A testa alta e denti stretti

Da Kartum a Gidel: per conoscere le popolazioni nuba

Un viaggio nel cuore dei Monti Nuba, per raccontare il dramma del popolo nuba, isolato e martoriato da decenni di guerra, ma sempre colmo di fierezza e tanta voglia di vivere. La guerra è finita da poco; le organizzazioni umanitarie hanno rotto l’isolamento; cominciano a sbocciare fiori di speranza. Ma il futuro è ancora incerto: la pace non è ancora garantita.

Tra le città africane Khartoum è la più africana. Il colpo d’occhio che si ha dall’alto è quello di un grande villaggio fatto di case costruite in terra, il colore dominante è quello della sabbia, insieme al giallo ocra. È passato poco più di un anno dall’ultima volta che sono atterrato in questo angolo di mondo, ma tutto, mi sembra diverso, a parte la polizia dell’aeroporto.
Nel precedente viaggio avevo percorso le piste del deserto nell’antica Nubia dei faraoni neri, con le sue piramidi e storia millenaria. Oggi il viaggio da affrontare è ben diverso: non c’è nulla di archeologico da scoprire, nessuna storia lontana da capire; l’obiettivo è molto più vivo e attuale: conoscere il popolo nuba e la sua quotidianità.
La zona abitata dai nuba copre un’area montagnosa molto vasta, posizionata quasi esattamente nel centro geografico del Sudan, il paese più grande dell’Africa. Raggiungere questa terra non è facile; lo si può fare in due modi: con un volo dal Kenya messo a disposizione dalle Nazioni Unite, una volta alla settimana; oppure, via terra, dalla capitale sudanese con un viaggio molto più interessante, ma anche più impegnativo.
Ho scelto la seconda via, perché m’interessava conoscere in modo profondo il dramma di questo popolo uscito da una guerra durata più di 20 anni. Facendomi catapultare direttamente sui Monti Nuba avrei perso il filo cucito dalla storia recente, non avrei visto e capito il cammino che ha generato l’odio verso questi gruppi etnici.

PERMESSI E CONTROLLI
Seguire l’itinerario via terra, da Khartoum, non è stato facile. Ci sono voluti tre mesi per ottenere dei permessi dell’Esercito di liberazione del popolo sudanese (Spla, Sudan People’s Liberation Army), un mese per il visto del governo sudanese, qualche giorno per il permesso giornalistico di scattare fotografie e qualche ora per il travel permit (permesso di viaggio). Solo quando è stato tutto regolamentato, secondo la legge, sono potuto partire.
Ho affittato una vecchia ma affidabile Toyota 60. L’autista si chiama Jamal: sarà lui, per quasi un mese, il mio unico compagno di viaggio. Jamal è un tipo sveglio, ha già provveduto alle scorte alimentari; nella dispensa ancorata nel baule del fuoristrada c’è di tutto: scatolette di carne, pasta, frutta sciroppata, verdure, acqua… Non manca nulla. Un rifoimento veloce alla prima pompa di gasolio e siamo in marcia, direzione: tutto sud.
Dopo aver superato i controlli di polizia in uscita dalla capitale, si percorre la strada asfaltata in direzione di Kosti, che dista solo 350 chilometri. Non perdiamo tempo, solo qualche sosta per il pranzo e per il rifoimento. La voglia di arrivare nel cuore del viaggio è ossessionante e non posso permettermi di fare il turista.
I primi intoppi arrivano a El Obeid, la capitale del Kordofan. La polizia, che da queste parti si fa chiamare Security, ci blocca mentre percorriamo le vie centrali del souk. Jamal non desta nessun sospetto; io, invece, uomo occidentale armato di macchina fotografica, vengo preso in consegna da due giovani in borghese e portato in una casermetta alla periferia della città. Controllano bagagli, passaporto, permessi, mi chiedono perché sono venuto da queste parti e se tifo per il Milan o per la Juve. Insomma, come in ogni parte del continente nero, la polizia non sa come far passare le giornate e l’occasione di far valere la propria autorità, di sentirsi importanti e curiosare in altri mondi sconosciuti non può essere lasciata scappare.
Lasciare El Obeid e dirigersi verso sud significa abbandonare il mondo arabo ed entrare nell’Africa Nera. È un processo naturale: la sabbia del deserto lascia spazio agli arbusti spinosi della savana e la gente assume tratti somatici più decisi. La porta verso il mondo Nuba è vicina.
Bastano poche ore di fuoristrada e Kadugli è ormai a portata di mano, anche se l’asfalto finisce per lasciare il posto alla pista, a tratti sconnessa, a tratti ancora ben percorribile in quanto levigata dal passaggio degli automezzi.

DI FRONTE ALLE 99 MONTAGNE
Kadugli è una città tipicamente africana: solo la via principale è asfaltata, il resto delle strade è un bazar polveroso a cielo aperto, dove la vita pullula dall’alba al tramonto, senza tregua. Situata nel Sud Kordofan, questa città è anche la porta per accedere alle Montagne Nuba: qui si sbrigano le pratiche burocratiche e si ottengono i permessi necessari per poter superare i mille controlli che la blindano come in una cassaforte.
I numerosi posti di blocco della Security rallentano il viaggio, ma ormai ci siamo: le 99 montagne narrate dalla leggenda locale sono davanti a me.
Le chiamano montagne, ma anche se hanno delle pareti molto scoscese non possono essere definite tali: sono solo un mosaico di colline che raggiungono al massimo i 1.500 metri s.l.m.
Quando si lascia Kadugli le strade non esistono più, anche se sono segnate sulle carte: sono state inghiottite dai bombardamenti e, quelle rimaste, cancellate dall’ultima stagione delle piogge. Facciamo fatica a trovare la direzione giusta per Luere; la individuiamo quando è quasi buio e dopo qualche ora di pista siamo costretti a cercare un posto dove montare la tenda e passare la notte.
Arrivare a Kauda significa superare decine di posti di controllo presidiati dai militari dell’Splm (Sudan People’s Liberation Movement). I giovani in uniforme controllano attentamente i permessi, a volte ne richiedono altri, a volte, semplicemente, mi invitano nelle loro capanne per bere un tè. Sono sempre gentili e sorridenti, sanno che la comunità internazionale sta lavorando per loro, sanno che lo straniero che si muove da queste parti non lo fa solo per turismo. A Luere mi fanno perdere un pomeriggio per i controlli, ma questa, si sa, è la roccaforte dell’Splm e i militari non scherzano, devono fare il loro lavoro fino in fondo.
Arrivo a Gidel al tramonto. La missione dei padri Comboniani appare come un miraggio nascosto dagli alberi che la circondano. Il cancello si apre: mi sento quasi a casa.

UN POPOLO MITE E FIERO
Nonostante la ricchezza naturale di queste terre, la gente Nuba è stata costretta ad abbandonare quest’area per l’impoverimento dovuto al conflitto; la popolazione, stimata in circa 2 milioni, per metà, è sfollata a Khartoum e quella restante si è divisa sotto il controllo dell’Splm e il governo centrale. Le autorità governative sono riuscite per anni a isolare la regione da un punto di vista umanitario, economico, mediatico, educativo.
Durante il conflitto solo poche e coraggiose organizzazioni umanitarie riuscivano a lavorare sui Monti Nuba; ma da qualche anno le azioni di solidarietà si sono moltiplicate. Nonostante le difficoltà di comunicazione non siano affatto finite, si è aperto uno spiraglio e si sta cercando di far fronte a questo isolamento attraverso rischiosi e costosi voli illegali in partenza dal Kenya. In questa terra, dove mancava anche l’essenziale, ora arrivano medicinali, sale, sapone e soprattutto attrezzi agricoli, che permettono alla gente del posto di non dipendere dagli aiuti estei. 
Le terre dei Nuba sono tra le più fertili del Sudan, anche un occhio poco attento non può non notare le falde delle montagne, a tratti accuratamente terrazzate; da queste parti, anche nella stagione secca, crescono cipolle, tabacco, pomodori, arachidi e sesamo.
Fra i Nuba si distinguono oltre 50 gruppi etnici, ognuno con un nome specifico, lingua, cultura e tradizioni diverse. Anche le abitazioni presentano architetture differenti: alcune ricordano l’Africa australe, altre le regioni del Sahel. Nonostante la varietà di etnie questa gente ama definirsi con un nome solo, unico e orgoglioso: Nuba.  
Fino a poco tempo fa i Nuba erano bersaglio del governo di Khartoum. Gli arabi erano decisi a eliminare la loro identità culturale per fae docili lavoratori al servizio dei ricchi sudanesi. Ma questo popolo di «roccia e miele» non si è mai arreso; ha lottato in una guerra senza fine e ha stretto i denti per non rischiare di scomparire. Ora che la guerra è finita, sui Monti Nuba, è tutto da ricostruire, bisogna rimboccarsi le maniche e partire dall’inizio, dalle cose primarie, dal quotidiano.

«PENNELLATE» DI SPERANZA
Sui Monti Nuba non è facile accorgersi quando si arriva effettivamente in un luogo: non esistono indicazioni. Spesso le capanne sono state disseminate sulle colline per evitare che, durante la guerra, i bombardamenti colpissero interi nuclei abitativi, magari formati dalla stessa famiglia.
Ma a Gidel non ci si può sbagliare: arrivando dall’aeroporto di Kauda, prima di attraversare il wadi, c’è un enorme edificio in costruzione, una «pennellata» di speranza nella savana, è il nuovo ospedale che «Sorriso per il Sudan onlus», in collaborazione con altre associazioni, sta costruendo. Il lavoro da fare è ancora molto, ma quando la struttura sarà ultimata e diventerà operativa, per l’intera comunità dei monti sarà un punto di riferimento importante, un luogo dove potersi sottoporre a cure mediche senza andare fino a Kadugli o, peggio ancora, fino a El Obeid.
«Sorriso per il Sudan» non è l’unica associazione che opera sui Monti Nuba; ce ne sono molte, ognuna con il proprio compito: c’è chi si occupa dello sminamento delle piste, chi segue le donne disagiate, chi si prende cura dei bambini. Un esercito di persone tutte con lo stesso obiettivo: portare il popolo Nuba alla normalità. 
A Gidel vengo ospitato nella missione gestita dalla diocesi di El Obeid. Nella parte riservata alle suore stanno costruendo un edificio, mi dicono, che è la nuova casa che dovrà ospitare l’eventuale arrivo di personale missionario.
Le «sisters», come le chiamano i ragazzini, hanno un ruolo importante nella comunità di Gidel: alcune insegnano alla scuola matea, altre si occupano del cornordinamento educativo dei bambini delle scuole elementari, altre ancora seguono gli adulti nell’integrazione sociale. La missione è un punto di riferimento per tutta la gente della zona: per qualunque problema basta bussare alla porticina in ferro, qualcuno apre sempre.
Oltre il muro di cinta, dove abitano le suore, c’è la missione operativa di mons. Macram Max Gassis. La struttura è costituita da un grande cortile con edifici in muratura, nella parte centrale ci sono alcune capanne in stile africano: sono gli alloggi dei fratelli che vivono qui e svolgono il loro lavoro ecclesiastico.

