Le idee, prigioniere dei «brevetti»

La mercificazione della conoscenza

Che ci piaccia o no, la conoscenza è ormai diventata una merce. Ha
perso il carattere di bene pubblico, liberamente condivisibile, per
assumere i tratti di un bene privato, cui associare un valore monetario.
Le idee, una volta trasformate in merce, diventano proprietà di chi
riesce ad accaparrarsele per primo, anche quando gli «inventori» sono
altri: ed ecco che, con una sbalorditiva disinvoltura, grandi
multinazionali si impadroniscono di musiche di strada, suonate da
secoli dalla gente comune, oppure brevettano spudoratamente piante
medicinali esotiche, frutto di millenni di evoluzione. Un bene
vendibile poi, secondo meccanismi ben noti agli economisti, diventa più
prezioso se è anche scarso, dunque è bene che le idee rimangano ben
chiuse e sigillate, protette da eventuali malintenzionati.

Le trappole dei software proprietari
Qualcosa del genere sta accadendo con il software, uno dei prodotti più
puri e più complessi dell’ingegno umano. Nonostante la Convenzione di
Monaco, nel 1973, abbia stabilito che il software non si possa
brevettare, oggi, con una serie impressionante di provvedimenti
legislativi, si è riusciti a rendere legale il brevetto su una grande
quantità di programmi informatici. Il risultato è stato una crescente
diffusione dei «software proprietari», programmi chiusi non
modificabili dall’utente per essere adattati ai propri interessi e ai
propri bisogni. Parallelamente, si sono moltiplicati i divieti: per
esempio quello di accedere liberamente ad archivi digitali, dati di
biblioteche pubbliche e via dicendo.
Si comprende quanto questa tendenza sia dannosa, in modo particolare
per i paesi del Sud. Innanzitutto vengono vanificate le loro
possibilità di rilancio economico, legate proprio al software. Produrre
software, infatti, non richiede grosse infrastrutture e, soprattutto, è
legato ad investimenti in risorse umane, un elemento che è del tutto
abbondante nei paesi in via di sviluppo.
Inoltre per i più poveri, che dispongono soprattutto di computer
obsoleti, è diventato sempre più oneroso utilizzare software
proprietari, così come localizzare autonomamente i propri programmi
informatici, per adattarli alla propria lingua e alla propria cultura.
Non è più possibile accedere a pubblicazioni scientifiche online,
mentre quelle cartacee continuano a rimanere inaccessibili per motivi
di costo. Insomma, la conoscenza in formato digitale, che coincide
ormai con la quasi totalità della conoscenza disponibile al mondo, sarà
sempre meno accessibile. Le ragioni di tipo economico, come si vede, si
fondono con le esigenze di giustizia sociale: quando la proprietà
intellettuale viene estesa all’informazione, in gioco c’è un diritto
fondamentale come l’accesso all’informazione e la libertà di
espressione.

Le alternative del software libero
In queste condizioni lo sviluppo di standard tecnologici diversi è
ormai diventato un tema non più rinviabile. Negli ultimi anni è fiorito
un vero e proprio movimento alternativo: quello che si batte in favore
degli «standard aperti» (open source) e del «software libero» (free
software). Questo movimento è nato con un carattere del tutto
particolare, dato che è formato per lo più da tecnici e informatici, ma
ha assunto cifre talmente cospicue da non potersi più considerare un
semplice gruppo d’interesse settoriale: si tratta di circa 300.000
sviluppatori di software sparsi in non meno di 70 paesi. Il suo cavallo
di battaglia è costituito dall’idea che le risorse informatiche debbano
avere la massima circolarità e la massima accessibilità. Questa
singolare comunità di «programmatori idealisti» è animata da un’etica
nuova (ribattezzata «etica hacker»), un’etica di libertà, di altruismo
e di cooperazione. È la stessa etica che, in tempi passati, ha
consentito a internet (un tipico prodotto «open source») di svilupparsi
così rapidamente e di raggiungere la vastità delle dimensioni attuali.
Eppure il World intellectual property organization, l’organismo delle
Nazioni Unite che si occupa di proprietà intellettuale (www.wipo.int),
condizionato com’è dalle grandi corporations tecnologiche, si rifiuta
di riconoscere l’importanza del software libero (il software realizzato
secondo gli standard aperti) e di promuoverlo presso i paesi più
poveri. Al contrario, non fa che restringere ulteriormente, con
innumerevoli strumenti legali, la circolazione delle conoscenze
informatiche e la possibilità di accesso all’informazione digitale: per
questo motivo, è stato pesantemente criticato da un gruppo di paesi del
Sud (tra cui Brasile, Argentina e Sud Africa) che lo hanno richiamato a
perseguire gli obiettivi di sviluppo umano per i quali è stato fondato.

GianMarco Schiesaro

GianMarco Schiesaro




Dal «computer a manovella» al «simputer»

Tecnologia e cultura

Durante il «Vertice mondiale sulla Società dell’informazione», svoltosi
a Ginevra nel dicembre 2003, una novità del tutto particolare catturò
l’attenzione degli addetti ai lavori, facendo non poco sogghignare i
giornalisti presenti. Era quello che venne prontamente battezzato
«computer a manovella», in realtà un ambizioso progetto di computer a
basso costo. Completamente rivestito da gomma a prova di urto (per
resistere a condizioni ambientali avverse) includeva anche una
manovella per fornire energia in quegli angoli del globo dove la
corrente elettrica è ancora un’utopia. Ogni minuto di manovella
equivale a dieci minuti di funzionamento. Tale computer, secondo i suoi
ideatori, avrebbe dovuto costituire una speranza di inclusione
tecnologica per molte persone povere del Sud.
Molto più significativo, in quanto maggiormente attento alla dimensione
culturale, si era rivelato il progetto «Simputer», un piccolo portatile
a basso consumo in grado di «leggere» il testo trovato sulle pagine web
in un certo numero di lingue native indiane e dunque particolarmente
adatto al gran numero di utenti analfabeti presenti in quell’area
geografica. Il segreto risiede in un apposito software, che consente al
Simputer di riprodurre ben 1200 suoni elementari, adeguati alla maggior
parte delle lingue indiane.
La differenza qualitativa tra il «computer a manovella» e il «Simputer»
risulta lampante se si pensa che il primo è stato concepito nei
laboratori del Media Lab di Boston, mentre il secondo è stato creato da
un nutrito gruppo di scienziati e ingegneri indiani di Bangalore. La
dimensione culturale appare imprescindibile in ogni creazione
proveniente dall’India, crogiolo di lingue e di culture. Ed è ancora
più rilevante nel caso del software che, ben lungi dall’essere un
prodotto tecnologico, è soprattutto il frutto di un lavoro culturale,
di un lungo processo artigianale messo in moto dall’ingegno dei
programmatori.

