifici e calmanti, quali la morfina e la codeina. Attualmente si usano anche oppioidi semisintetici, come l’eroina e la buprenorfina o completamente sintetici, come il metadone, la meperidina ed il fentanyl. L’oppioide più comune sul mercato illegale è l’eroina (diacetilmorfina), che può essere assunta per via endovenosa, per bocca o inalata.

Gli effetti
Gli oppioidi agiscono sul sistema nervoso centrale. In particolare essi agiscono su un tipo di recettori cellulari, facenti parte del sistema oppioide endogeno, e su mediatori biochimici, le endorfine, normalmente presenti nel nostro organismo. In medicina, gli oppioidi funzionano simultaneamente come analgesici e tranquillanti e vengono usati anche come antidiarroici e calmanti della tosse. Effetti collaterali frequenti sono la nausea ed il vomito, specialmente all’inizio, e la stipsi, che può diventare un serio problema. Gli oppioidi interferiscono solo in modo marginale con le funzioni intellettuali e con il cornordinamento muscolare. L’effetto dell’eroina dura 3-6 ore, dopodiché la persona dipendente deve ripetere la dose. La maggior parte delle persone, che fanno uso di oppioidi, come droga, non provano euforia, ma solo una sensazione di apatia, di sedazione e di ottundimento mentale, che può anche risultare sgradevole. Se si continua a consumare queste sostanze, in breve queste sensazioni negative tendono a scomparire.  Probabilmen
te solo poche persone traggono sensazioni gratificanti, già dalle prime assunzioni. In molti casi si raggiungono invece effetti, quali la stabilizzazione dell’umore e la riduzione della tensione intea e degli impulsi aggressivi.
I problemi
L’uso occasionale degli oppioidi, sotto controllo medico, non crea particolari problemi, che invece insorgono con il consumo cronico, perché si sviluppano tolleranza (necessità di aumentare la dose, per ottenere gli stessi effetti) e dipendenza fisica (adattamento dell’organismo alla presenza del farmaco), con la comparsa di un grave e prolungato malessere, accompagnato da tipici disturbi, in caso di sospensione improvvisa (crisi da astinenza). Nell’uso terapeutico, la dipendenza è un fenomeno rarissimo, ma può svilupparsi tolleranza.

La tossicità
Gli oppioidi puri, di solito, non sono tossici, se assunti in modo corretto e controllato. Al contrario, l’uso dell’eroina da strada può causare gravi problemi, poiché questa eroina è spesso tagliata con sostanze potenzialmente dannose, oppure è contaminata da agenti patogeni. Se questa droga viene assunta in condizioni igieniche carenti (mancanza di sterilità, siringhe usate) è facile contrarre infezioni di diverso tipo (tromboflebiti, epatiti, endocarditi, AIDS, ecc.). Inoltre, essendo sconosciuta la concentrazione del principio attivo, nelle droghe di strada, si rischia l’overdose, che può provocare la morte per una grave depressione dei centri nervosi, che controllano la respirazione. L’overdose è caratterizzata dalla presenza contemporanea di sonnolenza profonda, pupille contratte a punta di spillo e depressione respiratoria, con pochi e superficiali atti respiratori al minuto. Questa situazione richiede un intervento di emergenza, con respirazione artificiale e somministrazione di naloxone. Se un oppioide viene assunto con alcol e/o tranquillanti, si può avere sinergia con potenziamento.

LE SOSTANZE PSICHEDELICHE
(MESCALINA, FUNGHI, LSD)

Si tratta di sostanze allucinogene, che danno marcati effetti sulle percezioni, sensazioni, emozioni e processi mentali in genere. Tra i principali abbiamo la mescalina, contenuta in varie specie di cactus, tra cui il peyote (Lophophora williamsii), la psilocibina e la psilocina, contenute in molti funghi dei generi Psilocybe, Copelandia e Panaeolus, diffusi in tutto il mondo. Fra le sostanze di sintesi, c’è l’LSD (dietilamide dell’acido lisergico). Anche la cannabis, ad alte dosi, si comporta come un allucinogeno. Si usano quasi sempre per via orale ed il loro effetto dura 6-10 ore.

Gli effetti
Si va dall’aumentata intensità soggettiva delle percezioni e delle sensazioni (forme, colori, suoni, sensazioni tattili), fino a vere e proprie distorsioni illusorie della forma e del colore degli oggetti, nonché dello spazio e del tempo. Nessun tipo di droga ha effetti tanto imprevedibili e tanto dipendenti dallo stato mentale, dalla personalità, dall’atteggiamento e dalle aspettative del soggetto ed infine dalle circostanze ambientali. Sono possibili delle sinestesie, cioè la sensazione di vedere i suoni e di sentire il profumo dei colori, la dissoluzione delle immagini in pure forme di luce e di colore, fino alla sensazione di dissociazione della mente dal corpo. Si possono inoltre avere profonde sensazioni di armonia interiore e di sintonia con l’universo, in pratica una sorta di estasi. In certi casi, al contrario, si possono avere effetti negativi altrettanto rilevanti, si possono fare i bad trips, cioè i viaggi cattivi, per cui è sempre necessaria la vicinanza di una persona in grado di rassicurare e di calmare il soggetto.

I problemi
In soggetti predisposti si possono avere crisi più o meno prolungate di depressione o vere e proprie crisi psicotiche. Sono inoltre possibili dei fenomeni di flashback, cioè l’improvvisa ricomparsa di sensazioni alterate a distanza di tempo dall’assunzione. Sotto l’effetto degli allucinogeni è impossibile svolgere attività, che richiedono attenzione, vigilanza, concentrazione, raziocinio, cornordinamento muscolare e prontezza di riflessi, come ad esempio la guida di un veicolo. 

Di Roberto Topino e Rosanna Novara

MARIJUANA DA LIBERALIZZARE?

Quello dell’utilità in campo medico è l’argomento, di cui solitamente si servono coloro che sostengono la liberalizzazione della cannabis. Va detto, però, che in campo medico si usano anche gli oppiacei, per combattere il dolore, ma non per questo li troviamo liberamente in commercio.  In ogni caso, in questo tipo di discussione, bisogna tenere conto del fatto che è ormai provato, su base sperimentale, che anche la cannabis dà dipendenza, i cui primi sintomi sono la perdita di controllo dell’assunzione e l’incapacità di smettere, quando lo si desidera. Una piccola percentuale di soggetti mostra, inoltre, i sintomi fisici dell’astinenza, quali l’insonnia, l’irritabilità ed i tremori, anche se di minore entità, rispetto a quanto succede con le altre droghe.
È vero, peraltro, che non tutti coloro, che fanno uso di cannabis sviluppano la dipendenza, ma ciò può essere legato alle caratteristiche genetiche dei singoli soggetti, oppure alle caratteristiche ambientali.

(Sul tema  legalizzazione / proibizionismo si veda la tabella di pagina 31.)