CURIOSANDO NELLE ABITAZIONI
A Gidel si respira un’atmosfera particolare. È bello svegliarsi la mattina e fare due passi per vedere i bambini con i libri sottobraccio che vanno a scuola: alcuni arrivano dalle abitazioni vicine, altri invece, si fanno anche un’ora di cammino per raggiungere le aule dove i maestri li aspettano per la lezione.
A pochi passi dal fiume in secca ci sono i campi dove le donne lavorano nella raccolta delle arachidi. Ore e ore piegate su se stesse, stringendo tra le mani un piccolo aese in ferro dalla forma di una falce. È raro vedere una donna nuba sola, di solito sono in compagnia di altre donne. Insieme lavorano, passano il tempo libero e vivono i loro momenti di complicità.
Gli occhi delle donne più anziane sono profondi e pieni di mistero. A volte si muovono silenziosamente, facendo strisciare le infradito; a volte le vedi accelerare l’andatura, vestite dei loro abiti colorati mossi dal vento. Anche da queste parti, come in tutta l’Africa, alla donna spetta il lavoro più oneroso della famiglia: accudire i figli, lavorare nei campi, attingere l’acqua dai pozzi e portarla fino alla propria casa.
Seguendo una di queste donne, quelle che camminano verso la collina col carico di acqua sulla testa, sono riuscito a entrare in contatto con alcune famiglie e a curiosare nelle loro abitazioni.
Da quando è finita la guerra, i nuba stanno cercando di riunirsi in piccoli villaggi. Nei dintorni di Gidel non si trovano più capanne completamente isolate; si sono formati piccoli nuclei familiari composti da due o tre abitazioni. Ognuna di queste case ha il proprio cortiletto, dove vivono gli animali e vengono costruiti piccoli silos per la conservazione dei raccolti. L’interno delle case è ridotto all’essenziale. Di solito vi è un atrio abbastanza ampio nella parte centrale, dove la famiglia si raduna per discutere o più semplicemente per la cena.
Ai lati di questa stanza, la principale dell’abitazione, ci sono le «camere da letto». La «stanza della notte», come è chiamata dalla gente del posto, non ha finestre; i muri sono più spessi rispetto al resto della casa, per creare l’isolamento necessario a mantenere una temperatura gradevole durante i periodi più caldi dell’anno.

ATTENZIONE AI… «TARTUFI»!
A pochi minuti d’auto da Gidel operano i volontari di Save the Children. Nel piccolo villaggio di Kumo hanno costruito un dispensario dove la gente si può curare e ricevere medicinali. I posti letto sono sempre occupati e molti ammalati, purtroppo, non possono essere curati. Patrick, un giovane volontario che arriva dal Kenya, mi dice che tutto sarà diverso, quando «il grande» centro clinico di Gidel sarà operativo.
Vorrei fermarmi per sempre in questo luogo di pace, ma mi rendo conto che il viaggio deve continuare, non prima però di aver curiosato nella scuola di Kauda, dove studiano i bambini vittime del bombardamento del 2001.
Mi faccio accompagnare dalla suora della diocesi. Nella mia moleskine ho i nomi dei bambini che mi sono annotato durante l’ultima riunione con i volontari di «Sorriso per il Sudan». Li mostro agli insegnanti, i quali si consultano tra di loro e poi, con un sorriso di consenso, mi dicono che ci sono tutti.
In pochi minuti li ho davanti a me. Sono cinque, forse sei, non ricordo, ma quelli che più mi colpiscono sono Amani e Adil, i più segnati. Il ragazzo ha l’avambraccio mozzato; la ragazzina, Amani, ha dovuto subire l’amputazione dell’intero arto. Non credo ci sia da dire altro a riguardo, le parole sarebbero solo retoriche e superflue.
Osservando la carta topografica che mi ha fotocopiato un amico milanese, posso notare una pista tracciata che collega Luere a Talodi. Mi metto subito alla ricerca dell’imbocco, ma perdo più di due ore. Chiedo informazioni a chiunque: nessuno ne sa nulla. Deduco che la mappa è sbagliata e me la prendo con chi l’ha disegnata.
Non mi rassegno; riprovo a chiedere informazioni in un campo delle Nazioni Unite e, finalmente, un soldato malese dall’aria gentile mi dice che la pista è stata cancellata anni fa dalle piogge e quel poco che è rimasto è stato inghiottito dalla vegetazione o è minato.
Muoversi sui monti può essere davvero pericoloso, ci sono molte zone disseminate di «tartufi» e, nonostante il lavoro del centro di sminamento della Dca (Dan Church Aid), gli ordigni inesplosi sono ancora tantissimi.
Non ci sono alternative, bisogna ripercorrere la pista fino a Kadugli e poi imboccare l’altra strada, anche questa minata, per Talodi in direzione est. È già tardo pomeriggio quando si decide di lasciare Kauda; tra non molto bisognerà cercare un posto dove fare campo e passare la notte. È bello montare la tenda in questo nulla africano, potersi rilassare davanti a un fuoco, fare due chiacchiere con Jamal e poi, quando la natura si placa, rilassarsi guardando le stelle negli occhi.
In Africa la proporzione della natura è predominante; è la natura stessa che vince su tutte le tentazioni di sostituirla a qualcosa d’altro, rimane lei l’unica intermediaria possibile di un contatto, che qui rimane esclusivo, tra gli elementi naturali e l’uomo.
Purtroppo i viaggi africani non sono fatti solo di immensi cieli stellati e grandi distese incontaminate; a volte bisogna fare i conti con i guasti meccanici del mezzo di trasporto. Prima la rottura della pompa del gasolio, poi le forature, poi ancora la balestra che cede ai contraccolpi rimandati dalle pietre. Alla fine ci vogliono quasi due giorni per poter ritornare a Kadugli.
Si arriva in città col buio, non ci sono alberghi e l’unica soluzione per la notte sarebbe quella di bussare a qualche organizzazione umanitaria. Provo a Save the Children, ma non hanno posto, sono al completo; alla polizia è meglio lasciar perdere; faccio un tentativo all’Unicef, mi dicono di aspettare; dopo quasi mezz’ora di attesa, mi propongono una stanza nella loro sede staccata, ubicata nella periferia della città: anche questa volta è andata bene.

TRA I NUBA MASAKIN
Percorrendo il tragitto da Kadugli a Talodi si dovrebbero incontrare alcuni villaggi masakin, ma non ne sono sicurissimo. A scanso di equivoci chiedo conferma a un «ragazzone» svizzero di nome Peter, che lavora per l’Unicef. Dopo una breve consultazione della mappa, Peter traccia dei punti e spiega: «Questi sono i villaggi che cerchi, ma attenzione: su questo percorso, due giorni fa, un autobus che trasportava dei locali è saltato su una mina». Per un percorso più sicuro, mi consiglia di chiedere agli addetti delle Nazioni Unite i punti gps (sistema di rilevamento satellitare della posizione, ndr). Agli uffici Onu mi sconsigliano vivamente la pista che passa dai villaggi masakin perché, oltre alle mine, ci sono problemi di banditismo.
Il morale cade a pezzi, non so cosa fare. L’alternativa sarebbe quella di rifare il giro da El Obeid, ma il tempo stringe, non ce la farò mai. Guardo Jamal negli occhi, non c’è neppure bisogno di parlarci, saliamo in macchina, si parte. Se il destino è quello di saltare su una mina o essere preda di banditi, allora è giunto il momento.
Nei primi chilometri di pista ci sono numerosi controlli di polizia, la strada è sbarrata da bidoni e filo spinato, che vengono spostati solo dopo la verifica accurata del passaporto e di tutti i permessi rilasciati dalle autorità militari del luogo. Man mano che ci si allontana dai centri abitati i controlli si fanno sempre più rari, fino a scomparire del tutto dopo l’ultima collina, che all’epoca della lunga guerra era controllata dalle milizie arabe.
Il paesaggio è armonioso; di tanto in tanto si incontrano gruppi di giovani con i loro dromedari. In questa zona i nuba convivono con molte altre etnie di ceppo arabo, ma la loro quotidianità è pacifica, non c’è odio.
Si viaggia per l’intera giornata, cercando di non lasciare mai la traccia dei punti che ci hanno consigliato di seguire. Prima di arrivare a Talodi faccio una sosta per fotografare i villaggi dei nuba masakin. Ormai ne sono rimasti pochi, la maggior parte, mi dicono, è migrata verso sud.
Quando è già buio arriviamo a Tosi, villaggio famoso per l’imponente jebel (monte) dove si possono ammirare graffiti rupestri. Chiediamo ospitalità alla polizia, ma questa volta la risposta è negativa: ci dicono che per regolamento non possono far montare le tende nel cortile della caserma. Mentre discutiamo con i militari, si forma il solito gruppo di persone e una di esse ci offre la possibilità di usufruire del piazzale della scuola come campeggio. A tarda sera scopro che questi gentili giovanotti sono gli insegnanti della scuola stessa.
Il posto è grazioso e recintato, non fa molto caldo; poi c’è anche la luna che mi fa da faro, mentre infilo i picchetti della tenda nel terreno. Un solo neo, l’intero spiazzo è invaso da formicai, me ne accorgo solo dopo aver montato il telo impermeabile dell’igloo, troppo tardi per rimediare.

EX GUERRIERI E LOTTATORI
Dopo una notte quasi insonne, a causa delle formiche che hanno invaso tenda e sacco a pelo, si riparte verso Kau, Fungor e Nyaro, tre villaggi resi famosi dalla fotografa tedesca Leni Riefenstahl con la pubblicazione del libro fotografico «I Nuba di Kau» (1976). Guerrieri e lottatori nuba non sono più quelli delle foto di quel tempo. Il progresso, si fa per dire, è arrivato anche qui. Non mi ero fatto nessuna illusione prima di partire dall’Italia: sapevo di non trovare più le scene di vita quotidiana rappresentate nel libro, ma mi aspettavo un insieme di villaggi e una comunità abbastanza autonomi.
Purtroppo la realtà è un’altra: i villaggi di Kau, Nyaro e Fungor sono ubicati in una zona difficilmente raggiungibile dalle arterie principali, se non dopo almeno due giorni di fuoristrada, e il primo impatto è la visione di un agglomerato di capanne dimenticate dal mondo. 
Avevo portato con me dall’Italia alcune fotocopie a colori del libro di Leni. Ho provato a cercare le persone ritratte: alcune sono andate a vivere altrove, altre sono decedute, altre ancora, con sorpresa, le trovo nelle loro abitazioni.
Un anziano signore si riconosce nella foto e mi fa capire che è passato un po’ di tempo da quello scatto, non sa dirmi quanto, ma lo so io: quasi 30 anni. Dopo qualche attimo di attesa per controllare e vincere il comprensibile imbarazzo, l’uomo allunga il braccio e prende in mano la fotografia, la guarda attentamente, poi chiama alcuni amici e si mette a discutere e ridere con loro.
Li lascio soli per un po’, mentre cerco di distrarmi fotografando l’impagliatura dei tetti delle capanne. Dopo qualche minuto ritorno verso il gruppetto di uomini, ancora intenti nella discussione. Con delicatezza li interrompo e chiedo, cercando di farmi capire, se posso ritrarre l’ex «guerriero» con la vecchia foto tra le mani. Si guardano tra di loro, poi il più giovane si rivolge a me, mi guarda e fa un cenno di assenso con la testa.
Il signore della foto ha un nome mai sentito da queste parti: dice di chiamarsi Sathir. Lo metto in posa, mentre cerco di pronunciare ripetutamente il suo nome per rompere la sottile, ma robusta parete, che di solito si crea tra il soggetto e l’operatore. Ricerco e studio la luce in un fazzoletto di ombra creata dai rami degli alberi, per provare a registrare un’immagine morbida, dolce, senza contrasti. Ma il soggetto che ho davanti all’obiettivo è troppo imponente e autoritario. Nemmeno l’uniformità di una luce piatta riuscirà a portargli via lo sguardo pieno di fierezza. Bastano solo tre scatti, quello giusto dovrebbe esserci. Ci salutiamo con la promessa di lasciare a Jamal la nuova fotografia, lui magari da queste parti ci ripasserà.
Consumo la mia giornata gironzolando per i tre villaggi, che distano solo pochi minuti di fuoristrada l’uno dall’altro. Pensavo di trovare qualcosa che mi portasse in qualche modo al passato, invece nulla: del passato sono rimasti solo i sassi levigati dal vento, a fare da guardia alla montagna.