Il software: lingue, icone, colori
Chi non fosse convinto dell’importanza della dimensione culturale del
software, può provare il seguente esperimento. Apra il proprio browser
(un software), si colleghi a internet e utilizzi un motore di ricerca
(un altro software), magari Google, di gran lunga il più comune. Sarà
sorpreso nel notare che è possibile effettuare ricerche in una lingua
come l’estone, parlata da nemmeno un milione di individui, mentre non è
possibile ottenere risultati nella lingua hindi, che conta circa 400
milioni di parlanti. Come è possibile? La causa è da ricercarsi nella
mancanza di uno standard univoco nella codifica della lingua hindi, a
sua volta frutto di una disattenzione tecnologica nei confronti di
quest’area culturale.
Pressoché tutti i linguaggi di programmazione, i sistemi operativi e le
applicazioni maggiormente diffusi a livello mondiale sono scritti,
almeno in origine, nella lingua inglese. L’uso di tali programmi da
parte di persone che non parlano la lingua inglese richiede un processo
di adattamento del tutto particolare, chiamato «localizzazione».
La localizzazione è ben più che una semplice traduzione dalla lingua di
origine a quella di destinazione. Essa richiede una profonda capacità,
da parte dei programmatori, di adattare le proprie creazioni alla
cultura dell’utilizzatore, di cui la lingua non è che una delle
espressioni. Pensiamo, per fare qualche esempio, a quanta attenzione
debba essere prestata alle icone grafiche, ormai componente
irrinunciabile dei modei sistemi operativi. Uno stesso simbolo può
assumere significati completamente diversi in un’altra cultura. Oppure
si pensi al linguaggio dei colori: mentre il rosso indica «stop» o
«pericolo» nei paesi occidentali, esso può significare «vita» o
«speranza» in altre culture.

Gli errori di Microsoft
Un altro esempio è dato dalla tipologia di scrittura di una lingua: i
caratteri utilizzati dall’alfabeto, la particolare modalità di
scorrimento del testo. Ugualmente importanti sono il modo in cui
vengono scritte le date, il calendario adottato, le modalità di ricerca
utilizzate dai dizionari incorporati nei programmi di videoscrittura.
Questi aspetti sfociano facilmente nella dimensione politica: i bambini
delle regioni andine del Perù dovrebbero usare programmi localizzati in
quechua o in spagnolo? Le scuole e gli uffici di Calcutta dovrebbero
adottare software in bengali, in hindi o in inglese?
Nel 1992 Microsoft introdusse in Cina programmi software localizzati in
lingua cinese. Questi però, piuttosto maldestramente, erano stati
impostati con un insieme di caratteri utilizzato nella Cina
pre-rivoluzionaria, oggi non più in vigore se non a Taiwan. I
rappresentanti della Cina Popolare si ritennero offesi dal fatto che
una decisione così importante fosse stata presa negli Stati Uniti,
senza il coinvolgimento di agenti locali. I rapporti tra l’azienda
informatica e le autorità cinesi diventarono così problematici e si
deteriorarono rapidamente negli anni successivi.
Questo esempio dimostra come una decisione tecnica in apparenza banale
abbia assunto un significato politico e culturale che non si era saputo
prevedere e che ha condotto in seguito a pesanti ripercussioni di
carattere economico: l’azienda leader mondiale nel campo del software è
stata di fatto esclusa dal più grande mercato del mondo.

GianMarco Schiesaro

GianMarco Schiesaro




Per una tecnologia dal volto umano

Le nuove tecnologie: vanno sempre bene?

Inteet e le nuove tecnologie rappresentano una
rivoluzione, ma non hanno una valenza salvifica. A volte, nel Sud del
mondo (con l’Africa in testa) sono più utili una radio ed un telefono
mobile. Senza dimenticare che le grandi multinazionali tecnologiche non
sono associazioni benefiche. Semplicemente vogliono trasformare i
«poveri» in «clienti». Soltanto mettendo da parte la retorica e
ragionando con senso critico, le nuove tecnologie potranno essere
d’aiuto ai paesi poveri.

Gli indios ashaninka vivono in una regione remota dello stato di Acre
(Brasile), ai confini con il Perù. Per loro è il canto a scandire
l’esistenza, accompagnato da strumenti rudimentali come flauti di canna
e tamburi di pelle. La loro vita quotidiana si snoda lontano dai
riflettori della modeità e scorre sui binari tranquilli della
tradizione: pochi sarebbero disposti a scommettere che questo popolo
sperduto possa nutrire il benché minimo interesse nei confronti delle
nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione. La realtà,
tuttavia, non cessa di riservare sorprese: gli ashaninka hanno inciso
un Cd e hanno diffuso la loro musica proprio su internet, vendendo
online la loro realizzazione. E così un altro popolo, tra quelli fino a
questo momento relegati ai margini della cosiddetta civiltà, ha fatto
il proprio ingresso nella società dell’informazione.
Questa commistione di tradizione e modeità non deve stupire: internet
sembra rappresentare un luogo di incontro privilegiato tra gli indios e
le associazioni che tutelano le culture indigene. Per rendersene conto
è sufficiente visitare il portale «Native Web» (www.nativeweb.org), un
ricco canale di accesso alle risorse in rete dedicate alle culture
indigene.
Se l’episodio degli indios ashaninka è tutto sommato marginale,
circoscritto com’è a un ambito un po’ atipico e a una fascia di
popolazione limitata, altrettanto non si può dire del progetto Global
Forest Watch (www.globalforestwatch.org), che si ripromette addirittura
di monitorare le risorse forestali del mondo intero.
Global Forest Watch, creato dal «World Resources Institute», è una rete
mondiale di gruppi forestali locali, in contatto tra di loro grazie ad
internet ed equipaggiati con strumenti software avanzati. La grafica
satellitare si unisce a una raccolta dettagliata di dati sul campo, con
l’obiettivo di confrontare le attuali pratiche forestali con gli
standard stabiliti dalle organizzazioni inteazionali.
Questi ed altri sistemi di telerilevamento, via satellite e via
internet, consentono di fare l’inventario delle risorse terrestri, di
prevedere i raccolti e di migliorare l’utilizzo dei terreni nei paesi
in via di sviluppo, magari anticipando i segni premonitori di
cataclismi naturali.

SE LA SALUTE  VIAGGIA SU INTERNET
È confortante sapere che le tecnologie possano influire sui processi di
inclusione sociale o fronteggiare i guasti ecologici sempre in agguato.
Lo sviluppo umano è però una realtà più vasta e complessa. Per
cominciare, si potrebbe obiettare che esistono bisogni ben più urgenti:
la salute, per esempio.
Per la maggior parte degli operatori sanitari dei paesi del Sud
l’accesso all’informazione è un problema: i testi per la formazione
sono spesso antiquati e l’informazione sui farmaci più recenti o sui
trattamenti preventivi è limitata. I medici si sentono isolati perché
non hanno la possibilità di chiedere un consulto nell’emettere la loro
diagnosi.
La rete satellitare HealthNet (www.healthnet.org), creata nel 1989,
offre servizi e strumenti a circa 4.000 operatori sanitari in più di 30
paesi del mondo. Un esempio ci può aiutare a comprendere di quali
servizi si tratta.
In un remoto villaggio dell’Africa equatoriale alcune infermiere
adoperano una telecamera digitale per acquisire le immagini di alcuni
alimenti, scaricarle su un computer portatile e portarle da un medico
affinché le esamini. Nel caso in cui questi debba valutarle
ulteriormente, può spedirle via internet in Gran Bretagna, dove vengono
sottoposte allo studio di specialisti di tutto il mondo. Oggi un
software di compressione permette di ridurre enormemente un’immagine a
raggi X senza perdita di informazione, e di spedirla senza difficoltà
attraverso qualsiasi rete esistente di telecomunicazioni.
Qualche interrogativo comincia timidamente ad affacciarsi. È saggio
spendere tante risorse per una struttura vasta e imponente quale
HealthNet? «L’Africa non ha bisogno di tecnologie sofisticate» sostiene
Maria Musoke, esperta di informazione medica in un progetto ugandese.
Maria ha ottenuto ottimi risultati, nella prevenzione della mortalità
infantile, grazie all’uso di semplici walkie-talkie. La telemedicina –
sostiene Maria – è un’applicazione dal grande potenziale, ma i costi
attuali ne fanno uno strumento irrealistico. Per spezzare l’isolamento
dei medici africani, il vero problema di questo continente, basterebbe
un semplice computer, dotato di una connessione internet e collocato
nella maggior parte dei centri sanitari.

