Quello infide fibre d’amianto

Un problema grave, a lungo sottovalutato

Ne parlava anche Plinio il Vecchio, che lo chiamava «lino vivo». Ne scrisse
Marco Polo ne Il Milione.  Le proprietà dell’amianto sono note da tempo.  
Per questo è ovunque. Chi non conosce i tetti in «onduline» (Eteit)
o i pavimenti in «linoleum»? Senza dire degli utilizzi non immediatamente riconoscibili. Da anni, si è scoperto che l’amianto è molto pericoloso per la salute, essendo causa di neoplasie fatali. Per questo è stato messo
al bando in molti paesi, ma – considerata la sua diffusione e le lacune
normative – i suoi effetti si faranno sentire a lungo. E pesantemente.

In igiene industriale vengono considerate «fibre» tutte le particelle allungate, di tipo aghiforme, con un rapporto lunghezza/diametro almeno pari a 3:1, un diametro uguale o inferiore a 3µ e una lunghezza uguale o superiore a 5µ (micron; cfr. MC, febbraio 2007, Glossario). Per avere un’azione patogena le fibre devono essere respirabili, cioè devono essere in grado di giungere fino al comparto polmonare più profondo, quello alveolare. Solo le fibre con diametro inferiore a 3µ e con lunghezza non superiore a 200µ possono essere respirate.
Questi requisiti sono posseduti dalle fibre d’amianto, un materiale ampiamente usato in svariate produzioni industriali, proprio grazie alla sua struttura fibrosa. Infatti tale struttura si rivela indispensabile per certi tipi di lavorazioni. Ad esempio, nell’industria tessile non si potrebbe fare a meno di materiali in grado di essere filati, così come nell’industria dei materiali compositi, cioè quei prodotti in cui una componente solida particellare viene inglobata in una matrice amorfa resinosa, o di altra natura, per formare un complesso resistente. In particolare, in questo secondo tipo d’industria, i materiali fibrosi sono usati specialmente perché possiedono una superficie maggiore a parità di volume, rispetto alle particelle rotondeggianti, quindi offrono una maggiore possibilità d’interazione chimica e un contatto fisico più ampio con i componenti della matrice.
Per questo motivo l’amianto, formato da fibre dotate di elevata resistenza alla tensione, grande flessibilità, grande resistenza al calore e agli acidi, è stato ampiamente utilizzato nelle più diverse produzioni industriali, finché non è stato messo al bando in molte nazioni tra cui l’Italia, una volta provata la sua cancerogenicità.

L’amianto nella storia

L’utilizzo dell’amianto inizia in epoche lontane.
Per via della sua proprietà di poter essere filato e di resistere al fuoco, veniva utilizzato, ad esempio, per produrre tovaglie che venivano ripulite sulla fiamma, stoppini per le lampade e lenzuola per cremare i cadaveri.
Plinio il Vecchio lo chiamava «lino vivo», con riferimento alla facilità con cui poteva essere tessuto.
Grazie alla sua resistenza al fuoco, nel Medioevo fu associato con la salamandra e con questo nome Marco Polo, ne Il Milione, definì un minerale che veniva filato per fare delle stoffe, che non bruciavano se gettate nel fuoco.
Il nome commerciale salamandra venne dato ai primi materassi per termocoibentazione in amianto prodotti industrialmente.
La rivoluzione industriale iniziata con l’invenzione del telaio meccanico e, nella seconda metà del xix secolo, con l’utilizzo diffuso della macchina a vapore e dei processi di fusione dei metalli, determinò un forte aumento dell’impiego dell’amianto al fine di non disperdere il calore dei foi, delle caldaie e dei tubi per la distribuzione del vapore.
La produzione di amianto arrivò a superare i 5 milioni di tonnellate all’anno.
Sempre per via delle sue proprietà isolanti, l’amianto è stato utilizzato in Europa per produrre manufatti per l’edilizia come canne fumarie, tubi dell’acqua, tetti (ondulati di cemento-amianto), intercapedini (cartongesso), pavimenti (linoleum).
L’amianto è stato anche utilizzato, mescolato a caldo con il catrame, per impermeabilizzare i tetti piani.
Molto pericolosa è stata l’applicazione a spruzzo, al fine di ottenere uno strato isolante per pareti e soffitti. L’amianto in polvere veniva soffiato con l’aria compressa insieme a una colla liquida (tipo Vinavil). Inutile dire che la lavorazione sviluppava nubi di polvere, ma va anche detto che lo strato isolante così ottenuto non era compatto e, dove è stato applicato, può rilasciare ancora oggi grandi quantità di fibre di amianto nell’ambiente.
Sempre al fine di proteggere dal calore e insonorizzare, è stato fatto un largo uso di amianto anche nei mezzi di trasporto: lo troviamo nelle locomotive e nei vagoni dei treni, nelle intercapedini delle navi, nei ripari dei motori, nei freni e nelle frizioni degli autoveicoli.
Per quanto riguarda il settore ferroviario, basti pensare, ad esempio, che in una carrozza ferroviaria passeggeri potevano essere collocate anche 2 tonnellate di materiale coibente.
Proprio nel settore dei trasporti si concentra ben il 25% delle neoplasie da asbesto complessivamente indennizzate dall’Inail dal 2001 al 2005.
Ben sapendo che possono passare decine di anni dal momento dell’esposizione a rischio all’insorgenza di una neoplasia provocata dall’amianto, anche se questo pericoloso minerale è stato messo al bando, dovremo aspettarci numerosi casi di patologie neoplastiche almeno per altri venti anni.
Si mantiene infatti elevato, rispetto al complesso delle neoplasie professionali, il numero di quelle causate dall’asbesto, con oltre 400 casi/anno riconosciuti (1), il 75% dei quali sono casi di mesotelioma pleurico, che sono in costante aumento; infatti prima del 2000 i casi riscontrati erano circa 100 all’anno (2).
Anche l’asbestosi rimane una delle principali patologie polmonari di origine professionale: nel quinquennio 2001-2005 ne sono stati riconosciuti dall’Inail più di 1.300 casi, di cui il 25% diagnosticato nel settore trasporti (3).

L’amianto oggi

Nonostante la messa al bando in Italia nel 1992, il rischio amianto è ancora attuale, ad esempio, per gli operai impegnati nella manutenzione o nei lavori di bonifica.
Possiamo trovare amianto anche in oggetti di uso comune, tipo foi da cucina, asciugacapelli, stufe elettriche, assi per stirare, presine e guanti da foo.
Non dimentichiamo che tuttora in Russia, in Canada, in Cina e in altre parti del mondo, l’amianto viene ancora utilizzato e possiamo trovarlo in manufatti importati.
In Europa, alla fine degli anni Novanta, l’amianto è stato messo al bando; ma, mancando una normativa che ne imponesse la bonifica, lo possiamo trovare ancora oggi in gran quantità e in condizioni sempre peggiori per via del deterioramento causato dal tempo.
L’amianto è un rischio professionale e ambientale di proporzioni catastrofiche. I dati di cui la letteratura scientifica sanitaria dispone a livello mondiale riportano che l’amianto è stato responsabile di oltre 200.000 morti negli Stati Uniti, e si stima che procurerà altri milioni di morti in tutto il mondo (4).
È grave dover riscontrare che questa enorme tragedia era annunciata e poteva essere evitata, non utilizzando l’amianto.

È attorno a noi

I minerali di amianto vengono suddivisi in due grandi gruppi: il serpentino e gli anfiboli. C’è un solo tipo di amianto derivato da minerale di serpentino, il crisotilo, noto anche come amianto bianco. Gli anfiboli comprendono cinque tipi di amianto: amosite, crocidolite, tremolite, antofillite e actinolite. Due di questi sono le varietà di maggior valore commerciale: l’amosite, o amianto marrone, e la crocidolite, o amianto blu. Gli altri anfiboli sono di scarsa importanza commerciale. Indicazioni iniziali che il crisotilo potesse essere meno pericoloso di altri tipi di amianto non sono state confermate (5). Attualmente la maggioranza dei lavori scientifici dimostra che anche il crisotilo causa tumori, compresi il cancro polmonare e il mesotelioma (6). Anche il crisotilo canadese, privo di anfiboli, è associato a mesoteliomi (7).
Gli effetti sull’uomo sono conosciuti da quasi un secolo.
Negli anni Venti del secolo scorso si cominciarono a studiare gli effetti dell’amianto sull’organismo, evidenziando le situazioni di accumulo nei polmoni (asbestosi); nei decenni successivi si cominciarono ad osservare gli effetti neoplastici di queste fibre, dal carcinoma polmonare al mesotelioma pleurico e peritoneale, che possono colpire non soltanto i lavoratori, ma anche la restante popolazione, a causa della presenza di amianto anche negli ambienti estei alle industrie, ad esempio nelle città.
I temibili effetti sulla salute hanno determinato dapprima la messa al bando delle lavorazioni più inquinanti, per esempio la coibentazione a spruzzo, e dell’utilizzo dell’amianto nell’industria alimentare, dove serviva per filtrare il vino o per la cottura dei biscotti. Da non dimenticare che l’amianto è stato utilizzato anche nei filtri delle sigarette.
Come già accennato prima, l’amianto è stato messo al bando, ma rappresenta ancora oggi un rischio non solo per i lavoratori, ma anche per i cittadini.
In molti casi, quando si riscontra un tumore da amianto, non si riesce a individuare una causa di rischio legata al lavoro svolto.
È ormai ben noto che anche l’inalazione delle fibre di amianto presenti negli ambienti urbani può essere fatale a distanza di tempo.

Quante fibre di amianto
respiriamo al giorno?

Viene spontaneo chiedersi: quanto amianto può essere pericoloso?
Studi condotti su diverse città italiane (Milano, Casale Monferrato, Brescia, Ancona, Bologna, Firenze), hanno evidenziato concentrazioni aerodisperse di amianto crisotilo comprese tra 0,1 e 2,6 fibre/litro. A Torino, per esempio, viene confermato da esperti del Politecnico e dell’Inail che la concentrazione media di amianto è di 1 fibra/litro. Per legge, il primo livello di allarme indicativo di una situazione di inquinamento è di 2 fibre/litro. Il livello stabilito dalle normative mette al riparo dal rischio di ammalarsi di asbestosi, ma gli studiosi concordano sul fatto che non evita il rischio cancerogeno.
Lo stato della Califoia ha cercato di dare un valore soglia e ha stabilito, come livello di rischio non significativo, il valore di 100 fibre al giorno di amianto crisotilo, che per essere correttamente misurato richiederebbe di avere a disposizione una tecnica strumentale e una procedura in grado di raggiungere un limite di rilevabilità pari a 0,005 fibre/litro (8).
Gli strumenti attualmente utilizzati non hanno una tale precisione, ma servono solo a misurare concentrazioni molto più elevate. Il limite di sensibilità degli apparecchi «a norma» si ferma a 0,4 fibre/litro per cui anche superando fino a 80 volte il livello stabilito dagli studiosi califoiani, i nostri rilevatori continuerebbero a segnare zero.
Ma quanto amianto respiriamo?
Con la presenza di una fibra/litro, ipotizzando un volume di aria respirata di 18 metri cubi al giorno, si può ritenere, con buona approssimazione, che un uomo respiri in un giorno 18.000 (diciottomila) fibre di amianto; questo valore viene definito «concentrazione di riferimento ambientale».