È ARRIVATA LA PACE?
Mentre sto per lasciare Nyaro, in un campo non lontano dalle capanne, atterra un elicottero delle Nazioni Unite. I motori si spengono quasi subito e, lasciato passare il tempo per permettere alle pale di fermarsi, dalla scaletta scendono alcuni ufficiali in uniforme.
La gente si raduna subito sotto il grande albero, viene improvvisata un’assemblea collettiva a cui partecipa l’intero villaggio. L’inizio del dialogo è abbastanza chiassoso e confuso: tutti vogliono parlare, c’è chi si alza in piedi e sbraita con tono autoritario, chi agita le mani per farsi notare, chi invece se ne frega e va a vedere il «grande uccello» bianco con la scritta UN arrivato dal cielo.
Dopo il prevedibile caos iniziale, cala il silenzio; un ufficiale dello Sri Lanka prende la parola: con tono deciso, in un inglese quasi perfetto, chiede alla gente di cosa ha bisogno. La risposta è quasi immediata e risuona come un eco provieniente dalle montagne vicine: water. Nel terzo millennio può sembrare strano, ma è proprio così: a Kau, Nyaro e Fungor non c’è acqua.
Ma cosa ne sarà del futuro di questo popolo, ora, a pochi mesi dalla morte di John Garang, il carismatico leader dello Spla? Da quasi un anno sui Monti Nuba si è riversato «il mondo». Le Nazioni Unite pare abbiano il controllo della situazione e le organizzazioni umanitarie riescono, finalmente, a lavorare senza grossi intoppi.
Sarà finalmente arrivata la pace?

A volte la fine di un viaggio è come l’improvviso risveglio da un sogno: provi a richiudere gli occhi per riprendere sonno, ritornare nella favola, continuare a vivere lontano dalla realtà.
I ricordi scorrono veloci come i fotogrammi di un vecchio film. Come potrò dimenticare tutte quelle strette di mano prima di ogni «scatto»? Duemila o forse più. Di solito la stringevo anche a coloro che non fotografavo o magari a un intero gruppo di persone prima di metterli in posa. Poi ci sono tutti i bambini incontrati ai bordi della strada, le loro manine sempre alzate in segno di saluto, i loro sorrisi, gli occhi neri e misteriosi, le sagome scure che si confondono con quelle della natura negli ultimi attimi di luce, prima del tramonto.
In questo viaggio, come sempre, ho voluto contemplare e cercare situazioni, mai crearle. Poi le ho fissate nella memoria, mia e in quella di un supporto di gelatina. Sì, perché il viaggio è uno stato d’animo che guarda il mondo, un modo di essere, di vivere. E noi viaggiatori siamo come il vento, condannati a correre per non morire.
Di Giovanni Mereghetti

Giovanni Mereghetti




La parabola del «figliol prodigo» (12) Un viaggio di schiavitù: dalla casa al porcile

«Per la libertà Cristo ci liberò: non sottomettetevi di nuovo al giogo della schiavitù» (Gal 5,1)

15E dopo essersi messo in viaggio andò a servizio di (lett.: si incollò, attaccò a) uno degli abitanti di quella regione, e (= che) lo inviò/mandò nei suoi campi a pascolare i porci. 16Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno glie(ne) dava.

D ei 16 affreschi elencati nella puntata n. 10 dedicata alla parabola (cf MC maggio 2007) ne abbiamo preso in considerazione 10; ora ci apprestiamo a riflettere sui restanti 6. Li riportiamo di nuovo per facilitare la lettura e la riflessione:
11.    Colui che era figlio ora diventa servo (si mise a servizio).
12.    Il figlio sostituisce il padre con «uno qualsiasi» (uno degli abitanti di quella regione).
13.    Il viaggio intrapreso dal figlio porta ad un abisso di impurità (lo mandò nei campi a pascolare i porci).
14.    Colui che si credeva ricco perché aveva «tutto» non ha neanche gli avanzi di carrube (avrebbe voluto saziarsi con le carrube).
15.    Colui che era stato commensale del padre, ora è a mensa con i porci (che mangiavano i porci).
16.    Colui che fu il prediletto del padre è rifiutato anche dai porci (nessuno gliene dava).

Dopo essersi messo in viaggio
Il giovane figlio era partito da casa verso un paese lontano, a lungo sognato come regno della libertà, mèta della sua realizzazione: ora deve ripartire di nuovo. Non è ancora arrivato che deve ripartire: il viaggio fatto è già inutile. Anche se per raggiungere un obiettivo si percorre molta strada non significa che si approda a una mèta, perché questa deve coincidere con l’obiettivo del cuore, del proprio essere intimo. Il viaggio della maturità non è vagare a zonzo. Il giovane figlio è scollato dentro di sé perché non ha più punti di riferimento e la sua vita è stravolta perché sono crollati gli appigli che aveva scambiato per sicurezza: ricchezza, compagni, divertimento.
Immerso nella più totale solitarietà, è incapace di percepire la direzione della sua vita. La tracotanza diventa dispersione e la presunzione disperazione. Il giovane figlio non fa l’esperienza della solitudine che è l’abitudine a stare con la propria intimità, nel silenzio e in compagnia di Dio. L’essere solitario è il vuoto attorno a sé anche in mezzo a una folla: è il terrore.

In cammino o andare a zonzo. Aveva disperso «tutto» con allegria e si ritrova di nuovo sulla strada non più in cammino verso una mèta, ma in viaggio spinto dalla sopravvivenza e dalla fame, unica compagna rimastagli. Camminare è un atto religioso di pellegrinaggio, che conduce a uno scopo già conosciuto perché lo si è visitato nel proprio cuore: si cammina verso il proprio io profondo, verso l’amore, verso un amico, un’amica, verso Dio, anche verso la morte e oltre la morte. Qui, il figlio «senza salvezza», dissoluto, cioè sciolto e smembrato due volte, invece, si mette solo in viaggio perché non sa dove andare e alla fine prenderà quello che capiterà. Non guida più gli eventi, ora sono gli eventi anche occasionali e imprevisti che lo sovrastano.

Nota spirituale. Qui potremmo vedere la descrizione della nostra storia di fede: crediamo di essere in cammino, invece andiamo solo lontano; pensiamo di pregare, invece parliamo solo con noi stessi; c’illudiamo di avere Abramo come padre (Gv 8,39), mentre siamo solo figli senza storia. A volte succede di avere la presunzione di essere nella volontà di Dio solo perché siamo battezzati, consacrati, credenti; invece siamo solo «incollati a… uno qualsiasi» degli idoli che popolano il nostro orizzonte di vita e verso i quali viaggiamo spediti, allontanandoci, anche senza avee coscienza, sempre più dalla sorgente di vita che è pateità.
Il figlio giovane è spesso la fotografia a colori della nostra situazione precaria che si lascia riempire di cose e compagnie occasionali, ma si priva della relazione essenziale dell’amore che è sempre «mettersi in cammino verso…», non un «allontanarsi da…». Possiamo moltiplicare le nostre preghiere, esse spesso sono solo formule che ingannano noi e non commuovono Dio, perché siamo lontani, incollati a una terra dove nemmeno a Dio permettiamo di entrare. Tutto è confinato: noi lontano dalle nostre origini, Dio lontano dal nostro orizzonte, fratelli e sorelle lontani dal nostro amore. Possiamo fare finta, illudere la nostra illusione, non possiamo mai ingannare la nostra coscienza e lo Spirito che, anche se sepolto, è presente in noi e nelle nostre scelte.
A volte pensiamo di dare gloria a Dio, mentre invece celebriamo solo noi stessi. Non basta celebrare liturgie «perfette» e vestire panni liturgici sgargianti, od osservare materialmente regole, prescrizioni e orari; non è sufficiente essere preti, religiosi, osservanti e pii per essere «incollati» al Padre, al Figlio e allo Spirito fin nelle fibre più intime del nostro cuore.
Dentro di noi si agita un figlio che cerca salvezza, ma volendo salvarsi da solo, si ritrova a dissipare il «tutto» che è e che ha come se fosse «senza salvezza, da dissoluto: perduto due volte».

Conoscere ciò che si cerca. È un momento drammatico nella vita del figlio giovane. Egli ancora una volta si allontana dalla mèta che si era prefissato e che avrebbe dovuto essere la sua nuova casa: egli che già si trova in un «paese lontano», va oltre, ponendo un abisso tra lui e suo padre. Non ha trovato ciò che cercava, perché non sapeva cosa voleva. La persona matura che si mette in cammino sa sempre quello che cerca.
Questo supplemento di viaggio significa un allontanamento ancora più radicale da suo padre e dalla sua casa, la cui distanza aumenta, mentre proporzionalmente diminuiscono le possibilità di un ritorno. Sembrerebbe che l’evangelista volesse dirci che questo figliolo ha oltrepassato il punto di non ritorno, le colonne d’Ercole della sua consistenza. Cosa c’è più lontano di un «paese lontano»? C’è solo l’abisso dell’inferno, dove sta entrando il «figlio più giovane» che pretese la vita del Padre per dilapidarla in un commercio dissoluto senza salvezza.

Andò a servizio di (lett.: si incollò/attaccò a)
uno degli abitanti di quella regione
Senza padre, senza terra, senza eredità, senza ricchezza, senza prospettiva, senza dignità: egli semplicemente «non è». A lui si attanaglia a pennello la rassegnata dannazione del poeta: «Non domandarci la formula che mondi possa aprirti… Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo» (E. Montale, Ossi di Seppia, «Non chiederci la parola»).
Non esiste la formula magica per scoprire mondi nuovi e lontani perché, se chi si mette in cammino non sa dove andare, può solo incontrare «ciò che non è, ciò che non sa» e non gli rimane che l’ultima spiaggia: aggrapparsi a «uno degli abitanti». Egli che voleva avere consapevolezza del proprio destino, dalla vita stessa è scaraventato nell’oblio dell’anonimato che è l’essenza del non-essere e il vertice del non-sapere.
«Uno degli abitanti»: non ha nome, né identità; addirittura non si dice che è «un uomo», ma che era solo «uno tra i tanti abitanti», un numero nella folla. Il testo greco è terribile nella finezza psicologica: usa il verbo kollàō, che significa «m’incollo/congiungo/aderisco/unisco».