Sniffare cocaina

Dal congresso degli operatori dei Sert di Sorrento arriva una notizia allarmante: ci sono persone, che fanno anche un anno di attesa, negli ospedali, per rifarsi il naso, distrutto dalla cocaina. Al momento è impossibile quantificarne, con esattezza il numero, ma pare che esso sia in continuo aumento.
Fino a qualche anno fa, gli interventi di rinoplastica, legati al consumo di cocaina, erano rarissimi: uno su cento cocainomani. Inoltre riguardavano per lo più persone del mondo dello spettacolo o managers. Ora, invece, le richieste d’interventi di questo tipo arrivano da persone di tutti i ceti sociali, anche nella popolazione femminile. Inoltre, dal momento che il prezzo della cocaina è diminuito, cresce il numero delle persone, che ne fanno uso e che successivamente si ritrovano con questo tipo di problema.
Le liste d’attesa per rinoplastica sono attualmente di cinque mesi in clinica privata, a 10.000 euro, e di un anno e mezzo in un ospedale pubblico. La cocaina ha una forte azione vasocostrittrice, che può portare alla necrosi di vaste aree della mucosa nasale, con conseguenti gravi difficoltà di respirazione e tumefazioni nasali. Sono costretti alla ricostruzione anche tanti giovanissimi, nei quali le mucose e la cartilagine sono più delicate e vanno facilmente incontro a perforazione, con l’abitudine di sniffare cocaina. L’intervento di rinoplastica dura 2-3 ore e, naturalmente, ha un senso solo se il soggetto smette di inalare cocaina. Bisogna inoltre considerare che questo tipo d’intervento è gravato da un’alta percentuale d’insuccessi, del 30-50%. I chirurghi maxillo-facciali riferiscono che, qualche anno fa, si aveva una richiesta di ricostruzione nasale una volta al mese, ora ce ne sono 3-4 alla settimana. Il primario di otorinolaringoiatria dell’ospedale San Giovanni Bosco di Torino, Prof. Fabio Beatrice sostiene anche che, oltre ai danni al naso, l’assunzione di cocaina può causare anche un importante abbassamento dell’udito.


☞ www.webcocare.it
Accedendo a questo sito, è possibile rispondere ad un test di autovalutazione, che consente a chiunque, in totale anonimato, di quantificare il proprio grado di dipendenza dalla cocaina. Oltre i consumatori, possono rivolgersi a questo sito, ottenendo un consulto, anche coloro (familiari o amici), che sospettano che un loro caro faccia uso di cocaina. Un’altra sezione del sito è dedicata agli operatori del settore, che possono così confrontare esperienze, teorie ed informazioni.

Dalla legge del 1923 alla «Fini-Giovanardi»

✔1923: viene emanata, in Italia, la prima legge in materia di droga. Essa prevede di reprimere il commercio di sostanze stupefacenti e rinvia ad un elenco, per l’identificazione delle sostanze incriminate.

✔1956: la legge n. 1041 è di tipo esclusivamente repressivo, in quanto, per lo Stato, il tossicodipendente e lo spacciatore si equivalgono. Qualsiasi detenzione di sostanze stupefacenti, anche per uso personale, viene punita.

✔1975: la legge n. 685 dice che chi consuma stupefacenti, senza dedicarsi allo spaccio è solo un malato da curare e da riabilitare. Il soggetto, in questo caso, non è punibile, sempre che la droga trovata in suo possesso non superi la modica quantità.
✔1990: la legge n. 162 (legge Vassalli-Russo-Jervolino) prevede che l’assunzione di stupefacenti sia punita con una sanzione amministrativa, che diventa penale, quando la detenzione di sostanze stupefacenti supera la dose media giornaliera, fissata con decreto ministeriale. Alcune norme di questa legge, in particolare quelle relative alle pene previste per la detenzione personale di droghe leggere, vengono abrogate con un referendum nel 1993.

✔2006: la legge n. 46 (legge Fini-Giovanardi) è caratterizzata dall’inasprimento delle sanzioni relative alla produzione, al traffico, alla detenzione illecita ed anche all’uso di sostanze stupefacenti, con l’abolizione di qualsiasi distinzione tra droghe pesanti e leggere.


Droghe, musica e cantanti

Una ricerca condotta recentemente, presso l’Università di Pittsburg ha analizzato i testi di 279 canzoni, tra quelle pubblicate nelle classifiche di Bilboard, un settimanale specializzato. Da questa ricerca sono emersi spesso dei riferimenti espliciti al consumo di stupefacenti, soprattutto nel rap, anche se possono pure trovarsi in altri generi musicali, come il country.
Secondo la rivista scientifica Archives of Pediatrics & Adolescent Medicine, i giovani di 15-18 anni sarebbero esposti quotidianamente a circa 2,4 ore di musica, mentre il 98% di loro possiede una radio, o un lettore cd o mp3. Questo significa che fare passare, attraverso il testo di una canzone, un messaggio legato al consumo di droga può avere un forte impatto negativo su una grande fetta di popolazione giovanile. Inoltre, spesso, questo tipo di messaggio viene associato a connotazioni positive, come il sesso, i soldi ed il successo. Dall’esame dei testi musicali, che fanno riferimento all’uso di stupefacenti, si è visto che il 77% sono di rap, il 36% di country, il 20% di rithm & blues/hip hop, il 14% di rock ed il 9% di pop. Facendo una media, le canzoni, che danno una connotazione positiva all’uso di droghe sono circa il 69%, mentre solo il 4% contiene un testo antidroga. Per quanto riguarda, invece, le sostanze citate in questi testi, si parla di tabacco nel 3% delle canzoni, di marijuana nel 14%, di alcol nel 24% e di altri tipi di droga nel 12%.
Tra i cantanti o gruppi stranieri, che inneggiano alla diffusione di hashish e di marijuana ci sono Snoop Dog ed i Cypress Hill, mentre in Italia abbiamo i Baustelle, che, in un loro testo, descrivono le gesta di un certo Charlie, che fa surf sotto l’azione di Mdma (ecstasy) e di paroxetina.

Dove sono le radici?

Il problema della tossicodipendenza è considerato un problema sociale; le proporzioni e le dimensioni del fenomeno, durante quest’epoca, hanno reso necessaria non solo la visione scientifica, ma anche l’elaborazione di vere e proprie risposte sociali.
Risposte, che appartengono a diversi livelli: reazione sociale nei gruppi più ristretti, come la famiglia ed il gruppo dei pari, ma anche rispetto alle istituzioni, cioè scuola, mondo del lavoro, ecc.
Le dimensioni e le caratteristiche dell’evoluzione di tale fenomeno mettono in rilievo che le spiegazioni e le interpretazioni basate sulle problematiche individuali dei consumatori non sono sufficienti a fornire una valutazione adeguata al fenomeno stesso, ma è necessario introdurre parametri di tipo culturale e sociale.
L’uso di droghe leggere è una forma di devianza, tipica nell’esprimere le gravi tensioni, alle quali i giovani della nostra epoca sono sottoposti in età sempre più precoce. Esistono problemi di adattamento sociale comuni a molti giovani, che si realizzano, in genere, in gruppo.
Considerare la droga un problema solo individuale, o solo psichiatrico non è sufficiente.
Innumerevoli i sostanziali mutamenti di valori e di stili di vita, che negli ultimi anni ci hanno accompagnato; filosofia del vivere alla giornata, in cui il mondo adulto appare esso stesso preoccupato per il futuro, tanto timoroso di sbagliare nei confronti degli adolescenti, ed allo stesso tempo contraddittorio nell’annunciare la validità di valori, che vengono negati nella pratica. L’uso di sostanze finalizzate ad incidere sulle condizioni psichiche ed a risolvere problemi, di carattere psicologico o esistenziale è entrato nelle abitudini di molte persone, e ciò è stato stimolato anche da enormi interessi delle industrie farmaceutiche.
Un elemento, che incide negativamente sull’esistenza del tossicodipendente è la sua realtà familiare: famiglie con relazioni alterate, rapporti affettivi di tipo ambivalente. Importante sì la figura matea, ma che sia una madre accogliente, che accudisce e non castra, capace di dettare regole e trasmettere valori, non ambivalente nei confronti dei figli, così come è importante un padre presente. Pare che la famiglia giochi un ruolo fondamentale sul comportamento del figlio adolescente e che la tossicomania di un figlio, nel senso più ampio del termine, possa essere considerata come un sintomo di un più generale disturbo familiare. Disturbo e scelta, che non vengono mai all’improvviso.
Responsabilizzare, capacità di superare le difficoltà quotidiane, avere buoni valori umani e culturali rimangono elementi concreti, grazie ai quali potere crescere; è l’immagine mentale dell’albero, con una bella chioma, il quale ha delle profonde e robuste radici inserite nel terreno e che, davanti alle bufere della vita, spesso riesce a superarle.

di Anita Di Santo



Roberto Topino e Rosanna Novara




Per un po’ di dopamina

La società e le droghe

«Non esiste alcunché in natura che non sia tossico, ma è solo la dose che rende una sostanza tossica o no», sosteneva Paracelso. Oggi sul problema delle droghe si discute molto, tanto che non esiste una posizione univoca neppure sul trattamento dei tossicodipendenti.