LA «GRAAMEN PHONE»:  PICCOLO È BELLO
I progetti faraonici di grandi reti continentali, le immagini patinate
di giovani africani intenti a navigare in internet compiacciono
certamente i governi, i diplomatici e gli editori di riviste di massa.
Sono però di dubbia utilità per la popolazione locale. L’autentico
successo arride più frequentemente ai progetti di piccole dimensioni,
fondati su tecnologie accessibili e facilmente replicabili. «Piccolo è
bello», scriveva Schumacher qualche decennio fa, ma la sua lezione è
valida ancora oggi.
Dopo l’assegnazione del premio Nobel per la pace 2006 a Muhammed Yunus,
inventore del microcredito, tutti conoscono la sua creatura: la Graamen
Bank, la «banca dei poveri». Meno conosciuta, probabilmente, è la
sorella Graamen Phone, la «compagnia telefonica dei poveri», che ha
esteso il modello del microcredito alla telefonia rurale del
Bangladesh. Beneficiario, in questo caso, è un imprenditore locale,
solitamente una donna, cui viene prestato il denaro per acquistare un
telefono cellulare, destinato ad essere utilizzato dai suoi compaesani.
La domanda di questo servizio di comunicazione è davvero elevata.
Sappiamo che, a causa della debolezza del mercato del lavoro locale,
molti sono costretti a emigrare e i telefoni costituiscono un prezioso
canale per mantenere legami sociali e familiari, oltre che per
garantire il flusso delle rimesse verso le famiglie.
Non è tutto: per comprare e vendere i beni prodotti sono necessari
frequenti viaggi verso i mercati delle località centrali di una
regione. Il servizio telefonico permette a molti di consultare i propri
contatti nelle città e di ottenere da loro le informazioni relative ai
prezzi di mercato, rompendo il monopolio dell’informazione che
appartiene ai mediatori e riducendo i rischi di sfruttamento. Le
chiamate telefoniche possono sostituire un viaggio in città, che ai
contadini costerebbe dieci volte più di una chiamata, e li aiutano a
ottenere prezzi più equi per i loro raccolti.
L’esempio ci insegna che non sempre le tecnologie migliori sono le più
avanzate o quelle di ultima generazione. Saper integrare antico e
moderno, facendo coesistere vecchie e nuove tecnologie, è uno degli
ingredienti fondamentali di una iniziativa di successo.

CARA, VECCHIA RADIO
Nella comunità di Kothmale, un’area di ben 350.000 persone dello Sri
Lanka, si è realizzata un’originale fusione del mezzo radiofonico con
quello telematico. La «Kothmale Community Radio» (www.kothmale.org)
trasmette quotidianamente un programma di un’ora, basato sulle semplici
domande degli ascoltatori, cui si provvede a dare risposta con l’aiuto
di internet. A questo scopo, è stato anche implementato un database
contenente le informazioni più richieste; mentre alcuni punti di
accesso internet comunitari vengono utilizzati come portali per
effettuare trasmissioni dal vivo dall’interno della comunità.
La «radio comunitaria» ha una storia molto lunga: essa è stata
impiegata per raggiungere fasce di popolazione ampie, soprattutto
quelle non alfabetizzate o quelle che vivono in aree con scarse
infrastrutture. Il vantaggio delle radio è quello di avere un costo
alquanto basso e di essere disponibili anche quando manca l’energia
elettrica, per esempio alimentate da batterie solari.
È un peccato che esperienze simili a quella di Kothmale non si siano
replicate in gran numero nel continente africano, dove la radio è lo
strumento di gran lunga più utilizzato e la telefonia mobile è ben più
che una promessa, grazie a una configurazione geografica favorevole (i
cellulari privilegiano i territori pianeggianti) e al carattere di
oralità della cultura africana.
Questi esempi gettano una luce nuova sul rapporto controverso tra nuove
tecnologie e paesi in via di sviluppo. Troppo spesso il nostro
immaginario si è nutrito di immagini deformate: pensiamo alle
raffigurazioni di villaggi in cui un personal computer, che spunta nel
mezzo delle capanne, viene venerato da un gruppo di indigeni straniti,
che non ne capisce la funzione. Si potrebbero aggiungere molti altri
stereotipi simili a questo: essi hanno purtroppo grande peso nella
pubblicistica, ma scarso riscontro nella realtà.

«VENDO CAPRE»:  SU INTERNET
Qualche anno fa, un esperto della Banca mondiale si è recato in Etiopia
per parlare di e-business e ha esordito dicendo: «Immagino che nessuno
di voi sappia che cosa sia un sito internet». Un tale ha alzato la mano
e a sorpresa ha replicato: «Io lo so. Vendo capre su internet… Ci
sono molti tassisti etiopi a Chicago, New York e Washington. La
tradizione vuole che regalino delle capre alle loro famiglie rimaste in
Etiopia e così io gliele vendo da un cybercaffè…».
Questo aneddoto, tratto da un gustoso libro di Sergio Carbone e
Maurizio Guandalini (intitolato appunto Vendo capre su Inteet) serve
a smentire un luogo comune tra i più radicati: che le comunità povere
delle aree rurali abbiano bisogni «primitivi» e che le loro società
siano autosufficienti e chiuse. Al contrario, nella maggioranza dei
casi, sono popolate di piccoli imprenditori e di cornoperative locali,
che hanno bisogno di informazioni sullo stato del mercato, sui prezzi
correnti e sulla previsione di domanda per i loro prodotti e servizi:
dai prodotti agricoli all’artigianato, dalle risorse naturali al
turismo. C’è bisogno di frequentare i mercati per accaparrarsi
potenziali clienti, di comunicare con altri partner per concludere
accordi, organizzare i trasporti, ecc… Senza dimenticare che, affinché
delle imprese concorrenziali si possano sviluppare nelle zone rurali, è
necessario accedere ai servizi governativi e disporre di informazioni
in merito alle imposte e alle sovvenzioni. Privi di conoscenze
rilevanti e della capacità di comunicazione necessaria per analizzarle
e condividerle, i piccoli produttori rischiano di rimanere alla mercé
del mercato mondiale.
Se volessimo ricavare una lezione, potremmo sintetizzarla così: i
poveri non hanno strettamente bisogno di computer, ma di informazione.
Un’informazione che abbia senso per la loro vita quotidiana e che,
grazie anche a tecnologie semplici e accessibili, li renda capaci di
gestire autonomamente i propri processi di sviluppo. Sapranno
ricordarsene i tecnocrati dello sviluppo?