Dalla II Guerra mondiale
alle ricerche di oggi…

Circa 10 anni fa, il compianto prof. G. Scansetti (Dipartimento di traumatologia, ortopedia e medicina del lavoro dell’Università di Torino) in un articolo scientifico dal titolo «L’amianto ieri ed oggi» scriveva: «L’ultimo effetto largamente documentato, il più temibile anche per la restante popolazione, è stato il mesotelioma multiplo maligno, della pleura e del peritoneo. Se in ambito professionale nel nostro paese ci dobbiamo attendere effetti ormai soltanto riconducibili ad esposizioni “storiche”, la storia degli effetti sulla popolazione generale per la (bassa) contaminazione generale è tutta da scrivere» (9).
Il professore ricordava anche gli studi relativi al cancro polmonare associato all’esposizione all’amianto citando, tra l’altro, due lavori di uno studioso tedesco, Nordman (10), che nel 1941, con Sorge, diede anche la dimostrazione sperimentale (11).
Fra il 1943 e il 1944 un altro studio di Wedler citò anche «carcinomi pleurici» nelle sue statistiche, tedesche, sui tumori all’apparato respiratorio degli asbestosici (12).
Il prof. Scansetti ricordava anche un effetto negativo, non secondario, indotto, fra gli altri, dalle guerre: gli statunitensi e, più in generale, gli alleati non credettero a questi risultati dei tedeschi – pur giunti a loro conoscenza – perché sospettati di essere menzogne manipolate ad arte dal nemico: basti pensare ai lavori di coibentazione, con grande utilizzo di amianto, a bordo delle navi da guerra.
Le preoccupazioni di allora del prof. Scansetti trovano oggi riscontri precisi.
Il ministero della salute sottolinea che a differenza dell’asbestosi, per cui è necessaria un’esposizione intensa e prolungata, per il mesotelioma non è possibile stabilire una soglia di rischio, ossia un livello di esposizione così ridotto all’amianto, al di sotto del quale risulti innocuo. Il decorso della patologia tumorale è molto rapido e la sopravvivenza è in genere inferiore a un anno dalla prima diagnosi. Non sono state individuate terapie efficaci.
L’Università di Torino (Dipartimento di Scienze Biomediche e Oncologia Umana, Sezione di Anatomia Patologica) in un lavoro del 1997 dal titolo eloquente «Implicazioni medico-legali della diagnosi di mesotelioma» (F. Mollo, D. Bellis) riporta che: «È stato ripetutamente affermato che esposizioni molto lievi e brevi possono causare lo sviluppo del mesotelioma maligno (13,14,15). Ma in pratica la dose-soglia cumulativa (al di sotto della quale sia da escludere nel caso singolo la possibile azione carcinogenetica dell’amianto nei confronti del mesotelioma maligno) non è definita (16), e forse non è definibile».

L’Europa si muove

Il problema dell’amianto è ben conosciuto in Europa e l’Italia ha recentemente recepito la direttiva 2003/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 marzo 2003, che modifica la direttiva 83/477/CEE del Consiglio sulla protezione dei lavoratori contro i rischi connessi con un’esposizione all’amianto durante il lavoro. In un paragrafo della direttiva si ricorda che: «Non è stato ancora possibile determinare il livello di esposizione al di sotto del quale l’amianto non comporta rischi di cancro». 

Di Roberto Topino e Rosanna Novara


(1) Rapporto annuale INAIL 2005
(2) Rapporto annuale INAIL 2000
(3) Dati INAIL sull’andamento degli infortuni sul lavoro, Giugno 2006
(4) Sixth Collegium Ramazzini Statement (1999)
(5) UNEP, ILO, WHO, 1998
(6) Smith e Wright, 1996; Stayner, Dankovic e Lemen, 1996
(7) Frank, Dodson e Williams, 1998
(8) Fondazione Salvatore Maugeri, Concentrazione di riferimento ambientale dell’amianto crisotilo in aree urbane: l’esperienza della città di Pavia, IRCCS, Pavia 1997
(9) Fondazione Salvatore Maugeri, L’amianto ieri e oggi,  IRCCS, Pavia 1997
(10) Nordman M., Der Berufskrebs der Asbestarbeiter, Z. Krebsforsch, 1938; 47: 288-302
(11) Nordman M., Sorge A., Lungenkrebs durch Asbeststaub in Tierversuch, Z. Krebsforsch 1941; 51: 168-182
(12) Wedler H.W., Asbestose und Lungenkrebs, Dtsch. Med. Woch. 1943; 69: 575-576
(13) Bertazzi P.A., Piolatto G., Epidemiologia mondiale ed italiana, in Mesotelioma Maligno, Ed. Regione Piemonte, Torino 1985, 18-31
(14) Scansetti G., Piolatto G., Pira E. Il Rischio da Amianto Oggi, Ed. Regione Piemonte, Torino 1985
(15) De Vos Irvine H., Lamont D.W., Hole D.J., Gillis C.R., Asbestos and lung cancer in Glasgow and the West of Scotland. Br. J. Med., 1993; 306: 1503-1506
(16) Doll R., Peto J., Asbestos: Effects on Health of Exposure to Asbestos, London: Health and Safety Commission, HMSO, 1985

Il Glossario di «Nostra Madre Terra»

L’ABC DEL PROBLEMA 

Amianto: è stato abbondantemente usato nell’industria dall’inizio del secolo scorso fino alla metà degli anni Settanta, dopodiché, data la sua pericolosità, è stato sempre meno utilizzato, fino alla totale messa al bando in alcuni paesi. In Italia è stato bandito dalla legge 257/92. Tra i suoi effetti patologici ricordiamo l’asbestosi, la formazione delle placche pleuriche e il mesotelioma pleurico e peritoneale.

Asbestosi: è la fibrosi polmonare da amianto, caratterizzata dalla formazione di granulomi, contenenti al centro una o più fibre di amianto, che appaiono rivestite da un’incrostazione ad astuccio, formata da proteine ad alto contenuto di ferro e calcio, provenienti dall’ospite. Queste strutture vengono chiamate anche «corpuscoli dell’asbesto» e possono essere reperite sia nel tessuto polmonare, che nell’escreato del paziente. La reazione infiammatoria, di cui la formazione dei granulomi è una parte, richiama la presenza dapprima di granulociti e poi di macrofagi e linfociti, cioè di globuli bianchi con funzione di difesa. In particolare i macrofagi esercitano un’azione di fagocitosi verso i corpuscoli dell’asbesto; tuttavia, poiché le dimensioni di tali corpuscoli vanno da 5µ a 100µ, quindi spesso sono al limite delle dimensioni del macrofago, la fagocitosi da parte di quest’ultimo risulta spesso incompleta. In molti casi, inoltre, il macrofago, che ha inglobato il corpuscolo, va in necrosi, perché al suo interno vengono liberati enzimi litici, quindi la cellula muore e il corpuscolo dell’asbesto può penetrare in un altro macrofago. All’accumulo dei macrofagi e alla loro necrosi si associano altre manifestazioni infiammatorie, tra cui reazioni vasculo-essudative e fibroblastiche, con produzione di sostanza fondamentale e di fibre (tipici materiali del tessuto connettivo), da cui la fibrosi.

Fagocitosi: attività esplicata principalmente dai macrofagi, ma anche da altri globuli bianchi, tra cui i granulociti, consistente nell’inglobare all’interno della cellula un corpo estraneo, grazie ad opportuni movimenti della membrana cellulare, che lo avvolge. Si forma così un vacuolo digestivo, all’interno del quale vengono riversati degli enzimi litici, da parte di organuli cellulari detti lisosomi. In tale modo il corpo estraneo viene quasi sempre digerito, tranne in casi particolari, come quello delle fibre di asbesto (vedi testo).

Fibroblasti: sono le cellule principali del tessuto connettivo, responsabili della produzione di fibre collagene ed elastiche, nonché della sostanza fondamentale, in cui le fibre sono immerse. Nel connettivo, le cellule sono distanziate tra loro e le fibre e la sostanza fondamentale si trovano negli spazi intercellulari. La maggiore o minore compattezza ed elasticità del tessuto sono date dalla quantità e qualità delle fibre, nonché dalle condizioni della sostanza fondamentale, che si presenta come un gel, la cui fluidità dipende dal rapporto tra acido ialuronico e acido condroitinsolforico, due mucopolisaccaridi di cui è costituita.

Fibrosi: abbondante produzione di fibre collagene, da parte dei fibroblasti (reazione fibroblastica), con funzione di riempimento di una lesione.

Granulociti: globuli bianchi ricchi di granulazioni, da cui il nome, capaci di movimenti ameboidi (assottigliamento della cellula e possibilità di strisciare), che consentono loro di fuoriuscire dai capillari sanguigni e raggiungere l’area d’infiammazione, dove esplicano anch’essi la funzione di fagocitosi, ma solo su particelle piccole come i batteri, a differenza dei macrofagi, che sono in grado d’inglobare anche cellule intere. I granulociti sono di tre tipi: neutrofili, eosinofili e basofili, a seconda del colore assunto dalle granulazioni, con le comuni colorazioni di laboratorio; il diverso colore corrisponde a vari tipi di enzimi contenuti nei granuli.

Granuloma: è una funzione infiammatoria cronica, circoscritta e caratterizzata da una reazione cellulare esuberante dovuta soprattutto a macrofagi, linfociti e plasmacellule. Rappresentano di solito la risposta del connettivo ad un processo infettivo specifico o comunque all’ingresso di un agente estraneo.

Linfociti: globuli bianchi responsabili della difesa di tipo specifico del sistema immunitario. Appartengono a due categorie: B e T. I linfociti B, una volta riconosciuto l’antigene estraneo, si attivano, si trasformano in plasmacellule e iniziano la produzione di anticorpi (o immunoglobuline), che vengono riversati nel sangue e vanno a legarsi in modo altamente specifico, secondo un meccanismo chiave-serratura, all’antigene, determinandone la distruzione mediante l’attivazione di un sistema enzimatico detto complemento, oppure la precipitazione e successiva eliminazione. I linfociti T hanno un’attività citotossica altamente specifica, per cui dopo avere riconosciuto l’antigene, si avvicinano alla cellula estranea e la uccidono (linfociti T killer), per rottura della membrana cellulare. I linfociti T sono particolarmente attivi nelle reazioni di rigetto, nei trapianti d’organo. La risposta specifica del sistema immunitario è più tardiva, rispetto a quella aspecifica, ma molto più efficace e duratura, grazie a particolari linfociti B e T, detti cellule «di memoria», che, una volta incontrato un certo antigene, non si attivano subito, ma ne registrano la presenza, per attivarsi poi in una seconda eventuale infezione.

Macrofagi: cellule con spiccata attività fagocitaria, responsabili della difesa di tipo aspecifico. Possono essere circolanti nel sangue (monociti, precursori inattivi) e fissi in molti tessuti (istiociti, attivi). Rappresentano uno dei più rapidi sistemi di difesa, seppure di tipo primitivo, del nostro organismo e la loro attività nei confronti di un qualsiasi agente estraneo è coadiuvante l’attività altamente specifica dei linfociti.

Mesotelioma pleurico e peritoneale: è una gravissima neoplasia maligna, che interessa la membrana sierosa di rivestimento del polmone (pleura) e il peritoneo, che riveste gli organi addominali. Le prime osservazioni di questi tumori risalgono all’inizio degli anni ‘30 nel Regno Unito. Nel 1964 l’Accademia delle Scienze di New York ha stabilito, per consenso unanime, il rapporto causale tra l’amianto ed il mesotelioma e successivamente è stata rilevata la maggiore pericolosità degli anfiboli, in particolare della crocidolite e della amosite. La messa al bando della crocidolite, la fibra più pericolosa, è avvenuta nel 1966 nel Regno Unito, nel 1970 in Australia, nel 1985 in Finlandia e nel 1986 in Italia, dove peraltro nel 1992 sono stati banditi tutti i tipi di amianto.

Placche pleuriche: ispessimenti a volte calcifici della membrana sierosa, che riveste il polmone.

Reazioni vasculo-essudative: edema e gonfiore presenti in zone infiammate.

(a cura di R.Topino e R.Novara)

Le coperture di Eteit
QUANDO SONO PERICOLOSE?

Non esiste una normativa che obblighi alla rimozione delle coperture in fibrocemento in buon stato di conservazione, ma il passare del tempo determina un progressivo deterioramento dei tetti con il rilascio nell’ambiente di fibre: in questi casi, quando i danni del materiale sono evidenti, la legge prevede la bonifica e la sostituzione delle coperture con altre senza amianto.
È l’esposizione agli agenti atmosferici che determina il progressivo degrado delle coperture per azione delle piogge acide, degli sbalzi termici, dell’erosione eolica e di microrganismi vegetali (muffe, licheni).
Per i motivi elencati, dopo anni dall’installazione, si possono determinare alterazioni corrosive superficiali con affioramento e rilascio delle fibre.
I principali indicatori utili per valutare lo stato di degrado delle coperture in cemento-amianto e conseguentemente l’aumento di rischio di rilascio di fibre, sono: la friabilità del materiale, lo stato della superficie con affioramenti di fibre e la formazione di muffe, la presenza di sfaldamenti, di crepe, di rotture e di materiale friabile o polverulento in corrispondenza di scoli d’acqua e grondaie.
Il segno più importante che dimostra la pericolosità del tetto è la presenza di materiale fibroso conglobato in piccole stalattiti in corrispondenza dei punti di gocciolamento.
In questi casi la dispersione di fibre è evidente e la bonifica è doverosa.