Droghe lecite e illecite, droghe leggere e pesanti, droghe high e down, che effetti possono avere sulla salute umana? Quali conseguenze sulla società? Il loro uso può essere considerato solo un fatto privato o no? È più corretto un atteggiamento proibizionista o antiproibizionista? E ancora, nel trattamento delle tossicodipendenze, è meglio il metodo della riduzione del danno, cioè un approccio di tipo medico, o l’approccio psicologico? Per tentare di rispondere a queste domande, può essere senz’altro utile avere un’idea di come agiscono le varie sostanze, una volta che hanno fatto il loro ingresso nel nostro organismo.

I DANNI 
DI ALCOL E TABACCO

La distinzione che si fa tra droghe lecite ed illecite, essendo le prime l’alcol ed il tabacco, può essere abbastanza fuorviante: si può essere portati a pensare che quelle lecite siano meno nocive alla salute umana, rispetto alle altre e che, in generale siano meno dannose per la società. Nulla di più errato. Prendiamo per esempio l’alcol. Tutte le bevande alcoliche, dalla più leggera birra ai superalcolici, contengono quantità diverse di alcol etilico, che per il nostro organismo risulta essere tossico, andando ad agire direttamente sul sistema nervoso centrale, con conseguenze che vanno dall’euforia iniziale alla depressione malinconica, passando attraverso le difficoltà di articolazione della parola e di deambulazione. Per non parlare del superlavoro che il fegato si trova a compiere, nel tentativo di depurare l’organismo da questa sostanza, che può causare un’epatite tossica, con evoluzione in cirrosi epatica, letale. Che dire poi delle stragi del sabato sera, in cui giovani ubriachi alla guida spesso uccidono se stessi e qualcun altro in tragici incidenti stradali? Oppure prendiamo in considerazione il tabacco: nel fumo di sigaretta, in particolare delle bionde, c’è un’elevata concentrazione di ammine aromatiche e di idrocarburi aromatici policiclici, sostanze sicuramente cancerogene, che sono la causa del carcinoma del polmone, ma anche di quello della vescica. Quindi la salute di chi fuma è seriamente a rischio, ma anche quella di chi non fuma, però si trova vicino a dei fumatori. Infatti il fumo passivo può essere dannoso come quello attivo, al punto che negli Stati Uniti è stata vinta la prima causa per fumo passivo, intentata dai parenti di una non fumatrice, deceduta per carcinoma polmonare.

DIPENDENZA FISICA,
DIPENDENZA PSICOLOGICA

Per quanto riguarda invece la distinzione tra droghe leggere e pesanti, va subito detto che ci troviamo di fronte ad un non senso tossicologico e cioè che esistano droghe leggere. In tossicologia non esiste alcunché di leggero. Già agli inizi del ‘500, Paracelso sosteneva: «Omnia venenum sunt: nec sine veneno quicquam existit. Dosis sola facit ut venenum non sit», cioè «Non esiste alcunché in natura che non sia tossico, ma è solo la dose che rende una sostanza tossica o no». Questo ci fa capire che la distinzione tra droghe leggere e pesanti è artificiosa e che si può fare un uso pesante di droghe leggere. Fino a qualche tempo fa, sono state considerate pesanti le droghe capaci di dare dipendenza fisica (ad esempio l’eroina), per cui, se il soggetto dipendente smette di assumere la sostanza d’abuso, ha una crisi di astinenza, perché non è possibile interrompere bruscamente l’assunzione della droga, quando l’organismo è abituato ad essa. Droghe leggere sono invece quelle, che non danno dipendenza fisica e, fino ad una decina di anni fa, la cocaina e la cannabis erano considerate di questo tipo. Oggi ci si è resi conto che queste droghe danno un altro tipo di dipendenza, cioè quella psicologica, particolarmente importante nel caso della cocaina, che porta rapidamente al craving o consumo compulsivo. In pratica tutte le sostanze d’abuso danno il cosiddetto rinforzo negativo (lo stato di malessere durante l’astinenza), ma anche il rinforzo positivo (il ricordo del benessere legato all’assunzione della sostanza), cioè ciò, che tiene l’individuo legato alla sostanza stessa.

DOPAMINA,
LA MOLECOLA DEL PIACERE

La sensazione di benessere è data dalla liberazione della dopamina da parte dei neuroni stimolati dalle droghe. La dopamina, una molecola che permette ai neuroni di comunicare tra loro, viene rilasciata soprattutto in un’area cerebrale, detta nucleus accumbens, facente parte del sistema limbico del cervello ed in particolare dell’amigdala, che controlla le emozioni, positive e negative. I vari tipi di droga agiscono in modo leggermente diverso, perché i narcotici analgesici, tra cui l’eroina, agiscono su dei recettori specifici, cioè i recettori per gli oppiacei, aumentando la quantità di dopamina liberata. La cocaina, invece, aumenta la quantità di dopamina in circolazione, perché ne impedisce il riassorbimento a livello delle sinapsi. Dobbiamo comunque tenere presente che un neurotrasmettitore, in questo caso la dopamina, si comporta come un interruttore, che non solo agisce sui neuroni limitrofi, ma dà origine ad una serie di modificazioni, che si ripercuotono su tutto il sistema nervoso ed anche su altri organi. Ad esempio, i recettori che possono essere stimolati dal tetraidrocannabinolo, il principio attivo della cannabis, oltre che nel cervello si trovano anche negli occhi e nell’intestino, mentre quelli per la nicotina del tabacco si trovano in molti tessuti, compresa la pelle.

PER DEPRIMERE
O PER ECCITARE

Una distinzione può essere fatta tra le droghe down e quelle high, essendo le prime quelle che deprimono il sistema nervoso centrale, come l’alcol, i barbiturici, gli ipnosedativi, gli oppiacei, tra cui l’eroina; le droghe high sono quelle eccitanti il sistema nervoso e tra queste la caffeina, la nicotina, la cocaina e le amfetamine, tra cui l’ecstasy. È importante tenere presente che l’effetto di una droga su un individuo non dipende solo dalle caratteristiche chimiche della sostanza, ma da quelle della persona, dalla dose, dalla frequenza di assunzione e dall’ambiente sociale, in cui avviene il consumo (può capitare che la prima assunzione risulti sgradevole o faccia stare male; se il soggetto è circondato da amici più esperti, questi spesso sono capaci di consigliare come superare il disagio iniziale).
L’aspetto sociale del consumo delle droghe è particolarmente importante, perché si tratta di stabilire se questo consumo possa o meno rientrare nel concetto di libertà individuale. Secondo questo concetto, ciascuno dovrebbe essere libero di fare ciò che vuole della propria salute, quindi di drogarsi, anche se questo gli fa male. Che dire, però, se le conseguenze dell’abuso di determinate sostanze si ripercuotono gravemente sugli altri, vedi stragi del sabato sera, familiari percossi o addirittura uccisi oppure furti, rapine per procurarsi i soldi per la dose? Certamente, se esaminiamo i risultati ottenuti, in passato, con l’alcol dall’atteggiamento proibizionista, possiamo dire che sono stati assai deludenti. L’antiproibizionismo dovrebbe avere il vantaggio di stroncare il narcotraffico, ma senza una capillare attività educativa a livello soprattutto giovanile, potrebbe portare a risultati anche in questo caso negativi. È indispensabile, infatti, che vengano diffuse il più possibile le conoscenze scientifiche, nel campo delle droghe, al fine di difendere sia i singoli individui dal danno, che inconsapevolmente possono farsi, assumendo determinate sostanze, sia la società in cui essi vivono.

