Vince il profitto, perde la salute

Che cosa mangiamo? (2a puntata)

Il defoliante alla diossina usato durante la guerra del Vietnam; le banane trattate con un prodotto altamente cancerogeno; le vittime della Union Carbide che ancora attendono un risarcimento; le acque infestate da centinaia di sostanze nocive; le api impazzite. I disastri sono ovunque, perché i pesticidi usati dall’agricoltura industriale hanno ridotto la biodiversità e compromesso la catena alimentare. I danni prodotti pesano su tutta la collettività e sul nostro futuro.

Secondo un rapporto di Greenpeace del 1992, si calcola che ogni anno vengano immesse nella biosfera almeno 250.000.000 di tonnellate di prodotti organici, di cui 2.000.000 di tonnellate sono di pesticidi, cioè veri e propri veleni elaborati per liberare le colture da infestanti e parassiti sia animali, che vegetali.
L’inquinamento da pesticidi è molto particolare perché, a differenza di tutte le altre forme d’inquinamento, non è accidentale o conseguente ad attività industriali o agricole, ma è voluto, cioè si tratta di sostanze immesse volontariamente nell’ecosistema, spesso senza seguire alcun criterio di rispetto e di salvaguardia dell’ambiente. Inoltre i pesticidi sono sempre sicuramente dotati di attività biologica, poiché appositamente pensati per l’eliminazione di forme di vita considerate nocive, ma non sempre sono selettivi, potendo colpire anche specie utili, nonché l’uomo. L’uso massiccio di queste sostanze è molto aumentato dopo la seconda guerra mondiale, dal momento che in Europa la popolazione era esausta per il conflitto e carente di risorse alimentari. Ciò ha determinato lo sviluppo di un’agricoltura di tipo industriale, il cui fine è la produttività ad ogni costo, anche quello della perdita della salute e della biodiversità e della distruzione di interi ecosistemi. Non dimentichiamo poi la necessità di riconvertire la produzione di alcune industrie chimiche, che sono passate di colpo dalla produzione di agenti chimici a scopo bellico a quella di pesticidi e/o di farmaci. Ne sono esempio la Monsanto, produttrice in passato dell’agente Orange, il terribile defoliante a base di diossina usato nella guerra del Vietnam (per il quale tuttora si contano le vittime) ed attuale produttrice di pesticidi e di sementi Ogm nonché la Bayer, produttrice in passato dell’iprite (gas vescicante, utilizzato nella prima guerra mondiale) ed attualmente anch’essa produttrice di pesticidi e di farmaci. Le due multinazionali citate, insieme con Aventis CropSciences (recentemente acquisita dalla Bayer), BASF, Dow Agrosciences e Du Pont fanno parte del GCPF o Global Crop Protection Federation (www.croplife.org), che raggruppa produttori di pesticidi europei, statunitensi e giapponesi. Peraltro esistono anche dei pesticidi, recentemente messi in commercio, definiti «generici» , cioè non brevettati e prodotti dalla Cina, dall’India e da alcuni paesi dell’America Latina, oltre che dalle multinazionali appartenenti al GCPF. Questi pesticidi sono prodotti con vecchie tecnologie, per cui sono venduti ad un prezzo inferiore di quello degli altri e sono acquistati preferibilmente dai paesi in via di sviluppo.

