L’invasione dei SUV

Una moda devastante e diseducativa

Chi inquina, paga. Chi più inquina, più paga. Regole sacrosante, ma mai rispettate. A volte, neppure proposte, perché contrarie al libero mercato… L’esempio dei «nuovi mostri» che hanno invaso le nostre città.

Dicembre 2007, «Dossier motori» de La Stampa: pagina 4 pubblicità SUV Honda; pagina 6 descrizione di un nuovo SUV Hummer; pagina 7 pubblicità SUV Citroën; pagina 21 pubblicità SUV Nissan; pagina 23 pubblicità SUV Suzuki; pagina 27 pubblicità SUV Jeep; pagina 33 pubblicità SUV Land Rover; pagina 47 descrizione del nuovo SUV Iveco.
Se un inserto di 52 pagine ne dedica così tante ai SUV, significa che siamo dinanzi ad un fenomeno rilevante, come d’altra parte dimostrano i dati delle vendite, da anni in continuo aumento. I SUV – letteralmente Sport Utility Vehicles  – sono automobili pesanti, spesso con finiture di pregio, con una linea e,  a volte, anche con un nome ed una immagine commerciale, che trasmettono l’idea di un atteggiamento minaccioso ed arrogante nei confronti delle altre vetture (ma – volendo dar credito alle asillanti pubblicità – rispettoso dell’ambiente e della natura!). Alcuni hanno paraurti alti, sporgenti e rinforzati, definiti bull bars (barre anti-bufali), che possono essere causa di gravi danni in caso di incidenti con altre vetture, ciclisti, pedoni.
Si direbbe che il guidatore di questi veicoli voglia presentarsi come un dominatore della strada, muscoloso, potente e, allo stesso tempo, elegante. Ha scritto il prof. Giampaolo Fabris: «Il SUV è un fuoristrada di lusso che consente all’automobilista di sentirsi padrone dell’asfalto. Di fare veramente tutto quello che vuole. Si può guidare comodamente in città, parcheggiare sui marciapiedi e, almeno con la fantasia, attraversare il deserto. Chi guida si sente protetto da una vettura considerata sicura, avvolto in un grande scudo protettivo. (…) L’impressione è di un maggior dominio sulla strada e nei confronti con gli altri automobilisti. Che si guardano letteralmente dall’alto in basso».
In realtà, un SUV è un veicolo che fa fatica a fare manovre banali, che si muove impacciato nelle vie strette, che non rispetta le precedenze e che, per parcheggiare, spesso sale sui marciapiedi.

Per quale motivo una persona che vive in città e non deve affrontare percorsi in savane o praterie, dovrebbe viaggiare su un veicolo con caratteristiche da fuoristrada di lusso? Per decenza, lasciamo perdere l’amore per la natura, anche se qualcuno (editoriale di Auto&fuoristrada, settembre 2006) tenta di metterla in poesia: «Siamo dei privilegiati: per noi è più facile mettere le ruote fuori dall’asfalto, con la gratificante sensazione di lasciarci alle spalle traffico, rumori, pensieri». Per semplicità, lasciamo perdere pure le ragioni di tipo socio-antropologico, anche perché, stando a quanto scrive un editoriale de La mia auto 4×4 (agosto 2007), «Ma chi sono i nuovi acquirenti di 4×4? Un po’ tutti».
La risposta più frequente (quella che, in teoria, consentirebbe di giustificare eticamente il possesso di un SUV) riguarda la volontà di viaggiare in sicurezza con la famiglia. Questi veicoli sono proprio così sicuri? Il Centro prove di Quattroruote, la fonte settoriale più autorevole d’ Italia, ha fatto dei test e, per quanto riguarda la tenuta di strada e la frenata, è giunto alla conclusione che il miglior SUV non riesce neanche ad eguagliare le prestazioni della peggiore berlina.
Il collaudatore di Quattroruote ha riferito che il comportamento di questi pesanti veicoli, che hanno un baricentro alto e pneumatici con fianchi alti e cedevoli, è spesso imprevedibile e non sempre facilmente controllabile dal conducente, soprattutto su fondo bagnato. Ne deriva che manovre improvvise, come quella di cercare di evitare un ostacolo imprevisto, possono portare anche al ribaltamento del veicolo. I ribaltamenti possono avvenire anche in caso di uscite di strada e di collisioni con ostacoli fissi, ad esempio i marciapiedi. Il ribaltamento è un tipo di incidente particolarmente pericoloso perché si associa spesso a gravi traumi della testa.
Oltre a non essere sicuri per gli occupanti, i SUV sono particolarmente pericolosi per gli altri utenti della strada, che non viaggiano su veicoli più pesanti: ad esempio, secondo Quattroruote, il guidatore di una berlina, che viene urtata lateralmente, ha una probabilità di perdere la vita 30 volte superiore se a urtarlo è un fuoristrada o un SUV. Bergamo, 26 dicembre 2007: «Tre persone, padre, madre e la loro figlia di 10 anni sono morte in un incidente stradale accaduto a Grumello del Monte (Bergamo). La loro auto, una Fiat Punto, è stata investita da un SUV Grand Cherokee guidato da un conducente ubriaco (italiano, ndr). Illeso il conducente del fuoristrada». Napoli, 1 gennaio 2008: «Stavano litigando sulla tangenziale di Napoli per un banale incidente, quando un SUV Bmw X5 è sopraggiunto e ha investito le auto ferme sulla strada. Il bilancio è drammatico: tre morti».

Premesso che ognuno è libero di comprare la vettura che più gli piace (mai vorremmo venire accusati di essere contro il «libero mercato», icona intangibile dei nostri giorni), viene da chiedersi cosa possiamo pensare di un guidatore cittadino o autostradale che ha un veicolo che pesa, consuma (una Porsche Cayenne fa in città 4,4 chilometri con un litro di benzina, secondo i dati ottimistici del costruttore) (1)  e inquina il doppio di una normale vettura, confortevole, veloce, che ha meno probabilità di ribaltarsi e che tiene la strada e frena in condizioni di maggiore sicurezza.
Dipenderà dal fatto di guidare un’auto con i paraurti contro i bufali oppure di poter comprare (a 15.900 euro, sottocosto) un SUV cinese all’ipermercato (Corriere della sera, 19 e 24 dicembre 2007). Oppure, come si  legge su www.suv.it, dipenderà dai sentimenti: «A cosa serve la Cayenne? A far invidia a chi è invidioso!».
Come scrive il già citato editoriale de La mia auto 4×4, «il mondo si muove sempre più in fretta». È vero. Peccato che si muova verso la follia più distruttiva (ed autodistruttiva).

di Roberto Topino e Paolo Moiola

(1) Una Volkswagen Touareg fa 4,4 chilometri con un litro; una Nissan Patrol 6,9 eccetera. I consumi ufficiali (già molto elevati) sono però ben distanti dalla realtà. Un’inchiesta del dicembre 2007 ha dimostrato che le case automobilistiche dichiarano consumi falsi, inferiori fino al 50% a quelli effettivi. Così facendo anche le norme relative alle categorie d’appartenenza (Euro 3, Euro 4, ecc.)  perdono gran parte del loro significato.

Roberto Topino e Paolo Moiola




La parabola del «figliol prodigo» (16) L’amore precede sempre il pentimento

«Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti» (Mc 9,35)
«Che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno» (Gv 6,39)

Immobile, in corsa
Il ritorno del giovane figlio non è esaltante: in cuor suo non è sicuro dell’accoglienza del padre. Per non sbagliare, infatti, lungo il viaggio si prepara e impara a memoria il discorsetto con cui commuovere il «vecchio». Da questo suo modo di ragionare, implicito nel testo, si evince che il figlio non conosce il cuore del padre che considera come un padrone. Cominciamo a capire perché è scappato «dal padre»: non ne aveva mai conosciuto la personalità e il cuore. Egli ritorna lento nel passo e pesante nel cuore, consapevole di avere perduto ogni diritto legale. Il padre al contrario corre e si precipita «addosso» al figlio, consapevole di una cosa soltanto: il figlio gli ritorna vivo. Al figlio in partenza interessava «il patrimonio», al padre che resta interessa «la persona» del figlio.
Da un punto di vista etico, è il padre che prende l’iniziativa, rimettendo in moto il processo generativo per giungere a un nuovo parto. Non a caso, come abbiamo visto, Luca ricorre al vocabolario della gestazione e parto per descrivere gli atteggiamenti matei del padre che accoglie il figlio. L’incontro è drammatico; in pochi versetti l’autore costruisce una scena forte espressiva di contrasti, come in una scena drammaturgica: alla lentezza del figlio che torna si contrappone la frenesia del padre che corre.
È un comportamento contro natura: per la mentalità orientale correre è comportamento disdicevole. La persona che corre, specie se riveste un’autorità, «perde la faccia» e cioè mette in gioco il suo onore. Un padre o un maestro non corre verso il figlio o il discepolo: sono questi che devono andare e correre verso il maestro o il padre. La logica sottintesa è che la persona matura e saggia non corre, ma «sta» perché il saggio non ha mai fretta.
Per logica, sebbene estrema, semmai avrebbe dovuto essere il figlio in quanto giovane e inesperto a correre verso il padre e questi avrebbe dovuto aspettare ritto e fermo sulla soglia di casa. Non sappiamo quanto tempo è durata la vacanza del figlio giovane, ma nel capovolgimento dei comportamenti, noi scorgiamo la gravità e la pesantezza della realtà. Tutto si capovolge: il padre perde la dignità per affrettare il godimento del figlio.

Pateità preveniente
Da una parte c’è un uomo, partito da figlio per essere libero da ogni regola e costrizione anche affettiva, che ora ritorna solo con la disponibilità a fare il servo. Suo unico bagaglio è la richiesta di diventare un salariato che è meno di un servo. Questi infatti resta nella casa e fa parte del casato; il salariato esiste in funzione del lavoro: quando manca, il salariato viene mandato via. Dall’altra c’è il padre che non ha mai cessato di essere tale anche quando il figlio in un paese lontano sperperava la «sua vita». La pateità non si esaurisce mai: più i figli la sperperano più essa si rafforza e ingigantisce. È il segreto dell’essere di Dio e del conseguente suo agire: la pateità di Dio è preveniente perché anticipa sempre la debolezza dei figli e se ne fa carico. Il bacio del padre al figlio è il segno eloquente del ripristino dell’intimità senza riserve.
La conversione non è un atto di volontà che noi presentiamo a Dio come pegno per ricevere il suo perdono; al contrario, essa è la conseguenza dell’amore di Dio che  perdonando prima ancora di essee richiesto, pone le condizioni e suscita la conversione del cuore che è sempre un dono e frutto della grazia. Nessuno di noi è capace di conversione, solo il Signore può convertire: «Facci ritornare e noi ritoeremo» (Lam 5,1). Non è il figlio che ritorna di sua spontanea volontà o iniziativa, ma è il padre che lo attrae e lo attira a sé, mettendo in movimento tutte le possibilità che condurranno alla salvezza definitiva.
Il Dio di Gesù non pratica la religione del «tu dai una cosa a me e io do una cosa a te»; questa dinamica conduce soltanto alla logica della prostituzione, mentre quella di Dio è la salvezza della persona in vista della quale Dio previene anche il desiderio, come insegna pure Dante a proposito della intercessione di Maria: «La tua benignità non pur soccorre / a chi domanda, ma molte fïate / liberamente al dimandar precorre» (Paradiso, xxxiii,16-18).

Quale peccato?
I versetti 21 e 22 sono tormentati: l’edizione critica riporta un’infinità di varianti di molti codici che a tutti i costi vogliono armonizzarli con il v.18, facendo ripetere al figlio l’intero discorso che si è preparato e rallentando così l’irruenza del padre «precipitoso». Questo tentativo di restaurazione è in funzione chiaramente ecclesiale: si vuole mettere in evidenza l’atteggiamento umile e penitenziale del figlio che chiede perdono e lo chiede in forma completa o come si direbbe in morale in «forma integra». In questo modo il perdono del padre viene dopo la richiesta di perdono del figlio: ciò rispecchia la prassi della confessione sacramentale o monastica che vede il perdono subordinato alla contrizione. Un caso evidente di uso strumentale della scrittura perché è contro la chiarezza del testo lucano che antepone il perdono gratuito del padre alla disponibilità del figlio.
L’evangelista sottolinea che il figlio prima di partire si era rivolto al padre per prendere quello che non gli apparteneva: «Il più giovane dei due disse al padre: Padre, dammi…» (v.12), ora invece sottolinea che non è il «più giovane» che parla, ma soltanto «il figlio»: «Il figlio gli (al padre) disse: padre, ho peccato…» (v. 21). La stessa invocazione ha un suono diverso, perché pronunciata in circostanze diverse con atteggiamenti diversi e cuore diverso. Là il padre era un ostacolo da fare fuori, qui è il padre come rifugio e misura della colpa. Il figlio usa il termine proprio del rapporto con Dio: «Ho peccato!». La sua colpa non è morale, ma relazionale. Non ha peccato perché ha dissipato, perché è stato dissoluto, perché si è divertito – queste restano azioni ignobili e moralmente condannabili -, ma qui il suo peccato consiste nel non avere conosciuto il padre e nell’avere interrotto la relazione padre-figlio e figlio-padre.