RIDUZIONE DEL DANNO
O RECUPERO PSICOLOGICO?

Per quanto riguarda il trattamento delle tossicodipendenze esistono fondamentalmente due tipi di approccio, cioè quello medico e quello psicologico. Il primo tiene conto del fatto che il tossicodipendente può provocarsi  una malattia organica, alla cui base ci sono danni, talora irreversibili, al sistema nervoso centrale. I Sert funzionano secondo questo tipo di approccio, sono diretti da medici e di solito la loro attività si basa sulla cosiddetta riduzione del danno, che prevede la somministrazione di metadone o di buprenorfina, al posto dell’eroina. Ciò riduce il rischio di diffusione di malattie come l’Aids o l’epatite virale, perché tali farmaci vengono assunti oralmente e non per via endovenosa. Inoltre, la somministrazione di queste sostanze in appositi centri ed in modo controllato, evita al tossicodipendente la ricerca della dose quotidiana e dei soldi per ottenerla. Certamente, però, queste sostanze agiscono sul sistema nervoso, in modo analogo all’eroina, e quindi per il tossicodipendente cambia poco, anzi il soggetto viene in pratica considerato irrecuperabile. Viceversa, l’approccio psicologico si occupa solo di questo aspetto, il tossicodipendente è accolto in comunità, che hanno di solito lo scopo di tenerlo lontano dal mondo della droga e di recuperarlo, inserendolo in attività di lavoro, in un contesto socio-educativo. Peraltro alcune strutture prevedono l’integrazione dell’area medica e di quella socio-educativa. Vanno poi ricordate le unità mobili, camper attrezzati con strumenti di pronto soccorso e con personale specializzato a bordo, che si recano di solito nei quartieri degradati, per avvicinare quei tossicodipendenti, che non si rivolgerebbero spontaneamente ad una struttura pubblica o privata di recupero. Gli interventi di queste unità si prefiggono lo scopo di convincere i tossicodipendenti a ridurre il margine di rischio nei loro comportamenti; ad esempio i soggetti avvicinati vengono foiti di siringhe sterili, per evitare la dif­fu­sione di Aids ed epatite. Inoltre i tossicodipendenti, che vengono agganciati in questo modo, a seguito di uno o più colloqui, vengono indirizzati alla struttura di recupero stabile, operante nel territorio. 

di Roberto Topino e Rosanna Novara

Roberto Topino e Rosanna Novara




Fumare, sniffare, bucarsi Perché?

Lo sviluppo della tossicodipendenza

Il nostro titolo è volutamente esplicito. La risposta è invece complessa. Come abbiamo visto, storicamente le droghe sono sempre state utilizzate. Oggi, l’offerta si è allargata (più prodotti) e con essa si sono diversificati i consumatori (giovani di diversa estrazione sociale, ma anche professionisti e sportivi).

Chi sono i tossicodipendenti? Quanti sono in Italia? Come è cambiata, nel corso degli anni, la figura del tossicodipendente? È necessario premettere che il censimento dei tossicodipendenti, in ogni nazione, risulta essere un’impresa piuttosto ardua, che sicuramente non porta a dei risultati certi, ma solo a delle approssimazioni per difetto del loro reale numero.
Questo perché i soli dati disponibili sono quelli dei servizi pubblici o privati, a cui alcuni dei tossicodipendenti si rivolgono, che vanno sommati ai dati relativi agli arresti ed a quelli dei soccorsi per casi di overdose. Inoltre bisogna tenere conto del fatto che alcuni dei soggetti censiti potrebbero essere non dei veri e propri tossicodipendenti, ma solo consumatori occasionali (ad esempio, week enders).
Il vero tossicodipendente è infatti il soggetto in cui si possono riconoscere chiaramente tre sindromi: la crisi d’astinenza, che si presenta dopo la sospensione della sostanza d’abuso; la sindrome da craving, cioè l’irresistibile desiderio della sostanza ed il suo uso compulsivo; la sindrome metabolico-cerebrale, che si traduce in un’alterazione della vita psichica e relazionale del soggetto, che risulta essere sempre più irritabile ed ansioso. In pratica, l’incontro con le sostanze di abuso può portare ad una vera e propria malattia, alla cui base ci sono dei danni, talora irreversibili, nel funzionamento del sistema nervoso centrale. Le aree cerebrali colpite sono quelle preposte al controllo delle pulsioni e dei comportamenti; in particolare tutte le droghe determinano un aumento della dopamina, un neurotrasmettitore, che regola la sensazione del piacere, a livello del sistema limbico, una parte del nostro cervello molto antica, dal punto di vista evolutivo, che presiede al controllo delle emozioni.
Sulla base dei dati nazionali attualmente a disposizione, l’Osservatorio del Dipartimento dipendenze patologiche dell’Asl di Milano è giunto alla conclusione che nel 2010 i consumatori di cocaina potrebbero aumentare del 40% rispetto al 2007 e raggiungere un numero oscillante tra gli 800.000 ed 1 milione e 100.000, cioè il 3% degli italiani.
Molti di costoro inoltre sono dei politossicodipendenti, dal momento che spesso l’eroina viene assunta dopo la cocaina, allo scopo di sedare l’effetto eccitante della prima (ovviamente i pusher si sono adeguati a questa necessità ed ora smerciano i due tipi di droga contemporaneamente), oppure molti consumano contemporaneamente droghe ed alcolici, o mescolanze di droghe diverse di ultima generazione (ecstasy, shabu, ecc.).

LE COLPE
DELLE CASE FARMACEUTICHE

Storicamente la diffusione sociale delle sostanze psicoattive risale agli inizi degli anni ’60 in ambienti controculturali da un lato e in quelli dei giovani degli strati emarginati per caratteristiche di classe o etniche, dall’altro, con predilezione per il consumo di allucinogeni e di hascisc. All’inizio degli anni ’70, le droghe si diffusero tra i giovani qualunque, cioè i proletari delle periferie, i ragazzi sbandati, ma anche tra onesti lavoratori e in Italia fecero il loro ingresso con notevole abbondanza gli oppiacei, eroina in testa. Va detto che il passaggio da un periodo, gli anni ’50, in cui pochissimi facevano uso di stupefacenti, ai periodi successivi, caratterizzati da un consumo via via crescente di queste sostanze, è sicuramente correlato all’avvento di un benessere economico, che ha trasformato le droghe in beni di consumo. La rete mafiosa, che presiede al narcotraffico, si è inserita solo in un secondo momento nella diffusione di queste sostanze.
In Italia, come in molti altri stati, l’esordio delle sostanze psicoattive è stato favorito dalla diffusione di prescrizioni mediche di tranquillanti, di amfetamine (proibite da noi solo nel 1972, mentre in Svezia lo erano dal 1944), di sonniferi e di analgesici. Purtroppo questi farmaci hanno incontrato un notevole successo presso il pubblico e questo ha indotto le case farmaceutiche a non arretrare davanti ai primi casi d’intossicazione da tali prodotti e ad evitare i controlli sulla fabbricazione e sulla distribuzione. In tale modo è stata creata una popolazione di persone assuefatte e dipendenti da farmaci. Inoltre molte amfetamine venivano iniettate per via endovenosa e ciò ha sicuramente contribuito a formare delle persone dipendenti, che, una volta proibite queste sostanze, si sono ritrovate a sostituirle con l’eroina.