L’avvelenamento del Sud del mondo

In linea di massima, l’80% dei pesticidi prodotti viene impiegato nel mondo occidentale, dove prevale l’agricoltura di tipo industriale, mentre nei paesi in via di sviluppo vengono impiegati in misura del 20% circa. Tuttavia, secondo un rapporto della Fao del 2001 (Giacarta, maggio 2001), dove si legge che ogni anno 25.000.000 di persone al mondo vengono avvelenate dai pesticidi, l’80% dei casi di avvelenamento si rileva nei paesi in via di sviluppo, dove i controlli sanitari e legislativi spesso non vengono effettuati. In tali paesi quasi mai vengono rispettate le norme di sicurezza per la distribuzione dei pesticidi, come l’uso di appositi schermi, di maschere respiratorie, di tute impermeabili, di guanti e di stivali di gomma. A ciò si aggiungono l’analfabetismo, la mancanza totale d’informazioni sanitarie e le errate abitudini, come quella di conservare i pesticidi vicino alle abitazioni e magari alla portata dei bambini.
Il rapporto Fao inoltre ha preso in considerazione l’uso dei pesticidi proibiti, cioè quelli vietati in quasi tutti i paesi industrializzati, ma liberamente venduti nei paesi in via di sviluppo. Tra questi composti, al primo posto troviamo il parathion metile, un organofosforico classificato dall’Oms come estremamente pericoloso. Tale composto viene prodotto in Thailandia con 200 nomi diversi, tra cui quello di Folidol (marchio Bayer). Il punto di smistamento dei pesticidi proibiti, secondo il rapporto Fao, è il sud-est asiatico: il 73% delle importazioni thailandesi è di prodotti, che l’Oms ha giudicato come estremamente tossici, mentre l’84% dei pesticidi usati in Cambogia è nocivo per la salute al punto che l’88% dei contadini cambogiani risulta essere stato vittima di avvelenamenti. Mentre nel mondo occidentale le patologie correlabili alla presenza di pesticidi nell’ambiente e nei cibi sono soprattutto dovute agli effetti a lungo termine di questi composti, nei paesi in via di sviluppo si ha la quasi totalità dei casi di avvelenamento, stimati intorno al milione di episodi accidentali e due milioni di avvelenamento colposo, di cui 220.000 casi mortali.