Oltre l’integrità, la totalità
Del «peccato» abbiamo spesso una concezione materialista: misuriamo le volte, quantità e peso. La preoccupazione maggiore di un confessore era (o forse lo è ancora oggi?) salvaguardare l’integrità della confessione e quindi determinare le circostanze per definire l’entità dei peccati, lasciando spesso nel penitente il dubbio di una curiosità morbosa fuori luogo. Il peccato non è «una cosa», ma la relazione spezzata con Dio e con i fratelli. Non a caso Gesù ha ridotto tutta la toràh a un solo comandamento con un duplice esito: l’amore incondizionato di Dio che si manifesta e si vive nell’amore senza confini per il fratello (cf Mt 22,40 e 18,22). Peccare non è cosa facile e per riuscirvi bisogna mettervi molto impegno, perché esso è il rifiuto di Gesù Cristo come criterio di vita: il suo modo di pensare, vivere, rapportarsi, servire, parlare, morire diventano il nostro stile di vita ed è la fede. Il contrario è il peccato. Il figlio della parabola tra sé e il padre ha messo «un paese lontano» (v.13), cioè un abisso invalicabile che però il padre ha potuto superare perché quel figlio non è mai stato abbandonato, nemmeno quando sperperava la vita del padre.
Il figlio è frastornato di fronte a quel padre che avrebbe potuto attendere sulla soglia di casa, mentre invece gli accorcia la fatica del ritorno, andandogli incontro. Il figlio è prigioniero ancora della logica del rendiconto e si aspetta che il padre eserciti la sua autorità accogliendolo come un estraneo e declassandolo dalla dignità di figlio al ruolo di servo. «Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio» (v. 21). La prima parola che il figlio pronuncia è «padre» senza alcuna connotazione ed è il segno che sa ciò che ha perso. Al contrario finisce la frase con l’altro termine correlativo «figlio», connotato dalla dichiarazione di indegnità: «Padre, non sono degno d’essere figlio».

«21Il figlio gli disse: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di es-ser chiamato tuo figlio. 22 Ma il padre disse ai servi: Presto…».

Peccatori presuntuosi
Da un punto di vista giuridico il figlio minore ha perso ogni diritto ed è per questo che si aspetta dal padre un comportamento secondo la legge perché il peccato contro il padre è anche un’invettiva «contro il Cielo». Il figlio ha coscienza che il suo peccato non è solo contro il padre, ma anche contro Dio, cioè è un atto di ribellione totale che merita la cancellazione dal libro della vita, cioè la morte. Dopo l’idolatria del vitello d’oro, a Mosè che si schiera dalla parte del popolo Dio dice: «Io cancellerò dal mio libro colui che ha peccato contro di me» (Es 32,33). Il figlio meriterebbe la morte, perché «ha colpito e maledetto» il padre (Es 21,15.17) e la maledizione di Dio è senza scampo per chi disonora il padre (Dt 27,16; cf Pr 20,20) perché «chi deruba il padre è compagno dell’assassino» (Pr 28,24). È questo il contesto giuridico ed etico del ritorno del figlio ed è all’interno di questo quadro di riferimento che risplende ancora più potente la figura del padre sia sotto il profilo legale che religioso.
Quando ancora era in «un paese lontano», solo e impuro in mezzo ai porci, il figlio si era preparato il discorso da recitare al padre. Lo ripete per non dimenticarlo: «Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi dipendenti» (Lc 15,18). Quando il padre giunge davanti a lui non gli lascia il tempo di finire il discorso che già è stato reintegrato prima ancora che chiedesse perdono. Fa appena in tempo a dichiarare che non pretende di essere ancora figlio che il padre gli tappa la bocca e il figlio non riesce a dire che accetta di essere trattato come un dipendente. Incaponirsi a chiedere perdono o pensare di non potere essere perdonati può costituire un grave peccato perché Dio (nella parabola rappresentato dal padre) previene la nostra stessa richiesta ed egli ha già perdonato prima ancora di averglielo chiesto.

Amare con le due tendenze
Spesso i nostri rapporti con Dio sono improntati a legalismo: di lui abbiamo una nozione più giuridica che patea. Dio ci perdona prima ancora di avere chiesto il perdono e spesso, come qui, non lo chiede nemmeno, anzi lo reputa superfluo. Tante volte abbiamo ripetuto un concetto semplice, ma difficile da interiorizzare in un contesto di religione legalista: Dio perdona perché è giusto o anche: Dio è giusto perché perdona. Che senso ha la morte di Gesù, se continuiamo a misurare col centimetro la nostra corrispondenza e la risposta di Dio? Agendo così noi proiettiamo in Dio il nostro modo di essere e vedere, valutare e giudicare. In una parola, noi attribuiamo a Dio la nostra piccineria e grettezza e dimentichiamo che Dio è sempre più grande del nostro peccato, del nostro cuore, della nostra debolezza, del nostro limite (cf 1Gv 3,20). Per questo i rabbini spiegano il motivo per cui nella parola «cuore» in ebraico «lebab» vi sono due «b»: nel cuore regnano sempre due tendenze, una verso il bene e una verso il male. Il vero credente è colui che ama Dio con ambedue le tendenze. Anche quando abbiamo coscienza di fare il male, noi non possiamo cessare di amare Dio, perché egli ci ama anche quando lo rinneghiamo. Egli è fedele anche quando noi siamo infedeli perché il Dio di Gesù Cristo è «Dio non uomo» (Os 11,9).
Davanti al figlio che rinuncia al suo essere figlio, negando così al padre la possibilità della pateità, il padre compie tre gesti, altamente simbolici e colmi di significato attraverso tre oggetti: vestito, anello, calzari (v. 22), di cui tratteremo nel prossimo numero.    (continua – 16)

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella




Tra sogno e realismo

Reportage da un paese dal futuro incerto

Mentre a livello nazionale e internazionale si discute sullo status del Kosovo, la gente è alle prese con i problemi di sempre: tensione tra le varie etnie, disoccupazione, corruzione, mancanza di strutture adeguate. Penalizzati sono soprattutto i giovani, che costituiscono metà della popolazione. Ma non mancano segni di speranza.

All’ufficio postale di Prizren c’è la fila. Almeno 20 persone in coda; e sono tutti giovanissimi. «Si usa così tanto da voi?» domando all’amico Blerim. «No, i ragazzi sono in coda per ricaricare il cellulare. Da qualche mese, quando è iniziato questo servizio, le poste sono prese d’assalto». E io che già gridavo al miracolo delle nuove generazioni, che mantengono la voglia di comunicare via mezzo cartaceo. «Comunicano a modo loro, ma con gli sms, si scambiano foto e musiche. Proprio come in Italia».
Blerim Bobaj, ha 31 anni, ben 7 sopra l’età media dei due milioni di kosovari, il 50% dei quali ha meno di 20 anni. Il suo mestiere è il cornoperante. Dalla fine del conflitto etnico del 1999, «risolto» nei 78 giorni di bombardamenti Nato sulla Serbia, Bobaj ha lavorato con tre organizzazioni non governative, una degli Stati Uniti, una francese e l’ultima italiana: Ipsia, la ong delle Acli, grazie alla quale ha potuto conoscere l’Italia.
«È chiaro che il futuro del Kosovo dipende dai giovani, il problema è che oggi essi non sembrano interessati a quello che li aspetta alla fine degli studi» spiega il mio amico. A gruppi di 5-10 li vedi scorrazzare nel prestigioso centro storico di Prizren, cuore dell’incrocio di civiltà con le sue moschee (tra cui quella di Sinan Pasha, costruita nel 1463, la più antica dei Balcani, con il minareto più alto d’Europa), la cattedrale cattolica, le chiese ortodosse, il bagno e il ponte turco. Tutti giovanissimi, con jeans, occhiali da sole, cellulare alla mano. Ha ragione Bobaj: proprio come da noi.
«Oramai è l’Occidente il modello dei ragazzi di qui – riprende -, non è solo per colpa loro; ma il risultato è che le tradizioni se ne stanno andando». Nelle città kosovare, a Prizren come nella capitale Pristina, le novità degli ultimi anni si chiamano centri commerciali e università private.
«Il consumismo è arrivato anche qui: è come se il Kosovo fosse un’isola europea nel cuore dei Balcani». L’impressione è proprio questa: l’euro è la moneta ufficiale; al momento di entrare nella regione (fino a oggi serba, in base alla risoluzione 1.244 dell’Onu, ma di fatto governata dalle forze inteazionali), sul telefonino compare la scritta: «Benvenuti a Monaco». «Già, perché non abbiamo neanche un prefisso telefonico nostro, e quindi usiamo quello del piccolo principato» aggiunge Bobaj.

Il problema vero, però, è un altro. Questo cambio di valori rischia di far aumentare ulteriormente la disoccupazione, che è oggi al 60% e non si è mai abbassata dalla guerra in poi. «Anche la cooperazione internazionale, a parte alcune eccezioni, oggi non offre più lavoro. Molti progetti han chiuso per mancanza di fondi» dice Bobaj, che da 6 mesi, dopo la fine dell’ultimo progetto con Ipsia, è tornato a fare l’idraulico con suo padre, mestiere che ha sempre fatto per pagarsi gli studi. «Vorrei anche andare all’estero, ma per noi kosovari è impossibile, i visti, quando si ottengono, sono temporanei, per qualche settimana».
In una situazione simile, qualcosa potrebbe cambiare con la decisione sul nuovo status del Kosovo, tornata alla ribalta in questi mesi. «Conosco molta gente qua a Prizren (che ha 171 mila abitanti e si trova a 18 chilometri dal confine con l’Albania, ndr), e ti assicuro che la maggior parte di noi non passa molto tempo a parlare di indipendenza, autonomia o altro». Come dire, «sono gli altri che decidono per noi».
«Il Kosovo è diventato una merce di scambio nei rapporti inteazionali» aggiunge Bobaj. Da una parte Russia e Cina con la Serbia, dall’altra Stati Uniti con l’Albania. In mezzo, come spesso accade, l’Europa (vedi riquadro).
«Non si può più tornare alla pacifica convivenza di un decennio fa, ovvero prima dell’avvento di Milosevic al potere a Belgrado – dice Raitan Dashi, 63enne che ha passato gran parte del post-conflitto in Italia -. L’odio sanguinario che qualche anno fa ha fatto scoppiare il conflitto ha creato una diffidenza enorme».
Dalla fine degli eventi del 1999 ad oggi, sono scomparse 2.047 persone. Dashi e sua moglie tre anni fa sono tornati al loro villaggio a nordest di Prizren, mentre le sue due figlie hanno messo su famiglia nella provincia a nord di Milano.
«So che quello che dico non è positivo, ma non sarei realistico dicendo che un serbo sarebbe ben accolto, perlomeno in campagna». In realtà, nelle città qualche cambiamento c’è stato negli ultimi anni. A parte l’enclave della zona nord di Mitrovica, dove i 20 mila serbi presenti vivono praticamente isolati dagli 80 mila albanesi e la tensione non è mai scesa, nel resto delle città (Peja, Klina, Prizren, Giacova, Pristina) i serbi sono tornati a farsi vedere nei supermercati, negli uffici amministrativi, senza grossi problemi, «come succedeva prima».
Allo stesso modo, le altre minoranze (una decina, tra cui rom, turchi, bosniaci) non sono più oggetto di discriminazione o soprusi, anche se oggi sono più che dimezzate: erano  il 12% prima del conflitto e sono scese al 5% della popolazione.
Dalla primavera 2004, quando c’è stata un’ondata di violenze che ha provocato almeno 40 morti e molte case bruciate (come reazione alla morte proprio a Mitrovica di tre bambini albanesi affogati nel fiume Ibar mentre erano inseguiti da ragazzini serbi), sono stati fatti alcuni passi verso la normalizzazione. «È un lavoro lungo e difficile quello a favore delle minoranze, ancor più arduo di quando c’era l’emergenza umanitaria e bisognava risolvere il problema di centinaia di migliaia di profughi che dovevano tornare a casa» dice Orhan Miftari, 32 anni, responsabile di Caritas Kosovo, ente nato nel 1992 come sezione di Caritas Germania e diventato autonomo dopo i bombardamenti Onu. «Oggi gran parte del nostro operato si rivolge a ripristinare la convivenza tra le varie etnie, con progetti di integrazione e inclusione che non sempre vanno a buon fine – continua Miftari -, però la situazione sta migliorando, in modo lento, ma costante, e questo ci spinge a non gettare la spugna».

Come per Bobaj, anche per il giovane responsabile della Caritas kosovara i discorsi sullo status del Kosovo passano in secondo piano di fronte ai problemi della società civile. «La prima battaglia da vincere oggi è quella contro la perdita delle nostre tradizioni – riprende Miftari -. Se per la convivenza possiamo sperare in risultati positivi nel futuro, per quanto riguarda la salvaguardia del valore della famiglia stiamo facendo notevoli passi indietro».
In che senso? «Si sta consumando una rottura con il passato: le nuove generazioni, spinte da nuovi modelli che non appartengono loro, stanno lasciando a se stessi gli anziani, spesso abbandonandoli al loro destino, andando a vivere in un’altra casa – spiega il responsabile Caritas -. Per la prima volta, in Kosovo si parla di non autosufficienza di persone anziane o disabili. Si stanno cercando soluzioni, che per ora non arrivano».
Dopotutto, un vero stato non c’è e i fondi per aiutare le persone con problemi non ci sono. «Ma anche potenziando il servizio di assistenza, le cose non si risolvono: quasi sempre la presenza di persone non autosufficienti non viene segnalata da nessun familiare; e quando si viene a sapere, spesso è troppo tardi» ammette Miftari.
Nelle centinaia di villaggi kosovari, il capovillaggio (riconoscibile dal copricapo bianco a scodella) rimane ancora una figura autorevole, ma il suo carisma non è più quello di un tempo. «Faccio fatica a farmi rispettare dai più giovani, che hanno in testa l’Europa e non vedono l’ora di andarsene» mi sussurra prima di recarsi a fare una visita medica Haxi (il cognome è incomprensibile, così pure il nome del suo villaggio, tra Prizren e Giacova), capovillaggio 74enne con il quale condivido una corsa in un combi, i taxi collettivi diffusi in tutti i Balcani.