CENTRI DI RECUPERO:
NATI PER L’EROINA

I servizi pubblici per le tossicodipendenze ed i centri di recupero privati sono sorti con il preciso scopo di trattare i casi di dipendenza dall’eroina ed, in tal senso, permettono un censimento degli eroinomani seguiti, mentre è molto più problematico contare coloro, che fanno uso di altre sostanze, perché fanno parte di un mondo sommerso e raramente si rivolgono a queste strutture, che del resto non sempre sono attrezzate per trattare i casi di dipendenza da droghe non oppiacee (cocaina, amfetamine ed altri stimolanti). Del resto è più facile trattare un caso da eroina (che ha un’azione sedante) con il suo sostituto, il metadone, piuttosto che un caso di dipendenza da una sostanza eccitante (non si può sostituire un eccitante con un altro, anche se meno tossico, mantenendo la persona in uno stato di eccitazione, che di per sé è un problema).
Se si esaminano i dati foiti dal ministero della Sanità e da quello dell’Inteo, gli eroinomani censiti erano circa 155.000 nel 1999, di cui il 14-15% donne, con un rapporto uomini/donne di circa 5,6:1. Tale rapporto tende a scendere nelle regioni del Nord (soprattutto Lombardia ed Emilia-Romagna) a 4:1 e nelle città del Nord (Milano e Torino) a 3:1. In pratica, lo scarto tra uomini e donne, in fatto di consumo di droga, tende a ridursi in quelle zone, che sono più benestanti e paritarie e dove la libertà di movimento, di comportamento e di consumi delle donne è maggiore. Bisogna comunque tenere presente che le donne spesso mostrano una notevole diffidenza verso le strutture terapeutiche, se hanno figli, perché esiste la possibilità che questi vengano sottratti alla madre tossicodipendente, da un’assistente sociale, ed affidati ad altri. Il numero delle tossicodipen-
denti potrebbe quindi essere decisamente superiore.
Attualmente, l’età media di coloro, che si rivolgono alle strutture terapeutiche è compresa in un range, che va dai 30 ai 40 anni ed oltre e si tratta di consumatori di eroina, mentre i giovani e i giovanissimi, che abitualmente consumano altre droghe, difficilmente accedono ai Sert od a strutture analoghe. Peraltro, tra costoro il divario maschi/femmine, nei consumi, tende a ridursi.
Le informazioni relative ai nuovi tipi di droga, nonché alla cocaina, derivano soprattutto dai sequestri delle partite di droga, che dimostrano che l’entità del consumo di queste sostanze è in netta ascesa dall’inizio degli anni ’90. Non ci sono dati sufficienti sui consumatori delle nuove droghe, tuttavia una stima fatta nella Conferenza nazionale sulla droga a Genova, nel 2000, parla di circa 400.000 persone dedite all’uso di queste sostanze in Italia.
Viene da domandarsi perché ad un certo punto, nel corso degli anni ’90, l’eroina è stata in parte soppiantata dalla cocaina e dalle nuove droghe di sintesi. Una prima risposta è quella della paura del contagio da HIV, il virus responsabile dell’AIDS, che si può contrarre facilmente con la pratica dell’iniezione per via endovenosa dell’eroina; la cocaina, invece, si sniffa o si fuma e le pasticche di ecstasy si ingeriscono.

PIÙ RESISTENZA,
PIÙ AUTOSTIMA

A differenza dell’eroina, che ha un effetto sedante e di estraniazione dal mondo, la cocaina, le amfetamine e l’ecstasy sono notevolmente eccitanti, per cui aumentano la resistenza alla fatica fisica (consentono, ad esempio di ballare per ore in discoteca, anche tutta la notte) ed inoltre aumentano l’autostima in quei soggetti, che normalmente non sarebbero in grado di affrontare determinate situazioni, poiché si sentono inadeguati.
C’è ancora un altro aspetto: cocaina ed amfetamine inibiscono notevolmente il senso della fame, per cui sono utilizzate da quelle persone, soprattutto donne, che vogliono dimagrire rapidamente, senza affrontare lo stress di una dieta o la fatica dell’attività fisica. Una droga, che invece non ha mai conosciuto alti e bassi, ma semmai un’impennata dei consumi negli ultimi anni, soprattutto tra i giovanissimi, è la cannabis.
Secondo un’indagine dell’Health Behaviour in School-aged Children, un gruppo di ricerca cornordinato dal prof. Franco Cavallo, dell’Università di Torino, il 31% dei ragazzi di 15 anni, attualmente, fa uso di cannabis, associandola a fumo e ad alcol, mentre il 20% dei giovani in questa fascia d’età è dedito anche all’uso di altre droghe. Va detto che tra quest’ultime, l’ecstasy e consimili, le cosiddette dance drugs, vanno forte solo tra i giovanissimi, che le consumano soprattutto in discoteca, per potere tirare al tardi, mentre la cocaina è consumata in una fascia d’età, che va dai 16 ai 60 anni e oltre. 

Di Roberto Topino e Rosanna Novara

La narcoeconomia: qualche dato

OFFERTA IN CRESCITA, PREZZI IN DISCESA

I 3 maggiori business nell’era della globalizzazione
Nell’era della globalizzazione i business della criminalità organizzata (anch’essa globalizzata e con una grande influenza sull’economia cosiddetta legale attraverso il riciclaggio del denaro sporco) sono – stando ai dati dell’Onu – tre, in ordine d’importanza:
✔  il narcotraffico
✔  il traffico di esseri umani
✔  il traffico di armi.
Dei 3 quello che attualmente presenta i tassi di crescita maggiori è il traffico di esseri umani, ma anche gli altri due non conoscono recessione.
Il narcotraffico ha due grandi aree di produzione: l’Estremo Oriente per l’eroina (Afghanistan in primis, e dietro – nettamente distanziato – il cosiddetto «Triangolo d’Oro», cioè Myanmar, Thailandia, Laos) e l’America Latina per la cocaina (Colombia, Perù, Bolivia). La produzione della cannabis è invece più distribuita: Marocco, Tunisia, Albania, Libano, Pakistan, India, Nepal sono alcuni tra i principali produttori.
Da queste aree la droga passa ai paesi consumatori, in particolare agli Stati Uniti e all’Europa, ma anche Australia e Giappone (vedi mappa di pagina 29). In loco, nei paesi di produzione, rimangono soprattutto dei sottoprodotti, meno costosi ma altamente pericolosi. Attualmente i prezzi delle droghe tradizionali sono calanti, vuoi per la notevole produzione (soprattutto dell’Afghanistan), vuoi per la concorrenza delle cosiddette droghe sintetiche, di laboratorio. Il trend di crescita maggiore è quello della cocaina.

I dati (ufficiali) della narcoeconomia
Secondo il Word Drug Report 2007 delle Nazioni Unite (Unodc), nel 2006 sono state prodotte 984 tonnellate di cocaina.
Tre paesi andini sono ai primi 3 posti: la Colombia con 78.000 ettari coltivati e 610 tonnellate di cocaina; il Perù con 51.400 ettari e 280 tonnellate, la Bolivia con 27.500 ettari e 94 tonnellate. In questi anni, gli ettari coltivati sono diminuiti, ma la produzione complessiva è rimasta costante.
Confrontiamo questi dati con la produzione di eroina, che come abbiamo visto è prodotta in Estremo Oriente e in Afghanistan in particolare. Qui secondo l’«Ufficio delle Nazioni Unite per le droghe e il crimine» (Unodc), la coltura del papavero da oppio ha raggiunto la cifra record di 165.000 ettari. Da cui si sono prodotte 610 tonnellate di eroina, il 90 per cento del mercato globale. Al secondo posto nella classifica, c’è un paese di cui si è parlato molto alla fine del 2007: il Myanmar (Birmania).
Secondo gli ultimi dati dell’Unodc, per la prima volta dopo anni, nel 2006 il Myanmar ha incrementato le proprie coltivazioni di papavero, divenendo – con il 5% – il secondo produttore mondiale di oppio dopo l’Afghanistan (90%). Si calcola che, nel 2007, il prezzo medio dell’oppio afghano sia crollato a 100 dollari al chilogrammo (erano 500 nel 2006).