Le banane ai pesticidi: lo scandalo Nemagon

Emblematico è il caso dell’intossicazione da Nemagon (o Fumazone), che nella nomenclatura chimica è il dibromo-cloro-propano o DBCP. Si tratta di un pesticida, che è stato utilizzato nelle piantagioni di banane, per eliminare un microscopico verme parassita, la cui presenza impediva l’esportazione delle banane negli Usa. Inoltre al DBCP è stata attribuita la proprietà di fertilizzante, in quanto sia la pianta che le stesse banane crescevano più velocemente e miglioravano il loro aspetto. Per questi motivi, questo prodotto è stato a lungo usato dalle multinazionali americane della frutta, come dai produttori nazionali nelle piantagioni di banane di Nicaragua, Costa Rica, Honduras e di altre nazioni. Nel 1977 alcuni ricercatori della Occidental Petroleum di Lathrop (Califoia) si resero conto che il DBCP causava sterilità nei lavoratori di questa installazione e ciò provocò l’immediata proibizione del suo utilizzo dapprima in Califoia e poi in tutti gli Usa. La sua produzione, però, non venne proibita e tanto meno la sua esportazione nei paesi del Terzo Mondo, cioè in America Latina, nei Caraibi, in Asia, in Africa, ovunque le multinazionali delle banane avevano i loro investimenti. Successivamente la United States Environmental Protection Agency ritirò negli Usa la registrazione della marca del DBCP, poiché era risultato che questa sostanza ha proprietà cancerogene, mutagene e teratogene per gli esseri umani, essendo in grado di provocare uno spettro molto ampio di forme di cancro, nonché malformazioni congenite, aborti prematuri, oligospermia ed azoospermia; inoltre è una sostanza persistente per anni nell’ambiente e capace di provocare inquinamento dell’aria, dell’acqua e del suolo. La Costa Rica proibì l’uso del Nemagon nel 1978, ma poiché i distributori avevano grandi scorte di questo prodotto, esso venne rivenduto al Nicaragua ed all’Honduras, dove non esistevano leggi che lo proibivano. Negli anni ‘70 e ‘80, la Standard Fruit Company e la Dole Fruit Company, insieme con impresari bananeros nicaraguensi, cominciarono ad applicare il Nemagon nelle piantagioni di banane dell’Ovest del Nicaragua, specialmente nel Dipartimento di Chinandega, nonostante tale sostanza fosse vietata negli Usa. Attualmente in Nicaragua si sono già ammalati migliaia di lavoratori, a causa del Nemagon. Molti di loro, nel marzo 2005, si sono ritrovati a Managua, dopo una marcia di 11 giorni, in cui qualcuno è morto, per raggiungere la Procura per la difesa dei diritti umani (Pddh), nel tentativo di ricevere dal governo il riconoscimento della violazione dei diritti umani nei loro confronti. Questi lavoratori si accamparono per otto mesi a Managua, in una zona che venne denominata «Ciudadela del Nemagon», in circa 5.000 (Giorgio Trucchi, PeaceReporter). In un’intervista rilasciata da Victorino Espinales Reyes, presidente della Fondazione dei lavoratori delle bananeras, egli afferma che, fino agli anni ‘60, il Nemagon veniva immesso nel suolo con grosse siringhe, ma successivamente, a partire dagli anni ‘70, in corrispondenza dei nuovi investimenti delle multinazionali, la sua distribuzione venne fatta con cannoni d’irrigazione, capaci di spararlo fino a 80 metri di distanza. In breve tempo, il pesticida uccise non solo i parassiti delle banane, ma anche le altre forme di vita presenti nelle piantagioni, tra cui rospi, uccelli, ecc. Nessuno peraltro avvertì i lavoratori dei rischi a cui erano esposti ed intere famiglie vennero a contatto con il Nemagon: i padri, che lavoravano nelle piantagioni, le mogli, che portavano i pasti ed i bimbi, che vi giocavano, nonché le donne, che lavoravano nell’impacchettamento delle banane. Inoltre venne contaminata l’acqua dei pozzi ed è emerso che gli stessi tubi, che nottetempo venivano utilizzati per fare scorrere il pesticida, di giorno venivano utilizzati per distribuire l’acqua potabile ai contadini, che ora lottano da 14 anni per ottenere indennizzi, cure mediche e la possibilità d’intentare una causa legale contro le multinazionali. Si calcola che, in questa nazione, almeno 20.000 persone dovrebbero essere sottoposte ad accertamenti medici completi. Le imprese multinazionali Usa  produttrici del Nemagon sono la Shell Oil Company e la Dow Chemical Company, mentre le distributrici nel Nicaragua sono state la Standard Fruit Company e la Dole Fruit Company. Analoghi investimenti ha effettuato la Del Monte in Costa Rica e in Guatemala, dove i suoi pesticidi hanno inquinato fiumi e terreni e dove sono state perpetrate intimidazioni verso i sindacalisti bananieri. Nel 2001, la Chiquita ha invece firmato un contratto, in cui si impegna a rispettare i diritti dei lavoratori e dell’ambiente.

La strage di Bophal
(ma non furono i terroristi)

