Il ritorno dell’ebola

Malattie dimenticate (13): ebola

La febbre emorragica di ebola è stata segnalata di nuovo nella Repubblica Democratica del Congo, con un’epidemia iniziata prima dell’estate.

Ancora una volta si è fatto vivo, e ha portato paura e morte. Paura, perché i virus che causano le febbri emorragiche, come Ebola e Marburg, portano con loro non solo la preoccupazione della morte, ma anche lo spavento per qualcosa di contagioso, che non si capisce; per la vista di uomini in tute bianche, completamente coperti, con guanti, stivali, maschere, che vengono in casa per vedere malati o per portare via i morti. Morti che non possono essere toccati dai parenti, che vengono seppelliti secondo precise norme per bloccare la diffusione della malattia.

Epidemia dimenticata
L’allarme è scattato in settembre nella Repubblica Democratica del Congo, dove l’epidemia di febbre emorragica da virus Ebola, a quanto sembra più contenuta di quella del simile virus di Marburg di qualche anno fa in Angola, ha seminato preoccupazione e morte. Ma se l’epidemia di Marburg in Angola aveva trovato un po’ di spazio nelle cronache italiane, davvero poca risonanza ha avuto questa nuova comparsa del virus Ebola, dimenticata e relegata al paese lontano.
Non sono noti i numeri precisi delle persone infettate e di quelle che hanno perso la vita a causa del virus, e quindi le dimensioni dell’epidemia attuale. Secondo gli ultimi conteggi di inizio ottobre, dall’inizio di maggio ci sarebbero stati oltre 380 casi sospetti, fra cui 176 morti.
L’aggettivo «sospetti» viene mantenuto, perché solo in una minima percentuale di casi è stato possibile avere la conferma di laboratorio. Il dato numerico è ulteriormente in sospeso perché in questo stesso periodo l’Ebola non è l’unica infezione che circola: è stato infatti trovato un altro germe, la Shigella, responsabile di un’infezione intestinale con dissenteria. Oltre alla Shigella, l’Ong Medici senza frontiere segnala come nella zona vi siano altre malattie con manifestazioni simili a quelle iniziali della febbre di Ebola, come malaria e febbre tifoide.
In ogni caso, all’inizio di ottobre i casi di Ebola confermati dagli esami di laboratorio erano 24 e l’ultima vittima del virus risalirebbe al 22 settembre: un paziente morto nel reparto di isolamento allestito da Medici senza frontiere a Kampungu, un villaggio nella zona più colpita del paese.

La febbre mortale
Il virus responsabile della febbre emorragica di Ebola viene trasmesso dal contatto con materiale infetto, come sangue, vomito, diarrea e così via. Possono dunque essere pericolose per la trasmissione della malattia anche le cerimonie funebri, per il contatto diretto dei parenti con la persona cara morta a causa dell’Ebola.
L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) riporta come, dopo un periodo di incubazione che può variare da due giorni a tre settimane, l’infezione si manifesti con febbre, debolezza importante, dolori muscolari, mal di gola, spesso seguiti da vomito, diarrea, manifestazioni sulla pelle, disturbi alla funzione del rene e del fegato e, in alcuni casi, emorragie intee ed estee. Da qui il nome di febbre emorragica.
La malattia è mortale nel 50-90% dei casi. Non vi sono terapie specifiche, se non cure di supporto, per esempio, per la disidratazione; al momento non sono nemmeno disponibili vaccini. I casi in cui si sospetta l’infezione da virus Ebola vengono isolati, per impedire la diffusione del contagio. Nella Repubblica Democratica del Congo, per esempio, Medici senza frontiere ha allestito a Kampungu un centro di isolamento, che prevede tre diverse parti: una dove vi sono i casi da isolare, una dove il personale si veste con le tute che lo isolano e si sveste dopo il contatto con i malati, e una per la disinfestazione.

Primi casi ad aprile
La conferma ufficiale dell’epidemia di febbre emorragica da Ebola nel paese africano è arrivata solo il 10 settembre ma, come riporta Medici senza frontiere, già dalla fine di aprile erano stati segnalati casi di una malattia sospetta. La conferma di laboratorio della presenza del virus Ebola è arrivata dai laboratori di Atlanta negli Stati Uniti e di Fancesville in Gabon.
Oltre all’identificazione dei casi sospetti e delle persone venute in contatto con possibili malati, alle misure di isolamento e all’utilizzo di pratiche sicure nel seppellire i morti, è stato portato avanti un lavoro di informazione sulla popolazione rispetto alla malattia, l’epidemia e come si diffonde il contagio, come riconoscere i primi sintomi e chi avvisare.
Gruppi di persone addette alla comunicazione, giornalisti, utilizzo di trasmissioni radio: grazie a queste ultime, l’Oms stima di avere raggiunto oltre il 60 per cento della popolazione locale. Sono stati svolti anche lavori di informazione con gruppi della società civile, non solo per mettere sull’avviso rispetto ai possibili rischi di trasmissione dell’infezione, ma anche per tranquillizzare, ridurre la paura e il panico nei confronti di questa malattia.

Cauto ottimismo
Con i primi di ottobre sia l’Oms sia Msf, che ha seguito l’epidemia sul posto, hanno riportato segnali positivi sull’andamento dell’epidemia, come una riduzione nel numero di persone nel centro di isolamento di Kampungu, dove nel mese di settembre vi erano stati 32 ricoveri.
Nonostante le prove quanto meno di un rallentamento dell’epidemia di Ebola, viene sottolineata l’importanza di mantenere alta l’attenzione, con l’identificazione e l’isolamento dei casi sospetti. In questo senso, Medici senza frontiere ha segnalato come ci siano nel paese villaggi isolati e difficili da raggiungere, con casi sospetti di questa febbre emorragica. E per dichiarare di avere sotto controllo l’epidemia devono passare 42 giorni dall’isolamento dell’ultimo paziente cui è stata confermata la diagnosi di Ebola, pari a due volte l’intervallo di tempo di possibile incubazione della malattia, prima della comparsa dei sintomi.

Di Valeria Confalonieri

Valeria Confalonieri




La parabola del «figliol prodigo» (14) Le porte del perdono sono sempre aperte

«Dio è più grande del nostro cuore, qualunque cosa esso ci rimproveri»

Allora rientrò in se stesso e disse: Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! 18Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; 19non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni. 20aPartì e si incamminò verso suo padre» (Lc 15,18-20).

Nulla può andare perduto
Nella puntata precedente (MC 9/2007, pp. 57-59) abbiamo lasciato il figlio giovane in preda di una solitudine esistenziale che aveva visto naufragare tutti i suoi sogni di autonomia. Solo, in terra straniera, sprofondato nella più abissale impurità (i porci con i quali avrebbe condiviso le carrube, «ma nessuno gliene dava»: v. 16). Abbiamo anche messo in evidenza che la motivazione del ritorno del figlio non può essere chiamata «conversione», perché le ragioni che lo inducono a ritornare non sono né il pentimento né l’amore per il padre, ma il suo tornaconto. Egli non soffre per il male fatto o perché il padre soffre, ma è terrorizzato di morire di fame. Il figlio giovane della parabola è un egoista cronico. È tutto centrato su se stesso e sui suoi bisogni immediati, per cui non può essere proposto come modello di conversione.
Eppure dentro di lui «accade» qualcosa di cui egli stesso è ignaro in un primo momento. Il testo greco dice che «dopo essere tornato in/dentro di sé, disse». Allontanatosi dal padre, non era finito solo «in un paese lontano» (v. 13), ma si era allontanato anche da se stesso: si era perduto geograficamente e spiritualmente. Aveva smarrito la dimensione di sé perché aveva perduto la sua identità di figlio. «Rientrare in se stesso», se in un primo momento non è sinonimo di «conversione» sincera, è l’inizio della consapevolezza del fallimento del suo progetto di vita autonoma.

Padre e figlio per sempre
Nessuno può abdicare dal proprio essere figlio e dall’essere padre/madre. Si è figli per sempre; si è padri/madri per tutta l’eternità. Nessuno è figlio del «nulla»; nessuno si fa da sé, ma ognuno di noi è sempre figlio di qualcuno e a sua volta è «genitore» di qualcun altro.
È la relazione che stabilisce l’identità personale: è quello che avviene all’interno della Trinità santa e accade dentro il mistero di vita di ciascuno di noi. Nemmeno il «figlio prodigo» può sfuggire a questa legge. Ciò significa una cosa sola: anche se la motivazione iniziale è imperfetta, può però costituire il primo passo verso un cambiamento che via via diventa consapevolezza, coscienza di vita. La motivazione egoista iniziale muterà in un processo evolutivo che si perfezionerà solo alla conclusione del cammino, cioè al punto di approdo.
In questo contesto si modifica la nozione stessa di «conversione» che di norma è intesa come un «atto unico» e irrepetibile, travolgente e traumatico, che cambia la vita, mentre alla luce della parabola lucana, essa è «un’attitudine al cambiamento», cioè un processo che inizia anche in modo imperfetto e s’illumina e si definisce lungo il processo di formazione. Abituarsi al cambiamento, ecco il vero senso della conversione, che in ebraico si chiama «teshuvàh». Il termine deriva dal verbo «shub» che ha in sé l’idea del ritorno sui propri passi e si riferisce al ritorno a Dio da cui si era allontanati (cf Dt 4,30).

Pentimento imperfetto
La tradizione giudaica insegna che la «penitenza/teshuvàh» fu creata da Dio prima ancora della creazione del mondo (Talmud, Pesachim-Pasque 54a) per concedere a Israele una possibilità supplementare di salvezza. Per questo la «penitenza/teshuvàh» s’innalza fino al trono di Dio, allunga la vita dell’uomo e guida alla redenzione del Messia (Talmud, Yoma-Gioo 86a-86b).
Il Midrash Deuteronomio Rabbàh-Grande (2,24) insegna che Dio impone a Israele il pentimento, ma non l’umiliazione, perché un figlio non può vergognarsi di ritornare a suo padre. Nel racconto di Luca, infatti, è il padre che è presente nella dissoluzione del figlio e lo spinge a compiere la sua «teshuvàh/ritorno» e come vedremo, lo accoglierà, ma non lo umilierà.

Motivazione nascosta del figlio
La «ragione/motivazione nascosta» che spinge il figlio al passo più difficile della sua vita, quella cioè di ritornare da suo padre, ma rinunciando alla sua condizione di figlio, rivela ancora una volta la superficialità di questo figlio che, nonostante tutto quello che ha passato, si ostina ad avere paura del padre: egli è terrorizzato di perdere la faccia, la dignità, l’onore.
Qui sta la prova finale che egli non ha mai conosciuto suo padre: nel momento in cui egli rinuncia a essere figlio, impone al padre di rinunciare alla sua pateità. Ciò sarebbe l’equivalente di un’altra morte. Ha preteso la morte del padre per affrancarsi da lui e ora si accontenterebbe di essere suo servo, credendo che il padre potrebbe fare finta di non essere suo padre. Ogni scelta, per quanto personale, implica sempre le scelte di qualcun altro.
Nel suo ragionamento assurdo, egli addirittura si paragona ai servi della casa di suo padre che stanno meglio di lui. Colui che voleva la libertà e la totale indipendenza, si considera inferiore ai servi di suo padre. In questo modo afferma indirettamente che il padre è la «garanzia» del benessere dei servi e quindi anche del figlio che vuole diventare servo. Questa considerazione è la presa d’atto di un totale fallimento, ma anche la certezza: quel «padre» che egli aveva voluto morto per avere preteso la vita in eredità, è ancora il peo della sua esistenza. Muore di fame e sogna suo padre come sua àncora di sopravvivenza. Il figlio non sa che il padre, portato via come «patrimonio», è stato il suo scudo e la sua difesa.

Motivazione nascosta anche al figlio
La ragione/motivazione che guida il figlio a ritornare, è il «padre» che come «patrimonio» ha seguito il figlio sulla via della dissoluzione e della perdizione. Sostenuto dalla presenza invisibile del padre che anima tutte le decisioni di vita, il figlio giovane si determina a intraprendere il suo cammino di ritorno. La vera ragione del ritorno del figlio affonda le sue radici nell’amore del padre che non è mai venuto meno.
In termini spirituali si può dire che ogni ritorno, inteso anche come conversione, non è mai frutto della volontà dell’interessato, ma azione di grazia che lo Spirito compie per realizzare la volontà salvifica universale di Dio. Nessuno è capace di conversione perché possiamo solo lasciarci convertire dallo Spirito di Dio. Veramente credere nel Dio di Gesù Cristo è il compito più facile che esista: basta abituarsi a sapere ricevere: «Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre» (Ger 20,7).
Il «richiamo» del padre è più forte della morte. Si capisce perché il padre si sia lasciato spogliare, derubare e «uccidere»: era l’unico modo per andare «con» il figlio e salvarlo da se stesso. Al padre non è mai interessato il patrimonio o «la proprietà». A lui interessa soltanto quel figlio che voleva perdersi a ogni costo e che bisognava salvare a tutti i costi, anche a costo della propria vita: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13).
Il padre è l’immagine nuda e austera del Padre dei cieli, che «ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito… Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui» (Gv 3,16-17). Al fondo della sua abiezione e come risultato del suo fallimento, il figlio giovane può ancora una volta aggrapparsi al padre, la sua unica salvezza. Dice un detto della tradizione giudaica: «Le porte della preghiera possono essere chiuse (= Dio può anche non ascoltare), ma quelle del ritorno (pentimento) sono sempre aperte» (Talmud Jerushalmì, Makkot-Fruste, 2,7,31d).

L’Assente-Presente
I vv. 18-21 formano nell’economia del capitolo due sotto-unità, in cui si descrivono gli stessi movimenti: nella 1a unità (vv. 18-19), di cui ci occupiamo in questa puntata, il figlio parla con se stesso, immaginando di essere davanti al padre che materialmente è assente; nella 2a invece (vv. 20-21), che esamineremo la prossima puntata, si trova realmente davanti al padre al quale ripete le parole che aveva preparato. Le due unità sono strettamente connesse intorno alla figura del padre «assente-presente».
Questi versetti rivelano il mistero proprio di Dio, di cui facciamo fatica a capie la natura. Quando ci allontaniamo da lui, non acquistiamo autonomia e libertà, ma diventiamo schiavi di qualcuno o di qualcosa: è l’esperienza che facciamo ogni giorno. Il padre della parabola è l’immagine esemplare di Dio che è presente anche quando sembra assente e tutto appare perduto. Un’immagine plastica di questo dramma, si trova nel racconto della tempesta sedata di Mc. Tutto attorno crolla, la tempesta sopravanza e Gesù «se ne stava a poppa e dormiva», mentre i discepoli terrorizzati lo accusano di diserzione: «Maestro non ti importa che stiamo morendo?» (Mc 4,35-39, qui v. 38). C’è la tempesta e lui «dorme»; c’è la tempesta e lui c’è.