MENO GIGANTISMO, PIÙ FIDUCIA E CONTATTO
Contare sullo sviluppo umano comporta avere fiducia nelle capacità
delle comunità. Richiede tempo e pazienza, spesso in contrasto con
l’immediatezza e il «bruciare le tappe» tipiche della società
dell’informazione; richiede analisi e comprensione, che si acquisiscono
con l’esperienza e il contatto diretto, più che quello mediato dallo
strumento tecnologico.
Purtroppo questa consapevolezza non è per nulla diffusa nella comunità
internazionale che, con una disinvoltura ormai eccessiva, si rivolge a
internet e alle tecnologie dell’informazione nel tentativo di caricare
di significato progetti di sviluppo altrimenti poco significativi, in
una qualsiasi realtà del Sud del mondo.
Dalle «cittadelle digitali» pianificate nei ghetti di Soweto e
nell’isola di Mauritius ai «villaggi solari» (così chiamati perché
dotati di computer alimentati da energia solare) realizzati in
Honduras, la visione dominante nella comunità internazionale è affetta
da gigantismo. Si ritiene che un programma tecnologico debba
necessariamente funzionare su larga scala, raggiungendo decine di
migliaia di comunità rurali, superando l’orbita limitata dei programmi
di sviluppo convenzionali. E naturalmente, protagoniste di tali
programmi sono quasi sempre le grandi multinazionali tecnologiche, le
uniche che dispongano dei mezzi per erogare servizi a migliaia di
utenti contemporaneamente. Perché – è la domanda ricorrente – non
incoraggiarle a fornire esse stesse i beni di consumo e i servizi di
base, secondo i bisogni e il budget delle comunità povere?
Il ragionamento spiana la strada all’ingresso in massa del mondo del
business, invitato a percorrere una nuova eccitante missione: quella di
trasformare gradualmente (a volte in maniera diretta e a volte in
partnership con i governi o le reti di Ong) i poveri in «clienti»,
destinati come tali a pagare servizi finalizzati (almeno teoricamente)
a migliorare la qualità della loro vita e ad aumentare la produttività
delle loro attività.
Questo tipo di interventi è di solito condito da una fastidiosa dose di
retorica e da un’assoluta mancanza di senso critico, frequente ogni
volta che ci si riferisce a internet. Il senso di ottimismo, uno
sviluppo fatto piovere dall’alto e la convinzione di neutralità della
tecnologia non sono certo le premesse migliori per sviluppare una
riflessione matura. In un’epoca in cui alle nuove tecnologie
dell’informazione e della comunicazione si è giunti ad attribuire un
valore quasi salvifico, ci si chiede se abbia ancora senso discutere le
finalità che dovrebbero guidare il loro impiego e l’impatto prodotto
sulle fasce più deboli della popolazione.

GianMarco Schiesaro

GianMarco Schiesaro




Internet, ma non per tutti

Lavoro da diversi anni per una Organizzazione non governativa (Ong).
Siccome mi occupo di informatica, molti sono convinti che il mio lavoro
consista nel portare le nuove tecnologie nei paesi più poveri. Qualcuno
ne ricava motivi di entusiasmo, qualcun altro di sospetto.
I primi sono abbastanza facili da identificare: i loro discorsi
contengono immancabilmente elogi sperticati a quella grande
«rivoluzione tecnologica» che il Nord ha già sperimentato e che il Sud,
presto o tardi, potrà godere. Agli apprezzamenti seguono, quasi sempre,
proposte di pacchetti tecnologici «chiavi in mano», pronti per essere
esportati nel Sud. A costoro rispondo che i poveri non sanno che
farsene di tecnologie di punta, soprattutto se sono state ideate e
prodotte nei laboratori occidentali. Cercherò di spiegae il motivo
nella prima parte (Per una tecnologia dal volto umano) di questo
dossier, percorso da una domanda di fondo: come coniugare i supposti
benefici della società dell’informazione con quelli di un autentico
sviluppo umano?
I critici del mio lavoro, invece, sono più sfuggenti, ma non meno
categorici: la mia attività consisterebbe nel colonizzare i paesi del
Sud e nel soddisfare bisogni inesistenti: il Sud del mondo avrebbe
bisogno di medicine, di acqua e di scuole piuttosto che di informatica.
A costoro rispondo che hanno perfettamente ragione, ma che hanno
dimenticato due bisogni vitali: l’informazione e la comunicazione.
Nella seconda parte (L’informazione? Oligopoli e nuove povertà), grazie
a una rapida carrellata storica, cercherò di mostrare il faticoso
processo con cui la comunità internazionale ha preso coscienza dello
squilibrio mondiale nell’informazione e nella comunicazione,
presentando le svariate proposte – a volte brillanti, molto più spesso
fallimentari – che sono state poste in atto per arginare lo squilibrio.
Tuttavia, ci sono domande a cui è più complicato rispondere. Provengono
talvolta dagli stessi abitanti dei paesi poveri, che chiedono a gran
voce di non rimanere esclusi da quegli spazi di comunicazione, di
crescita umana e di democrazia che la rete per eccellenza, internet,
sta rendendo possibile. Per loro è già stato coniato il termine
«infopoveri» e si profila una minaccia del tutto inedita, indicata con
il nome di «divario digitale». Quali ne sono le caratteristiche? Come
riconoscere le forme di esclusione nella Rete? A coloro che non si
stancano di porre domande come queste, è rivolta la terza parte (Se New
York vale l’Africa) di questo dossier.

GianMarco Schiesaro

Il Glossario

Banda (larghezza di banda) – È la capacità
di trasmettere le informazioni: maggiore è la «larghezza di banda», più
veloce è la trasmissione. La cosiddetta «banda larga» permette l’invio
di segnali complessi, come quelli multimediali.

Browser – Programma di visualizzazione di contenuti, utilizzato per navigare nel web.

Codice sorgente – È un insieme di istruzioni scritte in un linguaggio di programmazione, in grado di far funzionare un programma.

Cyberspazio – Termine coniato dallo
scrittore di fantascienza William Gibson: è usato per fare riferimento
allo spazio formato dalla totalità dei documenti e dei servizi resi
disponibili in Rete.

Database – Raccolte di dati strutturati in modo da compiere ricerche logiche al loro interno e svolgere elaborazioni automatiche.

Dominio (nome di) – Nome utilizzato per identificare la posizione
elettronica e talvolta geografica di un computer. I nomi di dominio
hanno sempre due o più parti, separate da punti: quella a sinistra è la
più specifica e la parte a destra la più generale (i suffissi
statunitensi come .com, .org, .edu, .net, eccetera, o dei paesi come
.it).

E-commerce (e-business) – Si tratta di transazioni commerciali condotte a distanza attraverso la Rete.

Filtro – Software che permette di
effettuare, per esempio tramite parole chiave, una scelta dei contenuti
internet accessibili all’utente.

Hacker – Termine di uso comune per
identificare una persona con competenze tecniche tali da poter
penetrare nei sistemi informatici protetti. Coloro che si definiscono
«hacker», in realtà, operano in base a un rigoroso codice etico, il cui
principio fondamentale è quello di liberare il flusso della
comunicazione informatica e abbattee le barriere, differenziandosi
così dai pirati informatici, che vengono definiti «crackers».

Hardware – In un computer indica la
macchina, la componentistica fisica in opposizione al software (che
indica i programmi, la parte logica).

Inteauta (cybeauta) – Utente che naviga nei «mari» di internet.

Inteet Caffè (Cybercaffè) – Locale pubblico dotato di computer che consentono agli avventori di navigare in internet.

Modem – Dispositivo hardware che converte i dati informatici per la trasmissione degli stessi sulle linee telefoniche.

Motore di ricerca – Programma
raggiungibile attraverso la Rete e in grado di indicizzare e fornire su
richiesta dell’utente informazioni presenti su internet; strumento
indispensabile per effettuare una corretta e rapida navigazione.

Multimediale – Indica l’integrazione, su uno stesso supporto, di dati di diversa natura: testi, suoni, immagini.

Nodo – Singolo computer direttamente connesso alla Rete.

Provider (Inteet Access Provider) – Foitore di accesso a internet, società che fornisce collegamenti con internet.

Rete (la) – Sinonimo di internet.

Sistema operativo – Programma che controlla la maggior parte delle funzioni base di un computer.

Standard – Insieme di regole o di
specifiche che riguardano la progettazione di dispositivi informatici.
Possono essere di due tipi: gli «standard proprietari» sono quelli
proposti dalle società a pagamento, gli «standard aperti» sono quelli
resi pubblici e messi a disposizione di chiunque.