Considerando i disastri ambientali con migliaia di vittime causati dai pesticidi, come non ricordare la strage di Bophal del 1984, quando 40 tonnellate di un composto gassoso, l’isotiocianato di metile, un ingrediente del pesticida Sevin, prodotto dalla Union Carbide, vennero liberate nell’aria, a seguito di un’esplosione nella fabbrica, che lo produceva? Morirono subito 3.017 persone e 12.000 negli anni successivi. Tuttora i sopravvissuti, affetti da danni polmonari, oculari, renali e cutanei, aspettano un risarcimento di 555 dollari, mentre alle famiglie di coloro che sono morti durante l’incidente spettano 2.200 dollari ed a quelle degli altri morti non è stato riconosciuto alcun risarcimento. La Union Carbide ha lasciato la fabbrica così come l’esplosione l’ha ridotta. I componenti tossici rimasti sono filtrati nelle falde freatiche, che foiscono acqua ad una vasta zona, aumentando il numero delle vittime (cfr. Missioni Consolata, dicembre 2006, pag. 25).
C’è poi un altro grave problema riguardante i paesi in via di sviluppo e cioè quello dello stoccaggio in queste aree di un ingente quantitativo di pesticidi messi al bando per la loro nocività. Secondo la Fao, in Etiopia, Botswana, Mali, Marocco e Tanzania sarebbero state accumulate tonnellate di pesticidi, mentre la rivista Le Scienze parla anche di Moldavia, Ucraina, buona parte dell’America Latina, dell’Asia e dell’Africa. Spesso i pesticidi sono accumulati in contenitori deteriorati, che lasciano fuoriuscire il loro contenuto; quest’ultimo talvolta, a seguito delle pessime condizioni di stoccaggio e del tempo trascorso, ha subito trasformazioni chimiche, che lo hanno reso ancora più tossico. Spesso lo stoccaggio è avvenuto in un magazzino o in una capanna al centro del villaggio, vicino alle abitazioni, dove pascolano gli animali da cortile e dove giocano i bambini. Non esistono peraltro dei dettagliati inventari di ciò, che è stato stoccato. I pesticidi sono giunti nei paesi del Terzo Mondo a seguito di donazioni, oppure sono stati acquistati per timore d’invasioni parassitarie ed il loro stoccaggio approssimativo ha portato all’inquinamento di aria, acqua e suolo.

Le acque italiane: ricche di 119 pesticidi

E a casa nostra le cose come vanno? A seguito di un monitoraggio effettuato nel triennio 2003-2005 dall’Apat (Agenzia per la protezione dell’ambiente e servizi tecnici) risulta che nelle acque italiane sono stati trovati 119 pesticidi diversi, di cui 112 nelle acque superficiali e 48 in quelle profonde. Consideriamo che in Italia, in agricoltura, ne vengono utilizzate circa 150.000 tonnellate all’anno. Nelle acque superficiali i residui di pesticidi sono stati trovati nel 47% dei campioni prelevati (27,9% dei casi con concentrazioni superiori a quelle stabilite dalla legge per le acque potabili); nelle acque profonde sono state osservate contaminazioni nel 24,8% dei casi, con il 7,7% di sforamento dei limiti di legge. Gli erbicidi sono fra le sostanze più frequentemente rinvenute; è particolarmente critica la contaminazione da terbutilazina, diffusa in tutta l’area padano-veneta, ma anche in qualche regione del centro-sud. Oltre a questa è particolarmente significativa la presenza di bentazone, un erbicida usato nelle risaie e quella dell’atrazina (ad un ventennio dal suo divieto), a causa sia di un largo uso nel passato, che della sua persistenza nel tempo. Le conseguenze di questa situazione non hanno tardato a manifestarsi. In un’intervista apparsa il 25 maggio 2007 su La Stampa, il prof. Pileri, ematologo e docente dell’Università di Torino, ha affermato che in Piemonte sono in drammatico aumento i casi di linfoma non-Hodgkin, rispetto alle altre regioni, e la causa di ciò sarebbe da ascriversi proprio alla presenza di pesticidi, come si evince da uno studio condotto dal prof. Vineis, epidemiologo della stessa Università, il quale ha dimostrato che il fattore di rischio nella zona delle risaie è doppio, rispetto alle altre zone.