Un verbo per lasciare e due verbi per tornare
Il figlio che ha perduto ogni velleità, esausto nella sua fatica di vivere, riallaccia i contatti col padre, in modo flebile, interessato, ma reale: egli sogna la casa di suo padre come sicurezza, rifugio e protezione. Nonostante la motivazione insufficiente, bisogna cogliere l’evento di qualcosa di grandioso che accade. Quando abbandonò la casa, suo padre e Dio, dice l’evangelista: «Partì per un paese lontano» (v. 13); ora che ritorna, il testo greco dice: «E dopo essere risorto venne verso suo padre» (v. 20).
Per l’abbandono basta solo il verbo «partire», che in greco (apedêmēsen) indica l’allontanamento dalla società, dal popolo: è l’auto-ostracismo dalla condizione umana. Per il ritorno invece è necessario una decisione, un colpo di reni, che bisogna attuare con un gesto concreto.
La Bibbia della Cei (ed. 1997) rende abbastanza bene: «Si mise in cammino e ritoò da suo padre». Due sono le idee sottostanti: quella di risurrezione e quella del ritorno attuato: per ritornare bisogna cominciare a risorgere, anche se ancora le ragioni non sono del tutto sufficienti. Il cammino di conversione serve proprio a questo: fare prendere coscienza dell’evoluzione e dello sviluppo che la Grazia compie in chi si mette in cammino.
Si parte all’inizio con un atteggiamento e si arriva alla mèta totalmente cambiati, perché il cammino si apre camminando e il bisogno di cambiamento aumenta mano a mano che si cambia. Convertirsi è veramente abituarsi a lasciarsi cambiare.           (continua – 14)

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella




Yang scopre l’africa

Storia di un emigrato in Burkina Faso

Sono stimati a 150.000 i cinesi che hanno scelto di vivere in Africa e circa 450.000 quelli ormai naturalizzati. Vengono al seguito delle multinazionali del loro pase, ma anche come piccoli e medi imprenditori. E mantengono forte il legame con la madre patria. Abbiamo incontrato uno di loro.

Yang Gaihao ha circa 35 anni. È originario della città Wenzhou, nella regione Zhejiang, sulla costa Sud – Est della vasta Repubblica popolare di Cina. Lo troviamo nel suo negozio centralissimo, di fronte al Cinema «Burkina», a Ouagadougou.
Arrivato nel 2004 per «turismo», ci dice, invitato da alcuni amici cinesi che in Burkina Faso già vivono. «Mi sono reso conto che si potevano fare degli affari e così ho deciso di trasferirmi». Arriva con la moglie nel 2005 e apre un magazzino di merce tutta importata direttamente dalla Cina.
Vanno molto i poster di Ronaldinho in questo periodo, ma anche orologi da muro raffiguranti il Cristo o improbabili bellezze. Piacciono anche le tende con immagini serafiche della Cina, di cui Yang ha diversi cataloghi. Poi ci sono fiori di plastica, giochi, pentole, stereo, borse …
Tutta merce piuttosto scadente. «I prezzi sono bassi, così la gente compra. Il beneficio per noi è piccolo ma sulla quantità ci guadagnamo». Intanto una signora ouagalese sta dicendo a sua moglie: «Siete troppo cari!» e sventola due poltrone gonfiabili per bambini, in vendita all’equivalente di 4,5 euro. «Ci guadagnamo, ma senza esagerare», continua.
È lui che segue direttamente i suoi fornitori, così si reca nella madre patria 2 – 3 volte all’anno.

Il francese lo parla piuttosto male, ha iniziato a studiarlo nel 2004. Almeno si fa capire, al contrario del suo giovane aiutante (suo cugino fatto arrivare in seguito). Dice che non ha avuto problemi per impararlo.

Se gli chiedo come va con gli africani, scuote un po’ la testa e fa una smorfia: «Sì, abbastanza bene, ma non ci frequentiamo molto. Ho amici cinesi, e anche occidentali e solo qualche burkinabè». Si frequentano in prevalenza tra cinesi e ce ne sono circa 200 in Burkina Faso.
Questo paese è uno dei cinque che in Africa ancora riconoscono Taiwan e che quindi la Cina popolare non accoglie tra i suoi partner commerciali. Taiwan inietta ogni anno fondi per la cooperazione sino – burkinabè (il cui uso non è controllato), per mantenere questo appoggio geo – politico sul continente. Pechino non sembra molto interessata, visto la scarsità di materie prime del paese saheliano.

Yang anche a casa sua faceva il commerciante, ma di «cose diverse» spiega. Ma perché ha scelto proprio l’Africa per tentare la fortuna? «Anche l’Europa e l’Italia, che è piena di cinesi – ricorda – sono interessanti, ma è diventato molto difficile ottenere il visto». Qui è molto più facile. Anche se fa caldo, non importa e non si sta così male.
Gli piace viaggiare ed è stato in molti paesi della regione: Costa d’Avorio, Ghana, Benin, Mali. Sia per turismo, sia per visitare amici e per sondare la possibilità di business. Dice di non avere problemi di soldi per spostarsi, anche verso l’Europa, ma non riesce ad avere i documenti.
Nel suo magazzino su due piani la merce è buttata un po’ a caso, su scaffali o in scatoloni ammassati a terra. Ci sono molti addetti africani che girano per servire i clienti. Il posto è abbastanza frequentato.

Yang, gentilissimo fino a quel momento, mi riprende dicendo che sto facendo troppe foto, nonostante gli abbia chiesto il permesso. Le vuole vedere. «Non voglio avere problemi» dice più volte. Anche sua moglie è piuttosto innervosita dalla mia presenza. Ricordo allora le parole di un amico burkinabè: «Cinesi? Sì, ci sono anche in Burkina, ma sono molto chiusi nella loro comunità».

Di Marco Bello


 Costa d’Avorio: Cina batte Francia

L’impero di mezzo va avanti e prende fette di Africa ai potenti del pianeta. La Francia sarà costretta a ritirarsi o difenderà il suo bastione?

La Cina non fa parte dei 10 primi partner commerciali della Costa d’Avorio. Le relazioni commerciali tra i due paesi son cresciute negli ultimi cinque anni e infatti al ministero dell’Economia si stanno ancora elaborando le statistiche sul fenomeno.  Ma è soprattutto con l’arrivo alla presidenza di Laurent Gbagbo (2000) che la Cina ha cominciato a sviluppare gli scambi con la Costa d’Avorio. 
Più evidenti i grossi cantieri edili. Il palazzo della cultura, nel quartiere storico di Treichville, sul bordo della laguna Ebrié. La costruzione della «casa dei deputati», un enorme palazzo (con uffici e residenze per tutti i deputati) nella capitale politica Yamoussoukro, a 260 km da Abidjan, ha dato una scossa alle relazioni tra la Costa d’Avorio e la Francia. Molti osservatori politici vi vedono un segno di rottura con le consuetudini che legavano il paese europeo con l’ex colonia.

«Io credo che il regime attuale sia venuto al potere con un’idea precisa: ridurre le relazioni con la Francia. Questo si è verificato sul piano diplomatico quando certi baroni del potere hanno stimato che i rapporti con gli ex colonizzatori erano solo a vantaggio di questi. Sul piano militare abbiamo visto lo stesso concetto: al culmine della crisi i “giovani patrioti” (bande organizzate pro Gbagbo, ndr) bruciavano la bandiera francese e chiedevano la partenza dei militari transalpini. A livello economico i mercati pubblici più importanti sono ormai assegnati a imprese cinesi. Questa è una politica ben congegnata. L’attuale presidente dell’Assemblea nazionale (parlamento, ndr), Mamadou Koulibaly, aveva pure chiesto che il franco cfa non fosse più agganciato a quello francese». Sostiene Awa Traoré, funzionario.

Recentemente è stato firmato un partenariato tra Cina e Costa d’Avorio in campo universitario. L’Istituto Politecnico Houphouet Boigny della capitale riceverà un appoggio cinese sul piano della formazione ad alto livello.
Un enorme supermercato, chiamato «La Foire de Chine» (la fiera della Cina, ndr) è stato aperto a Treichville. Qui tutti i prodotti cinesi sono in vendita. Mentre a livello medico il paese rigurgita, da una decina di anni, di prodotti cinesi venduti lungo le strade.
«A prima vista, l’invasione del mercato avoriano da beni made in China può sembrare una manna, perché questi sono proposti a prezzi molto concorrenziali. Ma occorre soprattutto guardare la qualità.  E su questo ci sono molte cose da obiettare. In Camerun, ad esempio la popolazione ha manifestato contro certi beni di basso valore. Diversificazione sì, ma anche qualità!», dice Sébastien Tié, agente di banca.
 «Non vedo inconvenienti sul fatto che la Costa d’Avorio diversifichi i propri partner economici. Questo contribuisce alla dinamica degli scambi commerciali», afferma Albert Zio, quadro commerciale.
 

Adama Koné, da Abidjan

                           Cina in Burundi

Il gigante asiatico batte l’Africa a tappeto, così anche un paese piccolo e privo di risorse come il Burundi diventa interessante sullo scacchiere geopolitico.

Il Burundi ha delle ottime relazioni con la Cina dal 1970. Un accordo di cooperazione economica, tecnica e commerciale è stato firmato nel luglio del 1972. Da allora la cooperazione è aumentata, sotto forma di crediti e  di doni in settori prioritari, come lavori pubblici, educazione, salute.
Nell’educazione la Cina fornisce almeno 10 borse di studio all’anno per burundesi. Secondo Venant Nyobewe, capo di gabinetto del ministero dell’Educazione, «attualmente 19 connazionali fanno studi di dottorato, mentre altri 18 sono stati ammessi a corsi post universitari». Altre borse sono messe a disposizione per il ministero della Difesa, così 33 ex combattenti hanno fatto stage in Cina.

Nel settore sanitario la Cina è presente in tre province: Muramvya, Bujumbura e Gitega. Ogni due anni vengono inviate delle équipe mediche complete per lavorare negli ospedali.
Un insegnante di Gitega ci ha rivelato che il problema che si ha con i cinesi, in particolare quelli che lavorano all’ospedale, è che non parlano né francese né inglese. Lavorano con un interprete, ma spesso non riescono a capire i problemi dei malati.
In generale, in Burundi, la gente pensa che i cinesi mangiano i cani e questo è contrario al costume del paese.

Secondo l’ambasciatore cinese a Bujumbura Zeneng Xian, oltre 250 cinesi vivono attualmente nel paese, di cui 23 medici. La Cina ha ristrutturato i più importanti ospedali del Burundi. Dati del ministero burundese degli Affari esteri e della cooperazione riportano che quattro ospedali hanno ricevuto 900 mila dollari nel 2007.
Nel campo delle infrastrutture, la Cina sta costruendo la Scuola normale superiore, che sarà terminata nel primo trimestre 2008. Il costo è stato di 20 milioni di Yuans. In prospettiva sarà costruito un nuovo palazzo presidenziale nella capitale, un centro contro la malaria e un ospedale da 150 letti nella provincia di Bubanza, tra le più povere del paese.

L’ambasciatore cinese ha spiegato che il suo paese è sempre stato a fianco del Burundi anche durante la crisi scoppiata nel 1993. Ha aggiunto che il Burundi è un buon amico della Cina, in quanto ha sempre avuto il suo stesso punto di vista a livello internazionale.
L’ultima sessione della commissione mista sino – burundese si è tenuta a Pechino nel maggio 2002. In quell’occasione la Cina ha destinato al Burundi un dono di 4,44 milioni di dollari per finanziare questi progetti.

Gabriel Nikundana, da Bujumbura


Marco Bello




Oro giallo per oro nero

L’analisi economica

Crescono i rapporti tra Cina e Africa e cambiano gli equilibri mondiali. Punti di forza e di debolezza, opportunià e minacce alla base di questo connubio.

Il gigante asiatico non solo si sta sempre più affermando ed acquistando potere sui mercati occidentali, ma negli ultimi anni sta anche rivelando la crescente ampiezza e profondità degli interessi in Africa.

L’analisi Swot è una tecnica sviluppata negli anni ’60 – ’70 come supporto alla definizione di strategie aziendali in contesti caratterizzati da incertezza e forte competitività. Oggi l’uso di questa tecnica è stato esteso a molti altri settori. Attraverso tale tipo di analisi è possibile evidenziare i punti di forza (strenghts) e di debolezza (weaknesses), al fine di fare emergere le opportunità (opportunities) e le minacce (threats) legate a quella determinata analisi.  Tentiamo di seguito un’analisi dei rapporti Cina – Africa.

I punti di forza

È giusto partire dall’idea che questi due colossi abbiano forti interessi per creare un sistema di collaborazione. La Cina ha un’economia in costante crescita, è dotata di notevoli supporti tecnologici, ma ha una grave lacuna: la scarsità di risorse. L’Africa è, invece, un continente molto povero, con pesantissime condizioni di indebitamento, ma ricco di risorse minerarie e petrolifere. Ne deriva pertanto che l’economia cinese e quella africana sono particolarmente complementari, in quanto la Cina possiede la tecnologia, le capacità manageriali e i capitali di cui hanno bisogno i paesi africani, mentre l’Africa è dotata di risorse naturali, che interessano la Cina. I commerci tra la Cina e l’Africa sono notevolmente aumentati, anche grazie al fatto che Pechino ha stabilito sul continente africano undici centri di investimento e commercio. Il crescente impegno della Cina in Africa fa parte di una più ampia strategia commerciale che assegna un ruolo molto importante ai paesi in via di sviluppo: circa il 50% delle esportazioni cinesi giungono in Asia, America Latina e Africa e oltre il 60% delle sue importazioni provengono dalle stesse aree.
L’interazione commerciale tra Cina e Africa è inoltre rafforzata dalle loro relazioni politiche fondate, in alcuni casi, sulla comune opposizione all’influenza globale degli Stati Uniti. L’intervento di Washington in Iraq e l’inopportunità di altri aspetti intrusivi sono stati spesso oggetto di aspre critiche cino – africane.

I punti di debolezza

Una differenza fondamentale tra la Cina e l’Africa è che la prima è uno stato unitario e, nonostante le sue dimensioni eccezionali, tutte le sue province dipendono comunque dalle decisioni del governo centrale di Pechino. La seconda, invece, è un continente costituito da stati, spesso in conflitto tra di loro, ciascuno dotato di un proprio governo. Questo aspetto rappresenta un punto di debolezza da non sottovalutare a svantaggio dell’Africa. Il rischio è quindi legato alla possibilità che i paesi africani, con i quali la Cina ha stretto relazioni commerciali di maggiore rilievo, finiscano per favorire l’emergere di una relazione dominante – dominato.
Questo rischio di «colonialismo economico» non necessariamente andrà a colpire tutti gli stati africani che si trovano coinvolti nella relazione Cina – Africa, ma interesserà soprattutto quei paesi più poveri e maggiormente bisognosi di aiuti economici.
Il presidente sudafricano, Thabo Mbeki, ha ammonito che l’Africa deve evitare una «relazione coloniale» con Pechino.