Il miraggio di una vita migliore all’estero è ancora molto diffuso, nonostante la voglia di molti giovani di partecipare alla «ricostruzione» della propria terra. Dopotutto, i problemi cronici del Kosovo post-conflitto sono la prima fonte di scoraggiamento delle nuove generazioni. Disoccupazione a parte, l’altro annoso problema è la carenza di elettricità, dovuta al fatto che l’unica centrale della regione non basta al fabbisogno. Nella capitale e nelle altre città la corrente c’è tre ore sì e tre ore no un giorno, quello successivo quattro ore sì e due no; nelle campagne va peggio, arrivando a un’ora di erogazione ogni cinque. I generatori sono ancora oggi uno dei simboli del Kosovo.
«Come si può lavorare in queste condizioni?» chiede il proprietario di una macelleria di Prizren, al quale si affianca annuendo il responsabile di uno delle decine di internet point della città, tanto diffusi quanto economici.
Poi ci sono le altre questioni aperte della regione: traffici illeciti e corruzione ancora estesa. «Ma qualcosa in questo senso si sta facendo» riprende il cornoperante Bobaj, mostrando un foglietto che viene distribuito da qualche mese in tutti gli edifici pubblici cittadini. «C’è un numero nuovo al quale chiamare per segnalare episodi di corruzione o racket – spiega -, garantendo l’anonimato: la gente si fida e chiama. Nella sola Prizren, una quarantina di persone sono state arrestate grazie alle segnalazioni».
Il servizio è stato messo a punto dalla polizia kosovara con l’appoggio delle forze Unmik, il contingente Onu in Kosovo. Il quale, benché abbia ridotto la sua presenza e stia progressivamente lasciando i poteri in mano alle autorità locali (la vecchia sede Unmik della città è dall’anno scorso sede della polizia municipale), è ancora ben visibile nelle strade kosovare. «Non siamo ancora pronti a cavarcela da soli; la presenza internazionale serve come precauzione, anche se spesso non esercita più un ruolo di controllo».
Un esempio? «Guarda la chiesa lassù sulla collina – dice Bobaj, indicando il monastero ortodosso di San Giorgio, il più grande e bello della città -, tutt’attorno ci sono le forze Unmik, ma mentre negli anni scorsi la loro presenza serviva a evitare danneggiamenti all’edificio, oggi i soldati sono lì solo perché si ha la migliore vista dall’alto della città». 
La conferma alle parole del cornoperante arriva poco dopo. «È un ottimo punto di osservazione e la chiesa è ora riaperta per le visite» spiega un militare tedesco all’uscita da uno dei barbieri più rinomati del centro storico. Nel corso degli anni, la distanza tra popolazione locale e forza internazionale di pace è diminuita notevolmente. «Il contatto non è mai troppo, ma le relazioni si possono sviluppare bene – continua il militare -. Certo non tutti apprezzano la nostra presenza, ma c’è molta più tranquillità che in passato. Il fatto che, poco alla volta, aumentino le esperienze positive di integrazione con le minoranze, è un buon punto di partenza. Non è detto che, indipendenza o meno, non si possa tornare con gli anni alla convivenza di prima». È la speranza di tutti. O quasi. 

Di Daniele Biella

MATASSA SENZA BANDOLO

Il 10 dicembre 2007 si è chiusa con un nulla di fatto la commissione formata dalle delegazioni di kosovari albanesi e serbi, di intermediari di Usa, Ue e Russia, sotto la guida del mediatore Onu Martti Ahtisaari, per la ricerca di un compromesso sullo status del Kosovo. La proposta di «indipendenza sotto tutela internazionale» è rifiutata dai kosovari albanesi, che reclamano piena indipendenza, e dai serbi, che non vogliono perdere la sovranità sulla loro provincia, in base al diritto internazionale.
Le due posizioni inconciliabili hanno radici storiche. Nel Kosovo i serbi hanno le radici della propria identità nazionale: vi sono conservate le reliquie dei primi re ortodossi e buona parte del patrimonio culturale e religioso. A partire dal 1389, però, tali radici, cominciarono ad essere sconvolte: gli ottomani annientarono la coalizione serbo-bosniaca nella battaglia della Piana dei merli e avviarono l’occupazione e islamizzazione dei Balcani. Per 520 anni il Kosovo rimase sotto il potere turco. I tentativi di ribellione provocarono repressioni, esodi massicci di serbi, rimpiazzati con trasferimenti di musulmani albanesi.
Nel 1912, in seguito alle guerre balcaniche, la Serbia ristabilì la sua sovranità sul Kosovo e riprese la ricolonizzazione del territorio con famiglie serbe, al posto di quelle turche e albanesi costrette a fuggire o emigrare. Altri esodi e contro esodi di serbi e albanesi si alternarono durante le due guerre mondiali, finché il Kosovo divenne parte della Federazione jugoslava (1945), come provincia autonoma della Serbia, con uno status di grande autonomia, ma inferiore alle sei repubbliche federate (Slovenia, Croazia, Bosnia, Serbia, Macedonia, Montenegro), che avevano il diritto costituzionale di secessione.
Dopo la morte di Tito e la dissoluzione della Federazione jugoslava, il forte incremento demografico dei kosovari albanesi (90% della popolazione totale) mise in allarme il nazionalismo serbo, guidato da Sloboda Milosevic, che revocò gran parte delle autonomie del Kosovo (1989) e avviò una politica di ri-serbazione forzata, proibendo la lingua albanese nelle scuole e sostituendo funzionari amministrativi e insegnanti con personale serbo.
Inizialmente l’etnia albanese reagì con la resistenza non violenta, guidata dalla Lega democratica del Kosovo (Ldk) di Ibrahim Rugova, stabilendo istituzioni e scuole separate, dichiarando l’indipendenza della Repubblica del Kosovo (1990), riconosciuta solo dall’Albania. A partire dal 1995, molti separatisti albanesi scelsero la lotta armata, guidata dall’Esercito di liberazione del Kosovo (Uck), terrorizzando la popolazione serba, costringendola alla fuga, distruggendo chiese, santuari e monasteri. La repressione delle milizie serbe fu altrettanto violenta, finché l’intervento Nato, con massicci bombardamenti sulla Serbia (1999), costrinse Belgrado ad accettare la presenza nel Kosovo di forze inteazionali di interdizione (Unmik e Nato), che non sempre sono riuscite a impedire i rigurgiti di violenza contro persone, case e chiese nelle enclave in cui erano isolati i gruppi della minoranza serba (2004).
Di fronte al fallimento delle trattative Onu, l’ex capo guerrigliero dell’Uck, Hashim Thaci, uscito vincitore dalle elezioni di novembre 2007 con il suo Partito democratico del Kosovo (Pdk), aveva minacciato la dichiarazione unilaterale di indipendenza per il 10 dicembre 2007, ma tutto è rimandato al 2008.

Dal 1999 il Kosovo è praticamente autosufficiente e la Serbia non vi esercita alcuna sovranità effettiva. Anche se, sul piano legale resta valida la risoluzione 1244 del Consiglio di sicurezza, che contempla la sovranità serba sul Kosovo.
Ma il problema, ormai, non è più l’indipendenza, ma il suo riconoscimento in ambito europeo e atlantico. Tale riconoscimento è diventato uno dei temi scottanti nella guerriglia fredda tra Stati Uniti, favorevoli da sempre all’autodeterminazione, e la Russia, che vi si oppone, non tanto per amore dei serbi, ma piuttosto per ripicca antiamericana. L’Unione europea è divisa: Gran Bretagna, Austria e Germania sono a favore (gli ultimi due stati hanno numerose comunità di immigrati kosovari), Grecia e Cipro contrari, gli altri paesi dell’Ue indecisi. All’inizio erano contrarie anche Spagna, Slovacchia e Romania. 
Il riconoscimento di un’eventuale dichiarazione unilaterale d’indipendenza, secondo gli oppositori, costituirebbe un precedente con conseguenze incontrollabili, perché incoraggerebbe altre minoranze etniche a fare altrettanto: baschi e catalani in Spagna, corsi e bretoni in Francia, ungheresi in Slovacchia e Romania, turchi a Cipro, serbi in Bosnia e Croazia, albanesi in Serbia (Presevo), Macedonia e Montenegro, curdi in Turchia, abkhazi e ossezi in Georgia, russi nelle Repubbliche baltiche…
La soluzione della matassa kosovara interessa e coinvolge sempre più l’Unione europea, che continua a trattare con le parti in causa. Al governo kosovaro propone un’indipendenza sotto il protettorato civile dell’Onu, tuttora in funzione, e una più articolata amministrazione europea, con l’impegno di adeguare la macchina governativa agli standard europei in fatto di giustizia, polizia, carceri e altri settori vitali del paese. Alla Serbia, se accetta tale compromesso, vengono aperte le porte dell’Unione europea. L’integrazione di Serbia e Kosovo nell’Ue metterebbe la sordina alle rivendicazioni di sovranità e garantirebbe il rispetto dei diritti delle minoranze serbe nella ex provincia.
A partire da gennaio 2008, la presidenza semestrale dell’Unione europea è affidata alla Slovenia, un fatto di alto valore simbolico: Slovenia e Kosovo costituiscono l’inizio e l’epitome della dissoluzione della Federazione jugoslava. Riuscirà a chiudere per sempre la crisi balcanica? Ha tutte le carte in regola per porsi come esempio di transizione pacifica; inoltre, conosce gli umori delle popolazioni slave come le sue tasche, per cui potrebbe riuscire nell’impresa in cui le grandi potenze hanno fallito.

Benedetto Bellesi

Daniele Biella e Benedetto Bellesi




ELOGIO DELLA TENEREZZA

Bambini disabili e comunità indigene andine

Llaqui causaimanta cushicui causaicama: in lingua quechua significa:
«Dalla sofferenza alla felicità». È il cammino sperimentato da alcuni bambini fisicamente o psicologicamente svantaggiati di varie comunità indigene della diocesi di Riobamba, in Ecuador. Grazie alla tenerezza e all’amorevole caparbietà di un missionario di lungo corso.

Il racconto di Gesù che predica nella sinagoga di Nazaret, secondo la versione che ce ne dà l’evangelista Matteo, illustra lo stupore manifestato dalla gente per lo stile del discorso del messia. La gente, infatti, rimaneva meravigliata e diceva: «Da dove mai viene a costui questa sapienza e questi miracoli?… E si scandalizzavano per colpa sua» (Mt 13, 54.57).
Non è il contenuto dell’insegnamento di Gesù ciò che causa scandalo, bensì il modo e il metodo di insegnare, le opzioni e le intenzioni che lasciano intravedere il punto di partenza di un cammino nuovo. Sappiamo bene che il vangelo è una storia emergente, una «contro-storia» vissuta tra gli ultimi del mondo, in cui si scorge perfino la prospettiva di un avvenire inaudito «dove gli ultimi diventano i primi».
Partendo da questo presupposto e volendo testimoniare coerentemente la nostra fede cristiana abbiamo l’impegno di dar vita a eventi educativi che servano da premessa obbligata a futuri pedagogici impensati e inauditi.
Tale impegno ci sfida quando ci addentriamo nel difficile contesto delle persone disabili all’interno del mondo indigeno andino, contesto nel quale dobbiamo osare domande scomode. In altre parole, bisogna chiederci seriamente se dobbiamo accettare a braccia incrociate i vari fallimenti riguardo ai bambini disabili nel mondo culturale e sociale delle tradizioni indigene attuali. Cosa facciamo quando ci troviamo al cospetto di una persona, in modo particolare di un bambino «speciale» e portatore di difficoltà personali e comunitarie, lo abbandoniamo? Ci dichiariamo incapaci di soluzione? Il disabile è da considerarsi solamente come soggetto di terapie straordinarie o può entrare anche lui in una quotidianità educativa vissuta e alla portata degli altri bambini del suo clan, nella sua zona di residenza? Dobbiamo aspettare di raggiungere nuovi orizzonti attraverso percorsi idonei e già previsti o diventiamo artigiani di una pratica possibile oggi, qui, adesso?