Roberto Topino e Rosanna Novara




L’unione fa la forza

Cocopa: oltre la sigla

Fino a qualche anno fa le attività inteazionali degli enti locali italiani erano limitate ad alcune azioni di collaborazione all’interno dei gemellaggi istituzionali,  oppure a donazioni di denaro in seguito ad emergenze (terremoti, inondazioni, ecc.), accoglienza e ospitalità (profughi da zone di guerra, bambini di Ceobyl).
Spesso i comuni hanno finanziato progetti di cooperazione allo sviluppo realizzati da Ong o associazioni di volontariato internazionale, ma il loro ruolo era sostanzialmente di finanziatori senza altra forma di coinvolgimento all’interno dei progetti.
Verso la metà degli anni ’90, gli enti locali hanno iniziato a definire meglio il loro ruolo all’interno della cooperazione allo sviluppo. Ciò  è stato determinato da alcuni fattori.
I processi di inteazionalizzazione e globalizzazione hanno avvicinato molti dei cittadini dei nostri comuni ai drammatici squilibri Nord – Sud e hanno fatto crescere la consapevolezza delle collettività locali, di essere sempre più parte di un sistema interdipendente. Si è capito che ciò che capita a migliaia di chilometri ha effetti in diverse parti del mondo (guerre, violazione dei diritti dei lavoratori in Cina, crack finanziari, atti di terrorismo, fenomeni di immigrazione, emergenze ambientali e climatiche, ecc.). Oggi molti avvertono la necessità di aprirsi al mondo, di coinvolgersi nella riflessione sui modelli di sviluppo, di agire per l’attenuazione degli squilibri e di cercare di dare risposte globali a problemi ormai diventati planetari.
Alcuni insuccessi della cooperazione governativa hanno lasciato nuovi spazi alle amministrazioni locali. Cresce la convinzione che gli eletti (sindaci, consiglieri, ecc.) del Nord e del Sud rappresentino il livello istituzionale più vicino alla popolazione e che conoscano concretamente le problematiche dei cittadini, ma anche le risorse che possono essere messe in gioco. Possono dunque collaborare più efficacemente «dal basso», in modo molto concreto e trasparente.

Dieci anni per la pace

Nel 1996 è nato in provincia di Torino il Coordinamento comuni per la pace (Cocopa) con l’obiettivo di promuovere un’autentica e diffusa cultura di pace attraverso  la realizzazione di progetti concreti e cornordinando l’impegno dei singoli enti in iniziative comuni. Oggi aderiscono al Coordinamento 35 comuni e la provincia di Torino in rappresentanza di circa il 70% della popolazione provinciale.
Il Cocopa ha individuato come uno dei propri ambiti di intervento,  la promozione di progetti consortili di cooperazione decentrata in partenariato con comuni del Sud del mondo e le numerose espressioni della società civile attive sul proprio territorio.
Sulla base di queste riflessioni il Coordinamento ha sviluppato una propria metodologia di lavoro, perfezionata grazie ad un percorso di auto formazione nell’ambito degli «Stati generali della cooperazione» della Regione Piemonte (un percorso triennale di confronto tra enti locali, con la collaborazione di Ong e missionari sulle metodologie e buone pratiche della cooperazione decentrata).
Ne è nato un modello di cooperazione decentrata, o «comunitaria» che non si pone come unico obiettivo la realizzazione di infrastrutture o iniziative di solidarietà, ma in cui sono fondamentali i processi di partecipazione, coinvolgimento e sensibilizzazione dei cittadini.
Una cooperazione in cui si pone al centro il rapporto con le municipalità di Africa e America Latina, spesso fragili e di recente costituzione, cui si riconosce innanzitutto pari dignità e con cui ci si confronta su modelli di sviluppo, sulle modalità di erogazione dei servizi essenziali ai cittadini (anagrafe, educazione, gestione dell’acqua, dei rifiuti, ecc.). Si tratta di lavorare per dare sostanza ai piani di sviluppo elaborati dai partner, adoperandosi affinché contribuiscano a tutelare i diritti fondamentali delle persone e si caratterizzino per una modalità di progettazione e gestione il più possibile partecipata con la cittadinanza.

Scambiando si sviluppa

è un’ idea di una cooperazione che prevede uno scambio tra comunità, in cui i territori e i diversi attori si attivano e si incontrano (amministratori, funzionari, istituzioni scolastiche, associazioni…), in cui il coinvolgimento attivo della struttura comunale diventa risorsa e opportunità per riflettere su questi temi, superare pregiudizi, accrescere il coinvolgimento. Il ruolo dell’ente locale è dunque non solo quello di essere portatore di competenze specifiche utili ai partner, ma di rappresentare un territorio e di mettere in relazione attori diversi.
I progetti sono un’occasione di apertura delle nostre città al mondo, a realtà in passato lontane ora rese più vicine, tangibili. Un modo di conoscere direttamente altre città, di rivedere stereotipi e anche, in maniera critica, le informazioni che ci provengono dai media, costruire davvero una cultura di pace che si fondi sulla relazione diretta tra i popoli, sul mutuo riconoscimento tra comunità, sulla solidarietà.
I comuni hanno scelto di lavorare insieme, dando vita a progetti consortili in cui siano valorizzate le scarse risorse disponibili. Le azioni coinvolgono soggetti diversi avvalendosi della collaborazione di Ong, università, sindacati, associazioni, mondo missionario. Le Ong, ad esempio, spesso mettono a disposizione il loro personale  nei paesi di intervento per il monitoraggio delle attività e per facilitare l’incontro tra gli attori del Sud e del Nord.
Al momento la legislazione italiana in materia di cooperazione decentrata è assai carente. A differenza di altri paesi europei, manca un riconoscimento formale del ruolo degli enti locali nella cooperazione italiana. Senza il quale i fondi ad essa dedicati e l’impegno dei comuni resteranno marginali rispetto agli altri compiti istituzionali.
Un altro rischio è che, in seguito alla continua contrazione delle risorse di cui dispongono, i comuni riducano il loro coinvolgimento attivo, limitando il proprio impegno a finanziare progetti, senza apportare alcun valore aggiunto.

Di Edoardo Daneo

Edoardo Daneo




Rilanciare lo «sviluppo»

Gianfranco Cattai: lo «storico» della decentrata

Gianfranco Cattai è un pezzo da novanta per quanto riguarda la cooperazione decentrata in Italia. Si può dire sia  la memoria storica di questo processo. Lavora da anni per l’Ong Lvia di Cuneo per quale è responsabile di comunicazione e territorio.

Ci racconta l’origine della cooperazione decentrata?
Nasce agli inizi degli  anni ‘90 a Bruxelles, quando alcune persone della Commissione europea e del sistema non governativo, teorizzano la necessità di promuovere un fenomeno di ampia diffusione. Nasce da una riflessione condivisa tra parlamentari europei, funzionari della commissione e rappresentanti del sistema non governativo europeo che all’epoca si aggirava su circa 700 associazioni. La prima esperienza strutturale in Italia è stata alla fine degli anni ‘90 quella della  Regione Piemonte, con quattro paesi del Sahel.  Della cooperazione decentrata si possono dare tante definizioni, ad esempio in Francia è nata come  cooperazione condivisa tra governo centrale e realtà locali, che collaborano con il Sud del mondo. L’innovazione dell’esperienza piemontese fu forte: un approccio tra soggetti similari del Nord e del Sud, armonizzato dall’ente locale, dove questo non solo si metteva in gioco con l’ente omologo del Sud, ad esempio con il rafforzamento di capacità, ma era contemporaneamente in grado di valorizzare il territorio, le sue eccellenze a favore di una realtà nel Sud. L’ente locale dunque capace di rinunciare alla tentazione di “progettare” in modo autonomo per poi affidare l’esecuzione ad operatori del proprio territorio. È uno dei pericoli che vedo, e limiterebbe la creatività e la libera iniziativa degli attori, profit e non profit, dei singoli contesti.  

Quali sono gli altri rischi di questo metodo di fare cooperazione?
Spesso c’è tendenza diffusa che l’ente locale assuma o immagini di assumere il ruolo di una piccola o grande Ong: è un errore fondamentale. L’Ong è cittadinanza attiva che si è strutturata e si è data una missione specifica.  Il ruolo degli eletti degli enti locali decentrati è innanzitutto  quello di fare politica di cooperazione e di assumere le scelte amministrative congruenti e conseguenti. Non è unicamente attenzione all’azione  ma anche al senso e cioè alla politica. C’è spazio per tutti rispettando le specificità, senza dimenticare che gli eletti hanno un mandato,  anche nell’ambito della cooperazione internazionale.  Le Ong non possono avere questa peculiarità. La politica opera scelte che devono  confrontarsi con il consenso e quindi hanno un forte valore. Gli organismi spontanei non hanno questo confronto.  Gli enti locali possono attuare  anche iniziative  concrete in modo diretto ma non possono dimenticare che l’impegno assunto, a volte anche molto limitato, deve avere anche la capacità di legittimare e valorizzare quanto soggetti profit e non profit del territorio fanno in modo autonomo o condiviso.

Ha osservato un’evoluzione della cooperazione decentrata in questi dieci anni?
Una grande evoluzione. Oggi è più chiaro che c’è volontà da parte degli enti locali e si possono esprimere in modalità diverse. Primo: mettere a disposizione dei fondi su proposta di terzi. Secondo fare, in proprio progetti in modo diretto. Terzo: mantenere la responsabilità culturale  dell’azione ma farsi accompagnare da chi ha competenze specifiche (come per esempio le Ong che dovrebbero avere radici sia al Sud che al Nord). Quarto: rafforzamento istituzionale di soggetti similari al Sud. Si moltiplicano le esperienze in tutta Italia da questo punto di vista. Oggi assistiamo alla realizzazione di questi quattro livelli, che possono coesistere. In passato la situazione era più confusa.

Che peculiarità ha questo metodo rispetto alla cooperazione governativa centrale?
Nel tempo, a livello centrale, è aumentata la consapevolezza  delle scelte che si dovrebbero operare, ma è diminuita la tendenza a fare cooperazione allo sviluppo. Ci si è spostati verso temi come l’emergenza e la sicurezza internazionale (vedi Afghanistan, Iraq). C’è sempre meno tensione e attenzione verso quella foresta da far crescere rispetto al concentrarsi sull’albero che cade. Spesso i fondi della cooperazione sono dirottati rispetto a queste questioni certamente urgenti ed anche più comprensibili a livello mediatico. Il problema è tornare a una cooperazione capace di lavorare sugli obiettivi del millennio. Rispetto alle dichiarazioni dei nostri governi italiano ed europei, crediamo necessaria una lobby popolare che spinga per rilanciare questo tipo di cooperazione. La cooperazione decentrata ha quindi, tra l’altro, l’importante ruolo di rilanciare la cooperazione allo sviluppo, e questo è un’opportunità affidata a ciascuno di noi. Evidentemente la cooperazione non si riduce alla disponibilità di denaro, pur necessario.  La mia preoccupazione maggiore è il fatto che non ci siano oggi in Italia luoghi dove riflettere  sulla  politica della cooperazione. Anche nel caso della nuova proposta di legge, si dibatte più degli aspetti strutturali (e sono quasi 20 anni!) e meno, per esempio  su come dare risposte agli   obiettivi del millennio.  Non è solo un problema di investimenti economici ed organizzativi: anche se li moltiplichiamo i fondi non basteranno. Occorre un rilancio di «interessi» per lo sviluppo. Il vero problema è portare l’attenzione su percorsi di cooperazione che coinvolgano associazioni di giovani e di categoria, piccole imprese, ordini professionali, università, scuole. Una coscienza collettiva che permetta di muovere competenze, disponibilità, creando così un effetto moltiplicatore degli impegni  pubblici e governativi.

 a cura di Ma.B.
Per scambi d’opinione : italia@lvia.it

Marco Bello




Sitema Italia cercasi

Il valore aggiunto della cooperazione tra enti locali

Uno sviluppo fondato sulla partecipazione, la promozione dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Sul rafforzamento delle capacità e dei poteri dei comuni al Sud. Una cooperazione più vicina alle priorità delle popolazioni, perché nasce dal territorio. Riflessioni di un ricercatore.