Le opportunità

Mentre i paesi occidentali considerano molto rischioso investire in Africa per la debolezza e la corruzione dei governi e le frequenti guerre, la Cina vede in essa una grande opportunità.
La Cina è avida di materie prime, cerca mercati per le sue merci ed esporta anche forza lavoro.
Attualmente più di 700 compagnie cinesi operano in 48 stati africani. In cambio molti paesi del continente stanno ottenendo la cancellazione del debito estero nei confronti della Cina, e si vedono offrire supporti tecnologici e finanziamenti «senza condizioni». Lo stesso presidente della Banca europea di investimento, Philippe Maystadt, ha confermato che i paesi africani preferiscono le proposte di finanziamento cinesi, perché «loro non pongono fastidiose condizioni circa i diritti umani e sociali».
Nel corso degli ultimi dieci anni, Pechino ha stipulato oltre 30 accordi strutturali per la concessione di prestiti con più di venti paesi africani. Alcuni progetti finanziati da questi prestiti hanno avuto uno straordinario successo, come l’esplorazione di giacimenti petroliferi in Sudan, il rinnovamento della rete ferroviaria in Botswana, lo sviluppo dell’agricoltura in Guinea, la fabbrica di cemento in Zimbabwe.

Le minacce

Alla Cina non interessa la stabilità finanziaria di questi paesi. Ma questo rischia di alimentare una pessima gestione finanziaria dello stato e di riprodurre i meccanismi di corruzione e di indebitamento da cui molti governi africani stanno emergendo.
Adama Gaye, giornalista senegalese esperto di questioni asiatiche, ha recentemente dichiarato in un’intervista a Radio France Inteational: «L’intervento della Cina in Africa sta distruggendo i passi in avanti della democrazia. Questo perché stabilisce nuove norme che degradano il sistema, ripristina la centralità dello stato e porta a una progressiva marginalizzazione delle forze democratiche che stavano sorgendo».
Pertanto questo connubio tra Cina e Africa non solo fornisce delle opportunità, ma crea molte minacce per l’Africa e innesca tensioni a livello mondiale. Le opinioni al riguardo sono diverse: da una parte i paesi africani non rinunciano alla collaborazione con Pechino, dall’altra devono ancora capire se questa sia una benedizione o una minaccia per loro.
Intanto Amnesty Inteational non ferma le accuse rivolte alla Cina che vende armi al Sudan per massacrare la popolazione, uniformi per l’esercito del Mozambico e fornisce elicotteri a Mali e Angola. Un ministro del Gabon (paese ricco di petrolio, minerali e foreste) dice che occorrono leggi per proteggere l’ambiente dallo sfruttamento delle risorse e critica le ditte estere (includendo la Cina) che portano dai loro paesi persino i materiali da costruzione, invece di favorie la produzione locale.
E ancora, la Namibia, per favorire gli investimenti cinesi, ha spesso esentato le compagnie cinesi dal rispetto dei minimi salariali e delle leggi a tutela dei lavoratori. La namibiana società nazionale per i diritti umani ha denunciato che i lavoratori sono sfruttati in condizioni di quasi schiavitù e che le importazioni dei prodotti cinesi a basso costo danneggiano l’economia locale. Se è vero che l’Africa ha assolutamente bisogno di alleati commerciali e sostenitori, è altrettanto vero che tali aiuti non possono non avvenire nel rispetto dei diritti umani.

Questi sono solo alcuni esempi per far capire come in realtà queste relazioni tra Cina e Africa sono fonte di numerose perplessità. Dietro all’invitante facciata di un solidale aiuto tra paesi in via di sviluppo, in realtà si cela una frenetica corsa all’oro da parte della Cina.
È giusto però concludere che, visto le numerose e aspre critiche a livello internazionale, la Cina ultimamente sembra prendere più sul serio queste accuse. Ha approvato l’invio di una più numerosa forza di pace Onu in Darfur, offrendo pure 10 milioni di aiuti umanitari e annunciando l’invio di 275 ingegneri militari nella zona.

Di Francesca Bongiovanni

Francesca Bongiovanni




Avanti tutta

Il miracolo economico cinese

Un modo di governare: «La politica della porta aperta». Un nome: Deng Xiaoping. Questi gli ingredienti fondamentali. Conditi da una disciplina tutta cinese. Tra pochi anni sarà la prima potenza economica del pianeta.

Viene spontaneo domandarsi quali siano state le carte vincenti che hanno permesso alla Cina di emergere dallo status di paese in via di sviluppo, diventando così una nazione «pericolosa» per gli altri stati del mondo. Per quale motivo Cina e Africa, un tempo entrambe considerate paesi del terzo mondo, adesso sembrano non condividere più gli stessi problemi che una volta le accomunavano?
Innanzitutto dobbiamo tenere sempre ben presente che la Cina, per quanto enorme sia, è comunque uno stato unitario, mentre l’Africa è un continente formato da stati spesso in contrasto tra di loro. Questo concetto è un elemento fondamentale per comprendere il successo cinese sul piano economico.

L’uomo del miracolo

Ma un’altra carta vincente a favore del gigante asiatico è stata la politica di apertura economica introdotta da Deng Xiaoping a partire dal 1978. Deng è stato il vero miracolo della Cina post-maoista.
Reduce da trent’anni sotto il dominio di Mao, il paese versava in tragiche condizioni economiche ed era completamente isolato dal resto del mondo.
Nel 1949, anno in cui la leadership comunista prese il potere, la Cina aveva il supporto della Russia comunista e, in materia di politica intea, il presidente Mao era convinto di poter sanare la situazione economica puntando sullo sviluppo dell’agricoltura.
Ma con il passare degli anni le mire di crescita del presidente diventarono sempre più ingenti e ben presto lo stesso partito comunista non fu più in grado di gestire la situazione di fanatismo ideologico in cui la Cina era sprofondata.
Terminata la Rivoluzione Culturale (1966-1976) e morto Mao Zedong (1976), nel 1977 Deng Xiaoping salì al potere con un programma di modeizzazione, destinato a cambiare profondamente l’economia cinese.

Zone economiche speciali

In primis, Deng introdusse ampi spazi di libero mercato nelle zone rurali, procedendo così alla decollettivizzazione agricola e al ritorno al nucleo familiare.
Contem­poraneamente creò alcune «Zone economiche speciali» (Zes), aperte agli investimenti stranieri e al commercio con l’estero.
La «politica della porta aperta» è l’elemento fondamentale che ha permesso alla Cina di intraprendere la sua scalata economica. Mentre Mao Zedong aveva portato avanti una politica di isolamento, essendo convinto che la Cina «dovesse farcela con le sue forze». Al contrario Deng aveva capito che l’economia  socialista doveva gradualmente aprirsi al mercato, pur mantenendo il controllo statale tipico del sistema socialista. I primi risultati economici furono spettacolari: dal 1978 al 1985 il reddito annuo pro-capite dei contadini era triplicato.
L’apertura del Celeste impero ai diavoli d’oltreoceano (espressione utilizzata dal presidente Mao Zedong per indicare negativamente gli stati occidentali che tentavano di creare relazioni commerciali con la Cina) è avvenuta attraverso l’istituzione nel sud della Cina di quattro zone economiche speciali: Shenzhen, Zhuhai, Shantou e nel Fujian. Create queste per attirare gli investimenti esteri. E, visto l’esito positivo dell’esperimento, nel 1984 le autorità centrali hanno permesso l’apertura al commercio e agli investimenti esteri di altre 14 città.

Investimenti

La «politica della porta aperta» ha portato in Cina un enorme afflusso di investimenti diretti esteri: dal 1978 al 1999 sono confluiti nel paese circa un terzo di quelli di tutto il mondo, con un tasso medio annuale di 40 miliardi di dollari.
Negli ultimi vent’anni la Repubblica popolare cinese ha avuto un tasso medio annuale di crescita del 9% e, secondo la Banca mondiale, entro il 2010 l’economia cinese potrà scavalcare quella americana, diventando la più vasta al mondo.
Con una superficie coltivata pari soltanto al 10% del suo territorio, la Cina è comunque uno dei maggiori produttori agricoli mondiali. Le principali coltivazioni sono cereali, cotone, canna da zucchero e tè.
Anche qui si è assistito a un progressivo abbandono del lavoro agricolo e a un fenomeno migratorio dalle campagne alle città.
L’industria è stata sottoposta a profonde trasformazioni a partire dal 1984, anno in cui inizia ufficialmente la riforma industriale.
Da un sistema in cui dominavano la proprietà statale e la pianificazione, si è giunti gradualmente a una situazione in cui lo stato possiede meno della metà delle industrie: nel 1978 le aziende governative generavano il 77,6% del prodotto industriale lordo, invece attualmente producono solo un quarto dell’output totale.

Al cospetto del mondo

Questa apertura economica ha provocato un cambiamento della posizione della Cina sullo scenario internazionale. L’isolamento si è allentato soltanto all’inizio degli anni ’70 con il viaggio di Nixon in Cina, che segnò la riapertura del dialogo con gli Stati Uniti. Questo portò al riconoscimento del governo di Pechino e all’ingresso della Repubblica popolare cinese nelle Nazioni Unite, dove ottenne un posto permanente al Consiglio di sicurezza.
Ciò favorì anche la normalizzazione dei rapporti con i paesi europei: a partire dagli anni ’80 la Cina ha iniziato a guardare all’Unione Europea come partner com­mer­ciale alternativo agli Stati Uniti.
L’ammissione nell’Organizza­zione Mon­diale del Commercio (11 novembre 2001) ha segnato un importante passo verso una maggiore integrazione del paese asiatico nel sistema commerciale multilaterale.
La Cina si affaccia al terzo millennio con una situazione di forte crescita economica. A questo hanno contribuito la domanda intea e l’investimento pubblico e privato, alimentati da misure monetarie e fiscali di tipo espansivo.
I conti con l’estero presentano un andamento positivo: la bilancia dei pagamenti continua a registrare un avanzo. Lo scorso febbraio le sue riserve monetarie  hanno raggiunto 853,7 miliardi di dollari e la Cina è diventata così la nazione con le più ampie riserve in valuta estera (oggi sarebbero a 1.300 miliardi, secondo alcuni osservatori, tra i quali Adama Gaye2).
Le esportazioni hanno registrato un’accelerazione della crescita, ma ancora più significativo è stato l’incremento delle importazioni. Insomma, quella della Cina sembra proprio essere la sfida del terzo millennio.

La via è segnata

L’opera di Deng Xiaoping è stata portata avanti da Jiang Zemin e successivamente da Hu Jintao. Entrambi hanno contribuito a realizzare una società del benessere, a creare un socialismo dai colori cinesi. Adesso l’altra grande sfida a cui punta il miracolo cinese è lo «sviluppo economico sostenibile», che vuole portare avanti lo sviluppo economico mostrandosi però più sensibile al rispetto dell’ambiente e della società.

Di Francesca Bongiovanni

Francesca Bongiovanni




L’invasione

Perché gli africani parleranno cinese

Grandi summit inteazionali senza economia di mezzi. Documenti di principio per una cooperazione «tra eguali». Ma alla Cina interessano le riserve petrolifere e minerali. Da dare in pasto a un’economia in forte crescita. E gli africani svendono e ricostruiscono. Così, presto anche le leggi saranno tradotte in mandarino.

Nel giro di pochi anni, alcune capitali dell’Africa dell’Ovest hanno visto un cambiamento radicale del traffico su due ruote. I motorini, mezzo principale di trasporto della popolazione cittadina a Ouagadougou come a Cotonou, si sono rapidamente moltiplicati. Gli indistruttibili Yamaha giapponesi, assemblati in Burkina Faso sono stati soppiantati dai Jailing, Sukinda, Yashua e tanti altri nomi di fantasia. Ma anche Yamaha contraffatti. Tutti «made in China». A un terzo del costo.
Chi non poteva permettersi l’ambito mezzo, ha finalmente potuto accedervi. Si accorgeva, però dopo pochi mesi che un pezzo del motore si svitava e altre parti iniziavano a cadere. Ma che importa: più lavoro per le centinaia di meccanici di strada la cui esperta manualità, condita con la proverbiale arte del riciclaggio africana, permette di far rivivere ogni cosa. O quasi.
Anche andando ai mercati di quartiere, gli oggetti che si trovano, dal tessile, agli attrezzi, dai giochi, all’elettricità, sono diventati tutti di fabbricazione cinese. Alcuni fornitori chiedono ancora se si desidera un prodotto non cinese, ma allora si moltiplica il prezzo per due, tre, quattro volte.
Intanto spuntano nelle vie centrali delle città «Africa – China import», «L’Orient», «Hong Kong bazar», negozi gestiti da immigrati cinesi, dove si può comprare  dallo spillo alla bicicletta, tutto di «rigorosa» produzione cinese.
In alcuni paesi, Niger e Angola per citae due, anche il panorama umano sta cambiando e si incontrano cinesi un po’ ovunque. Spesso è difficile, se non impossibile comunicare verbalmente con loro, anche se, di norma, sono molto gentili. Ma non sempre c’è un buon rapporto con le popolazioni locali.
Questi sono solo gli aspetti più evidenti di una «conquista» dell’Africa da parte della Cina, che ha visto uno slancio decisivo nell’ultimo decennio.

Primi passi

Senza andare alle esplorazioni cinesi durante la dinastia Ming (1368-1644), si può risalire alla conferenza di Bandung, nel 1955, dei paesi non allineati o «poveri», per trovare la Cina di Mao che cerca aperture inteazionali e pensa a una campagna africana. Iniziano i contatti, diplomatici prima, economici subito dopo con l’Egitto, all’epoca unico indipendente.
La Cina si pone subito come avente una storia simile, di lotta di liberazione dal colonialismo. Come paese povero che collabora con i suoi simili: una cooperazione «Sud-Sud», per contrapporsi a quella «Nord-Sud» e disfarsi del binomio colonizzatori – colonizzati. Va notato che questo approccio è tuttora in voga, con la Cina diventata la sesta potenza economica mondiale e presto entrerà tra le prime cinque spodestando Francia o Gran Bretagna.
Il gigante asiatico appoggia le lotte per l’indipendenza (Tunisia, Algeria, Marocco e in seguito Angola) e si affretta a riconoscere i nuovi stati, tra i primi l’Algeria e la Guinea Conakry. L’intervento è più sul piano politico – diplomatico, interessato a controbilanciare l’influenza di Mosca e dell’Occidente sul continente africano.