Telematica – Fusione delle parole
informatica e telecomunicazioni; indica l’insieme delle trasmissioni di
dati tra computer attraverso linee telefoniche o reti.

Word processor – Programma di scrittura che permette la composizione di testi.

GianMarco Schiesaro

Laureato in ingegneria elettronica presso l’Università di Padova, ha
poi conseguito il Master in Cooperazione allo sviluppo presso la
European School of Advanced Studies dell’Università di Pavia.
Successivamente, ha approfondito il tema del rapporto tra tecnologie e
formazione conseguendo il Master in Computer Mediated Communication
presso l’Institute of Education dell’Università di Londra.
Lavora da alcuni anni nel mondo della cooperazione internazionale,
occupandosi presso il Vis (Volontariato internazionale per lo sviluppo)
dei progetti di e-leaing nei paesi in via di sviluppo, in particolare
in Albania, Kosovo e Libano.  È inoltre direttore del «Centro di
formazione per lo Sviluppo umano» del Vis, attivo nella formazione
online sui temi della cooperazione, della globalizzazione e dei diritti
umani.
Da alcuni anni si interessa della divulgazione delle tematiche relative
al «digital divide». Nel corso del 2003 è stato rappresentante della
società civile presso il ministero degli Esteri in vista della
partecipazione al Vertice mondiale delle Nazioni Unite sulla Società
dell’Informazione. Ha collaborato con il secondo canale della Radio
svizzera italiana per la realizzazione di alcuni servizi radiofonici
sul tema del divario digitale.
Cura infine il modulo di «Cooperazione allo sviluppo» presso il Master
in Educazione alla pace dell’Università di Roma Tre ed è docente del
corso: «Mass media e paesi del Sud del mondo». Ha pubblicato:
• La sindrome del computer arrugginito,  Nuove tecnologie nel Sud
del mondo tra sviluppo umano e globalizzazione, SEI, Torino 2003
• Formazione online e mondialità, all’interno del volume Tecnologie per
la didattica (a cura di Davide Parmigiani), Franco Angeli Editore,
Milano 2004.

Introduzione e cornordinamento di Paolo Moiola.

GianMarco Schiesaro




Opportunità e pericoli per l’«homo technologicus»

Introduzione

Qualche settimana fa, ho ricevuto dall’Angola, via posta elettronica,
un video del dottor Nando Campanella, il medico che a suo tempo vinse
il nostro «Premio Carlo Urbani» e che oggi lavora in Africa per
l’Organizzazione mondiale della sanità (http://www.afro.who.int/).
Nando è un esperto di telemedicina e, ovunque vada a lavorare, cerca di
coniugare le sue conoscenze mediche con quelle tecnologiche. L’e-mail è
uno strumento che ha rivoluzionato il modo di comunicare, abbattendo le
distanze e il tempo (ma quasi sempre anche la poesia). Personalmente,
non riesco più a fare a meno, anche perché la posta elettronica è ormai
diventata indispensabile per il mio lavoro. Tuttavia, vivo senza
telefonino. Una cosa, questa, talmente inusuale che, quando lo
confesso, nessuno mi crede.
Verso le nuove tecnologie ho un rapporto di accettazione, ma allo
stesso tempo di sospetto. Ad esempio, in quanto ambientalista
(convinto), mi infastidisce molto vedere i prodotti tecnologici durare
sempre meno, non tanto perché non funzionino più quanto perché vengono
superati da altri più aggioati e di cui – come ci fanno credere
pubblicità martellanti ed invadenti – sembra non si possa fare a meno.
Purtroppo, computer, telefonini, videoregistratori, televisori,
stampanti e quant’altro si trasformano in rifiuti altamente inquinanti
e di difficile smaltimento. In media, in Europa ogni cittadino produce
20 (venti!) chilogrammi di spazzatura elettronica all’anno. La
direttiva europea (http://europa.eu/) sui «Rifiuti di apparecchiature
elettriche ed elettroniche» (Raee), in inglese Waste from electrical
and electronic equipment (Weee), non sembra essere adeguata all’entità
del problema. Gli europei (con gli italiani nelle primissime posizioni)
cambiano il proprio cellulare in media ogni 15 mesi. Quanti di essi
sanno che i telefonini contengono cassiterite e tantalio (coltan) e
che, per avere questi metalli, nella martoriata Repubblica del Congo si
combatte, si sfrutta, si commette ogni genere di violenza?  

Quando si viaggia nel Sud del mondo si incontrano sempre più spesso
internet cafè. Dunque, la tecnologia arriva veramente ovunque? Lascio
la risposta a Geneviève Makaping, antropologa del Camerun, che al
Convegno di Mani Tese (http://www.manitese.it) ha tristemente
sintetizzato la situazione: «In Africa i miei nipotini hanno il
telefonino ma nessuno li chiama. Hanno la parabola satellitare ma la
usano per scegliere il paese in cui emigrare. Le ragazze vanno nei
tanti internet cafè per contattare uomini che le portino in Europa,
dove finiscono sulle strade a prostituirsi». Quella della professoressa
Makaping è una provocazione, anche se non troppo lontana dalla realtà.
Vale la pena di ricordare che l’analisi svolta da The Economist
(http://www.economist.com), la bibbia del capitalismo mondiale, sulle
nuove tecnologie informatiche e della comunicazione nei paesi poveri
arrivava a questa conclusione: «Un computer non serve se non hai cibo,
non hai elettricità e non sai leggere. (…) La telefonia mobile è la
tecnologia con il più grande impatto sullo sviluppo» (10 marzo 2005).
Altro problema delle nuove tecnologie è la loro invasività. Oggi si
diffondono i microchip polifunzionali che si  impiantano sotto
pelle (come il Rfid, Radio frequency identification, che identifica
automaticamente e a distanza persone, animali e oggetti). E domani che
sarà? Ecco perché sono d’accordo con le preoccupazioni espresse dal
professor Umberto Galimberti («Psiche e techne. L’uomo nell’età della
tecnica», Feltrinelli 2000): «Non c’è più nessuno che sia in grado di
controllare la tecnica, ma è la tecnica a divorare gli uomini, compresi
quelli che hanno il potere di immettere nel circuito le informazioni.
Essi infatti devono tener conto dei gusti degli utenti e questi gusti a
loro volta sono indotti dal mezzo. Insomma nel conflitto tra uomo e
macchina perde sempre l’uomo».
Un altro filosofo, il francese Jean Baudrillard, non vede affatto bene
questa invasione della tecnologia: «La peculiarità dell’essere vivente
è di non arrivare al limite delle sue possibilità, mentre l’oggetto
tecnico fa il contrario: esaurisce le sue possibilità e le dispiega a
dispetto di tutto, anche dell’uomo, determinando più o meno a lungo
termine la sua scomparsa. (…) Non c’è analogia più bella, per
illustrare questo passaggio all’egemonico, della fotografia diventata
digitale, liberata nello stesso tempo dal negativo e dal mondo reale. I
due passaggi, naturalmente su scale diverse, hanno conseguenze
incalcolabili. Significano la fine di una presenza singolare
dell’oggetto, visto che può essere costruito digitalmente. Fine del
momento singolare dell’atto fotografico, perché l’immagine può essere
immediatamente cancellata o ricomposta. Fine della testimonianza
irrefutabile del negativo».