Ogm e pesticidi: le stesse multinazionali

Un altro aspetto da esaminare è quello della correlazione tra gli Ogm, cioè gli Organismi geneticamente modificati, e l’uso dei pesticidi. Dei 44 milioni di ettari coltivati attualmente nel mondo ad Ogm, il 97% consiste in piante modificate per soli due caratteri, cioè la resistenza ai diserbanti e quella agli insetti; in particolare, le piante interessate sono la soia, il mais, la patata, il cotone e la colza. Aumentare la resistenza di queste piante all’erbicida, che serve ad eliminare le piante infestanti, significa avere una garanzia di vendita dell’erbicida stesso ed infatti le ditte, che producono gli Ogm, producono anche i pesticidi, come la Monsanto. Bisogna inoltre tenere presente che le multinazionali considerano come «infestanti», per le monocolture dell’agricoltura industriale, delle piante che invece fanno parte del patrimonio culturale delle popolazioni locali e sono adoperate da secoli per molteplici usi, tra cui spesso quelli alimentare e farmaceutico.  
L’eliminazione delle piante infestanti con diserbante e la coltivazione di monocolture, spesso Ogm, porta inesorabilmente alla perdita della biodiversità. Infatti, attualmente, nella maggior parte delle regioni, dove è praticata l’agricoltura industriale, si coltivano solo quelle poche varietà di piante, che rispondono bene all’impiego dei prodotti chimici e si stima che, in pochi anni, si sia passati da molte migliaia di specie vegetali coltivabili a qualche centinaio.

La biodiversità uccisa dall’agricoltura industriale

Purtroppo, l’agricoltura industriale non tiene conto della specificità dei metodi di coltivazione, relativi alle varie zone agroclimatiche, che privilegiano le specie, che si adattano meglio alle caratteristiche ambientali. Ad esempio, le monocolture di riso e di grano hanno spesso sostituito quelle di miglio, di leguminose e di semi oleosi. In pratica l’agricoltura industriale porta all’estinzione di diverse specie coltivabili, per introdurre colture uniformi, che si adattano perfettamente alle esigenze dell’industria chimica, anziché a quelle dell’ecosistema. Inoltre, per fare fronte alle pressioni ed ai tempi del mercato globale, spesso gli scienziati tendono a sviluppare o ad adattare le colture, selezionando un gene principale, rendendolo resistente. Purtroppo, le varietà dotate di un solo gene resistente rappresentano un facile bersaglio per i parassiti e per le malattie delle piante, che si ritrovano a dovere superare un solo ostacolo; ci troviamo infatti davanti ad ecosistemi estremamente semplificati. Nelle aree coltivate meccanicamente cresce una sola specie vegetale, con corredo genetico omogeneo; pochi esemplari di un insetto, che si nutre di questa pianta, se il ciclo vitale dell’insetto è rapido, sono in grado, in poco tempo, di generare una popolazione infestante, capace di distruggere l’intera area coltivata. A questo punto la risposta più immediata diventa l’utilizzo di un insetticida, che per i primi anni solitamente funziona bene, ma in seguito si ripresenta l’infestazione tal quale a prima. Cosa è successo? Si è drammaticamente passati dalla perdita della biodiversità al fenomeno della resistenza ai pesticidi, con la necessità di produrre nuove e più potenti molecole. Ma come può essere avvenuto?

Più pesticidi, più resistenza, più danni

La risposta sta nel fatto che l’insetticida sparso nei campi ha eliminato non solo la specie infestante, ma anche le altre specie animali, che la predavano o la parassitavano, regolandone la crescita. La specie infestante, per un certo tempo, è effettivamente scesa ad un numero quasi insignificante d’individui, ma si tratta purtroppo d’individui, che hanno sviluppato la capacità di tollerare certe dosi d’insetticida. È persino possibile che la scomparsa dei predatori, dovuta ai pesticidi, abbia permesso una smisurata moltiplicazione di specie prima tenute sotto controllo biologico, per cui «non dannose» per l’agricoltura, facendole diventare «dannose». E così, grazie alla produzione di molecole di pesticidi sempre più nuove, siamo riusciti a selezionare delle varietà d’insetti sempre più resistenti. Basti pensare che nel 1970 le specie di insetti resistenti agli insetticidi erano 224, mentre nel 1980 erano già 428.
Consideriamo poi che l’adattamento ad un pesticida da parte delle specie predatrici di una specie infestante è sempre più lento di quello della specie predata. Le specie più complesse e collocate più in alto nella catena alimentare, infatti, sono più vulnerabili, hanno tempi più lunghi di riproduzione e quindi minore elasticità. Inoltre i predatori, divorando grandi quantità d’insetti contaminati, accumulano il veleno nel loro corpo, soprattutto negli organi filtranti come il fegato, in quantità sempre maggiore, man mano che si sale lungo la catena alimentare. Un esempio di questo processo è fornito da una ricerca effettuata nel lago Michigan, dove è stata diffusa la dose minima di 0,012 ppm di un cloroderivato, un insetticida per le zanzare. Nel plancton è stata trovata, dopo qualche tempo, una concentrazione di 0,5 ppm; nei piccoli pesci si è arrivati a 4 ppm ed a 10 ppm nei pesci di grossa taglia. Negli uccelli, che si nutrivano di questi pesci, si è arrivati a 2.000 ppm (sic!). A proposito, l’uomo è al vertice della catena alimentare.