Politica ed economia

Ma la svolta nelle relazioni Cina – Africa si ha intorno alla metà del decennio scorso. È a partire dal 1995 che la Cina cerca di armonizzare la sua cooperazione economica con gli obiettivi politici.
E inizia a investire per la conquista del continente.
Organizza il «Forum di cooperazione Cina – Africa», il cui primo incontro si tiene a Pechino nel 2000, seguito da un secondo ad Addis Abeba nel 2003 e dal terzo, in grandissimo dispiego di mezzi ancora nella sua capitale, il 4 e 5 novembre dello scorso anno. Qui partecipano 41 delegazioni africane ai massimi livelli (capi di stato e di governo), per un totale di circa 3.500 delegati.
I Forum producono i documenti di principio su cui si basa la cooperazione Cina – Africa. Dalla prima «Dichiarazione di Beijing» e il «Programma Cina-Africa per la cooperazione economica e sociale» del primo Forum alla nuova «Dichiarazione di Beijing» e il «Piano d’azione 2007-2009» nell’ultimo incontro.
Sul piano pratico, il governo cinese vara misure di tipo commerciale e fiscale per migliorare gli scambi, quali l’armonizzazione delle politiche commerciali, la riduzione della tassazione dei prodotti, accordi di protezione degli investimenti e incoraggiamento di joint-ventures.

Documenti strategici

Nel gennaio 2006 il governo di Pechino rende noto il «Documento ufficiale sulla politica cinese in Africa». Da notare che ne esiste solo un altro sulle relazioni con l’Europa (2003).
Definendosi «il più grande paese in via di sviluppo del mondo» molto interessato alla pace e al progresso, la Cina assicura che i principi base nella cooperazione con l’Africa sono un’amicizia sincera, i muti vantaggi su una base d’uguaglianza, cornoperare nella solidarietà. Trattarsi da eguali, nel rispetto della libera scelta dei paesi africani per la loro via al progresso, ma con l’intenzione di aiutarli in questo loro sforzo.
Assicurare reciproci vantaggi per uno sviluppo condiviso e appoggiare i paesi africani attraverso una cooperazione economica, commerciale e sociale, per la costruzione nazionale. Ma anche: darsi mutuo sostegno e agire in stretta collaborazione negli ambiti inteazionali come le Nazioni Unite e gli altri organismi multilaterali. Intensificare gli scambi anche sui piani educativo, scientifico e culturale.
Sul piano economico si definisce che nello scambio tutti devono guadagnare. Sul piano culturale si spinge per un aumento degli scambi.

Una sola Cina

L’unica condizione politica della Cina Popolare, ribadita nei documenti ufficiali, è quella del riconoscimento dell’«unicità della Cina». Questo significa il non riconoscimento di Taiwan. In Africa tutti gli stati tranne cinque (Burkina Faso, Gambia, Sao Tomé, Malawi e Swaziland) hanno aderito e la tendenza è quella di rompere con la Cina nazionalista (in Europa solo il Vaticano ha ancora relazioni diplomatiche con Taiwan, gli Usa le hanno rotte nel 1979, mentre nel ’71 avevano permesso alla Cina Popolare di entrare nell’Onu, escludendo così Taipei).
Oltre ai principi di base il documento descrive una cooperazione Cina – Africa a 360 gradi: mutuo appoggio a livello politico – diplomatico, cooperazione tra collettività locali, cooperazione economica (verso accordi di libero scambio), finanziaria, agricola, nelle infrastrutture (mettendo l’accento su trasporti, telecomunicazioni, acqua ed elettricità). E ancora cooperazione turistica, nel settore dell’educazione, tecnico – scientifica e medica.
 Cooperazione tra i mass media e militare (scambio di tecnologie e formazione), giudiziaria e anche in materia di lotta al terrorismo.
Poche righe invece sono dedicate alle risorse naturali, che sono però il maggior interesse cinese sul continente, prima fra tutte il petrolio.

Un nuovo tipo di partenariato

Il presidente Hu Jintao, il primo ministro Wen Jiabao e il ministro degli Esteri Li Zhaoxing, hanno visitato quindici  paesi africani in diversi viaggi nel primo semestre 2006. L’interesse per il continente continua ad aumentare.
Con la «dichiarazione di Beijing» del terzo Forum Cina – Africa, i capi di stato e di governo di 41 paesi africani (sui 48 invitati) e della Repubblica popolare lanciano solennemente un partenariato strategico di nuovo tipo: «uguaglianza e fiducia sul piano politico, cooperazione vincente – vincente sul piano economico, scambi benefici sul piano culturale».
La dichiarazione congiunta ribadisce il principio che tutti gli stati del mondo, potenti o poveri, grandi o piccoli, devono trattarsi da «eguale a eguale». Spinge per il rinforzo della cooperazione «Sud-Sud» e del dialogo «Nord-Sud», richiama l’Omc che riprenda i negoziati di Doha. Chiede inoltre la riforma dell’Onu e delle altre organizzazioni inteazionali, con l’obiettivo di servire meglio tutti i membri della comunità internazionale, migliorando la rappresentazione e la partecipazione degli stati africani nel Consiglio di sicurezza. I capi di stato esortano le organizzazioni inteazionali a fornire maggiore assistenza tecnica e finanziaria ai paesi africani per ridurre la povertà, le calamità, la desertificazione e realizzare gli Obiettivi del millennio.
«Cina e Africa unite dagli stessi obiettivi in termini di sviluppo e interessi convergenti, hanno davanti a loro delle vaste prospettive di cooperazione … mutuamente vantaggiosa, per sviluppo condiviso e prosperità comune».

A caccia di risorse

La Cina è (dal 2005) il secondo consumatore di petrolio al mondo dopo gli Usa1 e ha un’economia in crescita vertiginosa (quasi il 10% l’anno, con un Pil che raddoppia ogni 8 anni). Ha bisogno di energia e materie prime per le sue industrie e per la popolazione, primo fra tutti il petrolio. Il suo consumo di greggio era nel 2000 il 10% della domanda mondiale e diventerà il 20% nel 2010. Si stima che nel 2020 sarà costretta a importare il 60% del petrolio che consuma. Così come gli Usa, la Cina ha una priorità: garantirsi le riserve di petrolio per il futuro.
L’Africa, grazie alla penetrazione degli ultimi anni, assicura oggi a Pechino oltre un quarto delle sue importazioni di greggio. Angola (primo in assoluto, ha superato l’Arabia Saudita), Sudan, Congo, Guinea Equatoriale e Nigeria sono i suoi fornitori principali.
E il pilastro della politica estera cinese resta: «Non ingerenza negli affari interni degli stati». Approccio altamente apprezzato dai regimi africani.
Anche questo ha permesso a Pechino di conquistare lo sfruttamento di giacimenti petroliferi sudanesi, che alcune compagnie occidentali hanno dovuto lasciare a causa delle pressioni politiche Usa. La China National Petroleum Company (Cnpc) detiene il 40% del consorzio Greater Nile Petroleum Operating Company che produce 350 mila barili al giorno. La Cnpc aveva costruito 1.506 chilometri di oleodotto per portare il greggio al mare.
La Cina che ha un seggio permanente al Consiglio di sicurezza dell’Onu ha più volte bloccato (minacciando il veto, ma senza usarlo) le risoluzioni che volevano mettere l’embargo al Sudan sull’esportazione del petrolio, se questi non si fosse impegnato a mettere fine ai massacri perpetrati nel Darfur.
I rapporti con il Sudan risalgono al 1997 e comprendono anche la vendita di svariate foiture di armamenti, sia ai tempi della guerra civile in Sud Sudan, sia ai giorni nostri.
Ma il petrolio non è tutto. Molte altre sono le materie prime necessarie al miracolo economico cinese. La Cina estrae o importa da 48 paesi africani oro, ferro, cromo, platino, manganese, fosfato, cobalto, bauxite, uranio. E ancora tabacco, legname, cotone. Questi ultimi sono lavorati in patria e ritornano poi sul continente come manufatti.

I contratti globali

In cambio alle concessioni per l’estrazione Pechino fornisce prestiti a tasso agevolato e senza condizioni e offre grandi opere infrastrutturali a basso costo. Sono i cosiddetti «contratti globali» che comprendono aiuto allo sviluppo, annullamento del debito, prestiti, investimenti, tutto in cambio all’accesso alle materie prime.
Con l’Angola il contratto più esorbitante: 4 miliardi di dollari di credito (in due fasi tra il 2004 e il 2006) in cambio di petrolio. Luanda si è impegnata a fornire alle imprese cinesi il 70% del suo greggio. Così Shell e Total hanno perso il rinnovo del permesso di sfruttamento di importanti giacimenti, a beneficio delle compagnie cinesi. Il credito è utilizzato per grandi opere pubbliche, realizzate ancora da imprese cinesi (costruzione di 10 ospedali, 53 scuole, riabilitazione di strade, ponti e di tre ferrovie, la costruzione di un aeroporto, oltre alla foitura di centinaia di camion e trattori).
Intanto i cinesi sono sempre più presenti, anche fisicamente. «Ho constatato che la quasi totalità dei bugigattoli che fanno fotocopie sono gestiti da cinesi (anche in provincia) e molti cantieri edili (ce ne sono tanti, il paese è in forte crescita) a Luanda hanno personale cinese. I più sono occupati nei cantieri di ricostruzione della rete stradale. Questo business è finito per la quasi totalità nelle mani dei cinesi». Racconta un cornoperante di recente rientrato dal paese. «Ci sono molti cinesi in Angola, anche donne. Sono ben visibili, mentre 10 anni fa non si notavano». In Angola i cinesi sono scherzosamente chiamati «cama quente», ovvero «letto caldo», perché dormirebbero in tre, a tuo, nello stesso letto: ovvero uno dorme e due lavorano.
Anche la Nigeria, con le sue riserve nel delta del Niger fa gola al gigante asiatico che ha firmato un contratto di 800 milioni di dollari per una foitura a PertroChina di 30 mila barili di greggio al giorno, l’acquisto di un blocco da parte della Cnooc e la ristrutturazione della raffineria di Kaduna. I miliardi di dollari promessi sono in tutto cinque. In cambio la Cina spinge sul piano diplomatico affinché la Nigeria abbia un posto permanente al Consiglio di sicurezza.
Con lo Zimbabwe, altro regime «scomodo» come il Sudan, la Cina ha firmato per oltre un miliardo di dollari: costruzione di centrali termiche in cambio di diritti di estrazione mineraria.
Ma secondo Howard W. French del New York Times3, Pechino sta recentemente prendendo le distanze da regimi del Sudan e dello Zimbabwe, giudicati a lungo termine controproducenti.

Le miniere del pianeta

Il più recente contratto globale è quello firmato con la Repubblica democratica del Congo e presentato al pubblico lo scorso 17 settembre. Cinque miliardi di dollari, di cui due subito, per il settore minerario. Con questi soldi in prestito la Cina finanzia una serie di cantieri (3.200 Km di ferrovia, 3.400 km di strada, 450 km di strade cittadine, 31 ospedali e 145 dispensari …) e la ristrutturazione e rimodeamento di alcune compagnie congolesi di estrazione mineraria, nonché la prospezione di nuovi siti. Ad esempio la Miba (impresa pubblica di Mbuji-Mayi), possiede giacimenti di diamanti, rame, ferro, nickel, oro e cromo. Se da un lato il presidente Kabila ha così ottenuto i mezzi per la ricostruzione del paese, dall’altra la Cina entra prepotentemente nel settore minerario di uno dei paesi più dotati, a livello mondiale, da questo punto di vista.
Il braccio operativo finanziario della Cina in Africa è la China Exim Bank. È lei che presta alle multinazionali (pubbliche) cinesi i soldi per gli investimenti in terra africana. Si stima che la Cina abbia 1.300 miliardi di dollari di riserva monetaria e per questo non ha problemi a pagare, oltre che a promettere. In effetti ha soppiantato la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale in materia di prestiti. Le condizioni poste sono talmente vantaggiose, da non essere redditizi per chi presta, se non a lungo termine.
«Alla televisione etiopica, quando viene presentata la firma di un contratto, c’è sempre un cinese di mezzo» racconta padre Rasera, missionario della Consolata che da 25 anni vive nel paese. I cinesi sono presenti a livello industriale e stanno rifacendo la strada Mechara – Golelchia. «Pochi sono i rapporti con la popolazione locale. Vivono in campi isolati e si vedono solo uomini» continua. «A livello popolare non sono molto accettati dalla popolazione, mentre hanno una grande protezione da parte del governo». Gli etiopici che lavorano per loro raccontano che nei cantieri, una volta passato il controllore, il cemento armato viene smantellato e il tondino di ferro sostituito con quello di diametro inferiore… Nella regione dell’Ogaden stanno cercando il petrolio. Qui sono stati recentemente uccisi otto cinesi.

Africa, enorme mercato

Il continente africano è anche un immenso mercato di 850 milioni di persone. Non solo per le grosse imprese (statali), ma anche per l’import – export e le piccole medie imprese. Si valutano tra 600 e 800 le aziende cinesi (delle quali un quarto private) installate in Africa, mentre sono circa 150.000 i cinesi che vivono sul continente (tre volte tanto quelli naturalizzati, soprattutto in Africa australe). 
Oltre ai grandi cantieri (strade, ferrovie, aeroporti, stadi, scuole, ecc.) in mano ai costruttori statali, che tengono i prezzi bassi grazie ai «contratti globali», i prodotti realizzati in Cina, senza alcun controllo di qualità, e di marchio (molti sono contraffatti) hanno invaso il continente. I prezzi ridotti di un terzo o un quarto delle stesse merci di fabbricazione locale o di importazione, hanno permesso alla massa di africani a basso reddito di accedere a beni fino a pochi anni fa a loro proibiti. Come il ciclomotore.
Questo fenomeno ha creato anche problemi legati al dumping, in particolare nell’industria tessile, dove oltre 75.000 lavoratori hanno perso il lavoro dal 2002 (Sud Africa, Marocco, Mauritius). Ma anche a quella dei motorini in Burkina.
D’altro lato molte multinazionali cinesi danno ormai lavoro anche agli africani. In Mozambico, ad esempio la più grossa impresa cinese di costruzioni, che realizza opere pubbliche, ha chiesto che il codice del lavoro sia tradotto in mandarino. Il ministro ha dichiarato che una traduzione ufficiale sarà presto disponibile. I cinesi dicono di voler avere una migliore comprensione della legge (attualmente tradotta solo in inglese) per migliorare i rapporti con i lavoratori locali ed evitare così i frequenti scioperi.
Gli scambi commerciali nei due sensi sono saliti da 40 miliardi di dollari nel 2005 a 55,46 nel 2006 (statistiche cinesi), mentre il primo ministro Wen Jiabao ha proposto di portarli a 100 entro il 2010. L’Africa fornisce l’11% delle importazioni della Cina.
Molti iniziano a vedere gli interessi del gigante asiatico nel continente come un’«invasione» o una «nuova colonizzazione». Altri pensano che l’Africa ha tutto da guadagnare. Certo è che Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna vedono con apprensione l’intensificarsi di questi rapporti «tra eguali».