Doppiamente svantaggiati

Nella mentalità culturale indigena conta colui che vale e che sa farsi valere. Chi, al contrario, ha bisogno di una mano, di un aiuto, di un appoggio che non sia vincolato a una scadenza da onorare non ha posto a sedere neanche nella compassione. Nel mondo indigeno un bambino disabile vale poco, per non dire nulla; anzi, è un prestito da rimborsare. Nessuno pensa che con il tempo possa rendere. Un tempo le famiglie se ne sbarazzavano immediatamente; poi, grazie all’evolversi sociale e all’incontro con  il cristianesimo non l’hanno più fatto, ma il disagio nei confronti di un membro della comunità fisicamente o psicologicamente svantaggiato non è diminuito. Alla mamma un figlio disabile costa troppo, è una creatura alla quale bisogna dare il minimo indispensabile perché possa vivere, ma essendo un caso «extra-ordinario» è anche fonte di inevitabili spese extra… Questo incide molto sulla vita di tutti i giorni, visto tutto il tempo che si deve dedicare all’accompagnamento del bambino con disabilità, a discapito del lavoro e a detrimento dell’appoggio che si potrebbe offrire agli altri figli sani.
Nel contesto indigeno tradizionale le famiglie non possono neppure aspettarsi un grande aiuto dalle proprie autorità comunitarie. Un bimbo con handicap è un evento straordinario e ha bisogno di sostegni straordinari. In questi anni abbiamo cercato di portare avanti un lavoro di educazione dei dirigenti indigeni, orientato al rispetto per la persona, soprattutto per i bambini, spingendo affinché la comunità sentisse l’importanza di dare ai giovani sussidi e sostegni per la loro formazione. Ma il cammino è ancora lungo; nel mondo indigeno non esiste ancora uno spirito di gratuità: aiutano perché sono aiutati. L’idea di sacrificare qualche cosa di personale a titolo gratuito e a beneficio altrui non appartiene ancora a una cultura che fonda la propria etica della relazione sulla reciprocità e, quindi, sul do ut des: ti do se mi dai, oppure mi aspetto qualcosa da te in cambio di quanto ti ho dato. Al contrario, il gesto verso un bambino disabile è pura solidarietà, perché un bambino del genere non può darti nulla in cambio.
Con pazienza abbiamo insinuato l’idea che la situazione delle persone in difficoltà deve diventare una priorità dell’organizzazione e della progettazione comunitaria. La famiglia fa parte di una comunità, ne rappresenta la sua porzione più piccola; i suoi problemi e le sue priorità sono di interesse comune e non si limitano ai membri della famiglia stessa. Ne consegue che una buona progettazione comunitaria non deve pensare esclusivamente alla strada, all’acquedotto, ma puntare al benessere della gente inteso in un senso complessivo. Lo stesso discorso vale anche per gli anziani. Diventando vecchie e malate le persone iniziano a rimanere al margine della società e cominciano ad aver paura, paura, persino, che si dia loro qualcosa per andarsene da questo mondo il più in fretta possibile. Finché una persona serve, lavora e produce si guadagna il rispetto; quando invece la stessa persona non riesce più a contribuire alla vita della comunità diventa un peso, un valore passivo nel bilancio che deve essere limitato al massimo in attesa di venire eliminato del tutto. Chiaramente generalizzare non è possibile, ma nello stesso tempo bisogna riconoscere che questa mentalità è ancora viva. È una degenerazione del concetto di reciprocità che diventa un assoluto soffocante e schiavizzante.

Medicina «del cuore»

È dunque possibile che a tali sfide si possa rispondere con la tenerezza? La tenerezza non è solo una capacità affettiva, ma un trattamento che la pedagogia educativa deve cominciare a stimare e considerare come prezioso alleato. Diventare umani nelle relazioni reciproche e vincolanti per vari motivi di vicinanza e di mutuo riconoscimento è compito di tutti i giorni e di ogni giorno in particolare. Per questo parliamo di quotidianità educativa nella costruzione dell’elemento umano, cercando e avvicinandoci al più concreto, più conosciuto e più prossimo. Lì, di fronte alla persona reale e vicina, suggeriamo gli accorgimenti della sopravvivenza, come resistenza agli sconforti e come speranza di un modo di vivere nuovo, adatto a divenire parte ordinaria della vita.
Vogliamo educare esseri umani a diventare più umani e «meglio» umani, ben consapevoli che l’umanità in sé comporta una condizione non conclusa e incompiuta.
Nella cosmovisione andina l’armonia tra le creature è essenziale per la convivenza. Ognuno deve stare al proprio posto senza invasioni o abusi spaziali. Se uno, invece, non occupa il proprio posto per insufficienza o provvisorietà di qualsiasi genere bisogna aiutarlo ad arrivare ad assumere una posizione propria nel contesto comunitario.
Sorge allora incontrastato il diritto alla tenerezza: amorosa, sensibile, affettiva. La tenerezza è la qualità che rende possibile la convivenza umana rispettando la singolarità e la diversità di ognuno, che fa volgere lo sguardo e prestare attenzione verso il più debole, la persona svantaggiata che non ha una posizione definita e conclusa nell’armonia del cosmo.
Più che attribuzione, la tenerezza è un paradigma di convivenza che deve realizzarsi nel terreno familiare, sociale e comunitario, conquistando progressivamente il diritto ad esistere nei territori che, per varie ragioni, si sentono autorizzati ad escludere i differenti, i «non conclusi», coloro che non hanno posizione, come nel caso dei portatori di disabilità.
A Nazaret, Gesù si stupì della incredulità dei suoi compaesani. La sua pedagogia aveva indicato come realtà prioritarie momenti umani non conclusi:  poveri, ciechi, prigionieri, sordomuti, ecc. che aspettavano attenzione e considerazione. Aveva anche lasciato capire che i loro affetti e le loro cosmovisioni senza tenerezza per la povera gente erano progetti lontani da Dio.
Sarà un messaggio valido anche per noi, oggi? Nel nostro mondo c’è la tenerezza? Nella chiesa, nelle nostre comunità religiose c’è la tenerezza? Domande scomode, ma che è urgente farsi. Nella lettera ai Romani (10, 10), San Paolo parla di: parola e cuore. Con la parola proclami e con il cuore credi. È difficile far entrare la tenerezza in un determinato contesto perché oltre alle parole bisogna saper mettere il cuore.
In questo oggi latinoamericano, così pieno di sfide e così scao di incoraggiamenti e speranze, irrompe una riflessione nuova e promettente che, senza permesso, avvicina e articola campi teorici e pratici nella pedagogia e nella scienza dell’educazione. Il progetto di Gesù conserva tutta la sua forza e la sua attualità.
In un mondo senza tenerezza abbiamo provato a porci la domanda: «La tenerezza fa bene o no? Anche a coloro che sembrano escluderla dalle loro relazioni interpersonali?». Quando si è iniziata la nostra attività con i bambini disabili delle nostre comunità indigene, si è agito su un piano di scommessa: «Scommettiamo che la tenerezza piace?». È piaciuta ed è stata la prima medicina, che ha letteralmente trasformato bambini rifiutati, marginalizzati, senza possibilità e che adesso si sentono stupendi. Solo poco tempo fa mi è giunta la notizia che due bambine della nostra comunità hanno partecipato alle paraolimpiadi, organizzate in Ecuador dall’esercito, e una di esse ha vinto una medaglia. La tenerezza ha fatto effetto, è entrata in piccole dosi, ma ora non se ne può più fare a meno. Ricordo la «battaglia delle scarpe», combattuta tempo fa: cosa non c’è voluto per inculcare l’importanza di usare scarpe in un ambiente come quello montano della provincia del Chimborazo in Ecuador, dove si vive a circa tremila metri d’altezza! Adesso tutti mettono le scarpe e non possono fae a meno. Quando si comincia ad usare una cosa e si fa esperienza della sua utilità, poi non se ne può più fare a meno! Se mettiamo tenerezza nelle nostre relazioni con i bambini, questa viene da loro assimilata con naturalezza e altrettanto spontaneamente trasmessa ad altri.
Sono solamente 5 anni che si lavora in questo campo, ma già si vedono piccoli risultati che confortano e fanno ben sperare per il futuro; bisogna assolutamente confidare nel tempo. In particolare lo si nota fra le ragazze del posto che abbiamo iniziato a formare come educatrici: che bello vedere con che tenerezza trattano questi bambini. Un’indigena che si preoccupa di un’altra indigena è un bel segno! Ragazzi che si preoccupano di altri indigeni che non appartengono direttamente alla loro comunità rappresentano un bel passo avanti, si creano delle trasformazioni che produrranno del bene non soltanto ai bambini più svantaggiati, ma alle famiglie e, attraverso di loro, a tutta la comunità.  

di Giuseppe Ramponi

    QUANDO LA TENEREZZA PAGA

Una goccia d’ acqua fresca nell’oceano della solitudine: questa è l’esperienza di Bucapne (Buscar casa para niños especiales), un progetto che si propone di cercare casa per bambini diversamente abili.
Il progetto è nato cinque anni fa, al rientro dalle mie vacanze in Italia. Avevo fresca nella memoria la triste visione di bambini emarginati da qualsiasi contesto sociale ed educativo perché indigeni e disabili. Nelle comunità indigene il «problema disabili» esiste, anche se molte volte in modo nascosto, ed è generalmente avvertito come una disgrazia. Nessuno però, si sente di dare a questa «disgrazia» una risposta concreta; chi, del resto, investirebbe con coscienza un solo dollaro su una scommessa già persa in partenza? In una cultura dove neanche una moglie merita sostegno economico quando si ammala e non può più essere fonte di guadagno, come ci si potrebbe aspettare di veder finanziate opere per bambini che sono e saranno sempre problemi costosi senza soluzione?
Nelle città esistono istituzioni adeguate all’assistenza di persone disabili, ma accettano soltanto i bambini le cui famiglie presentano determinati requisiti come una certa possibilità economica e la disponibilità di tempo per accompagnare e seguire la persona nel cammino di riabilitazione.
Quando ho deciso di occuparmi di questi  bambini, ho cercato di fare una diagnosi della situazione reale. Era infatti importante avere un quadro generale dei possibili fruitori del programma. I miei collaboratori si sono messi all’opera e alla fine delle loro ricerche hanno presentato una lista di ben ottanta casi da prendere in considerazione. Davanti a tale numero ho deciso che se proprio dovevo pensare ad un’opera conclusiva della mia carriera missionaria, non poteva essere che quella.
Amici generosi mi hanno animato e concesso l’appoggio di cui avevo bisogno. Alcuni di essi dovranno andare in cielo a «furor di poveri» per l’incoraggiamento e la mano che hanno saputo darmi.
Comprai un pulmino perché la prima cosa da fare era accompagnare i bambini presso specialisti che ci aiutassero a selezionare bene i casi su cui intervenire. Il risultato di questo lavoro iniziale fu positivo: grazie ai primi interventi molti bambini migliorarono la vista, l’udito, il modo di parlare. Altri bambini vennero inseriti in vari centri educativi della zona. Rimasero quelli che avevano bisogno di trattamento speciale, i cosiddetti «formula 3A»: Amore, Attenzione e Alimentazione. Tra di essi vi erano bambini ciechi, denutriti, con gravi problemi motori, di espressione, epilettici, ecc. Tutte creature da «rifare» nei cinque sensi.
Oggi come oggi, anno 2008, posso dire che si sono conseguiti dei buoni risultati. L’azione continua, anche se essendo dovuto rientrare in Italia agisco a distanza e mi appoggio a preziosi collaboratori del posto che continuano a setacciare le comunità nella ricerca di casi non ancora individuati. Ora le mamme non si vergognano più nel portare sulla schiena i loro bambini disabili e si avvicinano al progetto (un tempo guardato con sospetto) con fiducia e speranza.
I punti positivi si sommano in titoli di «missione compiuta». Ecco i principali.
✔ Bambini che si pensava essere inguaribili sono stati invece ricuperati con successo.
✔ Bambini sono stati iscritti in scuole speciali per sordi, ciechi e down.
✔ Bambini con disabilità cronica e irrimediabile hanno trovato casa permanente in istituzioni governative specializzate.
✔ Una dozzina di bambini con gravi problemi di denutrizione sono stati ricuperati e avviati a frequentare centri educativi normali.
✔ Varie ragazze indigene hanno ricevuto una formazione specializzata, diretta a migliorare l’assistenza dei bambini affetti da disabilità fisica e mentale nelle comunità locali.
✔ Sono stati formati e abilitati anche alcuni animatori comunitari in grado di aiutare le famiglie che vivono il problema di un figlio disabile a conoscersi e a crescere in modo da creare intorno al bambino un ambiente sereno e idoneo alla crescita. Tali animatori si occupano anche di avviare relazioni con i dirigenti locali, così da creare un fronte comune e organizzare iniziative mirate e comuni in favore dei bambini svantaggiati.
Rimane il problema di finanziare un progetto che ha solo uscite economiche e nessuna entrata sicura. Il progetto dei bambini speciali è cominciato nel dicembre 2002. Da allora siamo diventati tutti evangelici perché, come dice il vangelo: i ciechi vedono, gli zoppi camminano, i sordi ascoltano;  tutti ricevono molta tenerezza e molto amore e sono felici. Le entrate sicure non esistono. Di sicuro ci sono solo la Provvidenza e la tenerezza di Dio. Se il Signore vorrà continuare a servirsi del nostro ministero non ci farà mancare i mezzi economici necessari e sufficienti a dare a un bambino disabile un po’ di felicità.

Giuseppe Ramponi




Presenza scomoda

Cristiani a Urmia, nel Nord dell’Iran

La storia dei cristiani assiri, caldei, armeni è costellata di ostilità e persecuzioni; quelli che vivono a Urmia, nell’Azerbaigian occidentale (Iran), non fanno eccezione. L’emorragia di giovani in cerca di libertà continua; eppure la presenza cristiana nel mondo islamico ha ancora senso e costituisce un esempio per i cristiani che vivono nei paesi liberi.

Urmia è una tranquilla città nel nord dell’Iran, capoluogo della provincia dell’Azerbaigian occidentale. Pare che il suo nome significhi «culla d’acqua». L’acqua in questione potrebbe essere quella del lago omonimo, sulle cui rive è distesa la città: un’acqua salatissima, forse più di quella del Mar Morto, tanto che in alcuni punti il sale si raccoglie e diventa spiaggia e scogli. Oppure potrebbe essere l’acqua che scende dai monti Zagros, sulle cui propaggini hanno cominciato ad arrampicarsi i nuovi quartieri della città.
Se si attraversano gli Zagros e si scende dall’altro versante, quello iracheno, si arriverà nella piana del Tigri, non lontano dai resti di Ninive, l’antica capitale dell’impero assiro, un nome che rimanda d’istinto al manuale scolastico di storia antica.