A partire dagli anni ’90 è cresciuto il ruolo delle autonomie locali (o enti locali, regioni, province, comuni) nella cooperazione allo sviluppo. Nonostante diverse definizioni di cooperazione decentrata, il minimo comune denominatore riconosciuto a livello internazionale e italiano è rappresentato dall’azione delle autonomie locali, che sempre più non si limitano a contribuire finanziariamente ai progetti portati avanti dai diversi soggetti del proprio territorio, ma che assumono su di sé un ruolo politico e di proposta attiva. Nell’accezione italiana si dà solitamente maggiore enfasi al rapporto virtuoso tra autonomie locali e soggetti del territorio, sia del mondo sociale, sia economico e culturale. Per questo si sottolinea il concetto di partenariato tra territori,  che risulta fondato sui principi di sussidiarietà, verticale ed orizzontale, e sviluppo partecipativo. La sussidiarietà verticale è quella che delega, a partire dal governo centrale, l’istituzione più adatta a svolgere determinate funzioni, come lo sviluppo locale, quindi regione, provincia, comune. Quella orizzontale è invece la divisione dei ruoli tra amministrazione pubblica, mercato e società civile.

Un nuovo approccio

In questo senso la definizione italiana si collega a quella del Programma per lo sviluppo delle Nazioni Unite (Pnud) e dalla Commissione europea, che indica nella decentrata una nuova modalità di politica di cooperazione allo sviluppo focalizzata sugli attori. è espressione di un nuovo modo di concepire lo sviluppo equo e sostenibile tra i popoli, fondato sulla partecipazione, la promozione dei diritti umani e delle libertà fondamentali, il rafforzamento delle capacità e dei poteri degli attori decentrati, in particolare dei gruppi svantaggiati. L’obiettivo di questa cooperazione è quello di favorire uno sviluppo migliore perché considera in misura maggiore (rispetto alle tradizionali politiche tra stati) i bisogni e le priorità delle popolazioni nei loro luoghi concreti di vita. Importante è quindi il sostegno alle politiche di decentramento amministrativo nei paesi partner e il ruolo dei poteri locali, delle comunità e delle organizzazioni della società civile.
Un altro concetto di grande rilevanza che differenzia la cooperazione decentrata rispetto a quella tradizionale è l’adozione «dell’approccio per processo». Non si tratta di «fare progetti» ma di partecipare e sostenere processi di sviluppo locale, di decentramento, di empowerment (vedi glossario, ndr). Le azioni puntuali vanno pensate in sequenze flessibili a seconda dei ritmi degli attori secondo un approccio strategico di medio periodo, fondato sull’ascolto, sul dialogo e su un confronto continuo. Diventa quindi essenziale la dimensione politica e la costruzione di istituzioni di partenariato nelle quali condividere i modelli di sviluppo, obiettivi, strumenti e ruoli dei diversi soggetti territoriali.

Quale valore aggiunto

Sulla base di queste considerazioni è essenziale ricordare i «quattro valori aggiunti» della cooperazione decentrata.
1. L’assunzione dell’impegno politico delle autonomie locali verso i fini della cooperazione allo sviluppo (ad esempio gli obiettivi del millennio). 2. La concretizzazione di questo impegno con la sensibilizzazione e mobilitazione di competenze, capacità e risorse del territorio nelle relazioni inteazionali, attraverso la creazione di sistemi territoriali per la cooperazione allo sviluppo (partenariati territoriali). 3. L’impegno diretto delle amministrazioni su tematiche di loro competenza e relative al sostegno al processo di democratizzazione, decentramento, sviluppo locale. 4. La mobilitazione di risorse finanziarie aggiuntive sia da parte delle amministrazioni sia da parte del territorio (partnership pubblico-privata).
La cooperazione decentrata assume dunque principi, modalità e valori aggiunti particolarmente innovativi e ambiziosi, che risultano molto impegnativi, soprattutto per degli attori, gli enti locali, che hanno iniziato da pochi anni a misurarsi con le problematiche della cooperazione allo sviluppo. In effetti è bene sottolineare che nel panorama italiano la concretizzazione dei «valori aggiunti» è ancora da venire per la maggior parte delle amministrazioni. La cooperazione decentrata nella gran parte dei casi rappresenta un’attività marginale e incipiente. Sono poche le regioni, province e comuni che cercano di integrarla nei piani di sviluppo del proprio territorio. Le risorse finanziarie e soprattutto umane sono ancora scarse. La cooperazione decentrata è vissuta più come un’appendice dell’amministrazione vincolata ai soggetti tradizionali (organizzazioni non governative, istituti missionari) e nuovi (associazioni no global, ambientalistiche e per i diritti umani, ma anche agenzie di sviluppo locale) impegnati nei rapporti Nord – Sud.

Risorse in aumento

Ciò nonostante si è registrata in questi ultimi tempi una forte crescita delle risorse, più che raddoppiate in cinque anni. Il Centro Studi Politiche Intea­zionali (Cespi) ha stimato che dal 2000 al 2005 i finanziamenti propri delle amministrazioni locali per la cooperazione decentrata sono aumentati da 20 a oltre 50 milioni di euro, corrispondenti ad oltre il 10% della cooperazione bilaterale italiana (senza tener conto dell’annullamento del debito). Queste risorse rimangono tuttavia ancora scarse, soprattutto se si confrontano con il caso spagnolo. Secondo le statistiche del Development Aid Commettee (Dac) dell’Ocse (Or­ga­nizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) le autonomie locali della Spagna hanno stanziato 321 milioni di euro nel 2003, superate solo da quelle tedesche (687 milioni di euro), che però si sono dirette per ben il 90% alla distribuzione di borse di studio. Mentre secondo il ministero Affari esteri (Mae) italiano gli aiuti degli enti italiani sono ammontati a 27,3 milioni di euro (un dato che secondo il Cespi e l’Osservatorio Interregionale per la Cooperazio­ne allo Sviluppo è sicuramente sottostimato).
All’aumento delle risorse è corrisposto un sostanziale ampliamento delle amministrazioni coinvolte. Oramai tutte le regioni, oltre la metà delle 107 province (che mobilitano circa 2 milioni di euro di risorse proprie) e centinaia di comuni risultano attivi in una miriade di iniziative, la maggior parte delle quali piccole e puntuali. Vi sono inoltre dei casi di alcune autonomie locali che hanno fatto crescere un embrione, più o meno formalizzato, di sistema di soggetti rivolto alla cooperazione decentrata, che si intreccia all’inteazionalizzazione e al marketing del territorio (politiche per attrarre investimenti esteri), così come ad un nuovo ruolo delle amministrazioni locali in materia di relazioni inteazionali (paradiplomazia, svolta cioè dalle autonomie locali e non dal governo centrale e diplomazia dal basso).

Manca il «sistema Italia»

Tutto ciò però non costruisce il «sistema Italia» ma si articola in una relativa dispersione di azioni, in alcuni, pochi, sub-sistemi regionali, in una serie di reti, associazioni e cornordinamenti a geometria variabile, e in alcune autonomie leader con una buona visibilità. Questo nonostante che la cooperazione italiana abbia sostenuto prima con i programmi di sviluppo umano locale di Pnud, e poi con programmi diretti in convenzione con le regioni, Upi (Unione delle province italiane) e Anci (Associazione nazionale dei comuni italiani), iniziative volte a informare, formare e cornordinare i diversi attori in iniziative di cooperazione allo sviluppo. Molto resta ancora da fare nel creare una strategia della cooperazione decentrata, che continuerà peraltro ad essere in parte ingovernabile o non ordinabile secondo un approccio centralistico, essendo costitutivamente fondata sui principi di autonomia e pluralità.

Di Andrea Stocchiero

Andrea Stocchiero




Creare «reti complesse»

La voce della Regione Piemonte, intervista a Giorgio Garelli

Il dottor Giorgio Garelli lavora al Settore Affari Inteazionali e Comunitari, Gabinetto della Presidenza della Giunta Regionale del Piemonte. Ha una grossa esperienza in cooperazione internazionale e in particolare di quella realizzata dagli enti locali. Conosce bene anche il «terreno» in quanto è stato volontario in Africa.

Dal vostro punto di vista cos’è la cooperazione decentrata?
Il nostro concetto si rifà alle linee guida della direzione generale per la cooperazione allo sviluppo del ministero Affari Esteri, che risale al marzo 2000. Si parla di cooperazione tra territori che acquisisce titolo solo se  sono coinvolti i rappresentanti istituzionali che garantiscono questo legame. Secondo questa definizione il contatto tra i singoli gruppi non è cooperazione decentrata, ma è rapporto tra associazioni di base della società civile.  Tali azioni rientrano nella cooperazione decentrata solo se c’è una relazione tra autorità elette, che in quanto tali rappresentano una comunità, un territorio e hanno mandato e responsabilità per realizzare iniziative  a nome della comunità stessa.

Negli ultimi cinque anni i finanziamenti propri delle amministrazioni locali per la cooperazione decentrata sono aumentati da 20 a oltre 50 milioni di euro, perché secondo lei?
La cooperazione decentrata è un processo che vede protagoniste le comunità territoriali, realtà disponibili anche a mettere risorse proprie, al di là dei fondi pubblici dello Stato. Il territorio chiede, perché ne sente l’esigenza, di diventare attore «attivo». Questo comporterà una diversa consapevolezza, una piccola rivoluzione culturale, nell’analisi degli squilibri tra Nord e Sud. Oggi, infatti,  non riusciamo a concepire in modo corretto la cooperazione, né noi né loro. Per noi è una donazione di qualcosa di superfluo, per loro, spesso,  un’accettazione passiva di risorse. Non esiste un’idea, condivisa da tutti, che tenga conto della necessità di ricercare un futuro compatibile e sostenibile per ciascuna realtà. Dobbiamo relazionarci con l’Africa, come diceva Robert Schuman, uno dei padri dell’Europa, «il problema dell’Europa è lo sviluppo dell’Africa». Ma in questi 50 anni l’Africa non si è sviluppata.
Iniziamo a capire anche noi che c’è bisogno di una nuova cultura della cooperazione. Non dobbiamo fare progetti perché è giusto, ma perché altrimenti non c’è futuro. è un obbligo economico, sociale, tecnico.
La cooperazione decentrata può dare il suo contributo perché spinge i cittadini a diventare protagonisti, li mette davanti ai problemi e nell’impossibilità di eluderli.

Cosa pensa del processo in corso per riformare la legge sulla cooperazione internazionale in Italia?
è importante la volontà del governo che intende procedere alla riforma della legge in tempi brevi (tramite la legge delega, vedi box).
È una grande occasione per analizzare i nuovi percorsi di cooperazione che stanno sviluppandosi in Italia e per costruire una nuova  disciplina che rafforzi, cogliendone gli aspetti positivi, queste esperienze, mettendole in sinergia con le altre forme di cooperazione più classica (multilaterale, bilaterale e non governativa).
Purtroppo nella proposta di legge non è chiaro questo importante obiettivo, ma le dinamiche del rapporto dello stato con le  regioni e la società civile, dovrebbe portare in parlamento un dibattito utile per una maggior consapevolezza del legislatore sulla necessità di un nuovo approccio, anche culturale, in  questa materia.

Quali sono le priorità della Regione Piemonte in termini di cooperazione internazionale?
Una priorità «intea» è legata alle politiche di sviluppo sul nostro territorio: far crescere la capacità di fare cooperazione.  Vuol dire dare strumenti, organizzare eventi, per migliorare la capacità di azione delle istituzioni locali. Renderle in grado di attivare il loro territorio. In questa logica, per noi, il comune è il «mattone» base. I risultati sono buoni, se si considera che sono circa 100 i comuni capofila ad avere presentato una richiesta di finanziamento all’ultimo bando. Tutto questo è stato sviluppato negli ultimi tre – quattro anni.
Abbiamo anche richieste di partecipazione e finanziamento da altre componenti della società civile che hanno competenza in materia: associazioni, istituzioni religiose, ecc. Quando ci propongono delle idee cerchiamo di metterli in contatto con gli altri elementi dal proprio comune, creando così reti complesse. Oggi abbiamo più di 800  enti piemontesi che lavorano nei progetti di cooperazione decentrata sostenuti dalla regione.
Le organizzazioni non governative, con le loro specifiche conoscenze delle realtà locali dei paesi del Sud del mondo, contribuiscono in modo essenziale al corretto sviluppo di queste esperienze e le rafforzano sotto il profilo tecnico e relazionale.
Ci sono poi priorità geografiche. Vogliamo avere impatto nelle aree in cui ci interessa essere presenti: Mediterraneo e Maghreb in particolare sia per il ruolo che intendiamo sviluppare nell’area, sia per la presenza di significative comunità di immigrati provenienti da questi paesi. Ma anche iniziative per i paesi che hanno presentato richiesta di pre-adesione all’Unione europea, e attenzione a quei paesi da cui proviene il flusso migratorio verso la nostra regione.
Un’altra area di particolare interesse economico e politico è il Brasile.  Sia per l’importante ruolo che svolge in America Latina sia per le numerose relazioni con il nostro territorio dovute alla consistente presenza degli emigrati piemontesi.
Per le zone più lontane lavoriamo sulla base di priorità tematiche. La «sicurezza alimentare», che concentriamo geograficamente in alcuni paesi dell’Africa Occidentale, scelti anche dopo un’analisi dei soggetti piemontesi che  vi operano. Oppure l’appoggio a comunità di immigrati strutturate presenti sul nostro territorio, come, per esempio, quella senegalese.