Incollarsi alla vita. Il verbo è forte: indica una profonda intimità di condivisione di vita ed esprime anche il rapporto coniugale tra uomo e donna, per definire la fusione sponsale, che elimina la dualità di maschio e di femmina, per fare l’unità del nuovo soggetto coniugale. Il verbo kollàō elimina l’io e il tu per dare vita alla novità del noi: è un verbo che fa nascere una nuova personalità. In questo senso lo usa Matteo per affermare il principio della creazione, nella Genesi, che narra come l’uomo abbandona/si separa da suo padre e madre (cioè dalle relazioni esistenziali ed essenziali alla vita) per «lasciarsi incollare» alla propria donna ed essere così «due in una carne sola» (Mt 19,5; cf Gen 2,24). Qui il verbo esprime il suo significato più profondo, perché l’adesione dell’uomo alla donna produce l’unità più radicale della natura umana.
Luca stesso usa questo verbo per descrivere la polvere «che si è incollata/attaccata» ai piedi degli apostoli, divenendo parte di essi (Lc 10,11). In At 8,29 lo Spirito suggerisce a Filippo di «incollarsi al carro» dell’etiope sovrintendente della regina Candàce, per spiegargli l’identità del Servo. In At 17,34 lo stesso verbo è usato per descrivere l’adesione alla fede predicata da Paolo: «Ma alcuni uomini, essendosi incollati a lui, credettero». In Ap 18,5 invece è usato per indicare i peccati di Babilonia che «si sono incollati al cielo».
Questi pochi esempi sono sufficienti per soffermare la nostra attenzione su questo verbo che ha un senso decisivo e pone in atto un contrasto radicale tra la situazione di prima e quella di dopo. Non si tratta solo di mettersi a servizio per sbarcare il lunario in un tempo di carestia. La posta in gioco è molto più alta.

Conoscenza o anonimato. L’evangelista parla di un rapporto d’intimità che riguarda la vita e il suo destino, anzi le condizioni della vita stessa: colui che era figlio, ora è schiavo; colui che era libero di amare e di essere amato, ora è «incollato» a un anonimo; colui che voleva vivere a modo suo, ora è costretto a vivere a modo di un altro. Si è liberato di un padre, uccidendolo anzitempo per trovare un padrone a cui non esita di affidarsi incondiziona-tamente, incollando la sua vita a quella sua, instaurando, cioè, con lui una conoscenza così profonda da alienarsi per sempre: diventerà anonimo anche lui non solo per gli abitanti di quella regione, ma anche per gli animali, per i porci che non lo riconoscono.
La tragedia di questo figlio è terribile, se rapportata a quella dei suoi antenati, anch’essi in terra lontana (in esilio), che preferiscono morire, piuttosto che deturpare il nome e i canti di Gerusalemme: «Possa incollarmisi (kollàō) al palato la lingua, se non mi ricordassi di te (Gerusalemme)» (Sal 137/136,6). L’esule a Babilonia si strugge per essere stato costretto a separarsi dalla sua casa che è anche l’abitazione di Dio; mentre il giovane figlio ha scelto di separarsi dalla casa del padre per aderire/attaccarsi al vuoto del suo futuro senza salvezza. Egli si strappa dalla consacrazione al Dio di Gerusalemme e s’incolla, cioè si consacra a un padrone di morte. Essere incollato a uno qualsiasi degli abitanti di quella regione ha in questo contesto un valore profondamente religioso perché corrisponde anche a un atto di fede: egli accetta la legge, regole e comandamenti di «uno qualsiasi», compiendo un atto di apostasia dal suo Dio e dalla fede di suo padre. «Incollarsi a qualcuno» è accettae la prospettiva e dimensione di vita, quindi diventare come lui.

Lontano dalla Shekinàh. Non va verso l’anonimo come espediente per sopravvivere, ma è una conversione alla rovescia: abdicare da figlio d’Israele per diventare suddito di «uno degli abitanti di quella regione»; rinunciare alla sua identità di figlio del Dio di Abramo per essere servo di un impuro e sfruttatore; abbandonare le norme religiose del suo popolo per essere immondo e senza salvezza «in quella regione» che è «lontana» dal tempio, da Gerusalemme, dalla Toràh, dalla Shekinàh/Dimora del Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. Nel giovane figlio Adam ed Eva hanno toccato il fondo del loro costante e sistematico allontanamento dall’Eden.
Abramo credette contro ogni speranza; il giovane figlio rinnega con tracotanza; Isacco si offre in olocausto e si fa legare all’altare del sacrificio pur di restare fedele al padre suo e al Dio di suo padre; il figlio della parabola si scioglie da ogni obbligo e lega il padre all’altare del suo egoismo; Giacobbe si mette al servizio (gr.: doulèuō/io servo: il verbo conserva ancora un senso di dignità) di Labano per avere Lia e Rachele come mogli, restando distinto dal suocero e contestandone l’arroganza perfida (Gen 29,25.30), al contrario del giovane figlio, che invece prende l’iniziativa per vendere se stesso, abdicando alla sua stessa esistenza e alla sua dignità di persona. Lontano dal Dio d’Israele, come può essere vicino al senso della sua identità? Voleva vivere da parassita, ora è a rischio la sua stessa esistenza che non-vita.

E lo inviò/mandò nei suoi campi a pascolare i porci
Da un punto di vista letterario il versetto 15 contiene un «anacoluto», cioè viene cambiato il soggetto logico. Si sta parlando del figlio giovane che s’incolla a un abitante della regione e il versetto continua trasformando quest’ultimo in soggetto, contro ogni logica grammaticale: «Andò (il giovane è il soggetto) a servizio di uno degli abitanti della regione e lo mandò (uno degli abitanti è il nuovo soggetto) nei suoi campi a pascolare i porci».

Figlio di Beelzebùl. Pascolare i porci è proibito a un ebreo dalla Toràh: «Fra i ruminanti e gli animali che hanno l’unghia divisa, non mangerete i seguenti… il porco, perché ha l’unghia bipartita da una fessura, ma non rumina, lo considererete immondo» (Lv 11,4.7; Dt 14,3-5.7-8).
Tale proibizione, più che a un motivo di igiene (il porco si nutre di ogni immondezza), si deva a una ragione mitologica: nella mitologia antica, il porco è associato al diavolo, è l’incarnazione di Beelzebùl (ancora oggi nella iconografia il diavolo viene raffigurato spesso con il piede di porco), che è la fonte dell’idolatria e impurità, perché egli è l’opposto di Dio, anzi il nemico. Il suo nome in babilonese è «Baal Zebul», cioè «Signore/Padrone della casa», che gli Ebrei storpiarono in «Baal Zebub – Signore delle mosche» (cioè degli escrementi). Un indizio forte di ciò lo troviamo nei vangeli sinottici, quando Gesù libera l’indemoniato addirittura da una «legione» di spiriti maligni, i quali dopo essersi arresi chiedono il permesso, che Gesù concede, di traslocare in un branco di circa duemila porci (Mt 8,28-34; Mc 5,1-14; Lc 8,26-34).

L’impurità sessuale. Pascolare i porci significa quindi mettersi sotto il dominio di Satana e del suo influsso malefico, accettare di passare dalla fede in Dio alla religione del maligno, dal comandamento della Toràh alla legge dell’ateismo. Nel 2° libro dei Maccabei si narra del vecchio scriba Eleazaro, che, viene costretto a mangiare carne di porco per avere salva la vita, preferisce la morte atroce e lasciare un esempio di fedeltà al Dio dei padri che avere salva la vita e condannare le generazioni future con un esempio di morte (2 Mc 6,18-31). Lo stesso avviene per i sette fratelli figli dell’eroica madre che preferisce lei stessa consegnare i figli alla morte pur di non trasgredire la legge di Dio (2 Mc 7,1-41, specialmente i vv. 1-3).
Il giovane della parabola accetta addirittura di «pascolare» i porci, cioè di allevarli per altri, e quindi partecipa alla corruzione del futuro, diventando strumento di morte anche per le generazioni seguenti. Un altro elemento di impurità del porco dipende dalla cultura greca che lo associa alla sfrenatezza sessuale (Aristotele, Historia animalium, V,14,546a,8-28).
Siamo sicuri che sia questo il contesto del vangelo di Luca, perché troviamo anche nella tradizione rabbinica la controprova che al tempo della chiesa nascente, questo era il sentire ebraico. La Mishnàh, infatti, prescrive che «nessuno può allevare porci in qualsiasi posto (beqòl maqòm)» (trattato Baba Kama/Prima Porta 7,7), mentre nel Talmud di Babilonia in modo ancora più esplicito si commina la maledizione a chi alleva porci e diffonde i costumi della cultura greca, mettendo così in stretta correlazione il porco e il pensiero greco, associandolo alla sfrenatezza sessuale: «Maledetto sia l’uomo che alleva porci e chiunque insegna la saggezza greca» (trattato Bekoròt/Primogeniti 82b).

La carruba e la speranza. Il giovane figlio non poteva cadere più in basso di così: dalla casa patea alla porcilaia, dal tempio all’impurità totale, dalla terra promessa benedetta alla maledizione in terra straniera, dall’obbedienza della parola di Dio alla schiavitù di un anonimo qualsiasi, dalla dignità di figlio alla schiavitù in terra lontana, dai sogni di grandezza all’abisso dell’abiezione.
Lui che era pastore di greggi nella casa del padre, ora è schiavo di porci che non gli riconoscono nemmeno la dignità di commensale. Volle affrancarsi dall’obbedienza del padre, per scrollarsi qualsiasi forma di dipendenza, e si trova davanti un padrone che «lo inviò nei suoi campi» e accetta la «missione» di essere impuro, senza protesta, alimentando l’impurità e sprofondando in essa sotto il peso della maledizione del suo popolo.
Lui che aveva aspirato a desideri di libertà, tanto da comprarla con la ricchezza iniqua, ora aspira a un solo desiderio: sfamarsi delle carrube che implora dai porci stessi al cui livello ormai si considera, ma i porci lo escludono dalla loro intimità e non lo vogliono nel loro porcile, perché egli è andato oltre l’abisso e ogni speranza che nessuna carruba potrà mai sfamare. Oltre l’immondezza della porcilaia, c’è appunto il giovane figlio che ha degradato la vita del padre incollandola a quella di un impuro e senza Dio. Non resta che una prospettiva, l’unica soluzione, la sola possibilità: la morte come pietra tombale sul vuoto che soffoca anche il desiderio di essere porco tra i porci. Come è lontano il padre adesso! Come è lontano il figlio da se stesso!  (continua – 12).

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella




Piccoli uomini, grandi inquietudini

Pigmei: la difficile via dell’integrazione

I pigmei sono stati tenuti per secoli in stato di emarginazione e servaggio dalle popolazioni bantu. Negli ultimi decenni è cominciato il loro inserimento nella società congolese, grazie anche a organizzazioni non governative (ong) locali. Un processo lento, che richiede il riconoscimento della cultura e maggiore rispetto dei diritti umani di più abitanti delle foreste equatoriali africane.