IDENTITà CRISTIANA
Quello assiro fu uno dei tanti imperi, la cui gloria sorse e tramontò in quella parte d’Asia che si suole chiamare «fertile mezzaluna». Dei regni e popoli che vi si succedettero – medi, sumeri, accadi, babilonesi, cassiti, hittiti, mitanni – oggi rimangono solo pochi resti. Si stenta a credere che gli assiri, invece, siano riusciti a non sprofondare nell’abisso della storia e siano arrivati fino a noi attraverso i millenni.
La conversione alla fede cristiana li ha distinti come gruppo e li ha aiutati a mantenere viva la coscienza della propria identità in una terra dove hanno sempre predominato altre religioni: lo zoroastrismo sotto i parti e i sassanidi, l’islam a partire dalla conquista araba del vii secolo. Altro tratto distintivo di questa comunità è la lingua: essi parlano una lingua semitica del gruppo aramaico, che nella variante antica è rimasta fino a oggi la lingua della liturgia.
Gli assiri conobbero il cristianesimo già nel primo secolo; la loro evangelizzazione si fa risalire all’apostolo Tommaso, cui fu affidato il compito di portare la buona notizia alle genti della Mesopotamia. 
Centro spirituale dei cristiani della Mesopotamia era il patriarcato di Seleucia-Ctesifonte, la cui sede si trovava fuori dei confini orientali dell’impero romano; di qui la definizione di chiesa d’Oriente, o siriaco orientale, con cui furono indicate le comunità cristiane costituitesi nell’impero persiano. La circostanza di trovarsi nel territorio dei persiani, nemici di Roma, fu determinante per la chiesa d’Oriente, perché non poté partecipare ai concili della cristianità occidentale e seguì un percorso suo. Essa adottò la dottrina cristologica antiochena, un rappresentante della quale, Nestorio, fu sconfessato al concilio di Efeso del 431. Per questo motivo spesso si parla, impropriamente, di chiesa nestoriana. In realtà, i cristiani d’Oriente non si riconoscono in questo termine e Nestorio rimane per loro una figura secondaria.
In quanto minoranza, in Oriente i cristiani sperimentarono forme diverse di ostilità e subirono la persecuzione sotto i re sassanidi. Essendo loro preclusa la via dell’Occidente, essi rivolsero il proprio slancio missionario a est e portarono il cristianesimo in India, Cina e Mongolia. I loro monaci erano tenuti in grande considerazione alla corte del Gran Khan.
Quando gli eserciti mongoli di Hulagu distrussero Baghdad, nel 1258, e stabilirono il proprio dominio sulla Persia, i cristiani non solo furono risparmiati, ma godettero del favore dei conquistatori. Nuove chiese furono costruite in diversi centri dell’Azerbaigian: oltre che a Urmia, dove la presenza degli assiri è attestata dall’inizio del xii secolo, a Tabriz, Salmas, Marāghe. I cristiani non sfuggirono, invece, alla ferocia di Tamerlano, che alla fine del xiv secolo percorse a più riprese la Persia e la Mesopotamia, distruggendo e uccidendo. I secoli successivi furono più tranquilli, ma con l’inizio della prima guerra mondiale una nuova tragedia si abbatté su queste comunità.

FUGA DAL GENOCIDIO
Si calcola che all’inizio del Novecento nella regione di Urmia i cristiani, tra assiri, caldei e armeni, fossero circa il 40% della popolazione. Essi abitavano prevalentemente nei villaggi. Nell’Ottocento avevano cominciato ad arrivare in Persia i missionari occidentali, primi tra tutti i protestanti americani, che nel 1834 aprirono una missione a Urmia, subito seguiti dai lazzaristi francesi, poi dagli inglesi e, infine, dai russi.
A quei tempi la Russia si contendeva con l’impero britannico il dominio sulla Persia che, rimanendo formalmente uno stato indipendente, era stata divisa nel 1907 in due zone di influenza: quella inglese a sud e quella russa a nord. Quando la Russia entrò in guerra contro l’impero ottomano, benché la Persia fosse neutrale, le sue province settentrionali furono ben presto interessate dal conflitto.
Alla fine del 1914 gli ottomani attaccarono le posizioni russe nel Caucaso e cominciarono ad avanzare verso Tabriz e Urmia. Questo fatto non lasciava presagire niente di buono per i cristiani. Nella regione si sapeva dei massacri contro gli armeni avvenuti in Turchia negli anni 1894-96 e della politica dei «Giovani turchi», sfociata nel genocidio di un milione e mezzo di armeni e 275 mila cristiani assiri e siro-caldei.
Alla notizia dell’arrivo dei turchi molti cristiani fuggirono verso il Caucaso russo, quelli rimasti cercarono rifugio presso le missioni occidentali, mentre le truppe irregolari curde al seguito degli ottomani razziavano e distruggevano i villaggi. Si calcola che le missioni americane siano arrivate a ospitare fino a 15 mila rifugiati, quella francese 10 mila. Sebbene gli ottomani rispettassero la loro neutralità, le condizioni al loro interno erano così terribili che moltissimi morirono per malattie e stenti. Alla fine della guerra, dopo una seconda occupazione ottomana nel 1918, ai cristiani fu permesso di tornare, ma la loro presenza nella regione non toò mai più ai livelli di prima.

L’ESODO CONTINUA
Molte di queste cose mi erano ancora ignote quella mattina, mentre, seduta nel cortile della chiesa di Santa Maria, aspettavo di parlare con un rappresentante della comunità assira. Secondo una tradizione locale, questa chiesa fu eretta sulla tomba di uno dei magi che seguirono la stella di Gesù, ma nulla rimane dell’edificio originale e neppure di quello ricostruito dai russi a fine Ottocento, raso al suolo durante l’occupazione ottomana. Al suo posto è sorta una spartana cappella, accanto alla quale, in anni recenti, è stata costruita una chiesa molto più grande.
Era un venerdì, giorno di festa e di riposo in Iran; il cortile era pieno di giovani, venuti a fare lezione di aramaico. Sebbene lo parlino in famiglia, i ragazzi che frequentano le scuole statali non sempre imparano anche a scriverlo e a leggerlo.
Mentre osservavo i crocchi in attesa della lezione e meditavo su quale lingua avremmo utilizzato per comunicare, mi sono sentita salutare in perfetto italiano. No, non era uno sperduto connazionale capitato per caso in quel luogo, era padre Bengiamin, o Paolo, come si fa chiamare quando è in Italia. Non avrei potuto trovare una guida migliore.
Padre Bengiamin è in Italia dal 1996. È stato il patriarca Dinkha iv a chiedergli di venire a studiare nel nostro paese. Dopo essere stato ordinato sacerdote nel 2001 ha continuato gli studi. Ha alle spalle cinque anni di Gregoriana e adesso sta ultimando un master in diritto canonico presso il Pontificio istituto orientale.
Tanti anni in Italia, eppure ogni anno ha problemi con il permesso di soggiorno, come se fosse un novellino. In estate dà una mano all’altro sacerdote assiro di Urmia, padre Dariaush, che si trova da solo a provvedere a una comunità di 3-4 mila persone. Padre Bengiamin si ricorda di quando gli assiri erano 20 mila in città e provincia, quasi 50 mila in tutto l’Iran. Adesso i numeri sono diversi. A Teheran, dove c’è il gruppo più numeroso, sono meno di 6 mila. Anche la comunità assira, come quella armena, è afflitta dal fenomeno dell’emigrazione. Le mete principali sono America e Australia, più di rado l’Europa.

GIOCHI PANASSIRI
Proprio quel venerdì si concludevano i giochi panassiri, una manifestazione che si svolge ormai da sei anni e che raccoglie giovani da tutti i paesi in cui sono presenti le comunità assire: oltre all’Iran, la Georgia, l’Armenia, l’Iraq e la Siria. Tutti parlano la stessa lingua, con piccole differenze locali. I giochi si svolgono nel club assiro di Urmia; l’alloggio, invece, è offerto dal governo iraniano, che quest’anno ha messo a disposizione un albergo in riva al lago. La comunità non sarebbe in grado di pagare le spese della manifestazione, circa 50 mila euro, se non ci fossero i finanziamenti pubblici, ottenuti attraverso il proprio rappresentante in parlamento.
I giochi sono una grande occasione d’incontro: per 10 giorni i giovani stanno insieme, ne nascono amicizie, che proseguono con scambi di visite e che, a volte, hanno come esito il matrimonio. Per gli assiri iraniani questa possibilità non è irrilevante. I matrimoni misti in Iran non sono ammessi, a meno che l’uomo o la donna cristiani siano disposti ad abiurare la propria fede. Durante lo scià c’era libertà di culto, ma adesso la conversione a una fede diversa dall’islam è un delitto che prevede perfino la pena di morte.
Quando padre Bengiamin e padre Dariaush si recarono all’albergo per salutare i partecipanti ai giochi, mi invitarono ad accompagnarli. Gli iracheni erano già partiti, mentre gli altri gruppi si stavano raccogliendo nella hall e nello spiazzo davanti all’ingresso per godere degli ultimi momenti insieme. C’era un’atmosfera di festa. Per molti quello non voleva essere un addio, ma un arrivederci, ci si scambiava indirizzi, promesse di visite; qualcuno indossava la maglia della nostra nazionale di calcio, vincitrice della coppa del mondo.
Padre Bengiamin, che ben conosce le abitudini degli italiani, mi invitò a prendere il caffè preparato dagli armeni, gli unici a non condividere la predilezione orientale per il tè. Ne approfittai per scambiare qualche parola con loro.
L’Armenia, come la Georgia, è un paese cristiano, di conseguenza per gli assiri la vita è più facile che nei paesi di fede islamica. C’è, però, in agguato un pericolo d’altro genere, quello dell’assimilazione. Assimilarsi offre innegabili vantaggi: finché vengono percepiti come un gruppo a sé, gli assiri restano esclusi dalle reti di solidarietà, che favoriscono, nel lavoro e nella politica, gli armeni.
A questo proposito è interessante il ruolo che svolge la lingua. Si assimilano gli assiri che frequentano le scuole armene e che quindi finiscono per usare abitualmente la lingua locale, mentre quelli che frequentano le scuole russe mantengono la propria identità. Il fenomeno dell’assimilazione è massimamente diffuso tra coloro che sono emigrati in Occidente: difatti, mi diceva con un certo tono di recriminazione il rappresentante della comunità armena, gli unici a non partecipare ai giochi sono gli assiri della diaspora.

LIBERI…  A SAN SERGIO
Per il pomeriggio mi avevano consigliato di visitare la chiesa assira di san Sergio, appena fuori città, sulle pendici degli Zagros, che nei giorni di festa diventa meta di escursioni e picnic. Quando vi fui arrivata, capii perché il luogo è così popolare. Circondata da campi e ulivi, l’antica chiesa si trova a metà collina, in una posizione che domina la regione circostante. Da lì lo sguardo abbraccia tutta Urmia e arriva fino al lago e ai monti lontani.
L’edificio è di un’estrema semplicità: rettangolare, in pietra; all’interno è diviso in due cappelle comunicanti, le pareti sono completamente spoglie e solo la croce sul fondo sta a indicare dove ci troviamo. Mi sedetti sull’unica sedia a contemplare quella pace. Di tanto in tanto entrava qualche visitatore; i musulmani si comportavano come in moschea: lasciavano le scarpe all’ingresso, anche se non c’erano tappeti da calpestare.
Saranno state le cinque, ma di gente lì intorno non se ne vedeva molta. Ero un po’ delusa, perché mi aspettavo di trovarvi più animazione. Ma un’ora più tardi, discendendo da una passeggiata su per la collina, mi si presentò uno spettacolo del tutto imprevisto: vie e spiazzo intorno a san Sergio formicolavano di gente, macchine parcheggiate dappertutto, altre stavano riempiendo un ampio prato poco distante. Mi domandavo dove avrebbero trovato posto tutte quelle che stavano salendo, formando una sequenza ininterrotta fino a dove arrivava l’occhio.
Non meno sorprendente era vedere che le persone lì convenute avevano messo da parte l’etichetta islamica: i giovani si mischiavano tra loro, molte ragazze e signore erano senza velo e, a volte, addirittura sbracciate.
Uno dei motivi per cui i cristiani lasciano l’Iran è di riacquistare la libertà di comportarsi in luogo pubblico come ci si comporta nel privato, tra familiari e amici. I doppi standard nel vestirsi, nei rapporti interpersonali, cui tutti sono costretti, cristiani e musulmani allo stesso modo, sono un aspetto assai poco piacevole della vita in questo paese.
Si può, dunque, capire l’aspirazione a liberarsi per sempre dalle rigide regole di comportamento imposte dalla Repubblica islamica, e non solo per poche ore, su a san Sergio. Di una libertà di tal fatta coloro che si trasferiscono in Occidente ne trovano in abbondanza.
C’è, però, chi ritiene che la presenza dei cristiani in questi luoghi continui ad avere un senso, anche nelle non facili condizioni in cui si trovano a vivere. Ne ebbi una conferma il giorno dopo, nell’incontro con l’arcivescovo caldeo di Urmia, mons. Thomas Meram.