La sperimentazione e la «dose letale 50»

Oltre a tutto ciò, l’agricoltura industriale comporta un inquinamento ed uno spreco delle risorse idriche. Si calcola che le colture soggette a trattamenti chimici richiedano una quantità d’acqua fra le cinque e le dieci volte superiore a quella delle coltivazioni tradizionali. L’impiego dei fertilizzanti chimici non solo richiede una maggiore irrigazione, ma comporta anche un minore apporto di componenti organici, il che riduce la capacità di trattenere l’acqua del suolo. L’irrigazione intensiva porta anche alla formazione di acquitrini ed alla salinizzazione, quando i sali del terreno emergono e si depositano in superficie. Secondo la scienziata indiana Vandana Shiva, un’agricoltura di questo tipo sta provocando un grave processo di erosione e di perdita di fertilità del suolo. 
C’è poi da considerare un aspetto veramente inquietante riguardante i metodi di sperimentazione dei pesticidi, adottati dalle aziende produttrici. L’EPA (Environmental Protection Agency, Usa) è stata al centro di polemiche, per avere accettato di visionare 24 studi commissionati dalle case produttrici dei pesticidi, per verificarne gli effetti sull’uomo. Pare che ad alcuni volontari siano state somministrate delle capsule di pesticidi da ingerire, per più giorni consecutivi, mentre altri sono stati chiusi in camere, dove era stato immesso un gas lacrimogeno usato nella prima guerra mondiale, il chlorpicrin. Il tutto per 15 dollari l’ora. I partecipanti all’esperimento furono reclutati fra le fasce più deboli della popolazione ed inoltre, in alcuni casi, il compenso era subordinato al portare a termine l’esperimento stesso. Il presidente Clinton bloccò la possibilità di visionare i risultati di questi studi, giudicati eticamente scorretti, ma anche inutili per un miglioramento dei prodotti sia dal punto di vista umano, che ecologico, poiché i test tendevano a dimostrare una superiore soglia di tolleranza. Il presidente Bush eliminò il divieto emanato dall’amministrazione Clinton, tuttavia due deputati democratici, nel giugno 2005, denunciarono la vicenda, che attualmente attende una risoluzione da parte del Congresso. Tra le aziende, che commissionarono questi studi c’è la Bayer. In Germania si è formato il gruppo Coalition Against Bayer Diseases (www.cgbnetwork.org), che ha portato la prova che la compagnia non ha ottenuto il pieno consenso dei soggetti informati, poiché essi non erano a conoscenza o non avevano compreso i rischi e gli obiettivi degli esperimenti. È comunque interessante esaminare le conclusioni, a cui sono giunti gli studiosi della Bayer, dopo questi esperimenti; secondo loro i dolori addominali, la nausea, la tosse e le eruzioni cutanee dei soggetti partecipanti alla sperimentazione con azinfos-metile, per quasi un mese, sono attribuibili a malattie virali o alla dieta.
Un grosso limite di molti studi di laboratorio sui pesticidi è comunque quello di tenere conto solo della tossicità acuta di queste sostanze, valutabile con il parametro della DL50 o «dose letale 50», che corrisponde alla quantità di sostanza sufficiente a provocare la morte nel 50% degli animali da laboratorio trattati. Tali studi non prendono mai in considerazione gli effetti dei pesticidi sul lungo periodo, quindi il loro potere mutageno, cancerogeno e teratogeno. Inoltre i pesticidi vengono studiati singolarmente, senza tenere conto degli effetti dovuti alla loro possibile compresenza in una stessa zona, con conseguente sinergismo.