Ogni fine anno Time, il noto settimanale Usa (http://www.time.com),
sceglie il personaggio che, a suo dire, più ha segnato l’anno appena
concluso.
La copertina dell’ultimo numero del 2006 raffigurava un computer a
schermo piatto su cui si riflette l’immagine del lettore, perché
«L’uomo dell’anno sei tu. Sì, sei proprio tu. Tu controlli l’era
dell’informazione. Benvenuto nel tuo mondo». Insomma, l’anonimo utente
di internet sarebbe il cuore della «nuova democrazia digitale».
L’enfasi di Time arrivava a tal punto da titolare un articolo: Power To
The People, Potere al popolo. Ironia della sorte, proprio nei giorni
dell’uscita di questo numero si scopriva che i servizi segreti degli
Stati Uniti potranno mettere il naso nelle e-mail e nelle transazioni
delle carte di credito dei passeggeri europei che vanno negli Stati
Uniti. Ad ulteriore conferma dell’ambiguità delle nuove tecnologie e
della pericolosità di una loro adozione acritica.
Non è certo, infine, se la scelta del settimanale Time sia stata
completamente autonoma o piuttosto influenzata da interessi
commerciali. Questo è forse il punto centrale della questione: dove
finisce l’utilità di una nuova tecnologia e dove inizia il consumismo
ingiustificabile e insostenibile?

Paolo Moiola

Paolo Moiola




Honduras/ La violenza della modernità

È uno dei tanti paesi latinoamericani dove indigeno è sinonimo di povertà
e ingiustizia. Come ci racconta una leader dell’organizzazione Copinh,
Berta Caceres, donna indigena cui non manca né il coraggio né la forza
di volontà.

Se pensavate che in Centroamerica la violazione dei diritti umani, come
la tortura, i sequestri e gli assassini politici, fossero cose degli
anni ’80, l’Honduras di oggi vi farà ricredere.
Il paese si trova al centro di un moderno campo di battaglia, che si
crea quando due elementi attuali come un paese povero e la
globalizzazione si incontrano. Come risultato, l’Honduras si trova da
un lato minacciato dalle trasnazionali (con concessioni minerarie in 17
dei suoi 18 dipartimenti e con royalties che toccano addirittura l’1%),
dall’altro, dove le risorse minerarie non ci sono, prigioniero degli
ingranaggi della modea schiavitù, con la diffusione delle maquilas,
delle piantagioni di banane e di presunti progetti di ecoturismo. E,
per chiudere questo «circolo virtuoso dello sfruttamento», la
contaminazione ambientale, l’invasione trasgenica e il saccheggio della
biodiversità (fenomeno conosciuto come biopirateria).
Al centro di questa scena, si trovano gli indigeni honduregni (il 15%
della popolazione), che in questo paese sono il settore della società
più emarginato. Essi affrontano la discriminazione razziale della
maggioranza e l’espropriazione delle loro terre, che reclamano come
proprie da generazioni in dispute infinite con latifondisti e più
recentemente con imprese di legname, nazionali e multinazionali, che
sfruttano e saccheggiano le foreste nazionali, che (ancora) coprono
l’80% del territorio.
Berta Caceres, indigena di etnia lenca, leader del «Consiglio civico
delle organizzazioni popolari dell’Honduras»
(www.laneta.apc.org/copinh/), ci racconta un po’ di questa
organizzazione e della situazione attuale dei popoli indigeni
honduregni: «El Copinh è una organizzazione che ha 13 anni di lotta a
fianco delle comunità indigene per la difesa della nostra terra. Con
l’aiuto del trattato Oil n.169 sui popoli indigeni, siamo riusciti ad
ottenere la titolarità di circa 1.500 ettari di terra, ma attualmente è
in sospeso un’altra titolarità per 2.000 ettari. La titolarità è uno
dei motivi della nostra lotta di resistenza, perché l’incertezza sulla
proprietà di questa terra sta alimentando la cupidigia di molti
latifondisti – che in precedenza erano militari, poliziotti o parte del
potere politico -, i quali vogliono espellere le comunità indigene
dalle terre per poi poter saccheggiare le foreste e vendere tutto il
vendibile del nostro patrimonio».
«La realtà honduregna – continua Berta – è una realtà multietnica con 7
popoli indigeni: lencas, tolupanes, tawacas, garifunas, miskitos, mayas
choltis e, inoltre, i neri di lingua inglese. In questo momento stiamo
affrontando delle politiche neoliberiste  che in Honduras si
concretizzano nella spogliazione dei nostri territori di
proprietà  comune, della nostra cultura e delle conoscenze
ancestrali. Questa spogliazione viene attuata attraverso i grandi
progetti come il Piano Puebla-Panamà che punta al saccheggio delle
nostre risorse forestali, biogenetiche ed acquatiche. Questi progetti
sono accompagnati da una sistematica violazione dei diritti umani dei
popoli indigeni. In Honduras esiste un elenco di più di 50 leaders
indigeni e neri assassinati negli ultimi 2 decenni, cosa che è rimasta
semplicemente impunita. Infatti, attualmente nessuno si trova in
carcere per l’assassinio di indigeni».
«La nostra è una realtà sconosciuta – continua Berta Caceres -. Noi
abbiamo dozzine di compagni incarcerati in maniera illegale,
violentati, resi storpi per la vita, uomini che hanno perso gli occhi
per le torture, compagne che hanno abortito a causa della violenza di
poliziotti e militari. Nel 2006 sono stati assassinati 2 giovani
garifunas per ordine di multimilionari honduregni che sono coinvolti
nel megaprogetto di Bahia de Tela, nel quale tra l’altro ci sono anche
interessi italiani ed europei. Ma pure questo assassinio è rimasto
impunito».
«Anche se viviamo controllati, con il nostro telefono intercettato,
continueremo a chiedere il rispetto dei nostri diritti e non importa se
ciò ci costerà la vita. Noi sappiamo perfettamente che stiamo
affrontando dei poteri forti, ma questo non significa che rimarremo con
le braccia conserte, aspettando che finiscano di ucciderci».

José Carlos Bonino

Il Glossario di «Radio di carta»

Piano Puebla-Panamà: è il progetto che
prevede l’integrazione tra 9 stati messicani (Puebla) e gli stati
dell’America centrale fino a Panamà; lanciato nel 2001 dall’ex
presidente messicano Vicente Fox, su istanza di Washington.

Royalty / regalia: è il pagamento (di entità variabile) dovuto dall’utilizzatore al proprietario (titolare) di un diritto.

Trattato Oil/Oit n.169: è il Trattato
sui popoli indigeni e tribali dell’«Organizzazione internazionale del
lavoro»  (Oil/Oit); sottoscritto nel 1989, costituisce una
fondamentale evoluzione del trattato n.107 del 1957. 

José Carlos Bonino




Mosaico «esplosivo»

Potere, petrolio e milizie: dove sta andando il gigante africano

La grande diversità è la sua ricchezza. Ma, gestita
male, diventa la sua rovina. Così il paese più popoloso dell’Africa, e
attuale sesto produttore di petrolio al mondo, è attraversato da
movimenti identitari. La scadenza elettorale di aprile scatena voraci
appetiti nella classe politica, e stimola la galassia di milizie
armate. Tutti in cerca di una fetta di torta.