Di Marco Bello

Gli Usa (non) stanno a guardare

Anche gli Usa capiscono l’importanza strategica  del continente e si apprestano a lanciare un’operazione sul piano a loro più consono: quello militare. Così Bush ha annunciato già a fine 2006 l’idea di «Africom», un comando militare statunitense per l’Africa. Si affianca agli altri cinque (Eucom, Northcom, Southcom, Centcom e Pacom) che si dividono il pianeta. Finora il continente africano era «coperto» da tre di questi.
Costruzione di nuove basi (attualmente gli Usa hanno solo una base ufficiale a Djibuti e una stazione radar a Sao Tomé per controllare il «petrolifero» Golfo di Guinea), addestramento truppe africane, cornordinamento attività anti-terrorismo.  Ma anche «condurre operazioni militari allo scopo di respingere aggressioni o di rispondere a crisi» si legge sulla memoria del vice segretario alla difesa,  Teresa Whelan. Ovviamente, «Africom» avrà una forte componente civile e umanitaria.

La scusa è contrastare più efficacemente la penetrazione dei terroristi islamici (Somalia, Sahara, Sahel). Il vero motivo è essere più vicini e proteggere le riserve energetiche degli Usa.  Circa il 20% delle importazioni di greggio degli Stati Uniti provengono infatti dal Golfo di Guinea, e la quota è prevista salire al 35%.

«Africom», che dovrebbe (il condizionale è d’obbligo) diventare operativa per fine anno, ha già un capo: il generale afro – americano William Ward (58 anni), che si è occupato di addestramento truppe in Algeria, Mali e Mauritania. Non ha invece un paese di accoglienza per il suo quartier generale, che dovrebbe supportare una serie di altre basi sul continente.  Trattative sono in corso con diversi paesi (Nigeria, Etiopia, Kenya, Ghana, Senegal), ma nulla di fatto. Anzi. Il Sud Africa si oppone fermamente a un «comando su territorio africano», ed è seguito dagli altri 16 paesi dell’Africa australe, ma anche l’Algeria.  Solo la Liberia di Ellen Jonson-Sirleaf si è detta favorevole a ospitare «Africom».  A livello internazionale il progetto del Pentagono può creare tensioni.
La Cina potrebbe vederlo come una volontà di controbattere la propria penetrazione del continente.
Il mondo sta diventando troppo piccolo e le riserve dell’Africa allettanti e accessibili.

Ma.B.

Marco Bello




L’Africa «Feizhou» e l’impero di mezzo

Introduzione

Il più grande paese in via di sviluppo del mondo. Così la Cina – meglio i suoi dirigenti – definisce se stessa. La sesta economia del pianeta, scrivono gli economisti.  E ben presto sarà la quinta, grazie a un tasso di crescita che si avvicina al 10% annuo.  Ma è anche vero che il debito estero è intorno ai 228,6  miliardi di dollari e il paese occupa solo l’81simo posto della classifica delle Nazioni Unite sull’indice di sviluppo umano, classificato questo come «medio».

Quello che è certo è che il paese ha un grande bisogno di energia: dal 2005 è il secondo consumatore di petrolio, dopo gli Stati Uniti. Dal 10% della domanda a livello mondiale, passerà al 20% nel 2010.  Ma non basta. Se oggi in Cina ci sono 16 automobili per 1.000 abitanti, contro 588 dell’Italia e 812 degli Usa, si stima che grazie allo «sviluppo» il parco automobili esploderà, moltiplicandosi per 18 entro il 2030. Il gigante asiatico, pur avendo delle riserve, tra dieci annisarà costretto a importare il 60% del petrolio, contro il 30% di oggi.

Così, anche la Cina, come gli Usa è in corsa per accaparrarsi le riserve energetiche del pianeta. Non solo greggio, ma anche uranio, cromo, rame e legno … C’è un continente che ha tutto questo e lo vende (o lo svende) al miglior offerente: l’Africa.  O meglio Feizhou, come dicono loro e come sarebbe bene imparare. Dalla metà degli anni ‘90 i dirigenti cinesi varano una nuova politica per l’Africa, tuttora in piena applicazione. Cooperazione bilaterale (prestiti a basso interesse e senza condizioni), cancellazione del debito, doni, foiture militari. In cambio concessioni per lo sfruttamento di giacimenti o per l’esplorazione di nuovi. Così l’Angola diventa nel 2005 il primo fornitore di petrolio della Cina, il Congo foirà nei prossimi anni rame, ferro, oro, diamanti. In cambio alcuni miliardi di dollari che ricostruiranno i paesi distrutti da decenni di guerre (strade, porti, aeroporti, ferrovie, stadi, raffinerie, ecc.). O meglio multinazionali cinesi ricostruiranno l’Africa con soldi cinesi. E qualità cinese.

Piace l’approccio asiatico, soprattutto a molti capi di stato africani. Il principio base è «non ingerenza» nella politica intea degli stati. Questo può risultare utile al Sudan di Omar El Beshir e allo Zimbabwe di Mugabe, con i quali Pechino fa ottimi affari. Un’unica condizione: riconoscere l’unicità della Cina, ovvero non avere rapporti diplomatici con Taiwan.

Feizhou è anche un grande mercato di 850 milioni di persone per i prodotti cinesi. Beni a basso costo e infima qualità, ideali per le masse africane a basso reddito e tanta voglia di consumismo.
E gli altri? Francia, Gran Bretagna, Usa? I primi due si stanno ritirando lasciando ampi spazi di manovra. I secondi lanciano un nuovo assalto al continente. Di tipo militare, perché è l’unica cosa che sanno ancora fare. Così con la scusa della lotta al terrorismo nasce «Africom» il comando Usa in Africa: basi, aiuti militari, addestramento… presenza di marines.

Se Lucy, le cui spoglie riposano al museo di Addis Abeba, ci ricorda che tutti veniamo dall’Africa, lo slogan «made in China» ci mostra, ogni giorno, verso cosa stiamo andando.

Di Marco Bello

Marco Bello




Ai pellegrini non s’ha da dire

Incontro con don Nandino Capovilla (Pax Christi)

L’occupazione non esiste. I problemi nemmeno.
La disinformazione sul conflitto non risparmia i pellegrini che si recano in Terra Santa.  Quanto al turismo, non deve lasciare neanche le briciole ai palestinesi. A tutto ciò si è ribellato un prete che ha detto «basta» e che ha iniziato ad organizzare pellegrinaggi «alternativi». Questa è la storia della sua sfida.

La Palestina è sotto assedio da sessant’anni, ma dopo gli accordi (fallimentari) di Oslo, nel 2003, la situazione è precipitata, anziché migliorare.
I pellegrini che affollano i luoghi santi della cristianità non s’accorgono della tragedia in cui il popolo palestinese è costretto a vivere a causa di una delle occupazioni più spietate della storia: quella israeliana.
La gestione dei «pellegrinaggi in Terra Santa», una volta fonte di sussistenza per tanti palestinesi a Betlemme, Gerusalemme e in altre città, da alcuni anni è esclusivo appannaggio di aziende israeliane, emanazione del ministero del turismo.
Ne abbiamo parlato con don Nandino Capovilla, parroco a Murano e referente di Pax Christi per i «pellegrinaggi di giustizia».

Don Nandino, da un paio di anni Pax Christi organizza i «Pellegrinaggi di giustizia». Di che si tratta?
«Sono pellegrinaggi “alternativi” a quelli tradizionali organizzati dalle grandi agenzie israeliane, i cui manuali raccontano che si tratta di viaggi “spirituali” e non “politici”».

In pratica, il «buon pellegrino» non deve accorgersi che la Cisgiordania è assediata e spezzettata dal muro di separazione e che i cristiani, come i musulmani, vivono in condizioni drammatiche?
«Esatto. Chi si reca in Palestina non deve vedere cosa accade ai palestinesi, non deve porsi domande, non deve studiare quella che gli organizzatori definiscono eufemisticamente “complessa situazione politica”. A Betlemme non si può sostare neanche una notte, perché in questo modo si utilizzerebbero le risorse palestinesi, e il governo israeliano non lo vuole. Le strutture palestinesi vengono bypassate. Al pellegrino viene nascosta la mastodontica situazione di occupazione. Il muro, che ormai è molto ben visibile, viene giustificato con la necessità della “sicurezza”.  Viene raccontato che è stato costruito anche per proteggere i turisti, i pellegrini, dagli attentati terroristici dei palestinesi».

Come sono promossi i pellegrinaggi tradizionali?
«Emissari del ministero del turismo israeliano si recano nelle varie diocesi italiane e offrono “pacchetti di pellegrinaggi” in Terra Santa, comprensivi di alberghi e pullman israeliani. Nel “kit del pellegrino” è inclusa una cartina geografica dove la Palestina non esiste. La Cisgiordania e Gaza non esistono. Ci sono solo la Galilea e la Samaria e i nomi riportati sono quelli biblici. La maggior parte del tempo viene trascorso nei territori israeliani».

E i vostri pellegrinaggi in cosa si distinguono?
«Noi facciamo il contrario: i nostri pellegrini incontrano i palestinesi, cristiani e musulmani. Ogni sera vengono organizzati incontri con testimoni, associazioni, realtà palestinesi.
Come per i pellegrinaggi “tradizionali”, anche noi iniziamo il percorso da Nazareth, ma poi ci spostiamo nei villaggi del ’48 distrutti da Israele. Queste visite creano subito un forte impatto, fanno riflettere. Poi proseguiamo per Qalqiliya, Aboud, Taibe…».

Com’è iniziato questo vostro progetto «alternativo» e indubbiamente coraggioso?
«Nel 2002, durante i giorni dell’assedio dell’esercito israeliano alla Basilica della Natività. Non riuscivo più a sopportare quella situazione, quelle notizie. Ho iniziato a recarmi in Palestina con AssoPace e con il presidio del Medical Relief di Nablus. Nel 2004 sono tornato con alcune persone di Pax Christi. Quell’anno abbiamo prodotto il video Né muri né silenzi. A quel punto, Pax Christi mi ha affidato l’incarico di strutturare programmi di viaggi e di tenere le relazioni con la Palestina.
Ero stufo di vedere tutti quegli autobus che scaricavano turisti o pellegrini davanti alle basiliche cristiane palestinesi, persone che non avrebbero mai conosciuto la vera realtà della popolazione, cristiana e musulmana. Così, ho iniziato a proporre periodici pellegrinaggi “di giustizia”.
Ciò che ci porta in Palestina è il desiderio di vedere e capire quanto sta accadendo in questa terra, la Terra Santa, méta di migliaia di pellegrini da tutto il mondo con il solo desiderio di visitare i luoghi sacri della cristianità.
Li vediamo giungere a gruppi numerosissimi e su autobus con targa israeliana, passare velocemente i controlli ai check point e altrettanto velocemente procedere verso quella che sembra la loro unica méta.
Allora, ci viene spontaneo domandarci come sia possibile andare in Palestina senza prendere consapevolezza di quello che sta accadendo. Per questo motivo per noi è importante sforzarci di osservare e denunciare un’ingiustizia così evidente».

I media spesso denunciano le persecuzioni dei cristiani ad opera dei musulmani in Terra Santa. Qual è la sua opinione?
«Musulmani e cristiani condividono la stessa tragedia e sono uniti nella sofferenza e nella lotta contro l’occupazione, sono entrambi vittime di un’aggressione tra le più scandalose di tutta la storia umana.
I rapporti tra di loro sono buoni. I cristiani affrontano le difficoltà tipiche delle minoranze: rappresentano il 2% della popolazione palestinese. Quanto alle persecuzioni, sono gli stessi cristiani, preti, suore, vescovi, che ci chiedono di smentire queste voci che aiutano molto Israele, come tutta la disinformazione sul conflitto israelo-palestinese.
Queste notizie, smentite dai diretti interessati, sono funzionali allo scontro di civiltà tra islam e cristianesimo, e certamente all’occupazione israeliana che cerca di spaccare l’unità tra cristiani e musulmani in Palestina. I media enfatizzano molto piccoli episodi, seppur tragici, come, ad esempio, l’assassinio del cristiano evangelico a Gaza, lo scorso ottobre. Tutto va ad alimentare la propaganda e distoglie l’attenzione dalle operazioni dell’esercito israeliano».

Gerusalemme Est sta perdendo le proprie caratteristiche arabe, cristiane e musulmane: gli scavi sotto la «Spianata delle moschee» stanno procedendo indisturbati, nel silenzio o nel disinteresse internazionale. I palestinesi musulmani non possono pregare nella splendida Moschea di al-Aqsa (terzo luogo santo per l’islam, dopo quelli di Mecca e Medina) e «patrimonio architettonico dell’umanità», e i cristiani fanno fatica a entrare nella basilica del Santo sepolcro. Che futuro prevede?
«È probabile che gli israeliani si impossesseranno di tutta la città, ma benché potente, lo stato di Israele non potrà eliminare tutti i palestinesi, cristiani e musulmani, dalla faccia di Gerusalemme.
L’anno scorso abbiamo organizzato una sorta di protesta contro il tentativo di cancellare l’identità palestinese da parte di Israele: abbiamo sepolto di cartoline un nostro amico, un anziano leader del movimento nonviolento gerusalemita. Nell’intestazione abbiamo scritto “Palestina” e non “Israele”.  Gliene abbiamo spedite da tutta l’Italia, tantissime. Ebbene, i postini hanno cancellato la parola “Palestine” e l’hanno sostituita con “Israel”». 

A cura di Angela Lano

Angela Lano




Vince il profitto, perde la salute

Che cosa mangiamo? (2a puntata)

Il defoliante alla diossina usato durante la guerra del Vietnam; le banane trattate con un prodotto altamente cancerogeno; le vittime della Union Carbide che ancora attendono un risarcimento; le acque infestate da centinaia di sostanze nocive; le api impazzite. I disastri sono ovunque, perché i pesticidi usati dall’agricoltura industriale hanno ridotto la biodiversità e compromesso la catena alimentare. I danni prodotti pesano su tutta la collettività e sul nostro futuro.

Secondo un rapporto di Greenpeace del 1992, si calcola che ogni anno vengano immesse nella biosfera almeno 250.000.000 di tonnellate di prodotti organici, di cui 2.000.000 di tonnellate sono di pesticidi, cioè veri e propri veleni elaborati per liberare le colture da infestanti e parassiti sia animali, che vegetali.
L’inquinamento da pesticidi è molto particolare perché, a differenza di tutte le altre forme d’inquinamento, non è accidentale o conseguente ad attività industriali o agricole, ma è voluto, cioè si tratta di sostanze immesse volontariamente nell’ecosistema, spesso senza seguire alcun criterio di rispetto e di salvaguardia dell’ambiente. Inoltre i pesticidi sono sempre sicuramente dotati di attività biologica, poiché appositamente pensati per l’eliminazione di forme di vita considerate nocive, ma non sempre sono selettivi, potendo colpire anche specie utili, nonché l’uomo. L’uso massiccio di queste sostanze è molto aumentato dopo la seconda guerra mondiale, dal momento che in Europa la popolazione era esausta per il conflitto e carente di risorse alimentari. Ciò ha determinato lo sviluppo di un’agricoltura di tipo industriale, il cui fine è la produttività ad ogni costo, anche quello della perdita della salute e della biodiversità e della distruzione di interi ecosistemi. Non dimentichiamo poi la necessità di riconvertire la produzione di alcune industrie chimiche, che sono passate di colpo dalla produzione di agenti chimici a scopo bellico a quella di pesticidi e/o di farmaci. Ne sono esempio la Monsanto, produttrice in passato dell’agente Orange, il terribile defoliante a base di diossina usato nella guerra del Vietnam (per il quale tuttora si contano le vittime) ed attuale produttrice di pesticidi e di sementi Ogm nonché la Bayer, produttrice in passato dell’iprite (gas vescicante, utilizzato nella prima guerra mondiale) ed attualmente anch’essa produttrice di pesticidi e di farmaci. Le due multinazionali citate, insieme con Aventis CropSciences (recentemente acquisita dalla Bayer), BASF, Dow Agrosciences e Du Pont fanno parte del GCPF o Global Crop Protection Federation (www.croplife.org), che raggruppa produttori di pesticidi europei, statunitensi e giapponesi. Peraltro esistono anche dei pesticidi, recentemente messi in commercio, definiti «generici» , cioè non brevettati e prodotti dalla Cina, dall’India e da alcuni paesi dell’America Latina, oltre che dalle multinazionali appartenenti al GCPF. Questi pesticidi sono prodotti con vecchie tecnologie, per cui sono venduti ad un prezzo inferiore di quello degli altri e sono acquistati preferibilmente dai paesi in via di sviluppo.