Più cocaina, meno eroina
Secondo i dati del governo colombiano (www.plancolombia.gov.co), al 12 ottobre 2007 sono stati 44.944 gli ettari di coca sradicati manualmente. Nonostante ciò, la Colombia rimane saldamente in testa nella produzione di cocaina, il cui trend commerciale è, da alcuni anni, in rapida crescita al contrario dell’eroina (che è stabile o in leggera diminuzione).
L’aumento della domanda è avvenuto soprattutto in Europa e in Italia, perché negli Stati Uniti il consumo – di gran lunga, il più elevato al mondo – si è stabilizzato.
Attualmente, all’ingrosso, il prezzo della cocaina è calante: si aggira attorno ai 41.000 euro al chilogrammo, mentre al dettaglio un grammo di cocaina costa tra i 60 e i 100 euro (vedi tabellina). Il successo della cocaina si deve ai suoi effetti euforizzanti ed attivatori (quindi diametralmente opposti all’ottundimento provocato dall’eroina), che in una società schiacciasassi (cioè che ti pretende sempre reattivo, efficiente, produttivo) come l’attuale sono ben accetti.

E in Italia
Secondo la relazione annuale della Direzione centrale dei servizi antidroga del ministero dell’interno (Dcsa), nel 2007 i morti per overdose sono stati 589. Il più giovane aveva 16 anni, il più vecchio 71. La maggior parte delle vittime – 234 su 589 – sono state causate dall’eroina, seguite a distanze dalle vittime per cocaina (36).
Questi numeri sono importanti, ma non da brividi. Ad esempio, le vittime sono quasi la metà dei morti sul lavoro (più di 1.000 nel 2007 in Italia). Tuttavia, i costi per la società nel suo insieme sono elevatissimi. Alla domanda se l’attuale regime proibizionista sia la risposta più adeguata al problema non diamo una risposta. Ci limitiamo a fornire una tabella comparativa (vedere a pagina 31) per tentare di capire meglio i due diversi approcci.

Di Paolo Moiola

Confronti «eretici»

Lotta alle droghe: legalizzazione o proibizionismo?

Legalizzazione

✔ fine del mercato nero delle droghe
✔ drastica riduzione del business del narcotraffico attualmente in mano a multinazionali mafiose, che gestiscono profitti enormi e non rintracciabili da parte degli stati
✔ drastica riduzione delle violenze private – scippi, rapine, furti, omicidi – conseguenza del fatto di doversi procurare la droga
✔ ingente riduzione della spesa pubblica che gli stati sono costretti a sostenere per combattere il mercato nero delle droghe: con il vigente regime proibizionista le forze dell’ordine impegnano tempo e risorse pubbliche per contrastare il mercato nero delle droghe, con risultati spesso non adeguati agli sforzi; con il vigente regime proibizionista il sistema giudiziario è impegnato a smaltire e l’apparato carcerario è perennemente in crisi a causa di prigioni piene di detenuti legati al mercato nero delle droghe (piccoli spacciatori-consumatori)
✔ possibile aumento delle entrate fiscali, se le sostanze fossero tassate come si fa per l’alcol
✔ riduzione generalizzata della corruzione: un mercato illegale come quello attuale ha bisogno di un vasto apparato di corruzione a livello politico e di forze dell’ordine
✔ controlli sui prodotti e conseguente diminuzione delle sostanze adulterate o tagliate male
✔ riduzione della necessità da parte dei produttori di immettere continuamente sul mercato sostanze diverse, meglio trasportabili e meno rintracciabili ai controlli
✔ si risolverebbe il problema dei piccoli contadini – come i campesinos che coltivano la coca in Bolivia, Perù e Colombia o gli afghani che coltivano il papavero da oppio -, che pagano con la miseria propria e dei familiari le politiche di eradicazione forzosa.

Proibizionismo

✔ senza leggi proibizioniste, calerebbero i prezzi delle sostanze e, di conseguenza, aumenterebbero i consumatori
✔ senza leggi proibizioniste, cadrebbero le remore di carattere sociale (non ci sarebbe più il timore della stigmatizzazione, del rifiuto da parte della collettività) e, di conseguenza, potrebbero aumentare i consumatori
✔ senza leggi proibizioniste, ci sarebbero problemi di ordine etico-morale: è giusto che gli stati non tutelino a priori la salute psicofisica dei propri cittadini?


Roberto Topino e Rosanna Novara




Fiumi di cocaina

Introduzione

«Fiumi di parole, prima o poi ci portano via…». Basta cambiare una parola al leit motiv di questa canzone di qualche anno fa e otteniamo la descrizione di cosa sta capitando adesso nelle nostre città. Se sostituiamo «parole» con «cocaina», la frase rappresenterà perfettamente la situazione dei nostri fiumi.
Già, perché dalle analisi condotte nel 2005, dall’Istituto Mario Negri di Milano, sulle acque del fiume Po, raccolte a monte di Pavia, in un’area in cui confluiscono le acque di scarico di circa 5 milioni di abitanti, risulta che ogni giorno vengono rilasciati 4 chili di cocaina, corrispondenti più o meno a 40.000 dosi quotidiane (nella sola Milano, i depuratori trattengono quotidianamente 2 chili di cocaina). Chi fa uso di cocaina, infatti, la espelle attraverso le urine, il 5-6% in forma pura e per il 50% sotto forma di benzoilecgonina, un prodotto della sua metabolizzazione. E se la cocaina scorre così nei fiumi, chissà quanta ne scorre nelle nostre strade.

Considerando i dati dei denunciati, degli arrestati e dei segnalati per il possesso di stupefacenti, a Torino si supera la quota di 10.000 unità. Del resto, secondo un rapporto dell’Inteational Narcotics Control Strategy, Torino e Milano sono le mete d’arrivo di circa 60 tonnellate di cocaina e di 30 tonnellate di eroina, partite dal porto di Anversa e dall’aeroporto di Zaventem-Bruxelles. La polvere bianca o «neve» (così è chiamata in gergo la cocaina) invade l’Italia, soprattutto il Nord, ed il traffico è gestito dalla ‘ndrangheta calabrese e dal racket africano. La piazza migliore dell’eroina è invece Perugia, dove il traffico è gestito dalla camorra napoletana. Secondo i dati dei Sert, in Italia l’eroina è ancora il prodotto più diffuso, anche se in calo (attualmente è al 71%, contro il 90% di 15 anni fa, tuttavia nel 2007 è stato registrato un aumento dei morti per overdose), mentre è molto cresciuto il consumo di cocaina (dall’1,3% del 1991 al 14% di oggi) e la cannabis si mantiene intorno al 10% dei consumi.
Secondo l’ultima relazione della Direzione centrale dei servizi antidroga del ministero dell’Inteo, riferita al 2007, sui sequestri da parte delle forze dell’ordine, si ha un aumento nel mercato italiano del 500% del traffico di nuove droghe, dai nomi più strani, quali khat, ketamina, shaboo, crystal meth, ice, Ghb, Bzp, mCCP, cobret, che si affiancano all’ecstasy. In questi ultimi anni, i narcotrafficanti hanno fatto un’azione di ribasso dei prezzi, per aumentare il  numero dei clienti.
Confrontando i prezzi attuali, dei vari tipi di droga, con quelli del 1999, si può osservare che quello dell’eroina ha avuto una riduzione del 45%, quello dell’ecstasy del 48%, mentre inferiori sono le riduzioni dei prezzi della cocaina, delle amfetamine e della cannabis, essendo rispettivamente del 22%, del 20% e del 17%. Peraltro le nuove droghe, ampiamente diffuse tra i giovanissimi, hanno la funzione, a livello di narcotraffico, di reclutare nuovi clienti, che poi scivoleranno, quasi senza rendersene conto, verso le droghe più tradizionali, cioè eroina e cocaina, che, guarda caso, sono vendute dagli stessi spacciatori.