Goma, estremo est della Repubblica Democratica del Congo, al confine con il Rwanda. Il nome della città evoca disastri, dalle ondate di profughi in fuga dal genocidio rwandese alla terribile eruzione del vulcano Niyragongo, che nel 2002 rase al suolo il centro abitato. I suoi segni sono tutt’ora visibili nello spesso strato di lava nera che ricopre tutto e su cui la gente ha ricostruito le proprie povere abitazioni.
Difficile fare un elenco delle priorità, in questo angolo di Congo: le numerose ong si occupano di povertà, istruzione, sanità, recupero delle vittime di guerra. Passa così in secondo piano un’altra realtà, di cui pochi si interessano: la situazione delle popolazioni pigmee, poveri tra i poveri e spesso discriminati dalle popolazioni bantu.
Esistono tuttavia alcune piccole ong locali che tentano interventi in favore dei più antichi abitanti di questa parte d’Africa: attività gestite da congolesi bantu che cercano di contrastare la mentalità dominante che emargina i pigmei. Certo, mancano i mezzi, ma soprattutto a volte manca una reale conoscenza della cultura pigmea. Con il rischio di fare danni, pur con le migliori intenzioni.
la Uefa
I ncontriamo l’associazione Union pour l’Emancipation de la Femme Autoctone (Uefa) nella propria sede, una piccolissima stanza in un edificio sull’unica strada asfaltata di Goma. Il personale si mostra un po’ titubante, ma qualcuno accetta di raccontarci delle loro attività.
Le parole della segretaria (che non vuole darci il nome) sono molto significative e rivelano il loro tipo di approccio: «Lavoriamo in sei luoghi nei dintorni di Goma. Il nostro obiettivo principale è l’integrazione: quella pigmea è una popolazione miserabile, che vive di elemosina. Non vogliono più fare la vita nomade, quindi insegniamo loro l’agricoltura e spieghiamo come lavorare con i non pigmei. Abbiamo assistenti sociali sul terreno e ci adoperiamo anche per le donne vittime di violenza, che accompagniamo al centro più vicino di salute».
La Uefa sopravvive con finanziamenti dal Pnud (Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo) per i progetti sull’agricoltura e dall’Irc (Italian Resuscitation Council) per la parte medica. Con questi fondi, foiscono alle donne violate anche un aiuto economico, comprando loro maiali e vacche, in modo che possano avviare un’attività. La sede principale dell’ong è nella città di Bukavu, più a sud. A Goma le loro attività sono iniziate tre anni fa, dopo l’eruzione.
Tanta buona volontà e spesso anche con buoni esiti, ma la mentalità di fondo non si discosta troppo dalla cultura generale. Prosegue infatti la donna: «Non è facile lavorare con i pigmei, sono primitivi. Ora che vivono coi non pigmei, cominciano a integrarsi, ma non vogliono studiare. Grazie al lavoro di alcuni educatori popolari che si occupano di alfabetizzazione degli adulti, cerchiamo di far loro capire che l’istruzione è importante».
E conclude notando che i pigmei cominciano a perdere la loro cultura tradizionale, perché non possono più mantenere il loro stile di vita, basato sulla caccia e la raccolta dei frutti. Ad esempio non possono più entrare nel parco nazionale del Virunga: troppo alti i rischi legati all’insicurezza, come dimostrano i pigmei sfollati presso il Lago Verde. «Lo stato ha da tempo deciso che non possono più vivere come animali: sono persone e devono vivere come gli altri» conclude la donna.
Il Cidopy
Sulla strada che attraversa Goma da nord a sud sorge la sede del Centre d’information et de documentation pygmees (Cidopy), un’altra ong locale. Qui l’atteggiamento è diverso. Ci spiega Achille Biffumbu, il responsabile: «Collaboriamo con una fondazione olandese, che dal 1989 lavora coi pigmei della regione settentrionale dell’Ituri: con la guerra loro sono stati obbligati a sospendere le loro attività dirette e hanno preso contatti con noi. Qui a Goma lavoriamo dal 2005. Statistiche sui pigmei non ce ne sono; esistono delle stime che parlano di 15 mila pigmei qui nel Kivu e 60 mila in Ituri. Abbiamo cominciato il nostro lavoro dalla salute, dalla scolarizzazione dei bambini e da attività agricole; ma incontravamo molte difficoltà. È così che siamo arrivati a comprendere che la cultura pigmea si sta perdendo non per il contatto con i bantu, ma per il modo che si ha di lavorare con loro».
Gli esempi non mancano: più a nord un missionario ha costruito piccole case in tolla per loro; ma, dietro la casa, i pigmei costruiscono ugualmente le loro capanne. O ancora: i pigmei sfollati presso il Lago Verde hanno chiesto legno per costruire delle case, ma poi l’hanno venduto.
«È difficile capire – prosegue Achille -. Per questo preferiamo lavorare con loro, adattandoci alla loro cultura e facendo un’analisi antropologica dei loro bisogni».
Lo stesso vale anche per il lavoro coi bambini, che hanno un modo diverso di studiare: quando è il periodo della caccia o della raccolta del miele, vanno in foresta con la famiglia. Allora, bisogna adattare il calendario scolastico ai loro bisogni.
In questo il Cidopy si è avvalso di un programma di scambio con altre ong che lavorano coi pigmei in Camerun e l’anno scorso hanno organizzato una sessione di aggioamento per gli insegnanti delle scuole in cui ci sono bimbi pigmei. Nel Kivu la composizione delle classi è mista: il 25% dei bambini sono bantu e molti non sono facilmente distinguibili, segno di una commistione tra bantu e pigmei.
«Il problema fondamentale di cui ci siamo resi conto – prosegue Achille – è che molta gente lavora con loro senza conoscee la cultura. Prendiamo il settore sanitario: i pigmei hanno difficoltà a frequentare i centri di salute, per vari motivi: se non li capiamo, pensiamo che siano refrattari. Se dite a un pigmeo di andare all’ospedale, ci andrà tutto il villaggio. Un pigmeo non passa la notte in un letto. Allora, noi costruiamo una casa in tolla o in foglie di fianco all’ospedale, dove possono trascorrere la notte facendo il fuoco. Abbiamo pensato di creare piccole équipes mobili per la sensibilizzazione sanitaria e da alcuni mesi è in funzione una clinica mobile».
Attualmente non esistono direttive politiche; ma durante la dittatura Mobutu ne aveva deciso l’integrazione forzata: tutti i pigmei dovevano lasciare le foreste e vivere ai margini della strada. Dunque, la mentalità che ancora esiste nelle popolazioni bantu che vedono i pigmei come «primitivi» da «normalizzare» è un’eredità di Mobutu.
Oggi che la situazione politica del paese è cambiata e si sono finalmente avute le prime elezioni multipartitiche dal 1960, qualcosa è mutato anche per i pigmei. In occasione della giornata mondiale delle popolazioni autoctone, è stata resa pubblica una loro dichiarazione nei confronti del governo: sono senza terra e non protetti dalla legge; vengono cacciati perché nessuno se ne occupa.
In un paese come il Congo, con tante emergenze, non vengono considerati una priorità. Così il Cidopy, grazie a un finanziamento olandese, ha steso un progetto per ottenere il riconoscimento formale delle terre dei pigmei e ha approntato l’accompagnamento giuridico necessario.
Quanto alla politica, Achille spiega: «Esistono rappresentanti pigmei, ma c’è un problema di leadership tra di loro. In Rwanda i pigmei sono ben organizzati; in Burundi una di loro, Liberate Nichayenzi, è diventata deputata e si sta dimostrando in gamba. Qui invece ci sono molti opportunisti, sia bantu che pigmei, che cercano di trarre profitto personale da una posizione di leadership. Resta aperta la questione di come trovare rappresentanti validi: non abbiamo ancora una risposta, ma ci stiamo lavorando, perché sappiamo quanto sia importante dar loro voce nelle istituzioni democratiche che stanno nascendo». 

Di Giusy Baioni

Giusy Baioni




Cristiani in Kurdistan

Intervista a mons. Rabban Al Qas, vescovo di Amadhiya, Kurdistan iracheno

L’appoggio logistico dato dai curdi agli americani nella guerra contro Saddam Hussein ha fatto
del Nord dell’Iraq un’oasi di pace rispetto al resto del paese. Migliaia di profughi provenienti da Baghdad e da altre zone colpite dal conflitto cercano rifugio nel territorio amministrato dal Goveo regionale curdo. Tra di essi molti cristiani. Problemi attuali e prospettive future nelle parole del vescovo di Amadhiya.

Monsignor Rabban Al Qas è dal 2001 vescovo della diocesi caldea di Amadhiya. Dal 2005 è anche amministratore della sede vescovile di Erbil, rimasta vacante dopo la morte del precedente titolare, mons. Yacoub Scher. Entrambe le diocesi che mons. Al Qas guida si trovano in Kurdistan, la zona settentrionale dell’Iraq, un’area a maggioranza curda, di fatto semindipendente dal governo centrale di Baghdad, e controllata dal Goveo regionale curdo (Grc).
Il Kurdistan è anche la zona dove, specialmente negli ultimi tempi, si stanno rifugiando i cristiani iracheni che fuggono dalle violenze settarie che li vedono vittime prescelte da chi vorrebbe islamizzare il paese cancellando le minoranze non musulmane. I cristiani rifugiati in Kurdistan sono ormai decine di migliaia. Disperati, costretti a lasciare le proprie case senza portare via nulla, disoccupati e terrorizzati arrivano nel nord e cercano nella chiesa l’aiuto morale e materiale di cui hanno bisogno.
Approfittando di una sua breve visita in Italia, abbiamo rivolto a proposito alcune domande a mons. Al Qas.

Che difficoltà pratiche affronta un vescovo che da tempo gestisce due diocesi, una delle quali – Erbil – accoglie la maggioranza dei cristiani che fuggono dal centro e dal sud dell’Iraq?
Difficoltà legate non solo all’ingente flusso migratorio, ma soprattutto al fatto che la maggior parte di chi cerca rifugio nel nord è in condizione di estrema povertà, non ha nulla, neanche una casa. In questo senso l’aiuto ci è arrivato dal Grc attraverso il suo ministro delle finanze, Sarkis Aghajan. Ogni famiglia riceve dai 100 ai 150 dollari al mese e sono in costruzione molte case per ospitarle. I cristiani sono benvenuti e per quanto riguarda Ankawa, cittadina vicino a Erbil, ad esempio, è volontà del governo che essa mantenga la sua caratteristica di essere un centro della cristianità. Il Grc vuol fare di Ankawa una città modea e sa molto bene che i cristiani, grazie alla loro professionalità, possono tornare molto utili.
In genere le migrazioni di massa, specialmente se concentrate in un lasso di tempo breve, sono causa di tensioni sociali tra i vecchi abitanti della zona e i nuovi arrivati. Succede così anche in Kurdistan tra antichi abitanti e nuovi arrivati dal centro e dal sud del paese?
Non parlerei di tensioni sociali, ma sempre e solo di difficoltà economiche. Le persone che scappano nel nord sanno che si tratta di una situazione temporanea e non potrebbe essere altrimenti, visto che non si può provvedere a tutti. Così, ad esempio, un medico, che magari a Baghdad poteva arrivare a guadagnare 500 dollari al mese, qui ne guadagnerà 150 a fronte di prezzi molto alti.  La povertà è un problema che riguarda i cristiani ed anche gli arabi musulmani, specialmente d’inverno quando il prezzo di un barile di petrolio da 200 litri sale a 150/170 dollari quando prima costava un solo dollaro. L’embargo che c’era sotto Saddam è ora diventato l’embargo attuato dalla Turchia, che raffina il nostro petrolio e poi ce lo rivende a prezzo altissimo.