CATTOLICI ASSIRO-CALDEI
Seppellita tra i vicoli di un vecchio quartiere di Urmia, non molto distante da quella assira, si trova la chiesa cattolica caldea.
Nel 1552, a seguito di una disputa sull’elezione del nuovo patriarca, all’interno della chiesa d’Oriente si verificò uno scisma. Coloro che non lo riconobbero ne elessero un altro, il quale l’anno successivo chiese e ottenne il riconoscimento di papa Giulio iii. Per la parte entrata in comunione con Roma si affermò da allora il termine «caldea». Il vecchio nome legato alla nazionalità, però, continuò a esercitare una certa attrazione, tanto che nel 1973 i caldei lo reinserirono: ora si chiamano ufficialmente «cattolici assiro-caldei».
La chiesa caldea di Urmia, un ampio edificio di recente costruzione, al momento della mia visita era deserta, finché arrivò il sacrestano a riordinare l’altare. Saputo che ero italiana, il signor Michail mi prese in simpatia e, vista la mia curiosità, mi domandò a bruciapelo se mi sarebbe piaciuto parlare con l’arcivescovo Thomas Meram, sempre che egli avesse tempo per ricevermi.
Di lì a poco, mi trovai di fronte un uomo sulla sessantina, in maniche di camicia, dai modi semplici e risoluti. Un incontro inaspettato per tutti e due. Da persona abituata a non perdere tempo in convenevoli, monsignore attaccò subito a parlare della sua comunità; nelle sue parole è risuonata quella nota di rimpianto che ben conoscevo: ai tempi dello scià i cristiani caldei erano 30 mila, adesso arrivano a malapena a 5 mila.
Quando era sacerdote a Teheran, nel 1977, mons. Meram conosceva personalmente le 1.600 famiglie della città, più altre 200 che non figuravano nei registri. Si celebravano 110 battesimi all’anno, 40 matrimoni. Ma adesso…
Adesso la gente se ne va in America, senza sapere neanche perché. Molti partono per ricongiungersi a parenti che vi abitano di già e che li chiamano. Non ci sono motivi gravi per lasciare il paese. «Qui possiamo praticare la nostra fede senza problemi – continua mons. Meram -. Quattro anni fa ho ricostruito la chiesa e un rappresentante del governo è venuto alla consacrazione; adesso stiamo costruendo una nuova sede arcivescovile».
Le sue parole si stavano facendo sempre più accalorate. «Penso che dobbiamo ringraziare Dio di vivere in un paese musulmano, in questo modo teniamo salda la nostra fede. E sì, perché l’Europa si sta scristianizzando. Guardi la Spagna. Zapatero non è un agnostico, ma uno che ha dichiarato guerra al cristianesimo. Tutto è lecito, ogni tipo di comportamento sessuale, ogni forma di manipolazione della vita.
Per un musulmano questa è la dimostrazione della superiorità della loro fede, e sa perché? Perché per loro l’Europa è una terra tutta cristiana, così come nei paesi islamici tutti sono musulmani. Per loro vale l’equazione: Europa = cristianesimo. Quindi, nella loro testa tutto ciò che accade in Europa è opera di cristiani. Così, quando è scoppiato il caso delle barzellette su Maometto, l’impressione che se ne è avuta qui è che siano stati dei cristiani a pubblicarle.
Quando il governatore della nostra provincia è venuto ad assistere a una messa in occasione dei 27 anni della rivoluzione islamica, giorno che coincideva con la presentazione di Cristo al tempio, ne ho approfittato per affrontare l’argomento. Gli ho spiegato che non bisogna mettere in conto quelle barzellette alla cristianità, perché in Europa, come nel resto del mondo, non esistono governi cristiani, semmai il contrario».
Le parole di mons. Meram non ammettevano repliche, né, d’altronde, io avrei avuto alcunché da replicare. L’arcivescovo di Urmia, che parlava un ottimo inglese, dimostrava di essere bene informato sulla situazione europea: era venuto diverse volte in Occidente e in quel momento davanti a lui, sul tavolo, c’era una nota rivista italiana d’attualità e politica.

Alla luce dei fatti recenti, qualcosa, però, si potrebbe aggiungere al suo discorso. Se è vero che i cristiani assiri e caldei non hanno motivi seri per abbandonare l’Iran, ciò non vale, purtroppo, per un altro paese musulmano. I loro confratelli che vivono al di là degli Zagros, in territorio iracheno, stanno attraversando uno dei peggiori periodi della loro storia millenaria: sono perseguitati per la loro fede e oggetto di continue minacce e violenze da parte di gruppi ed elementi che mirano alla totale islamizzazione del paese.
La cronaca riporta una serie continua di intimidazioni, attacchi a chiese e uccisioni di fedeli e religiosi. Nessuno è in grado di garantire la loro incolumità. Dal 2003 il numero dei cristiani in Iraq si è dimezzato e continua a diminuire. E come non fuggire, se per il solo fatto di portare al petto una croce si può essere impunemente ammazzati, come sotto i «Giovani turchi», che all’inizio del Novecento svuotarono il proprio paese della presenza cristiana?
Allora gli eccidi furono organizzati dal governo, adesso le violenze trovano terreno favorevole grazie al caos e alla mancanza di istituzioni credibili, ma il risultato potrebbe essere lo stesso. 

di Bianca Maria Balestra

Bianca Maria Balestra




MUKIRI: Uomo dell’acqua e costruttore di chiese

Fratel Giuseppe Argese, detto Mukiri: 50 anni a servizio della chiesa e degli africani

Lo scorso settembre ha celebrato senza rumore 50 anni di lavoro in Kenya: non per nulla la gente
lo chiama «Mukiri» (il silenzioso). Al suo posto parlano tante chiese costruite nella diocesi di Meru e, soprattutto, l’acquedotto di Tuuru, un’opera d’ingegneria idraulica che non cessa di stupire. Ma il più bello deve ancora venire, a Dio piacendo.

Porto di Mombasa, 27 settembre 1957. Un uomo scruta i volti di tutti i passeggeri che sbarcano dalla nave appena attraccata. «Tre preti e una suora» grida. Li trova finalmente: due preti, un fratello laico e una suora. «Haraka!» (sbrigatevi). Non c’è tempo per il benvenuto; il treno sta aspettando. Il tempo di arrivare alla stazione, prendere il biglietto del treno notturno per Nairobi e… benvenuti in Kenya!
Il giorno dopo, un missionario veterano li attende alla stazione di Nairobi. Rapidi saluti, una sbrigativa sosta all’ufficio immigrazione per le formalità, un cambio di macchina alla procura a Muthaiga, un «arrivederci» ai tre compagni di viaggio in mare e il giovane fratello, appena 25enne, comincia a prendere confidenza con le polverose strade verso il nord, destinazione: la città di Meru. Ci arriva il 29 settembre, dopo una nottata a Kyeni e un interminabile viaggio, serpeggiando su e giù per le colline nella rovente calura della stagione secca.
Giuseppe Argese, nato nel 1932, missionario della Consolata, è arrivato nella diocesi che segnerà per sempre la sua vita. Il vescovo mons. Lorenzo Bessone è in Italia; a dargli il benvenuto è fratel Francesco Costardi, non ancora 33enne, arrivato in Kenya all’inizio dello stesso anno, con l’incarico di costruire la cattedrale di Meru, che spunta appena dalle fondamenta. Per dicembre è previsto l’arrivo di altri tre fratelli: Giovanni Comaron, Dino Bottaro e Bruno Bessani; ma saranno destinati a costruire un santuario dedicato alla Consolata a Karatina, per ringraziarla del ritorno in Kenya dei missionari che, durante la seconda guerra mondiale, erano stati portati in campo di concentramento in Sudafrica. Progetto mai decollato e poi costruito a Nairobi.
Il giorno dopo, 30 settembre, fratel Costardi si ammala ed è portato all’ospedale. Fratel Argese si trova solo a dirigere la costruzione della cattedrale: 80 lavoratori aspettano pazientemente le sue direttive.
È troppo! Due settimane prima era ancora in Italia e, all’improvviso, eccolo là, con una cattedrale tutta da costruire. Si rifugia nella sua camera e si siede sconsolato sul baule. Dopo pranzo prende la decisione: se una cosa va fatta, è meglio affrontarla subito. Esce e comincia a lavorare con gli 80 uomini.
La cattedrale cresce; artigiani e muratori si abituano al nuovo capo che non sa una parola della loro lingua (il kemeru), ma migliora di giorno in giorno nella comunicazione non verbale.?Tre anni dopo, il 10 settembre 1960, la cattedrale viene ufficialmente inaugurata.

COSTRUTTORE DI CHIESE

Quando mons. Bessone si stabilì a Meru, gli unici edifici in pietra nella diocesi erano l’abitazione dei missionari e la chiesa a Kyeni. La casa era stata costruita in pietra per motivi di sicurezza durante il periodo dell’emergenza mau-mau; ma la chiesa era in condizioni tali che poteva crollare da un momento all’altro.
A quei tempi, i fratelli abitavano a Meru, insieme al vescovo, ma operavano su tutto l’immenso territorio della diocesi, oggi suddiviso nelle diocesi di Meru, Embu, Garissa, parte di Malindi e vicariato di Isiolo.
La cattedrale di Meru è una delle tante chiese costruite dal gruppo dei missionari fratelli. Ma quasi tutte le chiese della diocesi di Meru portano l’impronta di fratel Argese: quella di Chuka, costruita nello stesso periodo della cattedrale, quella di Muthambe con colonne in calcestruzzo, e poi Egoji, Mkabone, Kianjai e Mujwa.
Anche a Isiolo la prima chiesa fu opera sua, provvisoria anch’essa, perché mancava l’autorizzazione per costruire strutture permanenti.
Correva l’anno 1963. Don Luigi Locati era giunto a Meru per aprire una missione affidata ai preti fidei donum della diocesi di Vercelli. Fratel Argese, su incarico del vescovo, portò il prete vercellese in lungo e in largo attraverso la diocesi, dal Tharaka a Garissa, da Wajir a Chuka, da Embu a Isiolo: qui don Luigi decise di fondare la nuova missione e il fratello gli costruì la prima chiesa e prima casa.
Quante volte fratel Argese, da solo, si recò a Merti, per portare acqua e viveri ai costruttori di una scuola-cappella. Sono quasi 300 km da Isiolo, in una regione desertica in cui incontrava solo la pattuglia della polizia, che si recava da quelle parti una volta la settimana.
Dopo 11 anni, nel 1968, fratel Argese toò in Italia. Fece appena in tempo a godersi le vacanze, che fu chiamato a risolvere i problemi della costruzione del santuario della Consolata a Nairobi: le fondamenta erano state fatte male, mettendo a rischio la stabilità di tutta la struttura in cemento armato.?Vi restò per sei mesi, quindi toò a Meru, ma si ammalò e dovette stare per qualche mese in ospedale.
Intanto crescevano altre chiese a Tuuru, Laare, Maua, Kirwa, Adero… L’ultima la sta costruendo con pazienza nel campo base dell’acquedotto di Mukululu.

ACQUA, PER FAVORE!

La passione di costruire chiese non lo ha mai lasciato, ma ciò che accadde nel 1967 cambiò per sempre la sua vita. Padre Franco Soldati aveva aperto, nella missione di Tuuru, un centro per bambini colpiti da poliomielite, una malattia epidemica nella zona di Igembe per la scarsità di acqua e igiene. La missione di Tuuru, come tutta l’area dell’Igembe, si stende su uno spesso strato di detriti vulcanici, privo di acqua potabile, fiumi o sorgenti. Il centro si trovò quasi subito a dovere affrontare il problema dell’acqua. Padre Franco lanciò la sfida a fratel Argese: «Hai trovato acqua per altri, trovala anche per noi!».
In altre località, come Chuka, Mujwa, Egoji, Mikinduri, grazie all’abbondanza di acqua, erano state costruite scuole, chiese e altre opere sociali. Nell’Igembe, invece, per la scarsità di acqua, era tutto in situazione di stallo, evangelizzazione compresa.
«Dateci l’acqua, per favore!». Più facile a dirsi che a farsi. Gli anziani del luogo avevano rivelato con riluttanza a padre Franco che nel profondo della foresta del monte Nyambene c’era una sorgente perenne, dove erano soliti recarsi per fare i loro sacrifici e celebrazioni. La foresta era a 25 km di distanza. Come fare per portare l’acqua fino a Tuuru?
Per fratel Argese era un grande rompicapo, finché entrò nella foresta, fece misurazioni varie, tracciò schizzi, disegnò mappe, studiò testi che trattavano di tubature, dighe, cistee, pressione… ed ecco scaturire il progetto da presentare al vescovo.
– Monsignore, sfruttando la legge di gravità, è possibile portare l’acqua dalla montagna fino a Tuuru.
– Va bene, ma dove troviamo i soldi?
– Monsignore, lei mi ha chiesto se fosse possibile ottenere l’acqua; ora, l’acqua è là, il progetto è qui; ci sono problemi, certo, ma se la cosa deve essere fatta, i soldi arriveranno.
«Non ho soldi» era un ritornello sentito tante volte, quando si trattava di costruire le chiese. «Mi faceva innervosire che monsignore buttasse tutto all’aria per questione di soldi -racconta fratel Argese -. Ci furono anche momenti di tensione. A volte, a Meru, quando ci incontravamo, facevamo percorsi diversi nella casa. Però, non smettemmo mai di cornoperare lealmente, alla ricerca di ciò che era meglio per la gente e la diocesi. Non lo adulavo mai; ma quando morì, piansi e piansi molto! E poi, il denaro necessario arrivava sempre».