Le droghe, o stupefacenti (cioè sostanze «psicoattive», quindi in grado di modificare l’attività mentale ed il comportamento delle persone), sono da sempre presenti nella storia dell’uomo. Possono essere sostanze naturali o artificiali e il loro comune denominatore è la capacità di alterare gli stati di coscienza e il sistema nervoso.
Nella storia sono numerose le testimonianze sull’uso di droghe, presso varie popolazioni. Alceo, ad esempio, elogia le qualità del vino, la sostanza psicoattiva più antica e diffusa tra le popolazioni medi­­terranee. Erodoto descrive l’hascisc (o hashish) nel quarto libro delle Storie, anche se questa sostanza non era in uso presso i greci, ma presso gli sciti, così come ne parla Marco Polo ne Il Milione. Nel quarantunesimo capitolo, i seguaci del Vecchio della montagna vengono soggiogati, grazie ad una bevanda drogata ed indotti a commettere i delitti, commissionati dal vecchio capo; il loro nome, in cui è conservata la radice della parola hascisc, è «assassini».
Nei testi storici possiamo notare un uso rituale o religioso delle piante (considerate sacre), da cui provengono molte sostanze psicoattive e, in questo caso, l’uso che ne viene fatto è per raggiungere uno stato di trascendenza, per comunicare con gli dei e/o per usi voluttuari, legati al piacere dei sensi. In ogni caso, l’uso di queste sostanze è limitato a momenti o ad eventi simbolici, incorporati entro relazioni sociali di sicurezza. I conquistatori europei descrissero l’uso del peyote in Messico e delle foglie di coca presso le popolazioni del Perù, della Colombia e dell’Equador; tali foglie venivano masticate sia dai sacerdoti che dai contadini e dai pastori (in questi casi per abbassare la soglia della fatica e potere tollerare il lavoro sulle Ande). I papiri egizi danno invece le prime notizie sull’oppio intorno al 1500 a.C., mentre gli arabi ed i turchi hanno mantenuto l’abitudine di fumarlo nel corso dei secoli.
In Cina l’oppio fece il suo ingresso intorno al 1000 d.C., provenendo dall’India, ed il suo uso fu consentito fino al ‘700, quando, a seguito della sua grande diffusione, venne promulgata una proibizione imperiale, alla quale seguirono le guerre tra Cina ed Inghilterra, per via dell’esportazione della sostanza dall’India britannica alla Cina ed in particolare per il suo contrabbando, controllato dalla Compagnia delle Indie. Una caratteristica della presenza delle droghe nel passato era la moderazione con cui, di solito, venivano usate. Non appena un interesse commerciale su larga scala ha stravolto le abitudini di uso delle droghe, trasformando il loro consumo da moderato ad epidemico, le varie sostanze sono diventate una preoccupazione sociale ed un problema per l’ordine pubblico.
Non c’è più continuità tra le società tradizionali e quelle capitalistiche, sotto il profilo del consumo delle droghe, così come sono mutati i circuiti di scambio, dal momento che il traffico costituisce la novità modea, che svincola le sostanze stupefacenti dalle loro radici socioculturali e le trasforma in un puro oggetto di consumo.

di Roberto Topino e Rosanna Novara

Roberto Topino e Rosanna Novara




Minoranza «vigilata»

Chiesa cattolica in Myanmar

Charles Bo, arcivescovo di Yangon e presidente della Conferenza episcopale del Myanmar, è la figura più importante della chiesa cattolica birmana. Lo abbiamo incontrato a Pathein, città nella regione del delta dell’Ayerwaddy.

Arcivescovo, la vita dei birmani, dopo le manifestazioni del 2007, è cambiata?
In verità non ci sono stati molti cambiamenti: le manifestazioni hanno sicuramente lasciato il segno nel paese, ma il governo ha immediatamente «normalizzato» la situazione, fino ad affermare che tutto è tornato alla normalità e procede per il meglio. In realtà c’è stato uno screening attento su ogni monaco che si è riusciti a individuare dopo aver partecipato ai cortei: i più attivi e coinvolti sono stati imprigionati.

Mentre le manifestazioni erano al culmine, la Conferenza episcopale del Myanmar ha emesso un documento in cui si invitava i cattolici birmani a non partecipare alle manifestazioni. Mi scusi, ma non riesco a condividere l’idea di rimanere «fuori» in un contesto così importante. E, sentendo altri religiosi cattolici nel paese, anche loro sono rimasti spiazzati da tale documento.
La Conferenza episcopale ha invitato solo i preti e le suore a non scendere in strada aggregandosi ai cortei, lasciando ai singoli fedeli libertà di scelta. Il problema è che la chiesa cattolica in Myanmar è molto piccola e nel 1988, dopo aver appoggiato apertamente le proteste, ha subito enormi ripercussioni da parte del governo, faticando non poco a rimettersi in sesto. Per questo abbiamo chiesto ai nostri religiosi di unirsi alle preghiere.

Perché non avete invece chiesto l’immediato intervento della chiesa in Occidente e del Vaticano?
Il papa è intervenuto con un discorso trasmesso nei giorni più caldi delle dimostrazioni e le chiese di Hong Kong, Filippine e Thailandia hanno espresso duri giudizi nei confronti dei militari, appoggiando apertamente i manifestanti. Non si deve comunque dimenticare che le chiese cristiane sono state le uniche ad aver inviato un documento direttamente a Than Shwe affinché adottasse una soluzione pacifica e aprisse le porte al dialogo.

Ma nessun documento di condanna o di appoggio ai manifestanti è emerso dalla chiesa in Myanmar.
È vero, nessun documento ha condannato le repressioni e tantomeno ha espresso favore verso i monaci, ma occorre comprendere che la situazione della chiesa in Myanmar è assai differente da quella in cui si trovano altre chiese d’Oriente.

Ora siete in contatto con le comunità buddiste?
A livello privato. Ufficialmente non possiamo avere alcun contatto con loro, per i sospetti che creerebbe all’interno del governo. Sarebbe troppo pericoloso per loro e per noi.

Come giudica il ruolo dell’Onu e di Gambari nel processo di dialogo che ha con il governo?
Non siamo soddisfatti: l’Onu dovrebbe essere più incisiva. Ma come cristiani dobbiamo continuare ad avere speranza.

L’Spdc è un dinosauro anchilosato, che non mostra alcuna possibilità di smuoversi dalle sue posizioni. Solo la morte di Than Shwe potrebbe smuovere lo status quo?
Forse. La sua morte potrebbe cambiare qualcosa, ma altri tre o quattro generali sono subito pronti a rimpiazzarlo e nessuno sa quali siano esattamente le loro intenzioni.

Parliamo di remote eventualità: una partecipazione della Lega nazionale per la democrazia a un governo di coalizione potrebbe portare qualche cambiamento?
Lei parla di eventualità; io voglio parlare di realtà. E voglio anche essere chiaro: sono 60 anni che la Birmania si trova sotto dittatura militare. Non penso che, anche nel caso l’Lnd sia chiamato a condividere il potere con i militari, il sistema possa cambiare. È tutto troppo radicato. Radicato nell’animo delle persone. Di tutte le persone. Secondo me occorre rieducare, partendo dalle generazioni future, dalle scuole, dai più piccoli. Questo, come avrà capito, prenderà molto tempo. Inoltre ogni tipo di cambiamento nel paese dovrà essere graduale, non improvviso. Se i militari dessero tutto il potere all’Lnd e Aung San Suu Kyi, andremmo incontro a un periodo di enorme confusione. Questo lo ha capito anche  Aung San Suu Kyi, che non vuole isolare i militari escludendoli dal potere. La sua politica, molto saggia, è quella che lo cedano gradualmente. I birmani non sono pronti per la democrazia. La nazione andrebbe contro al caos più totale se i militari dovessero cedere completamente il potere.