Quanto investite nella riflessione su queste tematiche oltre che sull’azione diretta?
Cerchiamo di creare situazioni per le quali il nostro sistema di cooperazione decentrata sia in grado di attivarsi. Vogliamo farlo crescere, per questo periodicamente realizziamo eventi o iniziative di riflessione intea.

In Italia siamo in ritardo rispetto a Spagna e altri paesi europei, perché secondo lei?
In Spagna il meccanismo è legato a una legge statale che impone una percentuale del bilancio da spendere in cooperazione. Questo fa crescere l’impegno di regioni ricche, come la Catalunya che arriva a 60 milioni di euro all’anno. Anche i francesi sono avanti, per una loro particolare attenzione verso i paesi ex coloniali. Gli spagnoli hanno forti motivazioni legate alla questione dell’immigrazione, che impone loro conseguenze operative. Su queste tematiche l’amministrazione intende dare segnali chiari al cittadino. Ciò sarebbe importante anche nella nostra realtà.

Che rapporti avete con la cooperazione governativa del ministero Affari esteri?
Il problema è che la cooperazione in Italia non  riesce a fare politiche innovative. Da un lato il ministero degli Affari esteri ci assegna  finanziamenti per fare cooperazione e dall’altra in alcune occasioni  impugna le leggi regionali in materia di cooperazione internazionale perché ritenute incostituzionali. Il dibattito aperto con la riforma della legge sarà sicuramente un’occasione per riflettere sulle proprie competenze e sull’opportunità di costruire nuovi strumenti per favorire il cornordinamento e la valorizzazione delle rispettive specificità.
Un caso recente di collaborazione tra Ministeri e Regioni è il programma di sostegno alla cooperazione regionale. Lo ritengo particolarmente significativo in quanto vengono utilizzati  fondi per le aree sotto utilizzate (Fas) tipicamente destinati per lo sviluppo dei territori regionali che in questo caso  verranno impegnati per realizzare progetti di cooperazione internazionale nei Balcani e nel Mediterraneo concertati tra più regioni e con i diversi ministeri. L’utilizzo di tali fondi implica anche il riconoscere che per promuovere lo sviluppo dei nostri territori è necessario costruire relazioni inteazionali anche a livello locale. Un nuovo approccio che apre interessanti ipotesi di lavoro.

Quali sono le prospettive sul medio termine per questo modello di cooperazione?
Prevedo una forte crescita. Le problematiche della globalizzazione producono interrelazioni tra territori e comunità ed evidenziano la necessità di una cooperazione a 360 gradi. La richiesta che ci perverrà dalle nostre popolazioni sarà, a mio avviso,  di creare le condizioni che consentano ad una società civile del Nord di relazionarsi con quella del Sud per affrontare gli effetti locali prodotti dalla globalizzazione. Ciò  valorizzando la capacità di fare rete raccordando le diverse «proprie» specifiche conoscenze e capacità. Si tratta di un’esperienza già ricca, che nasce dal basso, da una domanda del territorio,  a cui le diverse amministrazioni devono rispondere.

a cura di Ma.B.

Marco Bello




Nelle mani dell’Agenzia

La nuova legge per la cooperazione

Il Consiglio dei Ministri ha approvato il 12 gennaio scorso il Disegno di legge Delega al Goveo per la riforma della disciplina della cooperazione dell’Italia con i paesi in via di sviluppo. Un passo atteso da anni che avvia il processo di riforma della ormai obsoleta legge 49 del 1987.  Entro 24 mesi il governo dovrà produrre i decreti legislativi che riformeranno il sistema di cooperazione italiano.
Tra le grandi novità c’è l’istituzione di una Agenzia per la cooperazione allo sviluppo e la solidarietà internazionale, ente di diritto pubblico con capacità di diritto privato, che avrà lo scopo di attuare gli indirizzi e le finalità stabiliti dal ministro degli Affari esteri o dal vice ministro delegato.
La nuova legge sarebbe incentrata su due istituzioni: il ministro decide le linee e l’Agenzia le attua, il tutto considerando la cooperazione internazionale parte integrante della politica estera italiana. Le priorità, disponibilità finanziarie per paese e area di intervento saranno quindi decise in questo contesto.

La legge delega esplicita che i decreti dovranno tenere conto e «riconoscere la funzione della cooperazione decentrata, prevedendo modalità di cornordinamento con la politica nazionale di cooperazione allo sviluppo»,  e anche «prevedere che nell’attuazione della politica di cooperazione allo sviluppo sia riconosciuto e valorizzato il ruolo dei soggetti pubblici e privati, nazionali e locali».
L’Agenzia concentra non solo l’attuazione delle politiche governative di cooperazione, ma potrà erogare servizi di assistenza e supporto delle amministrazioni. Potrà eseguire progetti finanziati dalla Commissione europea e altri organismi inteazionali. Dovrebbe assicurare la coerenza con le linee di indirizzo di tutte le iniziative di cooperazione allo sviluppo, incluse quelle proposte e finanziate dalle regioni e dagli enti locali.

L’Agenzia disporrà di un fondo unico dove confluiranno i finanziamenti del bilancio dello stato per l’aiuto pubblico allo sviluppo, proventi derivati dai servizi erogati e anche fondi apportati  «dalle regioni e dagli altri enti locali allorché questi ritengano di avvalersi dell’Agenzia».
Un ruolo preponderante quindi che occorrerà conciliare con la miriade di iniziative italiane di cooperazione decentrata e non. Attendiamo i decreti attuativi.

Ma.B.

Marco Bello




L’Harmattan non ci spaventa

Comminando sul filo tra «primo» e «terzo» mondo

Un gruppo di assessori, funzionari comunali, associazioni e insegnanti sbarcano in un paese saheliano. Incontrano un sindaco e la società civile del suo comune. Il clima è torrido, il sole picchia e la polvere ricopre ogni cosa. Ma i nostri riescono a creare un legame tra le città e i loro abitanti. Con la scusa di un progetto di sviluppo. Reportage.

Aicha ha sette anni. Nel suo zainetto di plastica ha un quaderno con la copertina colorata e una matita. Come ogni giorno percorre i tre chilometri che separano la sua casa dalla scuola, nel villaggio di Tirgo. Siamo nel Nord del Burkina Faso, nei pressi di Ouahigouya, la quarta città del paese. In pieno Sahel, savana secca, spazzata dall’Harmattan, il vento che arriva dal Sahara. La polvere è ovunque, copre ogni cosa, fa parte della vita. Qui sono tutti agricoltori, lavorano per strappare la poca terra rimasta all’avanzata del deserto, ma piove solo tre – quattro mesi all’anno.
Da queste parti, in ambiente rurale, le bambine non vanno a scuola. I genitori preferiscono tenerle a casa e avviarle, fin da piccole, ai lavori domestici. La scuola ha un costo: iscrizione, materiali, divisa. I maschietti hanno più fortuna e magari frequentano le prime due o tre classi di elementari.
Fatimata percorre in bicicletta molti chilometri. Va da un villaggio all’altro per distribuire copie di «Pagb yell goama» (sguardo di donna), una semplice rivista stampata su otto fogli di carta grigia. è scritta in mooré, la lingua più diffusa in questa zona, per sensibilizzare le donne contro l’escissione (mutilazione genitale femminile), il matrimonio forzato, la violenza di cui sono vittime da secoli. Di solito chi legge ad alta voce è circondato da molte che ascoltano.
Awa vive in un quartiere povero di Ouahigouya. Non sapeva né leggere né scrivere e non aveva un mestiere. Ha potuto frequentare per due anni di seguito i corsi di alfabetizzazione e poi una formazione sulla gestione di un piccolo commercio. In seguito ha ottenuto una piccola sovvenzione, che le ha permesso di acquistare alcuni montoni, allevarli e rivenderli.
Aicha, come altre 350 bambine dei villaggi vicini, Fatimata, Awa e le sue compagne, beneficiano di un progetto di cooperazione decentrata nato a fine 2002 grazie alla collaborazione di cinque comuni piemontesi (Rivoli, Moncalieri, Nichelino, Beinasco e Settimo Torinese) membri del Coordinamento comuni per la pace della provincia di Torino e la città di Ouahigouya.
Un legame sempre più forte tra territori italiani e africani. Le attività in Italia puntano a informare i cittadini sul Burkina Faso, paese sconosciuto ai più, nelle scuole, si organizzano mostre fotografiche, proiezioni, si stampano documenti sul tema. è stato anche attivato uno scambio di giovani che ha permesso visite in Piemonte e in Burkina.

Sicurezza alimentare e cellulare

A Ouahigouya, in questi anni, sono pure state realizzate alcune scuole e appoggiata la biblioteca comunale, su richiesta delle autorità della città.
«Ho trovato grosse differenze con la nostra realtà, anche a livello del comune e dei servizi che può offrire. Non ne sono rimasto scioccato perché ero preparato». Angelo Ferrero presidente del Cocopa e assessore alla pace di Moncalieri, descrive così una sua recente visita ai partner burkinabè. «Una cosa che mi ha colpito è che quasi tutti abbiano il cellulare, quando ci sono ancora gravi problemi di sicurezza alimentare. Ho notato, inoltre, che sono piuttosto abituati a fare cooperazione». «Posso parlare di due livelli: i rapporti con le istituzioni, nelle quali ho trovato una buona disponibilità e accoglienza. Si tratta di amministratori pubblici: hanno chiaro l’importanza di avere della cooperazione internazionale sul loro territorio. L’altro livello sono le associazioni: ancora più calorose, ma anche sfacciatamente interessate all’appoggio finanziario».
Il sindaco della città saheliana, Abdoullaye Sougouri, ci spiega l’importanza di questa cooperazione: «Ouahigouya è un comune relativamente vecchio, con molte ambizioni ma mezzi limitati. Adesso è il momento dello sviluppo alla base. Per questo motivo, il sostegno di amici all’estero è determinante, per favorire l’accesso della popolazione ai servizi minimi per tutti. Parlando di educazione, sanità, giovani, molte cose sono realizzate ma molte altre restano da fare.  Una sinergia d’azione è quindi fondamentale. Nel corso del 2007 abbiamo elaborato un bilancio di 287 milioni di franchi (ca 437 mila euro). Se guardiamo i servizi che bisogna realizzare nella città, ad esempio per l’acqua, anche se utilizzassimo interamente questa cifra, sarebbe come una goccia nell‘oceano».
Ma la cooperazione tra enti locali deve andare nelle due direzioni, volendo essere il legame tra due territori. Anche se lo squilibrio di risorse finanziarie si fa sentire, gli africani hanno molto da insegnarci.
«Cooperazione è innanzitutto costruire legami tra comunità e città nell’ambito dell’amicizia e della pace. Attraverso questi aspetti si sviluppa la solidarietà, che gioca un grande ruolo. Con gli amici si condividono le stesse preoccupazioni e difficoltà, ecco perché sovente i nostri partner del Nord vengono a sostenerci nelle azioni di sviluppo. Ed è piuttosto l’aspetto finanziario che viene sottolineato, dimenticando le cose fondamentali. Penso che nell’ambito culturale i paesi del Sud possono portare le loro esperienze e contributi, attraverso i legami che si creano». Continua Sougouri.