Perché questa emigrazione verso il Kurdistan?
Il problema è la mancanza di sicurezza nel resto dell’Iraq. Agli inizi degli anni ‘60 molti abitanti del nord si trasferirono nelle grandi città, a Baghdad o Mosul, e a metà degli anni ‘70 altri iniziarono a emigrare verso l’estero; ora molte di quelle famiglie sono costrette a lasciare i luoghi dove hanno vissuto per decenni per sfuggire alla morte. Molti sono fuggiti anche in Siria, Giordania e Turchia, ma la maggior parte arriva nel Kurdistan, dove il Grc sta facendo costruire per loro dei nuovi villaggi. Nella diocesi di Amadhiya, ad esempio, sono state costruite più di 800 case per accogliere i profughi. Le abitazioni vengono consegnate «chiavi in mano». Questa è la soluzione giusta perché i cristiani rimangano in Kurdistan, in Iraq.

Il Grc nell’ultimo anno ha iniziato ad appoggiare l’idea di una regione amministrativa cristiana sotto il suo controllo, può spiegare di che cosa si tratta?
I cristiani non vogliono l’autonomia per lasciare l’Iraq o il Kurdistan. Ciò che vogliono è un’autonomia amministrativa e non politica. La regione di Ninive, per la quale si chiede tale tipo di autonomia e che ospita villaggi cristiani, curdi e a maggioranza yazida, non fa geograficamente parte del Kurdistan, anche se a mio parere dovrebbe esserlo. In questi tempi difficili i cristiani sono più vicini ai curdi che agli arabi. Prendiamo ad esempio la città di Mosul: le chiese bruciate, i sacerdoti uccisi, le violenze compiute contro i cristiani. Come potrebbero questi desiderare di tornare a viverci?
Molti cristiani vorrebbero vivere nella regione di Ninive, dove godrebbero della libertà che è ora loro negata, ma non hanno un esercito per difendersi e per questa ragione hanno bisogno della protezione dei curdi. Essi non vorrebbero lasciare le proprie case e desidererebbero essere cittadini come tutti gli altri; ma sanno che nella nuova costituzione irachena sono invece considerati come cittadini di seconda categoria.
In Kurdistan è diverso; ora che si sta stilando la costituzione regionale io stesso ho chiesto che dai documenti sparisca l’indicazione della religione del titolare e che si cancelli la legge dell’epoca di Saddam, per la quale i figli di un cristiano o di una cristiana convertito/a all’Islam vengono automaticamente e immediatamente considerati e registrati come musulmani.
Nel maggio del 2006 il presidente del Kurdistan, Masoud Barzani, ha promesso al nostro patriarca di cancellare ogni punto della costituzione contro i cristiani. La situazione del Kurdistan è molto diversa da quella di Baghdad, noi siamo liberi di parlare, la stampa è libera; a natale ben tre canali televisivi, due curdi e uno cristiano, hanno diffuso in diretta le sante messe. Durante la mia omelia di natale ho detto che Gesù non è venuto solo per i cristiani, ma per tutto il mondo, una cosa che prima non era possibile dire e che purtroppo non lo è ancora nelle altre zone del paese.

Che contatti ci sono tra Kurdistan,  chiesa e resto del mondo?
La collaborazione tra l’estero e i kurdistani – è così che si chiamano gli abitanti del Kurdistan – è ottima dal punto di vista economico. Il Grc è libero di stilare contratti e fare affari, e anche le infrastrutture lo permettono, visto che ci sono due aeroporti che collegano il Kurdistan con l’estero: quello di Sulemainiya e quello di Erbil che è in fase di ampliamento. Come ha detto il primo ministro, Nechirvan Barzani, il Kurdistan può diventare un nuovo Dubai, dove sviluppare gli affari e l’economia.
Le relazioni con la chiesa estea all’Iraq avvengono tramite la nunziatura apostolica di Baghdad, attraverso la quale ci arrivano, ad esempio, le notizie da Roma, i messaggi del santo padre e l’Osservatore Romano, ma non ci sono contatti diretti. Personalmente, continuo a esprimere, anche a nome di altri vescovi del nord Iraq, il desiderio che tali legami si intensifichino e diventino diretti, non solo epistolari.
Oggi come oggi la situazione della comunità cristiana irachena è molto confusa. A gennaio il Babel College, la facoltà di teologia cristiana, e il seminario maggiore caldeo sono stati trasferiti da Baghdad ad Ankawa per ragioni di sicurezza.

Questo potrebbe portare a uno spostamento del patriarcato da Baghdad a una sede più sicura?
Personalmente, credo che la collocazione geografica della sede patriarcale non sia così importante. Essa deve essere dove sono i fedeli. Per ora sono state spostate queste due istituzioni, e il Grc ha anche concesso una vasta area dove costruire una casa per i religiosi. Se i cristiani dovessero sparire da Baghdad converrebbe spostare la sede patriarcale, ma per ora molti di essi vivono ancora nella capitale e dobbiamo essere ottimisti.

Come giudica la presenza della chiesa in Kurdistan?
Oltre al clero delle varie diocesi, si contano religiosi di vari ordini: i padri redentoristi belgi che vivono in Iraq da almeno 35 anni, domenicani e un gesuita americano che vive in Giordania e che viene ad Ankawa per insegnare. Cerchiamo di essere sensibili alle varie esigenze dei fedeli delle nostre comunità. Per esempio, molti dei cristiani che ora vivono in Kurdistan hanno vissuto per decenni lontano e, per questa ragione, non conoscono l’aramaico, che è la lingua ancestrale della maggioranza dei cristiani in Iraq ed è pure la lingua liturgica della chiesa caldea. Per questa ragione il venerdì c’è una messa in arabo per chi non capisce l’aramaico.
Pare strano che sia di venerdì e non di domenica, ma il venerdì è il giorno festivo islamico e siccome a questa messa partecipano anche fedeli che provengono da Mosul o da altre zone, cerchiamo di agevolarli facendo sì che possano approfittare del giorno festivo.

Se le forze inteazionali se ne andassero dall’Iraq, ci sarebbero conseguenze per la popolazione cristiana, e quali?
Questa è una domanda che bisognerebbe rivolgere a George Bush e non a me che sono un vescovo. Per quanto riguarda il Kurdistan la zona è stata affidata alle truppe coreane, con le quali la collaborazione è stata ottima. Il Kurdistan ha il proprio esercito – i peshmerga – e non ha bisogno di essere difeso da altri.
Dai coreani quindi abbiamo avuto modo di imparare molte cose che senza dubbio saranno utili in futuro. Oggi la presenza americana in Kurdistan è minima e i soldati Usa che vi risiedono dicono che per loro è come «essere in vacanza». Hanno ragione, chiunque abbia vissuto a Baghdad sa che è così: là la guerra, in Kurdistan la pace. 

Di Luigia Storti

Luigia Storti




«Piccola casa», grande amore

Ritoo alla missione della Piccola Casa, sulle orme delle pioniere

Nel 1972 la Piccola Casa è ritornata in Kenya, nella missione di Tuuru, al fine di dare una continuità
ed un valore sempre attuale alla testimonianza di tante suore, che cinquant’anni prima avevano dato la loro vita per dissodare il terreno di una cultura ancora totalmente ignara del Vangelo.