L’avvelenamento del Sud del mondo

In linea di massima, l’80% dei pesticidi prodotti viene impiegato nel mondo occidentale, dove prevale l’agricoltura di tipo industriale, mentre nei paesi in via di sviluppo vengono impiegati in misura del 20% circa. Tuttavia, secondo un rapporto della Fao del 2001 (Giacarta, maggio 2001), dove si legge che ogni anno 25.000.000 di persone al mondo vengono avvelenate dai pesticidi, l’80% dei casi di avvelenamento si rileva nei paesi in via di sviluppo, dove i controlli sanitari e legislativi spesso non vengono effettuati. In tali paesi quasi mai vengono rispettate le norme di sicurezza per la distribuzione dei pesticidi, come l’uso di appositi schermi, di maschere respiratorie, di tute impermeabili, di guanti e di stivali di gomma. A ciò si aggiungono l’analfabetismo, la mancanza totale d’informazioni sanitarie e le errate abitudini, come quella di conservare i pesticidi vicino alle abitazioni e magari alla portata dei bambini.
Il rapporto Fao inoltre ha preso in considerazione l’uso dei pesticidi proibiti, cioè quelli vietati in quasi tutti i paesi industrializzati, ma liberamente venduti nei paesi in via di sviluppo. Tra questi composti, al primo posto troviamo il parathion metile, un organofosforico classificato dall’Oms come estremamente pericoloso. Tale composto viene prodotto in Thailandia con 200 nomi diversi, tra cui quello di Folidol (marchio Bayer). Il punto di smistamento dei pesticidi proibiti, secondo il rapporto Fao, è il sud-est asiatico: il 73% delle importazioni thailandesi è di prodotti, che l’Oms ha giudicato come estremamente tossici, mentre l’84% dei pesticidi usati in Cambogia è nocivo per la salute al punto che l’88% dei contadini cambogiani risulta essere stato vittima di avvelenamenti. Mentre nel mondo occidentale le patologie correlabili alla presenza di pesticidi nell’ambiente e nei cibi sono soprattutto dovute agli effetti a lungo termine di questi composti, nei paesi in via di sviluppo si ha la quasi totalità dei casi di avvelenamento, stimati intorno al milione di episodi accidentali e due milioni di avvelenamento colposo, di cui 220.000 casi mortali.

Le banane ai pesticidi: lo scandalo Nemagon

Emblematico è il caso dell’intossicazione da Nemagon (o Fumazone), che nella nomenclatura chimica è il dibromo-cloro-propano o DBCP. Si tratta di un pesticida, che è stato utilizzato nelle piantagioni di banane, per eliminare un microscopico verme parassita, la cui presenza impediva l’esportazione delle banane negli Usa. Inoltre al DBCP è stata attribuita la proprietà di fertilizzante, in quanto sia la pianta che le stesse banane crescevano più velocemente e miglioravano il loro aspetto. Per questi motivi, questo prodotto è stato a lungo usato dalle multinazionali americane della frutta, come dai produttori nazionali nelle piantagioni di banane di Nicaragua, Costa Rica, Honduras e di altre nazioni. Nel 1977 alcuni ricercatori della Occidental Petroleum di Lathrop (Califoia) si resero conto che il DBCP causava sterilità nei lavoratori di questa installazione e ciò provocò l’immediata proibizione del suo utilizzo dapprima in Califoia e poi in tutti gli Usa. La sua produzione, però, non venne proibita e tanto meno la sua esportazione nei paesi del Terzo Mondo, cioè in America Latina, nei Caraibi, in Asia, in Africa, ovunque le multinazionali delle banane avevano i loro investimenti. Successivamente la United States Environmental Protection Agency ritirò negli Usa la registrazione della marca del DBCP, poiché era risultato che questa sostanza ha proprietà cancerogene, mutagene e teratogene per gli esseri umani, essendo in grado di provocare uno spettro molto ampio di forme di cancro, nonché malformazioni congenite, aborti prematuri, oligospermia ed azoospermia; inoltre è una sostanza persistente per anni nell’ambiente e capace di provocare inquinamento dell’aria, dell’acqua e del suolo. La Costa Rica proibì l’uso del Nemagon nel 1978, ma poiché i distributori avevano grandi scorte di questo prodotto, esso venne rivenduto al Nicaragua ed all’Honduras, dove non esistevano leggi che lo proibivano. Negli anni ‘70 e ‘80, la Standard Fruit Company e la Dole Fruit Company, insieme con impresari bananeros nicaraguensi, cominciarono ad applicare il Nemagon nelle piantagioni di banane dell’Ovest del Nicaragua, specialmente nel Dipartimento di Chinandega, nonostante tale sostanza fosse vietata negli Usa. Attualmente in Nicaragua si sono già ammalati migliaia di lavoratori, a causa del Nemagon. Molti di loro, nel marzo 2005, si sono ritrovati a Managua, dopo una marcia di 11 giorni, in cui qualcuno è morto, per raggiungere la Procura per la difesa dei diritti umani (Pddh), nel tentativo di ricevere dal governo il riconoscimento della violazione dei diritti umani nei loro confronti. Questi lavoratori si accamparono per otto mesi a Managua, in una zona che venne denominata «Ciudadela del Nemagon», in circa 5.000 (Giorgio Trucchi, PeaceReporter). In un’intervista rilasciata da Victorino Espinales Reyes, presidente della Fondazione dei lavoratori delle bananeras, egli afferma che, fino agli anni ‘60, il Nemagon veniva immesso nel suolo con grosse siringhe, ma successivamente, a partire dagli anni ‘70, in corrispondenza dei nuovi investimenti delle multinazionali, la sua distribuzione venne fatta con cannoni d’irrigazione, capaci di spararlo fino a 80 metri di distanza. In breve tempo, il pesticida uccise non solo i parassiti delle banane, ma anche le altre forme di vita presenti nelle piantagioni, tra cui rospi, uccelli, ecc. Nessuno peraltro avvertì i lavoratori dei rischi a cui erano esposti ed intere famiglie vennero a contatto con il Nemagon: i padri, che lavoravano nelle piantagioni, le mogli, che portavano i pasti ed i bimbi, che vi giocavano, nonché le donne, che lavoravano nell’impacchettamento delle banane. Inoltre venne contaminata l’acqua dei pozzi ed è emerso che gli stessi tubi, che nottetempo venivano utilizzati per fare scorrere il pesticida, di giorno venivano utilizzati per distribuire l’acqua potabile ai contadini, che ora lottano da 14 anni per ottenere indennizzi, cure mediche e la possibilità d’intentare una causa legale contro le multinazionali. Si calcola che, in questa nazione, almeno 20.000 persone dovrebbero essere sottoposte ad accertamenti medici completi. Le imprese multinazionali Usa  produttrici del Nemagon sono la Shell Oil Company e la Dow Chemical Company, mentre le distributrici nel Nicaragua sono state la Standard Fruit Company e la Dole Fruit Company. Analoghi investimenti ha effettuato la Del Monte in Costa Rica e in Guatemala, dove i suoi pesticidi hanno inquinato fiumi e terreni e dove sono state perpetrate intimidazioni verso i sindacalisti bananieri. Nel 2001, la Chiquita ha invece firmato un contratto, in cui si impegna a rispettare i diritti dei lavoratori e dell’ambiente.

La strage di Bophal
(ma non furono i terroristi)

Considerando i disastri ambientali con migliaia di vittime causati dai pesticidi, come non ricordare la strage di Bophal del 1984, quando 40 tonnellate di un composto gassoso, l’isotiocianato di metile, un ingrediente del pesticida Sevin, prodotto dalla Union Carbide, vennero liberate nell’aria, a seguito di un’esplosione nella fabbrica, che lo produceva? Morirono subito 3.017 persone e 12.000 negli anni successivi. Tuttora i sopravvissuti, affetti da danni polmonari, oculari, renali e cutanei, aspettano un risarcimento di 555 dollari, mentre alle famiglie di coloro che sono morti durante l’incidente spettano 2.200 dollari ed a quelle degli altri morti non è stato riconosciuto alcun risarcimento. La Union Carbide ha lasciato la fabbrica così come l’esplosione l’ha ridotta. I componenti tossici rimasti sono filtrati nelle falde freatiche, che foiscono acqua ad una vasta zona, aumentando il numero delle vittime (cfr. Missioni Consolata, dicembre 2006, pag. 25).
C’è poi un altro grave problema riguardante i paesi in via di sviluppo e cioè quello dello stoccaggio in queste aree di un ingente quantitativo di pesticidi messi al bando per la loro nocività. Secondo la Fao, in Etiopia, Botswana, Mali, Marocco e Tanzania sarebbero state accumulate tonnellate di pesticidi, mentre la rivista Le Scienze parla anche di Moldavia, Ucraina, buona parte dell’America Latina, dell’Asia e dell’Africa. Spesso i pesticidi sono accumulati in contenitori deteriorati, che lasciano fuoriuscire il loro contenuto; quest’ultimo talvolta, a seguito delle pessime condizioni di stoccaggio e del tempo trascorso, ha subito trasformazioni chimiche, che lo hanno reso ancora più tossico. Spesso lo stoccaggio è avvenuto in un magazzino o in una capanna al centro del villaggio, vicino alle abitazioni, dove pascolano gli animali da cortile e dove giocano i bambini. Non esistono peraltro dei dettagliati inventari di ciò, che è stato stoccato. I pesticidi sono giunti nei paesi del Terzo Mondo a seguito di donazioni, oppure sono stati acquistati per timore d’invasioni parassitarie ed il loro stoccaggio approssimativo ha portato all’inquinamento di aria, acqua e suolo.

Le acque italiane: ricche di 119 pesticidi

E a casa nostra le cose come vanno? A seguito di un monitoraggio effettuato nel triennio 2003-2005 dall’Apat (Agenzia per la protezione dell’ambiente e servizi tecnici) risulta che nelle acque italiane sono stati trovati 119 pesticidi diversi, di cui 112 nelle acque superficiali e 48 in quelle profonde. Consideriamo che in Italia, in agricoltura, ne vengono utilizzate circa 150.000 tonnellate all’anno. Nelle acque superficiali i residui di pesticidi sono stati trovati nel 47% dei campioni prelevati (27,9% dei casi con concentrazioni superiori a quelle stabilite dalla legge per le acque potabili); nelle acque profonde sono state osservate contaminazioni nel 24,8% dei casi, con il 7,7% di sforamento dei limiti di legge. Gli erbicidi sono fra le sostanze più frequentemente rinvenute; è particolarmente critica la contaminazione da terbutilazina, diffusa in tutta l’area padano-veneta, ma anche in qualche regione del centro-sud. Oltre a questa è particolarmente significativa la presenza di bentazone, un erbicida usato nelle risaie e quella dell’atrazina (ad un ventennio dal suo divieto), a causa sia di un largo uso nel passato, che della sua persistenza nel tempo. Le conseguenze di questa situazione non hanno tardato a manifestarsi. In un’intervista apparsa il 25 maggio 2007 su La Stampa, il prof. Pileri, ematologo e docente dell’Università di Torino, ha affermato che in Piemonte sono in drammatico aumento i casi di linfoma non-Hodgkin, rispetto alle altre regioni, e la causa di ciò sarebbe da ascriversi proprio alla presenza di pesticidi, come si evince da uno studio condotto dal prof. Vineis, epidemiologo della stessa Università, il quale ha dimostrato che il fattore di rischio nella zona delle risaie è doppio, rispetto alle altre zone.

Ogm e pesticidi: le stesse multinazionali

Un altro aspetto da esaminare è quello della correlazione tra gli Ogm, cioè gli Organismi geneticamente modificati, e l’uso dei pesticidi. Dei 44 milioni di ettari coltivati attualmente nel mondo ad Ogm, il 97% consiste in piante modificate per soli due caratteri, cioè la resistenza ai diserbanti e quella agli insetti; in particolare, le piante interessate sono la soia, il mais, la patata, il cotone e la colza. Aumentare la resistenza di queste piante all’erbicida, che serve ad eliminare le piante infestanti, significa avere una garanzia di vendita dell’erbicida stesso ed infatti le ditte, che producono gli Ogm, producono anche i pesticidi, come la Monsanto. Bisogna inoltre tenere presente che le multinazionali considerano come «infestanti», per le monocolture dell’agricoltura industriale, delle piante che invece fanno parte del patrimonio culturale delle popolazioni locali e sono adoperate da secoli per molteplici usi, tra cui spesso quelli alimentare e farmaceutico.  
L’eliminazione delle piante infestanti con diserbante e la coltivazione di monocolture, spesso Ogm, porta inesorabilmente alla perdita della biodiversità. Infatti, attualmente, nella maggior parte delle regioni, dove è praticata l’agricoltura industriale, si coltivano solo quelle poche varietà di piante, che rispondono bene all’impiego dei prodotti chimici e si stima che, in pochi anni, si sia passati da molte migliaia di specie vegetali coltivabili a qualche centinaio.