Zappe Sì, caterpillar no

Uscito dall’ospedale, nel 1969, fratel Argese ebbe una bella notizia: Misereor, l’organizzazione della Conferenza episcopale tedesca, aveva approvato la prima fase del progetto idrico: 700 mila marchi. E si mise subito all’opera per allestire il campo base a Mukululu, vicino a una cappella fatta di pali, fango e tetto di paglia.
Dalla Germania, i sostenitori del progetto volevano che si comprasse un caterpillar per accelerare lo spostamento della terra e completare l’opera in pochi mesi. Ma fratel Argese non ne volle sapere. Un caterpillar avrebbe distrutto le piccole shambas (campi coltivati) dove doveva passare la conduttura principale. Inoltre, con il costo di una tale macchina avrebbe potuto pagare per più di tre anni il salario di 100 lavoratori, armati di zappe, pale e carriole. Il progetto risultò essere una gran benedizione per la popolazione locale: lavoro e acqua, oltre alla riduzione al minimo dell’impatto ambientale.
Nel gennaio del 1970 si iniziò a scavare. Il tempo non costituiva un problema. Per gente abituata da secoli a disporre di poca acqua, un giorno o un anno in più non avrebbero fatto tanta differenza. Il fattore tempo, però, una differenza l’ha fatta, e grossa pure: il fatto che nell’arco di quasi 40 anni siano state impegnate centinaia, anzi, migliaia di persone, ha fatto sì che il progetto arrivasse nel profondo del cuore della popolazione locale: non era un’opera calata dall’alto da un’efficiente Ong straniera, che arriva e se ne va; ma un progetto fatto con la gente, dalla gente e per la gente.

Goccia a goccia

Nonostante i timori di monsignore, il denaro arrivò fin dall’inizio del Tuuru Water Scheme (Progetto acquedotto di Tuuru) da donatori stranieri e harambee locali. Sono stati investiti milioni di dollari provenienti da vari paesi. Fratel Argese rimane sbalordito quando pensa al sostegno straordinario proveniente da ogni parte.
Come avviene nella foresta, dove l’acqua è raccolta goccia a goccia, formando milioni di litri per rispondere al fabbisogno quotidiano della gente, allo stesso modo, il danaro necessario è stillato goccia a goccia: un marco sull’altro, una peseta sull’altra, una lira sull’altra, un fiorino sull’altro, un euro sull’altro, un dollaro sull’altro… e persino uno scellino sull’altro!
Ed ecco i risultati. Un progetto nato su scala ridotta, è diventato una rete di oltre 250 km di condutture, decine di cistee e migliaia di punti di distribuzione: ogni giorno vengono distribuiti quasi 4 milioni di litri d’acqua a oltre 250 mila persone, più di 40 mila capi di bestiame, 20 mila pecore e capre. E il progetto continua, per rispondere alle necessità della gente nelle zone più remote.
L’acqua ha cambiato la vita alla regione: la poliomielite è quasi scomparsa, villaggi e commerci sono spuntati come funghi intorno ai punti di erogazione, le scuole sono progredite, la popolazione è cresciuta, le donne sono state liberate dalla schiavitù di dover attingere acqua in luoghi lontani e pericolosi, l’igiene personale è diventata più agevole, tanti uomini possono avere un lavoro fisso, molti hanno imparato nuovi mestieri, i problemi di salute si sono ridotti (anche se ne sono sorti altri, come quelli legati al consumo delle foglie narcotiche della miraa).
Si dice che una goccia fa traboccare il vaso; ma in questo caso le gocce d’acqua raccolte con pazienza nella foresta del Nyambene hanno messo in moto un lento ma solido processo di cambiamenti di un distretto che, negli anni ’60, era uno dei più poveri ed emarginati del Kenya.

Mukiri

Dietro a tutto ciò, ecco il nostro uomo, il costruttore di chiese, l’uomo dell’acqua, come è chiamato dalla gente del posto. Il Tuuru Water Scheme ha impegnato gli anni migliori della sua vita. A 75 anni (compiuti il giorno di san Martino), l’uomo ha perduto l’agilità e vigore fisico che aveva quel pomeriggio del 30 settembre 1957, quando iniziò a lavorare alla cattedrale di Meru; la sua mente, però, è più lucida che mai, non solo nel seguire la miriade di progetti intrapresi, ma anche nel pensare a qualcosa di nuovo e imprevedibile.
Per conoscere quest’uomo un po’ più da vicino, curiosiamo fra i suoi libri! Entrando nella sua casetta di tronchi d’albero, a sinistra troviamo scaffali zeppi di libri messi alla rinfusa. Ci sono, naturalmente, libri relativi all’acqua: prese, pompe, dighe, depurazione, tubature, foreste pluviali e così via.?Testi su arte muraria, edilizia e architettura, carpenteria e falegnameria, disegno tecnico e di rilevamento. C’è una nutrita selezione di testi religiosi, sulla sua famiglia, i missionari della Consolata, sulla chiesa in Kenya, spiritualità, vite di santi, sacra scrittura, storia della chiesa.
La storia dell’evangelizzazione lo appassiona: conosce a memoria gli episodi più significativi dell’evangelizzazione dell’Africa e del Kenya in particolare. E poi libri su geografia, popoli e culture del paese di adozione. Infine, e non ci sorprende conoscendo l’uomo, libri su agricoltura, frutteti, fiori, insetti e uccelli, colture resistenti alla siccità e una sezione speciale su ulivi e vigneti. In più, libri su cure con erbe medicinali e metodi naturali.
Su un altro scaffale, libri scelti di cucina, su come preparare marmellate e, perché no, su come fare del buon formaggio. Ci sono pure libri fotografici, sulla sua bella città natale, Martina Franca, sull’Africa, il Kenya e il suo acquedotto… Anch’esso è stato fotografato dentro e fuori, descritto in libri e in video. Non troviamo molti romanzi; quei pochi, si può arguire, sono regali di amici che hanno goduto della sua squisita ospitalità.
Prima di arrivare in Africa, fratel Argese aveva frequentato un corso di edilizia per corrispondenza presso un istituto professionale di Luino, ma non lo aveva terminato. Lo ha completato sul campo, con la costruzione della cattedrale di Meru, fino a diventare, a livello mondiale, un esperto nel raccogliere l’acqua nella foresta equatoriale e un grande ambientalista. Le due realtà, infatti, sono strettamente connesse: la foresta può fornire acqua solo se rimane nelle condizioni originarie.
Difendere la foresta del Nyambene da disboscamento e speculazione edilizia è stata una priorità, portata avanti dalla gestione dell’acquedotto di Tuuru da parte della diocesi di Meru.?Tale impresa, però, è aperta a molte iniziative: dalla cooperazione con università locali e straniere al coinvolgimento di entomologi, botanici, oitologi, zoologi per scoprire biodiversità e peculiarità di una foresta speciale come quella del Nyambene; da campagne educative nelle scuole a dibattiti con le comunità circostanti; da attività di promozione agro-turistica a istruttive visite guidate; da documentari filmati a pubblicazioni.
La gente del luogo lo chiama «mukiri», il silenzioso. Fratel Argese è, infatti, un uomo di azione più che di parole; la sua comunicazione, essenziale, misurata e diretta, è scevra di inutili giri di parole. I suoi operai hanno imparato ad ascoltarlo attentamente, perché non ama ripetere le cose. Insegnamento di base, comunicazione chiara e fiducia sono il fondamento su cui ha costruito il rapporto con i suoi lavoratori.
È questo il segreto delle molte attività che porta avanti da Mukululu. Un lavoro su quattro fronti: progetto idrico, fattoria e vigneto di Liliaba, costruzione del santuario della Consolata, attività di consulenza in tutti i progetti di sviluppo diocesani.

Mukiri tagli la torta della festa con padre Aquileo Fiorentini, allora superiore generale

Il Missionario

Quando aprì il campo di Mukululu, Mukiri poteva condividere la sua fede con una manciata di cattolici nella cappella di fango. Non ha avuto tempo di fare catechesi o altre attività di evangelizzazione diretta; eppure oggi la comunità conta più di 2.500 fedeli. La capanna originaria è rimpiazzata da una bellissima chiesa, consacrata nel 1986, 75º anniversario dell’evangelizzazione del Meru, dal vescovo Silas Njiru, che l’ha dichiarata santuario diocesano dedicato alla Madonna Consolata. E la chiesa è diventata troppo piccola per accogliere tutti la domenica. Così, dal 1996, ha iniziato ad ampliarla.
Il santuario è cresciuto insieme alla comunità e in base ai ritmi di lavoro imposti dalla costruzione dell’acquedotto; si è innalzato pietra su pietra, in un’armoniosa combinazione di colori diversi: pietre marroni, rosse, rosa, gialle, nere, bianche… tagliate dagli scalpellini, come nella costruzione delle cattedrali medievali, ciascuna con la sua forma particolare, secondo la posizione specifica da occupare nell’edificio: eloquente immagine della chiesa vivente, dove ogni singola persona è una pietra viva, posta sulle fondamenta della pietra angolare che è Gesù Cristo.
Il santuario è la sintesi dello stile di evangelizzazione di Mukiri: costruisci la persona nella sua pienezza e ne farai un cristiano che dà gloria a Dio; e potrebbe essere il paradigma della relazione tra evangelizzazione e promozione umana: due facce della stessa azione salvifica di Dio. È lo stile dell’Allamano, che ai suoi missionari partenti per la missione tra gli africani raccomandava: «Fateli prima uomini e poi cristiani».

SOGNI SENZA Tramonto

A 75 anni, Mukiri è consapevole che non può essere attivo come ai vecchi tempi, ma va avanti, riposando un po’ di più e spronando altri ad assumere le responsabilità. Nel luglio scorso si è realizzato un altro sogno: dopo 7 anni di duro lavoro, ha visto riempirsi la seconda diga sul fiume Ura, che ha una capacità di 55 mila metri cubi. Ad agosto l’ha vista tracimare, così pure all’inizio di ottobre: ormai l’acquedotto di Tuuru può affrontare le siccità più spaventose.
E Mukiri può dedicare più tempo alla costruzione del santuario, alla vigna piantata a Liliaba, dove una volta c’era un campo di prigionia mau-mau. Gli amici lo aiutano a piantare nuovi vitigni e migliorare la qualità del vino. I vescovi lo incoraggiano a produrre vino da messa di qualità. Ma la sua più grande soddisfazione è vedere che circa 200 famiglie hanno piantato le viti nelle proprie shambas e sono in grado di vendere 20-50-100 kg di uva. Non è molto, ma aiuta i magri introiti familiari.
Eppure, di fronte alla crescente domanda d’acqua in altre aree del Nyambene, Mukiri ha un ultimo grande sogno: una terza diga nella foresta, capace di quasi 1 milione di metri cubi! Un’impresa ciclopica, che solo un uomo di fede come lui è in grado di sognare. Costerà milioni di ore di lavoro e miliardi di scellini… La gente lo vuole e ha bisogno di lavorare; di tempo ce n’è in abbondanza; il progetto è quasi pronto e i donatori sono interessati; presto sarà contattato il governo per le necessarie autorizzazioni. Riuscirà a vedere anche questa diga tracimare? Mukiri non lo sa e non gli importa di saperlo. Se deve essere fatta (cioè, se Dio lo vuole), sarà fatta, perché Dio provvederà!

Luigi Anataloni




Cari missionari

Missionario del cuore

Carissimi missionari,
ho 30 anni e da 7 conoscevo padre Alex Signorelli attraverso la corrispondenza. Sapevo che non stava bene, ma la sua morte mi addolora molto: ho perso il mio missionario del cuore, colui che sapeva far fruttare al meglio l’offerta che gli inviavo; sono rimasta orfana.
All’epoca del primo contatto epistolare volevo solo aiutare un missionario, ma attraverso lui ho conosciuto il mondo della Consolata e sono stata catapultata nelle vostre missioni: una finestra aperta su una parte del mondo che troppo spesso fingiamo non esista. Non ringrazierò mai abbastanza la Provvidenza per questo incontro, fortuito quanto fortunato.
Ma ora cosa debbo fare? Vorrei continuare a sostenere i suoi progetti in Kenya, ma voglio un nome:  quello di chi si occupa di quelle missioni oggi o, in alternativa il nome del missionario più disagiato e in difficoltà. Voglio un nome, una storia, un volto, perché sostenere le missioni non è solo inviare denaro; quasi che attraverso un’offerta si possa lavarci la coscienza, sentirci a posto. Non potremo mai sentirci con la coscienza a posto. Voglio partecipare a quella missione, conoscere le difficoltà, essere parte attiva anche e soprattutto con la preghiera.
Mi rendo conto che la vita mi ha dato molto, e non parlo di denaro; sarei la più grande egoista e ingrata se non condividessi con gli altri ciò che il Signore, generosamente, mi ha donato. Vi prego, quindi di segnalarmi quel nome. Anche se non potrà sostituire padre Alex, per me impresso nel cuore, sarò lieta di aiutarlo come e quanto più posso.
Patrizia De Angelis
via e-mail

Grazie per il suo affetto verso padre Alex e i missionari della Consolata. Ho inviato il suo messaggio al superiore del Kenya e spero che le sia stato comunicato il nome di un nuovo «missionario del cuore».  

Buona o mala… fede?

Spett. Redazione,
ho letto sul numero di dicembre 2007 l’intervista a don Capovilla e mi ha colpito la totale noncuranza verso i problemi dei bambini palestinesi: non una parola sul fatto che nelle scuole venga loro insegnato a combattere e siano indottrinati sul bello del farsi esplodere; non una parola sui miliardi destinati alla gente, ma che la vedova di Arafat si gode all’estero.
La semplificazione dei problemi è una bella cosa, ma tacere sugli attentati e guerre subite da Israele (che è sempre stato attaccato dagli arabi, mai viceversa) e sul fatto che la spianata delle moschee non sia uno dei tre luoghi sacri dell’islam, ma «semplicemente» la spianata del tempio, quindi sacro per tutti i «popoli del libro», ma da molti anni frequentabile solo dai musulmani, fa sospettare una mancanza di buona fede.
Mi risulta che il papa Giovanni Paolo ii sia potuto andare a pregare al Muro del pianto, ma non sulla spianata; sono stati i palestinesi a entrare in armi nelle chiese di Betlemme, non i soldati israeliani. Quindi sembra che non ci sia quell’enorme tolleranza verso i cristiani.
Mi sarei quindi aspettato un riassunto storico della situazione, o comunque un’altra voce, oltre alla pubblicità, neppure velata, dei libri dell’intervistato. Certa che la parzialità sia stata casuale e non finalizzata alla suddetta pubblicità, cordiali saluti.
Luisa Pellegrino
via e-mail

L’intervista in questione vuole solo far conoscere una iniziativa a sostegno degli arabo-cristiani ancora presenti in Israele-Palestina, ugualmente mal sopportati da ebrei e musulmani. Ad onor del vero, più di una persona ha telefonato in redazione per conoscere meglio tale iniziativa. Una risposta di don Capovilla sarà pubblicata su MC il prossimo mese.