Il clima politico e sociale si sta surriscaldando in Nigeria ed è
destinato a peggiorare con l’avvicinarsi delle elezioni politiche di
aprile. Il presidente Olusegun Obasanjo, eletto nel 1999 e rieletto nel
2003, ha rappresentato una svolta democratica per il paese, che dei
suoi 46 anni d’indipendenza ne ha vissuti 28 di dittatura militare.
Obasanjo ha tentato di lottare contro la corruzione con pochi risultati
tangibili. Il suo maggior successo è stato invece rilanciare il paese a
livello internazionale, facendolo uscire dall’isolamento causato dai
governi militari. Non è riuscito tuttavia sul piano interno dove ha
continuato a svilupparsi il fenomeno delle milizie etniche e si sono
inaspriti gli scontri tra gruppi di interesse economici e politici.
Lo scorso maggio, Obasanjo ha tentato, senza successo, di far
modificare la costituzione, che impone il limite di due mandati
consecutivi, per poter prolungare la sua opera al vertice dello stato.
La vera questione è che la gestione del potere nel gigante africano fa
gola a molti.

Una potenza africana

Sesto produttore di petrolio a livello mondiale e primo in Africa con
2,5 milioni di barili al giorno (35.255 milioni di barili di riserve),
la Nigeria si contende la leadership continentale solo con il
Sudafrica.
Repubblica federale di 36 stati, 130 milioni di abitanti e oltre 250
popoli, il paese definito «mosaico» per le sue grandi diversità
etniche, culturali, religiose e linguistiche ha una certa difficoltà a
mantenersi unito. Divisioni tra gli stati musulmani del nord (dodici
dei quali hanno adottato la legge islamica, sharia) e quelli cristiani
del sud, ma anche tra potere centrale e  singoli stati federati.
Le tensioni tra cristiani e musulmani, ma anche tra allevatori e
coltivatori che spesso sfociano in massacri con centinaia di vittime,
sono oggi in lieve diminuzione, ma sempre latenti.
Il sistema federale che doveva garantire la partecipazione di tutte le
etnie, ma ancora prima l’impostazione coloniale, hanno in realtà
favorito i tre principali gruppi: haussa, yoruba e igbo. Questo ha
creato spesso un senso di emarginazione e alienazione rispetto allo
stato nigeriano delle altre centinaia di etnie.
Dalla metà degli anni ’90 questi sentimenti di identità etnica e
politica, esacerbati dai sistemi oppressivi delle dittature militari,
sono sfociati nella nascita di una moltitudine di milizie
etniche.  Gruppi armati attivi nelle diverse zone del paese con
origine simile ma anime molto diverse. Dalle rivendicazioni politiche
degli yoruba, al movimento per l’indipendenza del Biafra, alle milizie
islamiche nel nord, ai movimenti per la ripartizione delle risorse nel
delta del Niger.

Cambio ai  vertici

Lo scorso dicembre, il partito del presidente, Partito democratico del
popolo (Pdp), ha eletto il suo candidato per le presidenziali. Si
tratta di Umaru Yar’Adua, governatore, musulmano, di uno stato del nord
(Katsina). Uomo schivo, ma soprattutto uno dei rari governatori
«integri», secondo la Commissione per i crimini economici e finanziari
(Efcc), istituita dall’attuale presidente. La commissione ha aperto
inchieste su 31 dei 36 governatori. In effetti la Nigeria, secondo la
classifica annuale in base alla corruzione, stilata dall’Ong
Transparency Inteational, resta uno dei paesi più corrotti del mondo,
occupando il 142simo posto su 163 recensiti.
Secondo un tacito accordo tra gruppi di potere, dopo gli 8 anni di
governo federale a un uomo del sud, cristiano, sarebbe stato un uomo
del nord ad avere la presidenza. Con la riforma della costituzione il
presidente ha tentato di venire meno ai patti, senza peraltro riuscirci.
Allora Obasanjo ha preferito mandare avanti un uomo di secondo piano
del partito, ma musulmano del nord, e con una buona immagine a livello
nazionale. È riuscito così, allo stesso tempo a soddisfare l’accordo,
ma anche a scartare alcuni avversari «musulmani» diretti. Come
l’attuale vicepresidente, Atiku Abubakar, uomo potente del Pdp ma in
rotta con Obasanjo (è anche stato uno dei fautori del «no» alla riforma
costituzionale) che ora si candiderà sotto un’altra bandiera politica.
Oppure Ibrahim Badatasi Babangida, già presidente dittatore dall’85 al
’93 intenzionato di nuovo a correre per la presidenza.
È molto probabile che i giochi si definiranno all’interno del Pdp, che
oggi controlla 28 dei 36 governatorati e ha la maggioranza al
parlamento federale. Con una possibile vittoria di Yar’Adua, il partito
dovrebbe poi accontentare gli stati del sud con la vice presidenza.
Ma anche gli Igbo (Ibo) dell’est, etnia maggioritaria (40 milioni) e
che non hanno un presidente da 40 anni vorrebbero dire la loro.
Questa successione sarebbe il primo passaggio di poteri tra civili nella storia del paese.

Molte risorse,  ma per pochi

La Nigeria è dunque un paese molto ricco di risorse, che non vanno però a beneficio della sua numerosa popolazione.
Secondo gli analisti dell’Inteational Crisis Group (Icg), Ong
internazionale per la prevenzione dei conflitti, il sistema federale
non funziona e contribuisce all’aumento della violenza che destabilizza
il paese. Incoraggia lotte feroci tra gruppi d’interesse per
appropriarsi del potere. In questo contesto sono nate le milizie
etniche e politiche, ma è anche fiorito il crimine organizzato. Le tre
componenti si intrecciano in modo inestricabile. Lo stato, sempre
secondo l’Icg, vuole reprimere i sintomi, inviando più poliziotti e
militari, piuttosto che cercare di debellare le cause: controllo delle
risorse, uguaglianza dei diritti, condivisione del potere e della
responsabilità.
Questa situazione sta portando all’aumento dei conflitti interni, con
conseguente peggioramento della situazione di sicurezza e
un’instabilità crescente. Alcuni analisti parlano di possibile
«collasso» o «esplosione» del gigante.

Petrolio chiama sangue

Il caso emblematico è il sud dove si concentrano i giacimenti di
petrolio nel delta del fiume Niger e in mare. Da queste zone il paese
ricava il 95% delle sue entrate all’esportazione. Ma si stima che il
70-75% della popolazione del delta (oltre 20 milioni) vive con meno di
un dollaro al giorno.  Questa situazione costituisce un substrato
ideale per milizie armate, come il Mend (Movimento per l’emancipazione
del delta) sorto a inizio 2006 e molte altre, che rivendicano il
controllo locale delle risorse. I loro metodi sono attacchi al governo
federale e alle compagnie petrolifere, come rapimenti degli impiegati
(come il recente sequestro dei tre italiani e il libanese dipendenti
dell’Agip), ma anche attentati con auto bomba.  Vogliono
paralizzare l’industria del petrolio alla quale hanno già fatto ridurre
del 25% la produzione nel 2006.
Motivi di militanza spesso etnica o politica (come anche richieste
d’indipendenza), contrabbando e criminalità comune si intrecciano nella
galassia dei movimenti del delta, rendendo molto difficile districarsi,
e facili le strumentalizzazioni.  Le milizie riescono facilmente a
far crescere l’odio verso il governo centrale e garantirsi un supporto
popolare molto utile in questo tipo di guerriglia. Il governo risponde
con la forza, inviando esercito e polizia.  Azione poco efficace
in una zona i cui centinaia di fiumi sono impossibili da controllare.