A ll’inizio del xx secolo la Piccola Casa fu contattata dal beato Giuseppe Allamano, che si trovò nella necessità di avere suore da mandare nelle neonate missioni della Consolata, quando ancora egli non aveva alcun progetto per la fondazione di una congregazione femminile. La richiesta fu accolta e per un ventennio (1903-1925) le suore Vincenzine del Cottolengo lavorarono in Kenya al fianco dei primi padri e fratelli della Consolata.
dissodarono il campo
Mons. Perlo desiderava prima di tutto avere delle «buone massaie», che fossero in grado di occuparsi del corretto andamento delle missioni. Progressivamente però esse furono investite di ruoli di primo piano nella evangelizzazione come la visita ai villaggi, l’assistenza agli ammalati e ai morenti, la cura pastorale dei piccoli per mezzo di asili infantili e il catecumenato delle ragazze.
Le Vincenzine si dedicarono anche ai bambini abbandonati, curandoli e allevandoli. Da tale attività nacquero i primi orfanotrofi.
Durante la Prima guerra mondiale vediamo le suore cottolenghine sparse in diverse parti dell’Africa Orientale per prestare la loro opera infermieristica e caritativa in vari ospedali da campo organizzati per lenire le sofferenze della popolazione indigena, coinvolta nelle ostilità senza peraltro conoscee il motivo.
Non mancarono le difficoltà, dovute alla lingua e al fatto che le suore erano preparate per il servizio del povero e dell’infermo, mentre fin dall’inizio furono impiegate per attività di catechesi diretta, per la quale non erano ancora pronte.
La difficoltà di comunicazione con la casa madre fece sorgere nella Piccola Casa un certo timore che le suore potessero in qualche modo perdere l’ispirazione carismatica originale, diventando poi di fatto una congregazione religiosa separata.
Un altro elemento che per certo creò notevoli difficoltà fu lo stile di vita imposto da mons. Perlo alle suore, ai padri e ai fratelli, fatto di privazioni eccessive e difficilmente sopportabili. Egli era un uomo radicale, esigentissimo con se stesso e anche un po’ troppo duro con gli altri che non erano fatti con il suo stesso stampo e rischiavano di ammalarsi conducendo un’esistenza modellata sulla sua.
Nel 1910 l’Allamano fondò le suore missionarie della Consolata che, finita la guerra, sostituirono gradualmente le suore Vincenzine. Queste lasciarono alle nuove venute i frutti del loro apostolato: case avviate, chiese ricche di ricami e paramenti e soprattutto delle comunità cristiane già iniziate, anche se ancora in tenera età e quindi bisognose di cure per crescere sane e robuste.
Le Vincenzine hanno dissodato il terreno. Non hanno potuto vedere molte conversioni e battesimi, ma i successi riportati nei decenni seguenti affondano le radici nel loro sacrificio di consacrate. Esse hanno «seminato nel pianto» lasciando poi ad altri la gioia di raccogliere «i loro covoni».
eredità ripresa
Sotto la spinta del rinnovamento impressa dal Concilio Vaticano II la Piccola Casa è ritornata in terra d’Africa. Il Cottolengo riprese coscienza che il seme sparso da tante sorelle in missione, era ormai pronto a germinare e a fare frutto: quando si trattò di decidere in quale parte del mondo iniziare, fu chiaro per i superiori della Piccola Casa che la nostra avventura missionaria avrebbe dovuto ricominciare là dove, per motivi storici, era stata interrotta. Mancava soltanto l’occasione per partire, o un segno particolare della divina Provvidenza, che aiutasse a capire in che modo il Cottolengo potesse reinserirsi nella chiesa del Kenya.
Nell’Africa equatoriale, e in particolare in Kenya, la poliomielite era, ed è tuttora, una fonte di grandi problematiche sociali, in quanto normalmente non uccide le persone affette, ma le rende gravemente handicappate, impedendo loro sia una vita autonoma, sia la possibilità di lavorare per provvedere alla famiglia.
Nel 1963, padre Franco Soldati, missionario della Consolata, cominciò a raccogliere i piccoli poliomielitici della zona di Tuuru, nel distretto di Meru. L’opera prosperò notevolmente e la struttura dovette essere ampliata, fino ad una capienza di 250 posti letto: assieme ai poliomielitici venivano accolti anche portatori di handicap mentale e affetti da paralisi spastiche.
Ingenti erano le spese di mantenimento. A questo si aggiunse il problema dell’approvvigionamento idrico: l’acqua veniva raccolta in un vicino corso d’acqua e trasportata alla missione con taniche caricate sulla Land Rover. Tale problema trovò soluzione a partire dal 1971, ad opera di fratel Giuseppe Argese, che riuscì a costruire un gigantesco acquedotto, ancora oggi considerato una meraviglia dell’ingegno umano.
L’opera diventava sempre più difficile da gestire per cui padre Soldati chiese la collaborazione della Piccola Casa. Padre Luigi Borsarelli, ai tempi padre Generale del Cottolengo, e madre Bianca Crivelli si dimostrarono molto interessati alla proposta e, dopo aver visitato la missione, conclusero che «quello era pane per i loro denti».
Nella lettera circolare che madre Bianca inviò a tutte le suore si legge: «Dopo esserci consigliate, aver pregato e fatto pregare, abbiamo optato per il nostro ritorno nelle terre già santificate dal lavoro, dalle fatiche e dagli eroismi delle nostre sorelle. Non potremmo fare a meno di ritornare là, perché la compianta madre Scolastica, chiudendo le memorie di suor Maria Carola, la pregava di intercedere affinché “quella fiaccola accesa con sacrifici eroici delle nostre sorelle non si spenga prima che altre sorelle giungano a riprendere il solco da lei lasciato interrotto”… Desideriamo tornare là dove il nostro santo Cottolengo è ancora conosciuto e amato, dove sono ancora di casa le sembianze delle nostre care sorelle».
Le prime cinque suore del Cottolengo giunsero a Tuuru l’11 marzo 1972. Tutte erano infermiere professionali, ad eccezione di una specializzata in fisioterapia. L’idea era quella di trasformare Tuuru in un vero e proprio centro di riabilitazione e di recupero per i poliomielitici, avvalendosi anche della collaborazione del prof. Operti, che si era nel frattempo reso disponibile a una preziosa opera di volontariato come chirurgo; la riabilitazione sarebbe stata affidata alle suore cottolenghine.
missione cottolenghina
Insieme al secondo gruppo di suore, partirono anche due fratelli cottolenghini che si inserirono gradualmente nell’organico lavoro della missione di Tuuru. Fratel Lodovico iniziò il proprio servizio al dispensario, dove ogni giorno affluivano circa 200 persone, affette da vari tipi di malattie, e collaborava con il prof. Operti per gli interventi chirurgici ai bambini polio ricoverati nella missione.
Fratel Umberto ben presto imparò l’arte di confezionare scarpe ortopediche e calipers per i piccoli handicappati di Tuuru. In seguito altri fratelli si unirono al nucleo originario dedicandosi chi al lavoro nella calzoleria e nell’officina ortopedica e chi alla formazione dei giovani aspiranti alla vita religiosa dei fratelli.
Giunsero quindi i primi sacerdoti cottolenghini che si dedicarono alla cura pastorale della parrocchia di Tuuru. Nel 1973, durante una visita canonica dei tre superiori della Piccola Casa si conclusero gli accordi con padre Soldati e con i superiori dei missionari della Consolata, per un passaggio definitivo del Centro e della parrocchia di Tuuru alla Piccola Casa.  Sorsero poi anche le vocazioni locali: il primo sacerdote keniota fu don Filippo Ntonja, che aprì la strada a un nutrito gruppo di giovani che ora formano le nuove leve della società dei sacerdoti cottolenghini in Kenya.
Con la gestione del Centro di Tuuru da parte della Piccola Casa, venne dato un nuovo impulso all’edilizia con la costruzione di un reparto per i «buoni figli», una nuova casa per il ricovero delle bambine, la palestra, l’officina ortopedica, la calzoleria e il nuovo dispensario.
Il Centro sempre più si veniva qualificando come una struttura per la terapia chirurgica e riabilitativa dei bambini affetti da poliomielite. Il trattamento chirurgico veniva eseguito dal prof. Operti, che ogni anno giungeva in Kenya nel mese di febbraio, con l’incarico di operare tutti i bambini, che erano stati prescelti dalle suore nel corso dell’anno.
La parte di recupero funzionale era quindi lasciata alle sorelle fisioterapiste, che per molti mesi cercavano di recuperare motilità agli arti malformati, tramite una paziente e continua attività di rieducazione motoria. Tale attività è continuata fino al 1999, quando si è deciso di riconvertire l’attività della missione di Tuuru ai bambini spastici, cerebrolesi gravi. Tale scelta è nata dalla considerazione che dopo molti anni di campagne di vaccinazione antipolio, il numero dei bimbi affetti dalla malattia era radicalmente diminuito.
Da sempre Tuuru è stato anche un centro di accoglienza per i giovani «buoni figli», e ancora oggi accoglie un discreto numero di handicappati mentali, per lo più di sesso femminile. Tuuru è anche l’unica parrocchia cottolenghina in Kenya: è una parrocchia molto grande ed esigente, con un vasto numero di chiesette succursali, che vengono visitate regolarmente dai sacerdoti e dai catechisti. La missione, inoltre, ha costruito e gestisce una grande scuola elementare per i poveri, dove bambini bisognosi vengono accolti e seguiti nella loro educazione primaria.
nuova missione a chaaria
Sin dal 1983 si cominciò a sentire la necessità di una casa di formazione per i fratelli, che fosse più confacente alle necessità della loro crescita spirituale. Il vescovo di Meru offrì ai fratelli un terreno nella erigenda parrocchia di Chaaria, un piccolo mercato situato a circa 20 km da Meru.
La zona era semiarida e popolata da un esiguo numero di famiglie, per lo più dedite ad attività agricole per l’esclusivo sostentamento familiare. A Chaaria già esisteva una chiesetta, che però era succursale di una parrocchia alquanto lontana. Esistevano anche i locali di un piccolo dispensario costruito con le offerte della gente: dispensario che comunque non era mai stato attivato.
La costruzione del Cottolengo Centre di Chaaria proseguì velocemente e, nel giugno del 1985, il primo gruppo di candidati fratelli venne accolto nella nuova casa di formazione. In luglio vennero accolti i primi sette «buoni figli», tutti provenienti da Tuuru. Si trattava di giovanotti ormai adulti e diventati troppo pesanti per l’assistenza delle sole suore.
Il 19 gennaio 2001 a Chaaria sono giunte le suore cottolenghine: al momento sono solo due, ma i progetti della Piccola Casa prevedono l’ampliamento di questa comunità, al fine di dare un necessario taglio femminile al nostro servizio. Al momento suor Lucy si occupa di terapia occupazionale e della scuola speciale per gli handicappati. Inoltre si dedica ad attività di counselling per i pazienti affetti da HIV, e a programmi pastorali in parrocchia.
a servizio dei «buoni figli»
Fin dall’inizio fu attivato il servizio sanitario nel dispensario: il servizio copriva sei giorni alla settimana e riusciva ad assistere fino a 200 persone al giorno. Insieme alla terapia per varie malattie tropicali, si eseguiva prevenzione sia attraverso la vaccinazione dei bambini, sia attraverso le visite periodiche alle donne gravide.
Dal 1993 venne iniziata l’attività del mobile clinic, attraverso la quale si tentò di aiutare i pazienti provenienti da località molto remote. In giorni fissi il personale del dispensario usciva dal Centro, per raggiungere villaggi relativamente lontani, dove si organizzavano giornate di terapia e prevenzione, normalmente all’interno di alcune chiesette, che risultavano particolarmente adatte allo scopo.
Negli ultimi anni il dispensario è diventato un ospedale con 140 posti letto. La trasformazione si deve all’arrivo, nel 1997, di fratel Beppe Gaido, medico, la cui presenza consente al dispensario di fornire prestazioni di più ampia portata e attira un numero sempre maggiore di utenti con le patologie più varie, anche con carattere di urgenza o gravi; basti rilevare che nei primi sei mesi del 2003 il numero dei pazienti visitati gioalmente è giunto fino a 350 unità.
L’aumento dei pazienti è dovuto anche al fatto che essi sanno di venire curati adeguatamente, di poter trovare le medicine, un consiglio competente e un aiuto umano.
È da considerare poi che il servizio clinico dell’ospedale copre 24 ore su 24 anche le necessità sanitarie dei «buoni figli», con i quali si fa prevenzione, diagnosi di laboratorio e cure di vario genere.  Inoltre, l’ospedaletto si prende cura di un certo numero di orfani, dalla nascita all’età di circa 6 mesi: tali orfani sono per lo più figli di donne decedute al momento del parto, tanto nel nostro ospedale, quanto in altri ospedali vicini.
Due volte al mese usciamo per il mobile clinic, e cerchiamo di portare le nostre prestazioni sanitarie più vicino alle persone che più ne hanno bisogno. Dal 1990 è presente un organizzato servizio dentistico supportato dal contributo di dentisti che vengono a Chaaria durante il mese di agosto. Dobbiamo veramente tanto ai volontari che hanno gradualmente elevato il livello delle prestazioni tecniche in ospedale: a loro dobbiamo l’inizio delle attività di ecografia diagnostica e l’attivazione dell’attività chirurgica.
Il Centro è attrezzato per 50 posti letto, al momento tutti occupati. Gli ospiti sono accuditi anche da un buon gruppo di personale dipendente, che ogni giorno segue le loro necessità personali. Oltre al quotidiano servizio domestico e alberghiero, esiste un’attività di apprendimento scolastico. Non sono mancati momenti di svago attraverso il gioco o le uscite dal Centro. Nel 2006 siamo riusciti a portare i «buoni figli» al Parco Nazionale per almeno due volte.
Il Centro è meta per visite guidate da parte di gruppi scolastici, parrocchiali ecc.
Quasi tutti gli ospiti hanno bisogno di interventi fisioterapici; esiste dunque una palestra totalmente dedita ad attività di riabilitazione per i «buoni figli». Anche nel Centro operano molti volontari che contribuiscono all’animazione dei ragazzi e alla normale gestione dei servizi.