La biodiversità uccisa dall’agricoltura industriale

Purtroppo, l’agricoltura industriale non tiene conto della specificità dei metodi di coltivazione, relativi alle varie zone agroclimatiche, che privilegiano le specie, che si adattano meglio alle caratteristiche ambientali. Ad esempio, le monocolture di riso e di grano hanno spesso sostituito quelle di miglio, di leguminose e di semi oleosi. In pratica l’agricoltura industriale porta all’estinzione di diverse specie coltivabili, per introdurre colture uniformi, che si adattano perfettamente alle esigenze dell’industria chimica, anziché a quelle dell’ecosistema. Inoltre, per fare fronte alle pressioni ed ai tempi del mercato globale, spesso gli scienziati tendono a sviluppare o ad adattare le colture, selezionando un gene principale, rendendolo resistente. Purtroppo, le varietà dotate di un solo gene resistente rappresentano un facile bersaglio per i parassiti e per le malattie delle piante, che si ritrovano a dovere superare un solo ostacolo; ci troviamo infatti davanti ad ecosistemi estremamente semplificati. Nelle aree coltivate meccanicamente cresce una sola specie vegetale, con corredo genetico omogeneo; pochi esemplari di un insetto, che si nutre di questa pianta, se il ciclo vitale dell’insetto è rapido, sono in grado, in poco tempo, di generare una popolazione infestante, capace di distruggere l’intera area coltivata. A questo punto la risposta più immediata diventa l’utilizzo di un insetticida, che per i primi anni solitamente funziona bene, ma in seguito si ripresenta l’infestazione tal quale a prima. Cosa è successo? Si è drammaticamente passati dalla perdita della biodiversità al fenomeno della resistenza ai pesticidi, con la necessità di produrre nuove e più potenti molecole. Ma come può essere avvenuto?

Più pesticidi, più resistenza, più danni

La risposta sta nel fatto che l’insetticida sparso nei campi ha eliminato non solo la specie infestante, ma anche le altre specie animali, che la predavano o la parassitavano, regolandone la crescita. La specie infestante, per un certo tempo, è effettivamente scesa ad un numero quasi insignificante d’individui, ma si tratta purtroppo d’individui, che hanno sviluppato la capacità di tollerare certe dosi d’insetticida. È persino possibile che la scomparsa dei predatori, dovuta ai pesticidi, abbia permesso una smisurata moltiplicazione di specie prima tenute sotto controllo biologico, per cui «non dannose» per l’agricoltura, facendole diventare «dannose». E così, grazie alla produzione di molecole di pesticidi sempre più nuove, siamo riusciti a selezionare delle varietà d’insetti sempre più resistenti. Basti pensare che nel 1970 le specie di insetti resistenti agli insetticidi erano 224, mentre nel 1980 erano già 428.
Consideriamo poi che l’adattamento ad un pesticida da parte delle specie predatrici di una specie infestante è sempre più lento di quello della specie predata. Le specie più complesse e collocate più in alto nella catena alimentare, infatti, sono più vulnerabili, hanno tempi più lunghi di riproduzione e quindi minore elasticità. Inoltre i predatori, divorando grandi quantità d’insetti contaminati, accumulano il veleno nel loro corpo, soprattutto negli organi filtranti come il fegato, in quantità sempre maggiore, man mano che si sale lungo la catena alimentare. Un esempio di questo processo è fornito da una ricerca effettuata nel lago Michigan, dove è stata diffusa la dose minima di 0,012 ppm di un cloroderivato, un insetticida per le zanzare. Nel plancton è stata trovata, dopo qualche tempo, una concentrazione di 0,5 ppm; nei piccoli pesci si è arrivati a 4 ppm ed a 10 ppm nei pesci di grossa taglia. Negli uccelli, che si nutrivano di questi pesci, si è arrivati a 2.000 ppm (sic!). A proposito, l’uomo è al vertice della catena alimentare.

La sperimentazione e la «dose letale 50»

Oltre a tutto ciò, l’agricoltura industriale comporta un inquinamento ed uno spreco delle risorse idriche. Si calcola che le colture soggette a trattamenti chimici richiedano una quantità d’acqua fra le cinque e le dieci volte superiore a quella delle coltivazioni tradizionali. L’impiego dei fertilizzanti chimici non solo richiede una maggiore irrigazione, ma comporta anche un minore apporto di componenti organici, il che riduce la capacità di trattenere l’acqua del suolo. L’irrigazione intensiva porta anche alla formazione di acquitrini ed alla salinizzazione, quando i sali del terreno emergono e si depositano in superficie. Secondo la scienziata indiana Vandana Shiva, un’agricoltura di questo tipo sta provocando un grave processo di erosione e di perdita di fertilità del suolo. 
C’è poi da considerare un aspetto veramente inquietante riguardante i metodi di sperimentazione dei pesticidi, adottati dalle aziende produttrici. L’EPA (Environmental Protection Agency, Usa) è stata al centro di polemiche, per avere accettato di visionare 24 studi commissionati dalle case produttrici dei pesticidi, per verificarne gli effetti sull’uomo. Pare che ad alcuni volontari siano state somministrate delle capsule di pesticidi da ingerire, per più giorni consecutivi, mentre altri sono stati chiusi in camere, dove era stato immesso un gas lacrimogeno usato nella prima guerra mondiale, il chlorpicrin. Il tutto per 15 dollari l’ora. I partecipanti all’esperimento furono reclutati fra le fasce più deboli della popolazione ed inoltre, in alcuni casi, il compenso era subordinato al portare a termine l’esperimento stesso. Il presidente Clinton bloccò la possibilità di visionare i risultati di questi studi, giudicati eticamente scorretti, ma anche inutili per un miglioramento dei prodotti sia dal punto di vista umano, che ecologico, poiché i test tendevano a dimostrare una superiore soglia di tolleranza. Il presidente Bush eliminò il divieto emanato dall’amministrazione Clinton, tuttavia due deputati democratici, nel giugno 2005, denunciarono la vicenda, che attualmente attende una risoluzione da parte del Congresso. Tra le aziende, che commissionarono questi studi c’è la Bayer. In Germania si è formato il gruppo Coalition Against Bayer Diseases (www.cgbnetwork.org), che ha portato la prova che la compagnia non ha ottenuto il pieno consenso dei soggetti informati, poiché essi non erano a conoscenza o non avevano compreso i rischi e gli obiettivi degli esperimenti. È comunque interessante esaminare le conclusioni, a cui sono giunti gli studiosi della Bayer, dopo questi esperimenti; secondo loro i dolori addominali, la nausea, la tosse e le eruzioni cutanee dei soggetti partecipanti alla sperimentazione con azinfos-metile, per quasi un mese, sono attribuibili a malattie virali o alla dieta.
Un grosso limite di molti studi di laboratorio sui pesticidi è comunque quello di tenere conto solo della tossicità acuta di queste sostanze, valutabile con il parametro della DL50 o «dose letale 50», che corrisponde alla quantità di sostanza sufficiente a provocare la morte nel 50% degli animali da laboratorio trattati. Tali studi non prendono mai in considerazione gli effetti dei pesticidi sul lungo periodo, quindi il loro potere mutageno, cancerogeno e teratogeno. Inoltre i pesticidi vengono studiati singolarmente, senza tenere conto degli effetti dovuti alla loro possibile compresenza in una stessa zona, con conseguente sinergismo.

Senza pesticidi si può: la lotta biologica

Ciò che lascia veramente perplessi è la ormai diffusa mentalità che l’uso dei pesticidi sia diventato una condicio sine qua non, una necessità irrinunciabile per le coltivazioni. Ci siamo forse dimenticati che in natura esistono da sempre le specie predatrici e che, grazie ad un insieme di strategie integrate, è possibile sfruttarle in una lotta biologica agli infestanti, senza dovere ricorrere alla chimica? È possibile, ad esempio, una lotta di tipo microbiologico, grazie a specie batteriche, che non hanno mai manifestato alcun potere patogeno verso i vertebrati o le piante, come il Bacillus thuringensis, che produce una tossina larvicida. Oppure è possibile impedire gli accoppiamenti, grazie all’uso di feromoni sessuali, che determinano confusione o distrazione negli insetti. Possono essere diffusi artropodi predatori o parassitornidi, cioè nemici di quelli dannosi delle piante coltivate, in particolare gli entomofagi. Si possono effettuare lanci con mezzi aerei o meccanici di insetti ooparassitornidi (piccolissimi imenotteri del genere trichogramma, che distruggono le uova dei loro ospiti). Questi insetti «limitatori delle nascite» sono guidati da messaggi olfattivi verso le uova o altri stadi dell’artropode dannoso, riducendo le sue popolazioni senza effetti collaterali nocivi per l’ambiente. Per la produzione di ortofrutta di qualità elevata è possibile ricorrere all’allevamento di diverse specie di pronubi, che favoriscono un aumento delle qualità organolettiche dei prodotti ed inoltre possono essere sfruttati nella lotta microbiologica. Infatti, molte specie di pronubi, ad esempio il bombo, possono essere sfruttate come vettori di microrganismi (funghi, batteri e virus) ad azione antagonista per le specie patogene delle piante. In Canada, per esempio, sono state impiegate sia le api, che il B. impatiens per la diffusione di un fungo microscopico, il Gliocladium roseum, per la lotta alla muffa grigia delle fragole e del lampone. In Italia si è sperimentata la disseminazione di T. harzianum da parte dei bombi, per la lotta alla botrite del pomodoro.

Dalle mele ai pelati, i consumatori sotto assedio

E noi, come consumatori, cosa possiamo fare? Come già detto, è meglio informarsi sulla provenienza dei prodotti ortofrutticoli, dando la preferenza ai prodotti nazionali e di stagione, oppure a quelli del commercio equo e solidale, che ci consentono di evitare il giro delle multinazionali e di assicurare ai piccoli produttori locali un pagamento equo dei loro prodotti. È bene poi porre una particolare attenzione ai prodotti made in China, poiché è risultato da un’indagine che il 47% di questi prodotti contiene tracce di pesticidi superiori ai limiti di legge. In Cina la produzione di pesticidi è, secondo Federico Rampini (L’impero di Cindia), triplicata in cinque anni ed in questo settore dilaga la contraffazione, con il 40% dei pesticidi venduti con un marchio falso. Il ministero della Sanità cinese ha stimato che ogni anno i casi d’intossicazione da pesticidi sono circa 120.000. Non dimentichiamo poi che i campi ed i fiumi cinesi sono tra i più inquinati al mondo, per cui all’effetto dei pesticidi si assomma quello dell’inquinamento. Quindi attenzione alle mele Fuji o ai pomodori, che finiscono in Italia nelle scatole di pelati, magari con il marchio italiano contraffatto.                           •

Roberto Topino e Rosanna Novara




«La sola verità è amarsi»

30° anniversario della morte dell’apostolo dei malati di lebbra e della pace

Il 6 dicembre 1977, moriva a Parigi Raoul Follereau. Per 50 anni ha fatto udire fino alle più alte sfere nelle stanze dei bottoni la voce di chi non ha voce: i lebbrosi e tutti gli esclusi del mondo. Il suo esempio e il suo messaggio non possono essere dimenticati; oggi più che mai, c’è bisogno di continuare la sua lotta «contro tutte le lebbre»: egoismo, ignoranza, indifferenza, viltà.