Ha parlato di tempo: quanto ci vorrà, secondo lei?
Dipende dai militari. Non meno di 3-4 anni per iniziare la transizione. Ma devono sentirsi pronti alla cogestione del potere e sono sicuro che non lo sono. Non lo vogliono. Almeno sino a quando Than Shwe e la sua fazione sarà al potere.

Con Khin Nyunt c’è stata la possibilità che il Myanmar imboccasse una via democratica: è stata Aung San Suu Kyi, allora, a rifiutare il dialogo?
Khin Nyunt è stato arrestato nel 2004 e non si è mai capito il motivo. Sono due le possibili giustificazioni: il dialogo iniziato con Aung San Suu Kyi, che Than Shwe non voleva neppure iniziare o un progetto ideato dallo stesso Khin Nyunt per acquisire il totale controllo dei militari. In entrambi i casi è stato Than Shwe a sventare i progetti e prendere il posto di Khin Nyunt. Ma, ripeto, nessuno, tranne i vertici militari oggi al potere, sa esattamente per quale motivo il generale sia stato arrestato.

Ha parlato di una chiesa piccola e impotente: c’è qualcosa che può fare per indirizzare il Myanmar verso la democratizzazione senza cadere nel caos più completo?
La chiesa cattolica è l’unica organizzazione in Myanmar che ha un reale e costante contatto con la comunità internazionale. Neppure i buddisti possono avere contatti così capillari e influenti. Per questo il governo cerca di ostacolare in ogni modo la chiesa cattolica. Anche Aung San Suu Kyi ha ammesso che in Myanmar i birmani non hanno alcun potere.

Chi, oltre ai militari, può decidere il futuro dei birmani?
La comunità internazionale. E in Myanmar la chiesa cattolica ha l’influenza necessaria per far sì che la comunità internazionale agisca nei modi più opportuni.

Per sua stessa ammissione l’Onu, massima rappresentante mondiale, non sta agendo in modo soddisfacente.
Non esiste solo l’Onu…

Se parla dell’Unione Europea, non sarei tanto ottimista: come rappresentante per discutere con il governo birmano ha scelto un italiano che, dicono i dissidenti birmani residenti all’estero, ha una conoscenza superficiale dei problemi e la politica da lui adottata è, a dir poco, vergognosamente inutile. Come se non esistesse.
Anche noi abbiamo la stessa impressione…

Rimangono gli Stati Uniti, ma la loro ostilità verso i militari non permette di aprire un dialogo con loro…
Esattamente! Questo è il punto! Premesso che la situazione in Myanmar cambierà solo dopo la morte dei quattro leaders militari, il problema principale che riscontriamo è che la comunità internazionale, e gli Usa in modo particolare, continuando a criticare la giunta, la spingono sempre più verso le braccia della Cina. Quindi ecco due chiavi che potrebbero utilizzare per riportare il paese al dialogo: per prima cosa l’Occidente deve cercare di influenzare la Cina, affinché induca i militari ad accettare i cambiamenti; seconda cosa, gli Usa devono smetterla di criticare violentemente il Myanmar e imporre l’embargo; dovrebbero, invece, cambiare atteggiamento ed essere più aperti con il Myanmar.

La chiesa cattolica in Myanmar ufficialmente si è pronunciata contro l’embargo: come mai?
Sì, ufficialmente abbiamo detto di essere contrari all’embargo; non solo per il Myanmar, ma per tutti i paesi. È vero che il boicottaggio colpisce i militari, ma colpisce ancora di più i birmani. I militari riusciranno sempre ad aggirare l’embargo e fare soldi. Sono i semplici cittadini a non poterlo fare.

Cosa fate allora in concreto per alleviare le sofferenze dei birmani?
Essendo pochi e con poca influenza all’interno della nazione, non pretendiamo di cambiare il paese. Nel nostro piccolo, però, cerchiamo di educare la società al fine di renderla pronta per la svolta democratica. Questo nostro lavoro a lungo termine, è capito appieno dai militari: per questo ci è vietato organizzare servizi sociali su larga scala in Myanmar.

Continuiamo a parlare di Usa: ufficialmente Washington critica violentemente la giunta, ma a Yangon ha costruito un’ambasciata immensa e ultramodea a pochi metri dalla casa di San Suu Kyi. A che gioco stanno giocando? È un monito verso la giunta affinché non faccia alcun male a Daw? Un modo di dire «attenzione, noi siamo qui che vegliamo e proteggiamo Aung San Suu Kyi»?
Non so quali siano le reali intenzioni degli Stati Uniti. Ufficialmente la nuova ambasciata è stata costruita in quel luogo, in quel modo, per ragioni di sicurezza. Non ho mai pensato che il fatto di averla costruita a fianco della casa di Aung San Suu Kyi potesse essere un monito alla giunta, ma in effetti sarebbe una mossa molto efficace e psicologicamente astuta.

Dagli Stati Uniti ai due giganti che schiacciano il Myanmar: Cina e India. Che influenza hanno questi due paesi sulla giunta birmana? Si parla quasi sempre solo della Cina, ma anche l’India fa la sua parte…
Oggi la giunta è sotto l’ombrello di protezione cinese. Il problema è che la Cina è una nazione in cui il governo è privo di una morale religiosa, quindi per raggiungere i suoi fini, cioè annettere il Myanmar come sua provincia per avere uno sbocco sull’Oceano Indiano, è pronta a fare qualsiasi cosa.

E l’India?
L’India non ha grandi interessi in Myanmar. È però vero che è il principale fornitore di armi ai militari.

Non sono molto d’accordo con lei sul ruolo marginale dell’India, ma passiamo a questioni intee: recentemente e in particolare dopo le manifestazioni di settembre e ottobre, in alcune zone del Myanmar sono scoppiate alcune bombe artigianali che hanno causato anche delle vittime. Si ha idea di chi avrebbe potuto essee l’ideatore e l’esecutore? L’opposizione intea avrebbe la possibilità di organizzare questi attentati?
Come ha evidenziato lei, sono tutti ordigni artigianali, di scarsa potenza e che chiunque, con un po’ di esperienza, potrebbe fabbricare in casa. Può essere che le bombe siano state messe da movimenti etnici, i quali avrebbero la capacità di organizzare simili attentati. Escluderei siano opera dell’Lnd. Ma c’è chi sospetta gli stessi militari, per avere la giustificazione di avviare nuove repressioni.

Aung San Suu Kyi: che opinione ha la gente della Lady?
È un’icona. È vero che non ha mai avuto esperienza di amministrazione del potere, ma la gente ha piena fiducia in lei.

Tale fiducia potrebbe essere un’arma a doppio taglio. Cosa accadrebbe se la Signora non si dimostrasse all’altezza delle aspettative e non riuscisse a mantenere le promesse fatte al suo popolo? Lei che l’ha incontrata più volte, che opinione si è fatto?
Mi ha sorpreso. Piacevolmente sorpreso. Ammiravo la sua minuta conoscenza della situazione politica e sociale del paese che non avrei mai creduto di incontrare in una donna che era stata per così lungo tempo agli arresti domiciliari. Inoltre, Aung San Suu Kyi è una persona molto religiosa e mi ha assicurato che, nel caso andasse al potere, garantirebbe completa libertà di fede. A differenza di lei, Than Shwe, quando parla di sviluppo, intende uno sviluppo militare. Non l’ho mai sentito parlare di sviluppo sociale, economico, educativo. Daw, invece, parla principalmente di questo. E mi fa ben sperare.

Quale è la parola di cui i militari hanno più paura?
Dialogo. Appena sentono tale parola si allarmano, in particolare questa giunta guidata da Than Shwe.

Un dialogo però è in corso con Aung San Suu Kyi.
A livelli molto bassi. Il militare incaricato a parlare con Aung San Suu Kyi non ha alcuna influenza sui vertici. Serve come specchietto delle allodole.

Di Piergiorgio Pescali

Piergiorgio Pescali