«Un’altra visione del mondo»

Quarantacinque chilometri più a sud, un’altra città, Gourcy, ha iniziato nel 2005 un percorso di cooperazione con un altro gruppo di comuni piemontesi: Grugliasco, Alpignano, Brandizzo e Pianezza.
Roberto Montà, assessore alla pace di Grugliasco vede così il contributo degli africani al suo comune nella cintura torinese: «Possono trasferirci un’altra visione del mondo utile per amministratori e cittadini. Possiamo superare gli stereotipi nei confronti degli africani. D’altro lato abbiamo da imparare sul piano culturale e sull’approccio ai problemi e alla vita. I nostri bisogni sono molto più generali e sovradimensionati. Il nostro modello di sviluppo è sproporzionato. Per approccio alla vita intendo anche il confrontarci sui nostri modelli di sviluppo. Ad esempio in Africa ho visto che talvolta copiano i nostri modelli. Questo non ha senso. La mia speranza è che ognuno prenda il meglio dei due approcci. Noi dobbiamo capire quali sono le loro esigenze, ma anche il loro valore aggiunto in termini di cultura e visione del mondo. Loro però devono capire che alcuni nostri modelli sono sbagliati».
Il sindaco di Gourcy, Dominique Ouedraogo, replica: «Abbiamo culture molto diverse, noi non abbiamo soldi, ma abbiamo sviluppato quello che in fondo ci può assicurare un minimo di vita, che è la solidarietà. Io conosco l’Euro­pa e penso che questi valori si stiano perdendo. Anche le relazioni umane contano molto nella società africana: il rispetto dei valori tradizionali, dei valori trasmessi dai nostri genitori, ad esempio nell’educazione dei bambini. Qui il rispetto degli anziani impone che un giovane debba obbedire ai suoi genitori, al contrario di quello che vediamo in Europa».
Ma come fare a trasmettersi tutte queste esperienze? «Con gli scambi culturali. Mandateci i piccoli italiani e anche i loro genitori. Diamo la possibilità a qualcuno di venire a vivere le nostre realtà. Si renderanno conto che l’Africa ha qualcosa da condividere: questo calore umano, che non troviamo in Europa, dove invece ognuno va per se. Da noi non immaginiamo qualcuno che viva fuori dall’ambito famigliare, che per noi è sacro. Mentre in Europa vince sempre più l’individualismo nella vita. Penso che con gli scambi e i viaggi, i nostri amici europei possono rendersi conto che hanno perso molte cose».
A Gourcy, città di 80.000 abitanti, i quattro comuni italiani stanno realizzando, grazie anche all’appoggio finanziario della Regione Piemonte, un polo zootecnico, composto da un nuovo mercato del bestiame e un mattatornio. Lo sviluppo di questo programma è previsto in tre anni e vuole diventare un riferimento non solo a livello comunale, ma provinciale. Gourcy ha anche proposto lo sviluppo della biblioteca comunale. Un altro livello di intervento è quello scolastico. Non solo è stata realizzata una scuola elementare ma si è messo in piedi uno scambio tra gli allievi di questa scuola e di una decina di classi di scuole medie ed elementari di Grugliasco e Alpignano. I licei di Grugliasco e il liceo provinciale di Gourcy comunicano via posta elettronica, grazie al progetto.

Collegamento istituzionale

Montà spiega il valore di interagire con un comune africano: «Sul piano istituzionale è riconoscere alle istituzioni locali il ruolo fondamentale sullo sviluppo del loro territorio. Inoltre consente ai comuni italiani di esercitare in prima persona il ruolo di partner di sviluppo e quindi di farsi carico di questo compito sul proprio territorio. Il comune non si limita a dare i soldi in beneficenza, ma controlla l’intero processo. Questo gli permette di interagire, collaborando, relazionandosi e rafforzando colleghi eletti che hanno bisogno di sostegno. La cooperazione tradizionale (governativa, ndr.) è più efficiente, noi siamo più farraginosi, articolati, ma abbiamo la possibilità di mobilitare le coscienze, dialogare con comuni al sud del mondo. Perché, con gli amministratori, dal dialogo può nascere il reciproco interesse, su tematiche comuni, come l’erogazione dei servizi».
Un chiaro esempio di raccordo istituzionale è stato il ruolo giocato dal comune di Orbassano, come ci racconta il sindaco, Mario Marroni, nel distretto di Taraka, in Kenya, nei pressi della missione Mariamanti, della Consolata: «In collaborazione con le autorità locali abbiamo sviluppato il progetto sull’acqua, la costruzione di un acquedotto, promosso da un’associazione locale. Anche grazie al nostro intervento, il governo del Kenya ha poi investito sulla depurazione. La nostra presenza ha facilitato i rapporti con le istituzioni. Il nostro ruolo è creare il collegamento istituzionale nei nostri limiti e possibilità».
Una preoccupazione di un amministratore eletto, che ha dunque un mandato preciso, è anche rendere conto alla popolazione, come racconta Ferrero: «Cerchiamo di fare informazione sul nostro territorio rispetto a questi progetti. Ma penso che siamo ancora carenti. Il cittadino fa fatica a sapere cosa succede. Per spiegarlo, tento di descrivere la situazione nel paese in cui operiamo e le nostre attività. Spesso c’è molta sensibilità e la gente mi chiede cosa può fare, come singoli o associazioni».
Il sistema messo in piedi dal comune di Grugliasco prevede di coinvolgere le diverse realtà del proprio territorio, stimolarle a intraprendere un percorso di cooperazione con realtà similari in Africa e accompagnarle qualora queste iniziative si concretizzino. Roberto Montà ci descrive come: «Ai cittadini diciamo che con i soldi pubblici stiamo portando avanti progetti certi, ben definiti e controllati direttamente da noi. Il comune si assume la responsabilità in toto. Favoriamo la riflessione con tutti i soggetti del nostro territorio, in particolare con il settore scolastico e l’associazionismo. Ci serve per portare a tutta la città l’importanza di questi temi. Per costruire una domanda su base locale di sensibilizzazione e formazione, che punta a fornire gli strumenti per intraprendere in piccolo attività in società in via di sviluppo. Come i gemellaggi di 30 anni fa con i paesi francesi. In questo caso però c’è anche un gap finanziario, che rende necessarie più risorse. Non è un’attività singola ma un cornordinamento generale. Con il nostro progetto consortile in Burkina Faso abbiamo creato un tavolo di lavoro tra le associazioni e abbiamo attivato le nostre scuole per scambi con istituti africani. è una cooperazione organizzata con obiettivi, metodologia, criteri ben precisi. Se il comune riesce a cornordinare in modo generale i vari soggetti che portano avanti questo tipo di cooperazione su base locale è un buon risultato. Per accompagnarli occorre monitorare i loro progetti e aiutarli a reperire risorse. Il comune cornordina ma non è lesivo delle autonomie».

Quel filo tra Nord e Sud

Ma chi esegue  progetti di cooperazione decentrata, oltre a scontrarsi con le complessità tecniche e legate al contesto, comuni agli altri progetti di sviluppo, deve affrontare problematiche intrinseche dovute al gran numero e diversità di attori coinvolti. I comuni piemontesi si avvalgono in Burkina Faso dell’appoggio tecnico dell’Ong Cisv di Torino, che mette a disposizione la sua struttura nel paese. «Il problema maggiore riscontrato nella cornordinazione e nella gestione di questi progetti è indubbiamente quello di lavorare “in bilico” tra due realtà diametralmente opposte. è come camminare su un filo che collega direttamente Nord e Sud, primo e terzo mondo, modeità e tradizione, benessere e sottosviluppo. Chi lavora sul campo si trova su questo filo: è il facilitatore nelle relazioni tra gli attori» racconta Fabio Carbone, responsabile della cooperazione decentrata in Burkina Faso per la Cisv. «Chi cornordina questi progetti ha il compito, non facile, di smussare un po’ le divergenze, di far capire agli uni le esigenze e i bisogni degli altri, di metterli a confronto, sempre nel rispetto delle usanze e delle abitudini di chi sta dall’altra parte» continua Carbone.
Aicha torna a casa, dopo una giornata di scuola. Il suo passo leggero percorre uno dei centinaia di sentirneri nella savana burkinabè. Qui le automobili sono molto rare e i più fortunati si spostano in bicicletta. Il caldo inizia a farsi sentire in questa stagione, che in Europa si chiama primavera, ma nel Sahel è solo il periodo più caldo e secco dell’anno. Superiamo i 45 gradi all’ombra e l’acqua scarseggia. è così difficile per Aicha pensare a come sia la giornata tipo di un bambino italiano. Impossibile anche per un suo coetaneo di Moncalieri o Grugliasco, pur dotato di televisione e playstation, immaginare la vita di Aicha. Chissà se, un giorno, queste enormi distanze si ridurranno.

Di Marco Bello

Marco Bello




Tu vuoi fare l’africano

Le sfide della nuova cooperazione

I comuni italiani sono sempre più impegnati in progetti di cooperazione con città del Sud del mondo. Che sia per aiutare il decentramento amministrativo,  fornire consulenze specifiche o realizzazioni pratiche, si scontrano con le diversità culturali e il divario di risorse. Per questo si fanno spesso accompagnare da associazioni e Ong del loro territorio.

In nessuno dei Paesi cosiddetti «ricchi» del mondo è ancora stata scoperta la formula magica che permetta di stabilire quale sia il giusto equilibrio di ripartizione dei poteri (legislativo, giudiziario e amministrativo) tra un governo centrale e i suoi enti locali per un’ottimale gestione del territorio ed il miglioramento del benessere dei suoi abitanti. Non c’è bisogno di ricordare, ad esempio, quanto in Italia sia ancora oggi acceso il dibattito su come attuare il decentramento, o anche solo il federalismo fiscale, sulla base di quanto scritto nella nostra costituzione oltre mezzo secolo fa, all’articolo 5 e nell’ormai famoso titolo V.
La verità è che questa formula non esiste. I nostri politici (a tutti i livelli istituzionali) dovranno continuare a cercare i migliori compromessi per adattare quanto le teorie economiche e ideologie propongono, in funzione dei cambiamenti sociali e delle continue difficoltà finanziarie che ogni governo si ritrova ad affrontare in questa epoca di globalizzazione.
è in questo contesto che, da più di dieci anni, in Italia va sviluppandosi una nuova forma di cooperazione internazionale che viene ormai comunemente definita come «cooperazione decentrata». Una cooperazione che vede come protagonisti gli enti locali italiani (comuni, province, regioni, ecc.), che a partire dagli anni ‘90 hanno avuto la possibilità di spendere fuori dal loro territorio e per progetti di cooperazione e solidarietà internazionale una cifra pari all’otto per mille dei primi tre titoli delle entrate correnti dei propri bilanci di previsione. Nel 2000, ad esempio, la cifra complessivamente stanziata dagli enti locali italiani nel loro insieme ha cominciato a superare in termini economici i 50 milioni di euro annuali.

Un mondo più giusto?

Fra le ragioni di questa cooperazione decentrata normalmente vengono citati diversi aspetti.
Prima di tutto la volontà della società civile nel suo insieme di partecipare attivamente alla costruzione di un mondo più giusto e più pacifico. Volontà di cui le istituzioni locali vogliono sempre più spesso farsi portavoce e anche promotrici in prima persona.
In secondo luogo la determinazione delle istituzioni locali di promuovere iniziative che permettano di avere ricadute importanti in termini di miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni che vivono in zone più svantaggiate della terra. Azioni che al tempo stesso permettano la crescita di una cultura di pace e di solidarietà sul loro stesso territorio. Soprattutto alla luce dei sempre più rilevanti fenomeni migratori e dell’importanza che questi vengano gestiti in un’ottica di integrazione sociale e di valorizzazione delle diversità culturali. Questa ultima motivazione è fra le più utilizzate per spiegare ai cittadini perché per fare cooperazione internazionale vengono in realtà usate le loro tasse due volte, cioè prima quelle da loro pagate a livello locale per la cooperazione decentrata e poi quelle già pagate dagli stessi cittadini allo stato per fare la stessa cosa nel quadro più ampio della politica estera nazionale.
Infine, il desiderio di mettere a disposizione le competenze maturate nel corso della nostra esperienza di decentramento politico e amministrativo. Questo punto è sempre più spesso sottolineato quando si vogliono difendere le spese sostenute per entrare in contatto e costruire un rapporto di collaborazione duraturo con un ente «omologo» (comune, ecc.) di un paese estero.
Naturalmente sperando che tutto ciò possa essere utile, in particolare che altri, grazie al nostro impegno e alla nostra disponibilità, possano evitare di ripetere errori da noi commessi, in un passato comunque molto recente.