C onoscere la storia è sempre importante, perché ci aiuta a capire il cammino percorso prima di noi, gli sforzi e i sacrifici che hanno contribuito a portare a compimento le opere che oggi vediamo e che spesso diamo per scontate.
È sempre utile per noi un ritorno alle origini, perché ci aiuta a collocarci meglio nello scorrere di una storia di cui effettivamente anche noi siamo un tassello e che sicuramente continuerà dopo di noi anche grazie al nostro contributo. 

di Beppe Gaido

Beppe Gaido




Cari missionari

Diamanti sporchi

Spett.le Redazione,
innanzitutto complimenti per l’ottima rivista, siete davvero un faro in mezzo alla tempesta! Leggervi mi fa sempre venire voglia di «combattere»!
Vorrei segnalarvi questo: su «Venti4uattro», rivista in allegato al Sole 24 Ore di sabato 14 aprile, era riportato un articolo nel quale una nota società, che opera nel commercio e nella lavorazione dei diamanti, veniva elogiata dai giornalisti in quanto, grazie al suo operato, la regione in cui sorge la miniera prospera, le donne trovano lavoro, vengono costruite scuole, gli animali sono protetti, ecc., ecc…
Onestamente la cosa mi suona un po’ come retorica propagandista, forse in contrapposizione ai recenti scandali che il trattato di Kimberley ha tentato di arginare. Vi allego pertanto copia dell’articolo suddetto, per sottoporlo alla vostra competenza che senz’altro è ben più meritoria della mia! Se lo riterrete opportuno, potreste inserire un piccolo dibattito nella rivista…!
Cordiali saluti e… continuate così!
Carlo Occhiena
Genova

La joint venture tra Botswana, dove si trova la miniera citata, e De Beers, la compagnia che vi sfrutta tre miniere diamantifere, viene presentata come modello di cooperazione per lo sviluppo del paese. Speriamo che sia così. Nel passato, però, la suddetta compagnia ha fatto affari con i «diamanti insanguinati», sfruttando e alimentando la guerra in vari paesi africani (Angola, Congo-Zaire, Sierra Leone…). Che «il Kimberley Process abbia azzerato la circolazione dei cosiddetti blood diamonds», come afferma il giornalista, è da dimostrare. Se ne può discutere.

Diamanti… veri

Gentile Direttore,
da quando ho capito che quello di cui ci chiederà conto il Signore sarà cosa avremo fatto per il prossimo sofferente, il mio impegno è rivolto soprattutto verso i missionari, vera punta di diamante della chiesa, che testimoniano il Signore con la parola e con l’esempio. Devo dire che il suo periodico è fra i migliori, se non il migliore, di quelli missionari per la ricchezza di argomenti, la chiarezza e indipendenza nella denuncia dei misfatti e ingiustizie contro i poveri nel mondo.
Mi sorprende molto il fatto che qualche volta ci siano lettori che, solo perché un articolo denuncia la sopraffazione dei potenti e dei ricchi sulla povera gente, tacciano l’autore come comunista, cattocomunista, prete compagno, ecc.
Mi chiedo: «Ma non sono i cristiani quelli che si devono occupare e combattere per primi per la giustizia sociale di aiutare i bisognosi?».
Caro direttore, vada avanti tranquillo, Missioni Consolata dà forza ai coraggiosi e scuote le coscienze degli indifferenti.
Buon lavoro. Con stima.
Dante Bersetti
Montemarciano (AN)

Grazie per la stima e incoraggiamenti! Andremo avanti come sempre, senza guardare né a «destra» né a «sinistra».

Legge sull’amianto

Gentile Redazione,
ho letto e apprezzato l’articolo del dott. Roberto Topino e della dott.sa Rosanna Novara nel numero di Maggio 2007 dal titolo: «Quelle infide fibre d’amianto». Nell’articolo, a proposito delle coperture in eternit, è scritto che,    «…. quando i danni del materiale sono evidenti, la legge prevede la bonifica e la sostituzione delle coperture…». Sapreste indicarmi nello specifico quale legge?
Colgo l’occasione per fare i miei complimenti a tutta la redazione e augurarvi un buon proseguimento di lavoro.
Giuseppe D’Amico
Via e-mail

Risponde il dott. Topino: «Si tratta del Decreto ministeriale 06/09/1994. Normative e metodologie tecniche di applicazione dell’art. 6, comma 3, e dell’art. 12, comma 2, della legge 27 marzo 1992, n. 257, relativa alla cessazione dell’impiego dell’amianto. La legge è molto dettagliata e precisa, purtroppo raramente viene applicata in modo corretto». L’intero testo del «Decreto ministeriale del 06/09/1994» è reperibile su internet.

Uno solo è il maestro

Cari missionari,
anche se non ne hanno bisogno, desidero ugualmente esprimere al dott. Topino e alla dott.sa Novara il mio apprezzamento per il loro dossier «Tira proprio una brutta aria» (M.C. n.2/2007) e la mia solidarietà, dopo le aspre critiche, dall’avvocato di Palermo (cf. M.C. n.4/2007 p.7).
A mio modo di vedere, il chiamarsi Veronesi, Rossi, Bianchi o Topino non dice nulla sul valore di un professionista della sanità e sulla capacità di contribuire al miglioramento delle condizioni di vita di un individuo, di una città, di una nazione. A fare la differenza non sono i cognomi, numero di libri e articoli pubblicati e, men che meno, quello delle apparizioni televisive, ma le azioni sul campo, i comportamenti quotidiani, la fedeltà al codice deontologico e agli impegni che si sono presi davanti a Dio e alla collettività.
In particolare, chi è medico dovrebbe cercare di mantenersi il più possibile fedele al Giuramento di Ippocrate e, di conseguenza, anche a quel passo che dice: «A chiunque mi chiederà un veleno glielo rifiuterò, come pure mi guarderò dal consigliarglielo. Non darò a nessuna donna dei farmaci antifecondativi o abortivi».
Ora, se il Veronesi a cui fa riferimento l’avv. Cuccia è il professor Umberto Veronesi, luminare di fama internazionale, non mi pare che, almeno per ciò che riguarda aborto e contraccezione, la sua fedeltà al Giuramento di Ippocrate sia il non plus ultra. Al contrario, innumerevoli sono state le volte che è intervenuto per esprimere la sua posizione favorevole all’interruzione volontaria della gravidanza, all’uso delle pillole abortive (come la devastante RU 486, prodotta, guarda caso, da quella stessa Roussel Uclaf che, durante la II Guerra mondiale, metteva a disposizione dei nazisti le sostanze tossiche da impiegare nelle camere a gas, che causarono la morte di centinaia di migliaia di innocenti…), favorevole alla sperimentazione con cellule staminali ricavate da embrioni umani appositamente uccisi.
Ora, se c’è la libertà, per chi porta cognomi così altisonanti, di esprimere queste convinzioni, immagino ci sia anche quella di dire che per un cattolico che vuol restare fedele a Cristo, al vangelo, alla legge naturale e al magistero della chiesa, un uomo come il pur rispettabilissimo prof. Veronesi non può costituire un punto di riferimento affidabile.
Quindi, se il prof. Veronesi non possiamo considerarlo un buon maestro per ciò che riguarda la tutela della vita nascente, se non ci piacciono le sue posizioni in materia di eutanasia, perché dovremmo considerarlo infallibile quando si pronuncia su altri temi, quali le polveri sottili e i cambiamenti climatici?
Per me, Veronesi (potrei dire anche Zichichi, Dulbecco, Levi Montalcini, Rubbia) è una persona come tante altre, che ora dice cose giuste, ora meno giuste. È allo Spirito Santo che dobbiamo affidarci per esercitare la difficile, ma irrinunciabile, arte del discernimento. Solo lo Spirito Santo può condurci alla verità tutta intera.
Domenico Di Roberto Ancona

Diciamo NO … ai nuovi Claudio e nuovi Torlonia

Dopo aver letto le affermazioni dell’avvocato palermitano sugli anandroecologisti che, secondo lui, «se ci fossero stati al tempo dei romani non avremmo il Colosseo e l’acquedotto», desidero fare alcuni rilievi.
1° Gli ecologisti non hanno mai avuto nulla in contrario agli acquedotti; anzi, sono in prima linea nel denunciare le carenze delle reti idriche (abbiamo acquedotti che perdono fino al 70% dell’acqua) e nel chiedere che i fondi per le grandi opere pubbliche vengano innanzitutto impiegati per garantire un’efficiente distribuzione dell’acqua potabile.
2° Se è vero che gli acquedotti costruiti dai romani godono dell’ammirazione universale, è altrettanto vero che non tutte le opere idrauliche da essi realizzate furono cose buone e giuste. Mi riferisco ad esempio agli sciagurati interventi sul Fucino, le cui disgrazie, come ci racconta Tacito nei suoi Annales, iniziarono proprio sotto gli imperatori romani, in particolare sotto Claudio. Il disastro fu poi completato nella seconda metà del xix secolo dal banchiere Alessandro Torlonia.
Per molto tempo si è creduto che il prosciugamento del Fucino (per estensione era il terzo lago italiano) fosse una cosa oltremodo necessaria; ricordo benissimo gli anni in cui i testi scolastici tessevano le lodi del principe Torlonia e degli uomini che lavorarono per trasformare la grande conca in una zona agricola di pregio, dopo averla liberata dalle zanzare, dalla malaria, ecc… Poi, uno studio più attento degli scrittori classici e l’evoluzione di una coscienza civile, meno succube dei miti del passato, hanno aiutato a capire che gli interventi sul Fucino furono un gravissimo errore, perché costarono la perdita di un patrimonio idrico, biologico e naturalistico di incalcolabile valore. Tra l’altro, è falso che le acque del povero lago fossero sozze e malsane. Virgilio, per esempio, parla di «vitrea unda» (onda cristallina) del Fucino (Eneide vii,759) e i curatori del Dizionario enciclopedico italiano assicurano che, prima di essere strapazzato dagli uomini, il Fucino «non era affatto un lago malarico». Esondazioni, febbri e altri problemi legati alla presenza del Lago Fucino erano solo conseguenza degli abusi patiti dal territorio nel corso dei secoli.
3° Il Colosseo non è solo una grande opera architettonica di indiscutibile originalità. È anche il luogo dove migliaia di persone venivano barbaramente uccise o fatte uccidere dalle belve (che a loro volta morivano tra atroci sofferenze per soddisfare gli insaziabili capricci dei potenti di Roma), perché si rifiutavano di tributare agli imperatori quell’adorazione che credevano di dover riservare solo al Dio di Gesù Cristo. Se il loro martirio ci ha insegnato qualcosa, cerchiamo anche noi di dare sempre a Dio quel che è di Dio, negando ai modei Cesari quel che non è e non potrà mai essere dei Cesari. E, quando vediamo l’immagine del Colosseo impressa sul retro della monetina da 0.05 euro, ricordiamoci che si tratta pur sempre di opere di uomo e che Dio sa fare di meglio, di molto meglio.

Pensiamo a tutte le stragi inutili di uomini e animali che provochiamo in nome delle grandi opere pubbliche, dello sviluppo, della ricerca scientifica, ma anche in nome della sicurezza, lotta al terrorismo e difesa della nostra civiltà.
Ristabiliamo rapporti corretti con il mondo naturale e con i nostri simili, vicini e lontani. Diciamo NO ai nuovi Claudio e nuovi Torlonia, che pretendono di trattare laghi, fiumi, montagne, foreste, abissi oceanici, spazi aerei… come se fossero loro proprietà privata.
Francesco Rondina
Fano (PU)