La coca non è un affare… privato

Cari missionari,
vedo con piacere che il dottor Sandro Calvani continua a collaborare attivamente con la vostra redazione. Ho molta stima di quest’uomo: per me era già un personaggio speciale all’inizio degli anni ‘80, quando, invitato dai direttori dei centri missionari diocesani di Fano e Urbino, veniva a parlarci delle sue esperienze in Etiopia e far conoscere il mondo del  volontariato internazionale.
La scorsa estate l’ho rivisto, dopo tanto tempo, in televisione (Superquark Rai Uno 23/8/07) e spero che tante altre persone abbiano ascoltato il messaggio che, dalla martoriata Colombia, ha rivolto a tutti gli italiani: siamo il paese dove il consumo di cocaina sta aumentando più velocemente; tale consumo, oltre a devastare i cervelli e arrecare danni incalcolabili alla nostra salute ed economia (pensiamo a ciò che accade quando un cocainomane si mette alla guida di un automezzo…), sta portando la Colombia al collasso ecologico: per coltivare la coca, vengono spazzate via decine di migliaia di chilometri quadrati di foresta equatoriale e, per raffinarla, si usano sostanze chimiche che inquinano fiumi, laghi e falde con conseguenze irreparabili per tutto l’ecosistema.
Alla voce di Calvani si è unita quella di un capo indio: anche lui ha ribadito il concetto che chi si droga, in Europa e altri paesi cosiddetti sviluppati, contribuisce al degrado dell’Amazzonia colombiana, boliviana, peruviana, brasiliana e deve smetterla; deve smettere di pensare al consumo di stupefacenti come a un fatto privato!
Mi auguro che le parole di Calvani, del capo indio e di coloro che li hanno intervistati siano prese in attenta considerazione anche dai nostri legislatori, magistrati, avvocati, deputati e senatori, specie da quelli che si definiscono… verdi. Spero che il verde che sono impegnati a difendere sia quello delle foreste naturali, non quello delle piantagioni di coca. Difenderli tutti e due non è possibile: la storia raccontata della Colombia lo insegna.
Il discorso vale anche per i paesi asiatici produttori di marijuana e papavero da oppio (Afghanistan, Birmania, Laos, Thailandia) perché anche lì droga vuol dire deforestazione, perdita del patrimonio di biodiversità, degrado delle risorse idriche, dissesto del territorio… oltre che, manco a dirlo, allontanamento delle prospettive di riconciliazione e di pace. No, cari amici verdi, anticapitalisti e no global: non è possibile far coesistere antiproibizionismo e impegno ecologista, così come non è possibile conciliare il libero commercio degli armamenti con la pace.
No, cari amici della sinistra alternativa: non si può fare opposizione credibile ed efficace al neoliberismo se si rinuncia all’opzione fondamentale per la non violenza (che vuol dire, tra l’altro, no all’abortismo, agli atti di teppismo e vandalismo…), e all’opzione fondamentale per la sobrietà, che vuol dire anche no all’alcornol e no alla droga, pesante e leggera.
Sono d’accordo con voi quando criticate la Legge Biagi, il Pacchetto Treu e l’estealizzazione (ultimo elegante modo per non dire – o dire senza creare troppa apprensione – che anche chi ha un contratto a tempo indeterminato può ritrovarsi precario, sottoccupato, disoccupato…); lo sono anche quando invocate pene più severe per chi incendia i nostri boschi e uccide i nostri orsi, lupi, delfini, tartarughe; non lo sono invece quando dite che drogarsi non è un reato.
Ci sono tanti modi per provocare la morte dei boschi e del mare, uomini e animali. Dopo aver visto e sentito Calvani e il capo indio della Colombia, non vedo per quale motivo dovrei considerare la cocainomania meno grave – anche sotto il profilo delle ricadute ecologiche – della piromania e il consumatore di sostanze stupefacenti prodotte e magari anche raffinate in un paese asiatico, africano e latinoamericano, meno colpevole degli scellerati che a Peschici e a Patti (senza dimenticare gli incendi in Grecia, Spagna, Portogallo, Australia, Califoia…) hanno provato tanto lutto e tanta distruzione.
Grazie per l’attenzione.
Silvano Montenigri
Fano (PU)

OCCHIO A… FRUTTA E VERDURA

Spett.le Redazione,
sono meravigliato che una rivista come Missioni Consolata possa ospitare un articolo sugli antiparassitari, come quello pubblicato sul n. 9 di settembre 2007, senza sentire il dovere di pubblicare contemporaneamente un altro articolo in contrapposizione a quante ragioni ci sarebbero a smentita dei cata- strofisti di professione e da parte di esperti di notorietà nazionale e internazionale! Non si può spaventare la gente con un quadro così terrificante, come è evidenziato nell’articolo!
La frutta e la verdura fanno bene alla salute (lo dicono gli esperti, lo dicono tutti), e, grazie anche ad esse, l’età media della vita degli italiani è aumentata notevolmente; e questo vorrà dire pure qualcosa, con buona pace di chi, incredibilmente, voleva (e vuole) bandire la chimica dai campi.  Tra l’altro, frutta e verdura di produzione italiana sono considerate (e non sono io a dirlo) tra quelle più sicure in Europa. Certo, ci sono e ci saranno sempre dei casi di chi produce, colpevolmente, non secondo regole e coscienza. Ma questo è un altro discorso. Cordiali saluti.
Ottavio Molinaroli
San Giovanni Lupatoto (VR)

Gentile sig. Molinaroli,
è del tutto estraneo al nostro pensiero il concetto di bandire frutta e verdura della nostra tavola: esse apportano vitamine, oligoelementi e fibre, essenziali per la nostra salute; in questo senso, non possiamo che essere concordi con lei.
Pur nel rispetto della sua opinione, ci permettiamo di dissentire sulla sua difesa dell’uso della chimica in agricoltura, uso talvolta del tutto privo di controllo, correttezza e buon senso. La chimica ha sicuramente contribuito al progresso dell’uomo in molti settori, compreso quello farmaceutico. È innegabile l’aiuto dato da molti composti nell’eliminazione o limitazione di certe patologie, ma si tratta appunto di patologie, per le quali l’uso di un farmaco è mirato. Con la frutta e la verdura trattate con fitofarmaci, ci ritroviamo ad assumere inconsapevolmente delle sostanze chimiche presenti in tali alimenti e queste sostanze non solo non hanno lo scopo di preservare la nostra salute, ma molto spesso la possono danneggiare. Chi può garantire che tracce di pesticidi, una volta nel nostro organismo, non provochino patologie imprevedibili? Nessuno! Inoltre, perché rischiare di ammalarci con frutta e verdura trattate, solo per favorire gli interessi di certe multinazionali, nonché di agricoltori e commercianti senza scrupoli?
È da considerare, poi, che l’uso dei fitofarmaci in agricoltura non si è rivelato quella panacea per tutti i mali, che alcuni scienziati (spesso al soldo delle multinazionali dei pesticidi) ostentano nelle loro pubblicazioni. Basta dare uno sguardo ai risultati di certe ricerche, come quelle condotte per conto dell’Indian Council for Agricoltural Research, le quali sono giunte alla conclusione che in India, nonostante il massiccio impiego di pesticidi, attualmente il 35% del raccolto risulta danneggiato, mentre negli anni precedenti all’uso di tali sostanze, la percentuale di prodotti danneggiati oscillava tra il 5% e il 10%. Inoltre, a seguito dell’uso dei pesticidi, si sono moltiplicate le varietà di insetti nocivi; ad esempio, gli infestanti del riso sono passati da 40 specie nel 1920 a 299 nel 1992, grazie al fenomeno della resistenza ai prodotti chimici. E tutto questo, nonostante la produzione e l’impiego dei pesticidi siano continuati ad aumentare.
Ciò che auspichiamo è una maggiore informazione sul trattamento che i prodotti ortofrutticoli hanno subito, perché il cittadino ha il diritto di sapere cosa mette in tavola e, soprattutto, di tutelare la propria salute a partire da una scelta ragionata al momento dell’acquisto. In ogni caso, ci pare oltremodo discutibile anteporre alla salute delle persone gli interessi economici dei produttori e commercianti sia dei pesticidi che dei prodotti ortofrutticoli con essi trattati. Cordiali saluti.
Dr. Roberto Topino
Dr.ssa Rosanna Novara




Quale pace per il Kenya?

Dopo l’«indigestione» di notizie del mese scorso, per il Kenya c’è il rischio molto alto che i riflettori si spengano su questo come su altri paesi africani. Basti pensare alla copertura mediatica offerta un anno fa, sempre nel mese di gennaio, per il primo World Social Forum organizzato in Africa, proprio a Nairobi: un silenzio imbarazzante, interrotto da pochi lanci di agenzia disseminati qua e là fra le pagine dei maggiori quotidiani.
I fatti di violenza di un mese fa, scatenati dalla contestata elezione presidenziale, sono stati amplificati anche dal fatto che un buon numero di nostri connazionali fosse andato a svernare sulle spiagge del paradiso artificiale di Malindi. Grazie anche a un certo gusto del macabro, che sempre aiuta a vendere bene il prodotto, anche in Italia ci si è resi conto che il Kenya è ben di più che gli scorci da cartolina della sua costa. Si sono scoperte località ai più sconosciute, come Kisumu e Eldoret, e si è fatto capolino nelle periferie disagiate di Nairobi: Kibera, Korogocho.
Nel racconto delle violenze ci si è soffermati sulle lotte tribali che hanno insanguinato il paese: Luo, Luia, Kalenjin, gruppi che si sentono emarginati dalla vita politica ed economica del paese, che si trova invece saldamente nelle mani dei Kikuyu. Sicuramente questo è un elemento da tenere sempre presente e da approfondire quando si affrontano problemi africani: non si capiscono la storia e la vita politica di un paese se non si considerano i rapporti fra le diverse etnie che lo colorano demograficamente. L’errore, semmai, è quello di sdoganare la questione etnica come l’unica possibile ragione del fallimento post-coloniale della maggior parte degli stati africani.
Sicuramente, rimangono moltissimi punti interrogativi che l’analisi offerta dagli organi d’informazione occidentali, specie europei, non ha neppure sfiorato. Occorre, a mio giudizio, andare al di là del giudizio di colpevolezza attribuito in forma univoca all’odio tribale, facile da comprendere e di forte impatto emotivo per la nostra gente. Pensare, però, che le sommosse e le violenze siano da imputare solamente a questo fattore non solo non aiuta a spiegare il fenomeno nella sua complessità, ma serve a nascondere quelle che sono in realtà le nostre responsabilità in quanto occidentali ed europei.
I tumulti del mese passato sono infatti un atto di accusa all’atteggiamento aggressivo dei paesi industrializzati (e multinazionali che ne muovono le fila) nei confronti di un continente malato e volutamente lasciato in lungo-degenza da quelle stesse potenze occidentali che oggi cercano la mediazione politica fra le parti in conflitto. Ipocrisia bella e buona di chi finora si è solamente interessato del Kenya «utile»: quello delle località turistiche, regione oggetto di investimenti, paese delle «zone franche» per l’industria tessile e dei fiori. Facile battuta, ma in Kenya, per davvero, «non è tutto rose e fiori». Anche gli slums di Nairobi, dove alberga un’umanità di milioni di disperati, ci dice che l’odio tribale è una concausa (se non una scusa) del malessere di un intero continente. Lì dove la forbice tra ricchi e poveri è così tragicamente aperta, dove la sperequazione è troppo evidente per non sfociare nell’ingiustizia, fa molto più comodo una guerra fra poveri che non una coalizione, anche pacifica, dei poveri contro il sistema.

All’Africa delle nuove conquiste coloniali corrisponde, come conseguenza, l’Africa malata, il continente delle tragedie, dei profughi, degli interi villaggi decimati dalla guerra o Aids. La situazione che oggi si è venuta a creare in Kenya interpella moltissimi di noi, agenti di pastorale a vari livelli, esercito di «buoni samaritani», sempre pronti a mettere le bende lì dove le ferite sanguinano, ma forse non così decisivi nell’analizzare, informare e denunciare le cause di ciò che provoca tanta sofferenza nei più poveri, in coloro che sempre rimangono ai margini e non hanno voce in capitolo.
Questi fatti dovrebbero aiutarci a valutare il modo in cui, oggi, ci presentiamo nelle nostre attività di evangelizzazione e promozione umana, spingendoci a riflettere, per esempio, sul modo in cui formiamo le persone che inviamo in Kenya o in altri paesi africani, sia per brevi viaggi di conoscenza come per più lunghi periodi di volontariato a sostegno delle missioni. In che misura aiutiamo queste persone a leggere una realtà di disagio, molto più complessa di quella che si può cogliere in superficie e di come ci viene raccontata dai nostri mezzi di comunicazione?

Antonio Rovelli