Aiuto al decentramento

Quindi la cooperazione non solo come ulteriore impegno e contributo delle istituzioni locali a favore della pace e della lotta contro la povertà a livello globale. Ma come un processo, che se non nel breve termine, nel medio o lungo, potrà aiutare i governanti degli stati e degli enti locali partner a elaborare i loro propri modelli di gestione del territorio, promozione dello sviluppo locale, ripresa economica. Ma soprattutto di lotta contro le micidiali disuguaglianze che vedono nei paesi più poveri poche élites vivere sulle spalle di masse di persone in condizioni di estrema povertà.
Facendo questo ambizioso e ammirevole ragionamento, comuni e regioni italiane danno però quasi per assodato (così come la maggior parte delle organizzazioni inteazionali prime fra tutte la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale) che il decentramento politico e amministrativo dei poteri nei paesi cosiddetti in «via di sviluppo» sia un fatto assolutamente necessario, perché gli Stati centrali da soli non ce la possono fare. Così come spesso viene dato per certo che l’apertura al liberalismo sia l’unica possibilità di salvezza per le economie più deboli (ma la partecipazione di 8 regioni, 21 province e 29 comuni al recente Forum sociale mondiale di Nairobi dimostra che molti la pensano diversamente).
Queste due tesi sono tutt’altro che dimostrate. Ed è proprio qui che si dovrebbe inserire il ruolo cruciale delle organizzazioni non governative italiane (Ong), che lavorano per la cooperazione allo sviluppo da oltre mezzo secolo. Così come l’innumerevole schiera di esperti italiani che a livello nazionale e internazionale hanno lavorato e lavorano al ministero Affari esteri, nelle agenzie delle Nazioni Unite, presso l’Unione Europea. Ma anche il mondo universitario, che da sempre si occupa di studiare le politiche socio-economiche a livello internazionale e che da una decina di anni ha avviato simili percorsi di cooperazione decentrata (si chiama sempre così) con gli atenei di numerosissimi paesi del Sud del mondo.

Meglio soli o accompagnati?

Il Consorzio delle Ong piemontesi (Cop) ha accettato nel 2004 (ma diverse singole Ong lo facevano sin dal 1997) la proposta fatta dalla Regione Piemonte di «accompagnare» i processi di cooperazione decentrata intrapresi dai suoi enti locali in otto paesi dell’Africa Occidentale, arrivando a fine 2006 alla firma di un accordo programmatico triennale (in forma di Convenzione) sulla base del quale Regione e Consorzio definiranno gli interventi progettuali annuali e co-progetteranno le azioni di dettaglio. Questo, con l’idea di aprire una discussione e un confronto costruttivo, oltre che per mettere a disposizione l’esperienza delle Ong. Il quadro è quello del Programma regionale per «la sicurezza alimentare e la lotta alla povertà». Un’esperienza unica in Italia, che dal 1997 vede la Regione Piemonte impegnata con uno stanziamento annuale di circa 2 milioni di euro. Dopo soli 10 anni di lavoro ha coinvolto in collaborazione con le Ong una rete di oltre 150 enti locali piemontesi e un grande numero di associazioni, enti religiosi, scuole, parchi regionali, strutture sanitarie, enti di formazione e associazioni di categoria.

Due mondi

Un lavoro enorme che, se si guarda oltre le innumerevoli opere obiettivamente concrete e positive realizzate insieme ad altrettanti partner locali, come ad esempio pozzi, interventi agricoli, corsi di formazione, ecc.  ha davanti a sé proprio l’immensa sfida di collaborare con le autorità locali africane per capire ed elaborare, magari insieme e in un’ottica di disinteressata solidarietà, i modelli politici e amministrativi capaci di generare uno sviluppo locale partecipato.
Sfida immensa, appunto. Soprattutto considerando le sconvolgenti differenze esistenti tra il nostro paese e i loro, evidenti quando si leggono ad esempio gli indici di sviluppo umano delle Nazioni Unite, a partire da quello dell’aspettativa di vita che in Italia ha ormai raggiunto gli 80 anni e, ad esempio, in Burkina Faso è appena di 48. Può sembrare banale, ma immaginatevi una discussione con un sindaco cinquantenne di una cittadina burkinabè su cosa si possa fare nei prossimi dieci anni per migliorare la situazione della sua città. Vi risponderà vedremo, cominciamo a sperare che io sia ancora qui l’anno prossimo.
Ma soprattutto, continuando con il caso del Burkina, consideriamo che il Pil (prodotto interno lordo) italiano supera i 1.800 miliardi di dollari (2005), quello del Burkina Faso è poco meno di 6 miliardi. E quasi a parità di dimensioni, in Italia siamo 58 milioni di abitanti e in Burkina solo 14. In Italia sono oltre 40 milioni le persone che vivono in città (70% del totale), mentre in Burkina circa 2 milioni (il 17% del totale). E a proposito delle finanze pubbliche? Se in Italia la spesa per l’amministrazione pubblica nazionale equivale al 25% del Pil e quella dei comuni a circa il 6%, in Burkina il governo centrale spende il 12% del Pil e i comuni solo lo 0,3% (e il Pil del Burkina è meno di un centesimo del nostro). In altri termini, da noi i comuni gestiscono risorse pari al 26% di quanto gestisce il governo centrale, mentre in Burkina questa percentuale scende al 2%. Un sindaco del Burkina Faso ha in realtà in questo momento ben pochi euro  da spendere, e non può pretendere più di tanto il pagamento di tasse da parte di una cittadinanza che come reddito procapite annuale guadagna in media circa 430 euro mentre la nostra, di media (si intende) è pari a 20.000 euro.

Quante potenzialità

Di fronte a questi dati, certo è difficile sostenere che il decentramento politico e amministrativo può essere uno strumento in grado di consentire nel breve termine ai paesi del sud del mondo di risolvere i problemi legati alla povertà estrema della maggioranza della popolazione e della pressoché totale mancanza di servizi pubblici per i cittadini. Oppure che il decentramento può creare spazi per la partecipazione della società civile alla promozione dello sviluppo locale, o ancora garantire una più efficiente allocazione delle poche risorse disponibili (incluso quelle provenienti dalla cooperazione internazionale) e promuovee anche la maggiore mobilitazione a livello locale. O ancora che possa migliorare la governance a livello locale così come a livello nazionale. Tutto questo si scontra per il momento con una sostanziale mancanza di risorse come rivelano gli sconfortanti dati appena considerati, situazione nella quale si trova la maggior parte dei paesi del mondo non industrializzato.
Ma è proprio in questo contesto che la cooperazione decentrata può e deve cercare di muoversi, a piccoli passi e chiamando alla riflessione su quali siano le possibili soluzioni, il maggior numero di soggetti, dal mondo del terzo settore e delle Ong a quello delle istituzioni pubbliche, dagli enti fornitori di servizi (educativi e di ricerca, sanitari, ambientali, ecc.) fino al mondo imprenditoriale ed economico. Senza scoraggiarsi, ben inteso, e nella consapevolezza che anche un piccolo impegno può dare vita, in questo contesto, a grandissimi risultati.

di Andrea Micconi


Andrea Micconi




Quando le città (italiane) vanno in Africa

I perché della «cooperazione decentrata»

Negli ultimi dieci anni chi si occupa di cooperazione internazionale allo sviluppo ha visto crescere un fenomeno nuovo. Le città italiane, così come province e regioni hanno iniziato a interessarsi sempre più ai comuni e alle entità loro simili in Africa e America Latina. Sono nati cornordinamenti per la pace tra comuni italiani e altri enti territoriali.
Piccole quote dei bilanci comunali sono state allocate a progetti di cooperazione nel Sud del mondo, mentre alcune regioni e province si sono connotate come promotrici e finanziatrici di cooperazione.
Il fenomeno non coinvolge solo l’istituzione, ma questa funziona da «attivatore» delle realtà sul proprio territorio. Così associazioni di base e di categoria, istituti scolastici di vario grado, università, parchi, hanno creato le loro iniziative per mettere il proprio «mattone» di sviluppo in qualche sperduto paese africano o latino americano. Non senza commettere errori o prestare il fianco alle critiche.

Spesso tanti micro interventi su un territorio non creano sviluppo, ma arricchiscono qualche personaggio locale, oppure creano ancora più disuguaglianze. Fondamentale è l’approccio territoriale. Questo significa avere uno sguardo che coinvolge le diverse competenze di un comune italiano. Ma anche affrontare il tema dello sviluppo locale in un territorio lontano in modo integrato e con conoscenze in materia. Per questo, per interessare i territori, l’ente locale diventa l’istituzione più adatta a interagire con un ente analogo in un paese povero. Chi meglio conosce, o dovrebbe conoscere, il proprio territorio, da entrambe le parti.

C’è poi la questione della politica della cooperazione, che su base locale è, necessariamente, di competenza degli enti locali (che non dovrebbero essere in conflitto con le linee guida della cooperazione governativa). Per quanto riguarda le conoscenze tecniche e di contesti così diversi dal nostro è obbligatorio farsi accompagnare da chi queste tematiche le affronta da sempre come propria missione: le Ong di sviluppo e talvolta gli istituti missionari. Sono loro i veri «traduttori culturali» oltre che i tecnici dello sviluppo.

Nasce così un modo di fare cooperazione «dal basso» che coinvolge decine di attori diversi (ed è questa la grossa difficoltà dell’approccio), ognuno dei quali deve mantenere il proprio ruolo. Una cooperazione che ha tutte le caratteristiche per essere quella più vicina alla gente, del Sud come del Nord. Infatti un effetto positivo della cooperazione decentrata è che le ricadute sono anche nei nostri comuni, dove si crea maggiore conoscenza, sensibilità e forse si formano le coscenze per nuovi stili di vita. Perché per creare sviluppo, è obbligatorio passare attraverso a  una nuova redistribuzione di risorse e di consumi, a livello planetario.

                                                                                   Marco Bello

Marco Bello




La parabola del «figliol prodigo» (10)

Si allontanò dal suo popolo verso un paese lontano

«13Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolto tutto, se ne andò via
per un paese lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto
[lett. da (uomo) senza salvezza]. 14Quando ebbe speso tutto, in quel paese venne
una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. 15Allora andò
e si mise a servizio [lett. si incollò/attaccò] di uno degli abitanti di quella regione,
che lo mandò nei campi a pascolare i porci. 16Avrebbe voluto saziarsi con le carrube
che mangiavano i porci; ma nessuno gliene dava» (Lc 15,13-16).

L a sequenza narrativa dei vv. 13-16 descrive la prima parte dell’agire del figlio «più giovane» che si potrebbe chiamare «il distacco». La sequenza è drammatica, perché con una sintesi straordinaria descrive sedici affreschi che possiamo così ricomporre:
1.    la fretta di scappare e togliersi da una situazione diventata pesante (dopo non molti giorni);
2.    l’attore è il figlio più giovane, quasi a mettere in evidenza la sua condizione di privilegiato;
3.    l’illusione di una ricchezza senza fine e autosufficiente (raccolto tutto);
4.    il distacco, il taglio definitivo con il proprio passato e la propria radice (se ne andò via);
5.    la mèta come realizzazione di sé e delle proprie aspirazioni (per un paese lontano);
6.    l’ingordigia di essere finalmente libero (sperperò la sua natura/le sue sostanze);
7.    la piena soddisfazione dei bisogni a lungo repressi e finalmente realizzati (vivendo da dissoluto);
8.    la fine della ricchezza considerata «tutto» e fonte di libertà (quando ebbe speso tutto);
9.    il paese lontano, la mèta diventa un incubo di sopravvivenza (in quel paese venne una grande carestia);
10.    l’inizio di una nuova vita: l’indipendenza diventa bisogno (cominciò a trovarsi nel bisogno);
11.    quello che un tempo era figlio ora diventa servo (si mise a servizio);
12.    il padre da cui ci si affranca ora diventa «uno qualsiasi» (uno degli abitanti di quella regione);
13.    il fondo dell’abisso dell’impurità (lo mandò nei campi a pascolare i porci);
14.    chi aveva «tutto» si accontenta degli avanzi di carrube (avrebbe voluto saziarsi con le carrube);
15.    chi era commensale del padre, ora aspira a diventare commensale dei porci (che mangiavano i porci);
16.    il prediletto del padre è respinto anche dai porci (nessuno gliene dava).
Queste sedici pennellate formano l’affresco dei quattro versetti che abbiamo citato e che formano una unità letteraria che descrive le prime tre tappe del «viaggio» verso la libertà del figlio più giovane: la partenza in ricchezza, lo sperpero in baldoria, la schiavitù nella fame.
Iniziamo a esaminare più da vicino il v. 13, sezionandolo in più parti per potee cogliere meglio la portata e riflettere ad un livello più profondo per cogliee il messaggio di salvezza per noi.

V. 13:  Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose se ne andò via per un paese lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto. Traduzione letterale: Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolto tutto, si allontanò/separò dal [suo] popolo verso un paese lontano e là disperse la sua natura da [uomo] senza salvezza.