C ome le più grandi avventure, anche quella di Raoul Follereau iniziò per caso.
Era il 1936 e stava attraversando il deserto del Sahara. Vi era andato già diverse volte, in veste di giornalista e di credente, per raccontare la vita di padre Charles de Foucauld. A un certo punto il radiatore della sua auto si mise a bollire e i passeggeri furono obbligati a una sosta per far raffreddare il motore. Fu allora che apparvero dei fantasmi d’uomini. Erano degli scheletri che si trascinavano a stento, lo sguardo pieno di paura. Follereau con il suo proverbiale impeto li chiamò, li invitò ad avvicinarsi, ma quelli si allontanarono e si nascosero.
Follereau si rivolse al suo accompagnatore. «Chi sono?» chiese. «Lebbrosi» rispose quello. E non seppe aggiungere altro, né spiegare perché vivessero da reietti, isolati da tutto e tutti.
«Quel giorno – raccontò anni dopo Follereau – capì che esisteva un crimine imperdonabile, degno di qualsiasi castigo, un crimine senza appelli e senza amnistia: la lebbra».
ORFANO A 13 ANNI
Un caso, abbiamo detto. Ma è proprio così? L’uomo di carità è colui che è attento alla sofferenza degli altri. Follereau era stato allenato dalla vita ad affinare questa speciale sensibilità.
La sua adolescenza fu stravolta dalla Grande guerra. Quando scoppiò il primo conflitto mondiale aveva appena 11 anni (era nato a Nevers nel 1903). Il padre venne chiamato alle armi. La piccola fabbrica di famiglia, che produceva attrezzi per l’agricoltura, dovette essere convertita in «industria bellica». Non c’era più spazio per i sogni e per i giochi. Anche Raoul, insieme al fratello maggiore, fu costretto a lavorare alle macchine per produrre proiettili. La scuola divenne un lusso; ma il ragazzo ostinato studiava la sera con l’aiuto di un anziano sacerdote.
Le ostilità sembravano non cessare più, infinito l’elenco dei morti. A casa si pregava perché fosse risparmiata la vita del proprio congiunto. Purtroppo non fu così. Nel 1917 avvenne ciò che tutti temevano: il soldato Follereau venne ucciso in battaglia nella Champagne. Raoul aveva 13 anni e adesso era uno dei 3 milioni di francesi resi orfani dalla guerra.
Il disastro bellico in Francia s’era sovrapposto a un altro conflitto, che riguardava questa volta le coscienze e bruciava negli animi più sensibili ai valori della religione cristiana. Nel 1905, con la cosiddetta legge Combes (dal primo ministro che l’aveva proposta, un ex seminarista divenuto massone), la Francia aveva dichiarato solennemente la separazione tra stato e chiesa. Gli edifici di culto vennero espropriati, gli ordini religiosi disciolti e costretti all’esilio.
Raoul, che aveva studiato presso i Fratelli delle scuole cristiane, sperimentò su di sé l’anticlericalismo. Nel 1920, agli esami per l’ingresso alla facoltà di filosofia, venne bocciato per due volte nonostante la sua dissertazione fosse tra le migliori. Ma non piacevano le tesi esposte e dunque… Dovettero intervenire le organizzazioni degli ex combattenti per difendere il figlio di un caduto in guerra. Il ministro dell’istruzione, per evitare lo scandalo, ammise d’ufficio Follereau alla Sorbona.
AVVOCATO, GIORNALISTA, POETA
Del resto, quel giovane era già una piccola personalità. Dall’età di 15 anni aveva scoperto la sua vena di comunicatore. La sua prima conferenza la tenne nel 1918 nel cinema della sua città, in occasione di una cerimonia per ricordare le vittime del conflitto mondiale. «Dio è amore», fu il titolo, lo stesso che 85 anni dopo verrà scelto da Benedetto xvi per l’enciclica iniziale del suo pontificato.
Follereau fu uno studente brillante, a 20 anni era già laureato in filosofia e diritto. Forse sentì già in sé la vocazione di difensore degli ultimi e di lottatore contro le ingiustizie. Scelse allora la strada dell’avvocatura, ma nello studio dove iniziò a lavorare la prima causa che gli affidarono fu quella per un divorzio. Sbatté subito contro il muro della propria coscienza e dovette trovare altri strumenti per portare avanti la sua battaglia.
L’occasione si presentò presto, sotto forma di un posto quale segretario di redazione del giornale parigino L’Intransigeant. L’ambito intellettuale e dell’informazione era in effetti quello più adatto a lui. Allargò presto i suoi impegni e nel 1927 fondò la «Lega dell’unione latina», un’organizzazione che si proponeva di difendere la civiltà cristiana contro tutti i «paganesimi» e le «barbarie».
Follereau aveva elaborato la sua esperienza giovanile: le divisioni intee alla Francia, il ripudio della tradizione e delle radici cristiane su cui pure si fondava la nazione; e poi, la tragedia bellica, generata da anacronistiche contrapposizioni tra le vecchie potenze dell’Europa. Da questo passato Follereau vedeva proiettare ombre sul futuro, che di lì a pochi anni avrebbero preso drammaticamente corpo.
Chi erano i nuovi barbari temuti dalla sua Lega, se non la triade con cui avrebbe fatto i conti tutto il xx secolo? Il germanismo, che sarebbe sfociato nella follia nazista; il bolscevismo, che avrebbe applicato la ricetta comunista sotto forma di feroce dittatura; e la corsa al denaro, che più avanti sarebbe divenuta quasi un’ideologia con il nome di consumismo, alimentata dalle ricette iperliberiste con al centro di tutto il mercato e la borsa.
Per far circolare le idee del suo movimento fondò un mensile, L’Opera Latina, dove diede molto spazio ai poeti. Era poeta egli stesso, una sua lirica fu apprezzata da Gabriele D’Annunzio, che lo volle incontrare. L’anima poetica di Follereau fece la sua parte negli appelli ai grandi della terra e ai giovani che furono i «capolavori» della maturità. Follereau era un vulcano: giornalista, drammaturgo, conferenziere…
VIAGGI  E INCONTRI STRAORDINARI
E intanto viaggiava all’estero, si recava in ogni luogo dove poteva esserci un’impronta francese o latina. Nel 1929 il ministero della Pubblica Istruzione, forse per «risarcirlo» della discriminazione che aveva subito anni prima agli esami di ammissione universitaria, gli affidò una ricerca sull’influsso culturale francese in America del Sud. Nel suo rapporto scrisse di aver trovato dovunque i religiosi e le religiose francesi, gli stessi che erano stati cacciati dal proprio paese a causa delle leggi del ‘905. Questi connazionali avevano fondato scuole, collegi, università. Erano loro i migliori ambasciatori della patria che li aveva rifiutati.  Chi aveva incaricato Follereau della missione si aspettava certo altre conclusioni…
Durante quel viaggio il giornale argentino La Nacion gli affidò un reportage su de Foucauld. Il piccolo fratello del deserto non poteva non attirare Follereau, che tra il ’30 e il ’36 fece la spola tra l’America Latina e il Sahara.
Fratel Charles era stato un viveur impenitente e un ufficiale avventuroso prima di farsi conquistare da Gesù. Non dall’immagine potente del Figlio di Dio, ma da quella ordinaria del figlio del falegname, che vive la sua vita nascosta nella piccola Nazareth. Un incontro che gli cambiò l’esistenza e lo condusse infine nel Sahara algerino, al seguito delle truppe francesi. Follereau vide proiettata in questa avventura umana tutto il suo ideale di una Francia capace di espandere la civiltà cristiana, non con la forza economica e delle armi ma con la fedeltà all’amore di Dio.
L’umiltà eroica di Charles de Foucauld, che adorava il Santissimo nel silenzioso eremo di Tamanrasset e lì, il primo dicembre del 1916, venne ucciso da un tuareg, era l’esempio di chi offre la propria vita senza chiedere nulla in cambio. Sapendo, però, che in quell’oblazione sta il «di più» che fa grande la fede e conquista i cuori.
Dunque, Follereau a 33 anni era già tutto questo, quando il «caso» fece sì che la sua auto restasse in panne nei pressi di un accampamento di lebbrosi. Una visione che non lo avrebbe più abbandonato, sebbene costretto ancora ad occuparsi d’altro.
La storia incalzava. Scrisse un libretto dal titolo «Hitler, volto dell’Anticristo» si recò in Italia e Romania per convincere queste nazioni – che la latinità rendeva sorelle della Francia – a non schierarsi con la Germania nazista. Incontrò anche Mussolini, incuriosito dal fiocco che Follereau indossava a mo’ di cravatta più che dalle idee dell’interlocutore. Quella strana cravatta, disse Follereau, è il segno di una differenza e della libertà individuale. Il duce si limitò a sorridere.
Nel 1939, allo scoppio della guerra, fu destinato al servizio degli ascolti telefonici. Follereau, in altre parole, divenne una sorta di 007 e fu testimone diretto del drammatico precipitare degli eventi inteazionali. L’anno dopo si trovò a Vichy, quando nacque il governo collaborazionista del maresciallo Pétain. Rifiutò ogni incarico e si rifugiò a St. Etienne, continuando la sua personale battaglia fatta di incontri e di discorsi. Tra il ’40 e il ’42 girò la Francia in lungo e in largo per ridare orgoglio e fiducia ai connazionali avviliti dall’occupazione straniera, mentre collaborò discretamente con l’esercito clandestino.
«IL VAGABONDO
DELLA CARITà»
Tra tanto girovagare, nel novembre del ’42, mentre nel mondo infuriava la guerra, Follereau incontrò una suora bergamasca, Eugenia Elisabetta Ravasio, che era divenuta giovanissima madre generale delle Suore missionarie di Nostra Signora degli apostoli. La religiosa era appena tornata da un viaggio in Africa, dove s’era imbattuta in orde di hanseniani, costretti a vivere nell’isolamento e nell’abbandono più completi. Madre Eugenia voleva costruire per loro un piccolo villaggio nella foresta, dove ognuno avrebbe potuto disporre di un capanno con un orto e delle cure sanitarie.
In Follereau si materializzò l’immagine di sei anni prima: l’incontro casuale coi lebbrosi nel Sahara, il loro destino di perenni fuggiaschi. Il progetto della suora lo conquistò e si buttò a capofitto nell’impresa di trasformarlo da sogno in realtà. Iniziò subito un giro di conferenze e una raccolta di fondi.
Il primo appuntamento fu ad Annecy il 15 aprile del ’43 e sembrò surreale l’iniziativa a favore dei lebbrosi tra le macerie dei bombardamenti, in una nazione e in un continente devastati dal conflitto bellico. «Ma la lebbra ormai mi aveva preso – raccontò più tardi Follereau -, ero il suo felice prigioniero». Il luogo per far sorgere il villaggio dei lebbrosi fu individuato in Costa d’Avorio, in una località chiamata Azoptè.
Per 10 anni Follereau, insieme a due suore, girò per le strade di Francia, Belgio, Svizzera, Libano, Algeria, Tunisia, Marocco, Canada. Tenne 1.200 conferenze e divenne il «vagabondo della carità», «l’apostolo dei lebbrosi». Montagne di corrispondenza giunsero al suo indirizzo. Malati, medici, missionari gli raccontarono storie, drammi, speranze. E tutti dissero che non c’era solo Azoptè, che erano tanti e tanti – milioni – i lebbrosi da salvare dal peggiore effetto della malattia: il pregiudizio.
L’impegno a favore dei lebbrosi divenne un fiume in piena, sempre più impetuoso e inarrestabile. Non ci fu più spazio per altri mestieri, prese corpo l’idea di una fondazione che incanalasse il lavoro svolto in così tanti luoghi. Il campo d’azione divenne il mondo.  Follereau passò dall’Africa all’Asia, all’America Latina. Le sue conferenze divennero incalzanti, la sua oratoria proverbiale. Mirava al cuore degli ascoltatori, metteva a nudo l’indifferenza, la tiepidezza della maggioranza fortunata dell’umanità verso gli ultimi e gli esclusi. Coniò il suo famoso slogan: «Nessuno ha diritto d’essere felice da solo». Ecco, Follereau non voleva essere solo, voleva condividere giornie e dolori. Anche nella sua vita privata.
A 15 anni appena, s’era fidanzato con Madeleine, che a 21 sarebbe divenuta sua moglie. Madeleine fu per sempre la sua spalla. Lo sostenne nei momenti di difficoltà, quando l’attività vulcanica del marito non si conciliava con il conto della spesa; lo affiancò nei viaggi avventurosi, perfino a rischio della vita, quando piegata da una crisi di appendicite si trattò di accamparsi in Bolivia negli sperduti villaggi degli indios o di risalire il Rio delle Amazzoni con una canoa mezza rotta, tra nugoli di zanzare e frotte di caimani affamati. «La più grande fortuna della mia vita fu mia moglie», disse ormai anziano Raoul e aggiunse: «Solo quando si è in due si è invincibili».
«INSEGNARE DI NUOVO    AGLI UOMINI AD AMARSI»
Follereau non era un don Chisciotte. Credeva nell’utopia, ma non confondeva le pale di un mulino a vento col gigante da abbattere. La sua strategia solo a prima vista poteva apparire ingenua, in realtà puntava a moltiplicare il coinvolgimento dell’opinione pubblica e delle istituzioni in un gioco di causa-effetto che allargava il raggio d’azione e d’influenza a cerchi concentrici.
In questo senso il 1952 fu un anno fondamentale. Mentre la scienza medica annunciava la possibilità di curare la lebbra con i sulfoni, Follereau si rivolgeva alle Nazioni Unite. «Per molti paesi – scrisse – la lebbra rimane una malattia vergognosa: si nascondono i lebbrosi, si dissimulano, si interrano, nelle famiglie come nelle nazioni». La sua era ancora una voce isolata, ma comunque la voce di un testimone autorevole che nessuno poteva far finta di non sentire. Egli stesso ne era consapevole e l’anno successivo alzò il tiro creando la Giornata mondiale dei malati di lebbra.
Due gli scopi essenziali: garantire agli hanseniani trattamenti e cure come tutti gli altri malati; guarire i sani dalla paura ancestrale verso la lebbra.
Dal 1953 a oggi la Giornata si è sempre tenuta l’ultima domenica di gennaio e anche i pontefici non hanno mai mancato di unirsi all’appello alla solidarietà verso le persone affette dal morbo di Hansen.
Follereau ricordò spesso i suoi incontri con i papi, a cominciare da quello che ebbe a Castel Gandolfo con Pio xii: «Quando gli esposi tutte le miserie, le crudeltà, il dolore, l’eroismo di cui ero stato testimone, quando ebbi terminato questa arringa che era quasi una preghiera, ci fu nello studio del papa un grande silenzio,  limpido, assoluto. La voce del papa riprese, con un tono del tutto mutato: “Sì – mi disse -, sì, quello che serve è insegnare di nuovo agli uomini ad amarsi”».
APOSTOLO DELLA PACE
In un certo senso Follereau fu un antesignano della globalizzazione. Di fronte a un problema planetario, anche la lotta deve essere condotta sulla stessa scala. Aveva ben chiaro che il destino dell’umanità era legato a un unico filo. L’esperienza della seconda guerra mondiale e l’ingresso nell’era atomica non avevano fatto altro che rafforzarlo in questa idea.
Nel 1948, in una sorta di manifesto dal titolo «Bomba atomica o carità», profeticamente affermava: «Non c’è più posto per coloro che tergiversano o temporeggiano. Oggi bisogna scegliere, subito e per sempre. O gli uomini impareranno ad amarsi, a comprendersi, e l’uomo finalmente vivrà per l’uomo, o spariranno, tutti e tutti insieme». 
Già nel 1944 aveva scritto al presidente degli Stati Uniti, Franklin Delano Roosevelt, chiedendo che l’equivalente dei costi di un giorno di guerra fossero destinati alla ricostruzione e alla pace. Ma gli accordi di Yalta sancirono l’inizio della «guerra fredda» e così, 10 anni dopo, Follereau inviò un’altra lettera, stavolta sia al presidente americano Eisenhower che a quello sovietico Malenkov. Si rivolgeva ai due grandi in modo apparentemente naïf, mettendo alla berlina le contraddizioni della corsa bellica tra superpotenze. Chiedeva a ciascuno dei due destinatari un aereo da bombardamento: «Perché ho calcolato che, con il prezzo dei due vostri aerei di morte, si potrebbero curare tutti i lebbrosi del mondo. Un aereo in meno in ogni campo non modificherà l’equilibrio delle vostre forze. Voi potrete continuare a dormire tranquilli e io dormirò meglio».
Naturalmente nessuno gli rispose, ma intanto cresceva tra i popoli la consapevolezza del problema. E Follereau faceva di tutto per alimentare il fuoco delle coscienze.
L’anno dopo, era il 1955, indirizzò una lettera aperta ai «Nostri Signori della Guerra e della Pace». Il tono adesso ricordava quello dei profeti biblici: «Forse che voi non troverete mai per guarire i poveri, per nutrirli, per allevarli, la millesima parte di ciò che avete sacrificato per lunghi anni per uccidere, per odiare, per distruggere? Questa domanda è l’uomo, ciascun uomo di ogni popolo che ve la pone. Che rimaniate o no silenziosi, egli si rallegrerà della vostra iniziativa o constaterà la vostra indifferenza: in ogni caso, non sfuggirete al suo giudizio».
Nel ’64 Follereau affinò la sua tecnica di comunicazione globale. Inviò una lettera al segretario generale dell’Onu, Sithu U Thant, ribadendo la sua richiesta di destinare «un giorno di guerra per la pace» e poi chiese il sostegno della gioventù di tutto il mondo. Ai ragazzi compresi tra i 14 e i 20 anni vennero distribuite cartoline da inviare a U Thant in cui si dichiarava di far proprio l’appello di Raoul Follereau. Alla fine furono 3 milioni quelle che arrivarono al Palazzo di vetro di New York, spedite da 125 paesi di tutti i continenti.
Con i giovani Follereau riuscì a creare un feeling speciale. Tra tanti adulti incapaci di comprendere i loro sogni, i giovani scoprivano un vecchio che parlava come loro di grandi ideali da realizzare. Ad essi si rivolse nella sua ultima conferenza: «Il mondo di domani sarà come voi lo farete. Avrà il vostro viso e la vostra dimensione. Costruite una cattedrale e che sia il rifugio di tutto ciò che vi è di pulito, di schietto, di onesto e di giornioso nel cuore dell’uomo. Non crediate che il mondo sia perduto: non è vero. Stiamo attraversando un brutto momento, ci troviamo in un tunnel, ma i miei vecchi occhi riescono ancora a vedere in fondo la luce verso cui stiamo andando».

I l piccolo francese di Nevers era divenuto un megafono gigantesco, che come nessun altro prima era riuscito a far salire in alto, alle stanze dei bottoni, la voce di chi non aveva voce. Continuò fino all’ultimo a fare il globe trotter per i suoi lebbrosi e per tutti i poveri, fino alla sua morte avvenuta a Parigi il 6 dicembre 1977.
La sua opera «contro tutte le lebbre» prosegue attraverso la Fondazione internazionale che porta il suo nome e che è presente in mezzo mondo con una rete di associazioni di volontariato. Per Follereau valgono i versi di Jacques Prévert:
Il nostro amore è là
Testardo come un asino
Vivo come il desiderio
Crudele come la memoria
Sciocco come i rimpianti
Tenero come il ricordo.

Di Enzo Romeo

Enzo Romeo