Senza pesticidi si può: la lotta biologica

Ciò che lascia veramente perplessi è la ormai diffusa mentalità che l’uso dei pesticidi sia diventato una condicio sine qua non, una necessità irrinunciabile per le coltivazioni. Ci siamo forse dimenticati che in natura esistono da sempre le specie predatrici e che, grazie ad un insieme di strategie integrate, è possibile sfruttarle in una lotta biologica agli infestanti, senza dovere ricorrere alla chimica? È possibile, ad esempio, una lotta di tipo microbiologico, grazie a specie batteriche, che non hanno mai manifestato alcun potere patogeno verso i vertebrati o le piante, come il Bacillus thuringensis, che produce una tossina larvicida. Oppure è possibile impedire gli accoppiamenti, grazie all’uso di feromoni sessuali, che determinano confusione o distrazione negli insetti. Possono essere diffusi artropodi predatori o parassitornidi, cioè nemici di quelli dannosi delle piante coltivate, in particolare gli entomofagi. Si possono effettuare lanci con mezzi aerei o meccanici di insetti ooparassitornidi (piccolissimi imenotteri del genere trichogramma, che distruggono le uova dei loro ospiti). Questi insetti «limitatori delle nascite» sono guidati da messaggi olfattivi verso le uova o altri stadi dell’artropode dannoso, riducendo le sue popolazioni senza effetti collaterali nocivi per l’ambiente. Per la produzione di ortofrutta di qualità elevata è possibile ricorrere all’allevamento di diverse specie di pronubi, che favoriscono un aumento delle qualità organolettiche dei prodotti ed inoltre possono essere sfruttati nella lotta microbiologica. Infatti, molte specie di pronubi, ad esempio il bombo, possono essere sfruttate come vettori di microrganismi (funghi, batteri e virus) ad azione antagonista per le specie patogene delle piante. In Canada, per esempio, sono state impiegate sia le api, che il B. impatiens per la diffusione di un fungo microscopico, il Gliocladium roseum, per la lotta alla muffa grigia delle fragole e del lampone. In Italia si è sperimentata la disseminazione di T. harzianum da parte dei bombi, per la lotta alla botrite del pomodoro.

Dalle mele ai pelati, i consumatori sotto assedio

E noi, come consumatori, cosa possiamo fare? Come già detto, è meglio informarsi sulla provenienza dei prodotti ortofrutticoli, dando la preferenza ai prodotti nazionali e di stagione, oppure a quelli del commercio equo e solidale, che ci consentono di evitare il giro delle multinazionali e di assicurare ai piccoli produttori locali un pagamento equo dei loro prodotti. È bene poi porre una particolare attenzione ai prodotti made in China, poiché è risultato da un’indagine che il 47% di questi prodotti contiene tracce di pesticidi superiori ai limiti di legge. In Cina la produzione di pesticidi è, secondo Federico Rampini (L’impero di Cindia), triplicata in cinque anni ed in questo settore dilaga la contraffazione, con il 40% dei pesticidi venduti con un marchio falso. Il ministero della Sanità cinese ha stimato che ogni anno i casi d’intossicazione da pesticidi sono circa 120.000. Non dimentichiamo poi che i campi ed i fiumi cinesi sono tra i più inquinati al mondo, per cui all’effetto dei pesticidi si assomma quello dell’inquinamento. Quindi attenzione alle mele Fuji o ai pomodori, che finiscono in Italia nelle scatole di pelati, magari con il marchio italiano contraffatto.                           •

Roberto Topino e Rosanna Novara

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