«Dopo non molti giorni»
L’espressione «dopo non molti giorni» significa «dopo pochi giorni» ed è una figura retorica che in letteratura si chiama «litòte» (dal gr. litòs = semplice). Essa attenua la durezza di un contenuto o di un’affermazione, negando il contrario (pochi = non molti; appena sufficiente = non è poi così male). Lc non vuole calcare la mano: invece di dire che se ne andò via quasi subito, afferma che se ne andò «dopo non molti giorni», ponendo l’accento sull’aggettivo «molti» che induce a riflettere. Questa figura letteraria è molto presente in Lc specialmente negli Atti degli Apostoli (Lc 21,9; At 1,5; 12,18, ecc.).
La manciata di ore intercorse tra la richiesta del figlio minore, che pretende la vita del padre, e la sua partenza verso la libertà devono essere carichi di emozioni e imbarazzo, impregnando di emotività la casa che già appare vuota: vuota per il padre, che vede il figlio esigere la propria morte per affermare se stesso, e vuota per il figlio, che con la testa è già nel suo mondo virtuale e lontano. Domina un silenzio carico di sconfitta, scandito dalle lacrime mute del padre, che impotente assiste alla propria morte pur restando in vita e col pensiero immagina gli scenari veri di morte certa in cui si sta avventurando il figlio.
«Dopo non molti giorni» è una pausa musicale in un rapido fugato di note che si arrampicano correndo verso la fine: come se Lc volesse concedere un attimo di respiro in una situazione di soffocamento e prima della tragedia che si sta preparando.

«Raccolto tutto»
Il figlio che col corpo è in casa, ma con il cuore e la testa è già «lontano», si premura di passare in rassegna tutta la casa per  non lasciare nemmeno le briciole di «quanto gli spetta» (v. 12) della metà della vita che il padre gli ha donato.
Il testo greco non dice «raccolte le sue cose», ma «raccolto tutto», suggerendo l’idea che il figlio passa in rassegna ogni angolo con una accurata ispezione. Anche tutto quello che ha è di suo padre, ma queste sono sottigliezze di cui uno spirito libero non si cura. Questa sottolineatura è importante, perché l’autore vuole metterla in relazione al v. 14 dove ci avverte che spese «tutto».
Gli sforzi per liberarsi del padre, l’anelito della libertà, l’aspirazione a una vita autonoma e senza freni, tutto ciò per cui ha vissuto svanisce in un baleno: tutto è inutile, perché come aveva raccolto «tutto», così ora spende «tutto»: nudo è nato da sua madre e nudo resterà senza suo padre (cf Gb 1,21).

«Si allontanò/separò dal (suo) popolo»
Il testo greco usa il verbo apo-dēmèō che è composto dalla preposizione di allontanamento «apò-» e «dêmos-popolo». L’idea soggiacente è molto più che un andare via da casa. Il figlio più giovane, andandosene, «si allontanò/separò dal [suo] popolo», tagliando dietro di sé ogni radice e ogni riferimento.
Per un orientale, allontanarsi dal clan, dalla tribù, dalla famiglia, rappresentata dal padre, significava andare incontro alla morte, perché vuol dire andare allo sbaraglio, senza alcuna protezione. Esaù, per es., quando vuole separarsi dal fratello Giacobbe, non parte da solo, ma raduna tutta la sua tribù, il gregge, il bestiame e tutti i suoi beni per andarsene «lontano dal fratello» (Gen 36,6-9). Parte con il suo popolo.
Il figlio più giovane della parabola lucana, invece parte senza popolo: ha già perso la sua identità prima ancora di sperperarla in un «paese lontano».
Egli è l’opposto di Abramo che, in Gen 12,1-4, «deve» lasciare il paese, la patria e il padre per ubbidire al Dio che chiama e convoca per un progetto di popolo nuovo con una prospettiva missionaria. Abramo, infatti, andrà «verso una terra» non ancora conosciuta, che Dio stesso gli indicherà per donargliela come promessa ed eredità (cf Gen 15 e 17). Abramo non si preoccupa di conoscere la mèta «verso cui andare», perché a lui basta sapere «da dove» parte. Egli non si allontana «da» qualcuno, ma va «verso» qualcosa, un futuro, una promessa, un’alleanza. «E Abramo partì» (Gen 12,4). La partenza di Abramo è solenne e maestosa, perché è la risposta a una chiamata e quindi la realizzazione di una vocazione. Il «partì» è un progetto.
Il figlio giovane della parabola invece «si allontanò» quasi di nascosto, fuggendo, in fretta: egli non ha un progetto, ma sa esattamente «dove vuole andare». Come Abramo lascia il suo paese, la sua patria e suo padre, ma solo per egoismo e interesse. Abramo è aperto alla fecondità sconfinata («padre di molti popoli»); il giovane figlio è chiuso nella sua grettezza. Abramo si affida alla parola del «Padre», sulla quale soltanto fonda il suo futuro («farò, benedirò, renderò, diventerai, maledirò»); il giovane figlio ha soltanto la certezza di lasciare il suo passato per andare incontro «ad un paese lontano», dove non c’è salvezza. Abramo aspira l’eredità della «terra promessa»; il figlio giovane, aspirando al suo egocentrismo, erediterà soltanto una porcilaia e una fame da schiavo.
Usando il verbo «apo-dēmèō» l’autore sottolinea che il figlio giovane non si mette solo in cammino verso un suo destino, ma che egli «lascia» dietro di sé tutti i fondamenti della vita: si separa dalla «comunità» di cui non è più membro e resta un solitario che cammina isolato verso un destino di morte. Fuori della comunità o del proprio popolo, non si dà vita, ma solo illusione, che presto si trasforma in morte. È l’apostasia che conduce all’inferno dell’isolamento e dell’egoismo.

«Per un paese lontano»
In tutto il NT un’altra volta soltanto si trova questa espressione e cioè in Lc 19,12: «Un uomo di nobile famiglia partì per un paese lontano, per ricevere il titolo di re e poi tornare». L’uomo nobile parte per ritornare, il figlio più giovane parte per allontanarsi definitivamente. L’uomo nobile va in un paese lontano solo provvisoriamente, il giovane «emigra» per sempre, entrando in una diaspora senza fine.
Il viaggio del figlio minore è l’inverso dell’esodo dei suoi padri, i quali uscirono «insieme» dalla condizione di schiavitù per andare verso una terra «lontana» e sconosciuta, che avrebbe loro garantito la libertà e la dignità di «nazione», anzi, di «nazione santa, popolo di Dio» (Es 19,6; 1Pt 2,10). Ora invece assistiamo al viaggio di un solitario che emigra verso «un paese lontano» per essere straniero tra stranieri. Egli va in esilio anche da Dio, perché allontanandosi dal padre, dalla casa e dalla «comunità», egli abbandona anche il «Dio di suo padre» (Es 3,6).
Giacobbe quando partì per la terra straniera di Egitto si fermò a Bersabea, ultimo avamposto abitato, prima di inoltrarsi nel deserto del Neghev, dove «offrì sacrificio al Dio di suo padre Isacco» (Gen 46,1). Andandosene, il figlio giovane compie un gesto di apostasia: egli rinnega suo padre e il Dio di suo padre, il suo fondamento e il suo principio. In una parola rinnega se stesso.
L’espressione «paese lontano» è quasi una formula per indicare una terra pagana abitata da stranieri (Dt 29,21), cioè tutto ciò che è opposto alla «terra santa» abitata da Dio. Da questa «santità» della terra si allontana il giovane figlio, che così non si mette in viaggio verso una mèta, ma s’incammina verso l’esilio. Il suo è un cammino dalla «santità» all’impurità.
Viene alla mente la figura femminile di Rut che, pur essendo pagana, si comporta in modo opposto al «figlio più giovane» che è un giudeo osservante. La nuora di Noemi, invitata dalla suocera a ritornare al suo paese, nella «casa di sua madre» (Rut 1,8) cioè «in terra lontana», si rifiuta e sceglie la dimora di Noemi come sua dimora, il popolo di Noemi come suo popolo e il Dio di Noemi come suo Dio (Rut 1,16).  Nella parabola di Lc, invece, un figlio d’Israele rifiuta il padre, il paese e la patria  «per un paese lontano». A differenza dei suoi antenati, a cui in «terra straniera» gli si attaccava la lingua al palato per l’impossibilità di cantare i canti del Signore (Sal 137/136,4-6) per non renderli impuri, questo figlio che rinnega la pateità aspira all’impudicizia del paese lontano e alla indipendenza da ogni dovere, perdendo così ogni diritto.

«E là disperse la sua natura
vivendo (uomo) senza salvezza»
Fa pensare che questo giovane figlio dissolve e consuma non se stesso, ma la parte di vita del padre, che egli ha preteso come parte spettante della sua eredità. Dilapida la vita di suo padre, che si era portato dietro come mezzo per acquisire la sua libertà. L’autore della parabola usa il verbo «dia-skòrpizō» che in italiano è tradotto con «io sperpero». Alla lettera potremmo tradurre con «fece scorpacciate», cioè si abbuffò, oppure «disperse» tutto ciò che era e che aveva, cioè la vita di suo padre, cioè la sua natura. Egli può permettersi di essere dissoluto perché non si gioca del suo dal momento che nulla possiede, ma della vita del padre che gli è stata regalata con abbondanza e che ora dilapida e sperpera senza criterio, da «dissoluto».
Il testo greco è pregnante e tagliente, perché usa un avverbio tragico e definitivo: «asôtōs» è un avverbio che deriva dall’aggettivo «à-sōstos» che è composto dalla vocale privativa «a», che significa «senza», e dal termine «sôstos» che a sua volta proviene dal verbo «sôzō» che significa «io salvo». Si può quindi tradurre l’avverbio con «senza speranza di salvezza», oppure «senza salvezza». Noi abbiamo tradotto: «Vivendo da (uomo) senza speranza di salvezza».
La dissolutezza non è solo un comportamento immorale, come dirà il fratello maggiore al v. 30, dove accusa il «figlio di suo padre» di avere divorato tutto con le prostitute, ma è un atteggiamento interiore, un modo di accostarsi e vedere la vita, una scelta consapevole di vita: il dissoluto è colui che non ha una prospettiva spirituale, ma è rivolto esclusivamente alle cose materiali, che diventano il suo unico orizzonte immediato e finale.
Il dissoluto «si dissolve» lentamente, a mano a mano che si consuma insieme alle cose che usa e che consuma: non significa necessariamente «scostumato», come forse si potrebbe pensare, ma letteralmente è uno «che si scioglie due volte», perché è un antropofago di se stesso nello stesso istante in cui sbrana le cose che sta usando: si consuma consumando.
Non è libero chi è riempito di cose con cui ha coperto la propria anima, che diventa sorda e dissoluta, perché già seppellita  nel vacuo e nell’effimero. La schiavitù più grande e irrimediabile è quella di colui che perde anche la speranza di essere salvato, perché vede la sua vita rinchiusa e ripiegata su se stesso, senza alcun riferimento agli altri che sono sempre, sul piano affettivo e di fede, la parte migliore di sé.
D’altra parte se il figlio giovane lascia suo padre e il suo popolo e il suo Dio, avendo raggiunto la mèta della sua vita, che è «un paese lontano», che altro può fare se non perdere la speranza? È la fine totale, perché tutto sarà perdonato, ma non il peccato contro lo Spirito Santo, cioè il peccato di disperazione, la morte della speranza (Lc 12,10). Il figlio giovane somiglia ad Adam, che «pretende» la conoscenza del bene e del male del «Padre», che egli vuole spodestare per sostituirvisi. Volendo diventare «come Dio», Adam ed Eva di fatto intendono uccidere Dio per sostituirlo; ne esigono la morte, lusingati dal potere di essere affrancati dalla libertà che avevano di mangiare «tutti gli alberi del giardino»; ma vogliono di più, vogliono ancora, vogliono «tutto» (Gen 3,1-7). Si ritrovano alla fine «nudi», «scacciati dal giardino di Eden», stranieri in mezzo al deserto, terra lontana e di nessuno (Gen 3,23-24).
Come i suoi progenitori, anche il figlio della parabola lucana si scaccia da sé dall’Eden, alla ricerca di una libertà che nemmeno conosce e che non saprà nemmeno gustare, perché estranea alla sua condizione di schiavo del suo bisogno.
Ci resta una sola domanda: dove si annidano in noi l’Adam e il figlio «prodigo»?                            (continua – 10)

Paolo Farinella