Chi ci guadagna

Mentre nel 1960 era retrocesso ai singoli stati il 50% dei proventi del
petrolio estratto sul loro territorio, questa percentuale è scesa al
13% dopo il 1999 (toccando il minimo di 1,5% durante il governo del
generale Sani Abachi). Una delle rivendicazioni delle milizie del delta
è che questa ripartizione delle risorse sia più equa. Questo non sempre
risolverebbe i problemi della popolazione, perché sono spesso i
governatori corrotti che riescono ad approfittare di queste
retrocessioni.
Tra le altre rivendicazioni c’è spesso la questione ecologica, a causa
dell’impatto negativo dell’estrazione e trasporto del petrolio in
questo fragile ecosistema.  Secondo l’Icg per i disastri
ambientali le responsabilità sono condivise, oltre che dalle compagnie,
anche dai ladri di greggio che danneggiano le tubature causando
fuoriuscita di petrolio. Oltre ai danni ambientali questo fenomeno
provoca spesso incidenti devastanti come la recente esplosione a Lagos
(dicembre 2006) che ha causato la morte di oltre 280 persone.
Nonostante la grande instabilità che questi fenomeni di lotta armata
stanno creando, sembra lontano il pericolo di una vera insurrezione
organizzata, anche se questo spettro compare ogni volta si avvicini una
scadenza per il potere.

Marco Bello

Chirurgia «mini» per un paese «maxi»

Tutto è cominciato quando un amico mi propose un’esperienza in Nigeria,
presso la Nnewi University nello stato di Anambra, dove nessuno aveva
mai fatto chirurgia laparoscopica (1). Si trattava di partecipare al
primo congresso di chirurgia mini invasiva, durante il quale avrei
dovuto eseguire la prima operazione di quel tipo mai eseguita. La cosa
mi ha entusiasmato moltissimo e senza pensarci su, ho accettato
immediatamente. Io, abituato dal 1987 a missioni in Kenya, Burundi e
soprattutto in Sud Sudan, in condizioni estreme, avrei avuto la
possibilità di agire in un ambiente medico più consono al nostro. Avrei
potuto apportare con questa nuova tecnica chirurgica, già ampiamente e
lungamente utilizzata da noi, una ventata di attualità a tutto
vantaggio dei pazienti.
Arrivato in Nigeria, con tutte le paure, le tensioni emozionali (tutto
sommato fisiologiche), l’orgoglio, la speranza, la felicità, sono
subito entrato in sintonia con la gente e i luoghi,  che
sembravano a me già visti e vissuti. È infatti molta la somiglianza con
diverse città e villaggi di altri paesi africani, con le strade
polverose, rossicce e piene di gente e attività.
In ospedale siamo stati accolti molto bene e quasi coccolati.
L’interesse è stato molto alto e durante la mia relazione le domande
non si sono risparmiate. Talvolta con fare polemico, soprattutto dai
ginecologi, che già utilizzano la laparoscopia diagnostica ma non
quella operativa. Si sono visti forse minati nell’esclusività di tale
metodica, con il timore di essere surclassati dai chirurghi generali.
Sono state delle giornate interessanti di scambio di vedute e con
propositi positivi. Abbiamo realizzato delle sessioni di training
simulato, che hanno coinvolto a tuo tutti i partecipanti al
congresso, dimostrando il vivo interesse dei medici locali. Si è infine
passati alla sessione della chirurgia in diretta con dei casi
all’inizio semplici come un caso di colecistectomia laparoscopica
(asportazione della colecisti) e un’appendicectomia laparoscopica
(asportazione dell’appendice). D’altronde in tutto il mondo si è
iniziato con questi due tipi di interventi prima di passare a quelli
più complicati. La sala operatoria era gremita di medici, infermieri e
studenti interessati a questo grande evento (all’inaugurazione ha
partecipato il ministro della sanità). Nonostante questo non sentivo il
peso di tutti quegli sguardi, ma la leggerezza della voglia di essere
lì. Avevo sì dei timori all’inizio, perché in Nigeria nessuno aveva mai
preparato ferri chirurgici di quel tipo specifico, nessun aiuto
chirurgo aveva mai fatto esperienza su questi interventi. Ma
l’entusiasmo di avere vicino molte persone motivate, mi ha fatto subito
superare ogni difficoltà. Alla fine di tutto però ero stanco. Ma con
una stanchezza «carica» dovuta al fatto che tutto era andato
perfettamente bene e aveva creato immensa gioia e soddisfazione a
pazienti e ambiente medico.
È bello vedere l’entusiasmo e la voglia di andare avanti, anche quando
sussistono problemi sociali e politici come in questo paese. E questo,
secondo me, vale comunque a tutte le latitudini del mondo.

Dario Andreone

(1) Chirurgia laparoscopica o chirurgia mini invasiva è la tecnica
chirurgica che prevede l’esecuzione di un intervento chirurgico
addominale senza apertura della parete. Ciò avviene attraverso piccoli
strumenti che passano in fori nel ventre e l’intervento viene
visualizzato attraverso un monitor.

Marco Bello e Dario Andreone




Piccoli miracoli

I camilliani in lotta contro l’Aids nella capitale peruviana

Il Perù è il primo paese dell’America Latina raggiunto dai camilliani all’inizio del 1700,
per offrire la loro assistenza ai malati più poveri.
Un bel numero di giovani stanno rispondendo all’appello del carisma camilliano.
Nel 1995, a Lima, hanno dato vita all’Hogar San Camilo, dove si prendono cura dei sieropositivi
e malati di aids e organizzano vari programmi
di prevenzione a favore di famiglie, madri sole, bambini dei rioni più disastrati e abbandonati.

Vedi Lima solo dopo aver visto la niebla (nebbia). Non la nebbia
del Nord Italia, fitta, carica di pioggia, che va e viene a seconda del
peso dell’atmosfera. Quella di Lima è qualcosa che non se ne va via
mai: rimane lassù, sospesa sulla città a 30 metri d’altezza, si
traveste da cielo plumbeo, immobile e persino un po’ triste. È chiamata
«garúa».
A Lima non piove quasi mai. Gli abitanti, soprattutto, quelli più
anziani si ricordano la data precisa delle ultime gocce d’acqua cadute
sulla città. Sembra che la niebla abbia la funzione di tappo al
rovescio: non permettendo al cielo di arrivare alla terra, alle
precipitazioni sulle case. E che case: tolte quelle solide dei
quartieri residenziali e i palazzi storici sopravvissuti all’incuria,
la gran parte sono baracche, sorte come funghi qualche decennio or sono
e tuttora onnipresenti. Dalle pareti al tetto sono fatte di fango,
paglia e qualche legnetto; visti dall’alto appaiono come dei piccoli
quadrati marroni, sembrano una miriade di dadi gettati nel vuoto.
Qui vivono decine di migliaia di persone, di cui un buon numero fuori
Lima, in quei pueblos jovenes nati dal nulla e destinati allo stesso
nulla, poiché carenti delle strutture base: acqua, luce, fogne, gas.
Lima è una metropoli di 7 milioni di abitanti, di cui quasi il 50% vive
sotto la soglia della povertà e le baracche sono l’unico bene materiale
che possiede. Ma anche questo è un bene a rischio. Circola, infatti, un
timore nelle conversazioni dei limeños, i cittadini della capitale
peruviana: se arriva un potente nubifragio, chi può negare che tutte
quelle dimore possano non reggere l’urto e sciogliersi in un fiume
marrone devastante? Per ora, nei rarissimi giorni di pioggia, la realtà
parla di qualche disagio in più, insignificante nella vita di stenti di
questa gente ridotta in miseria.

Come altrove, anche nelle baracche di Lima povertà e malattia vanno di
pari passo. Sporcizia e malnutrizione rendono la vita difficile. Ma da
qualche tempo c’è ben altro che si insinua da queste parti: si chiama
aids, e sta proliferando, soprattutto fra i giovani.
All’inizio la diffusione della malattia era rimasta un segreto che
doveva rimanere «custodito» nella baracca. Solo negli ultimi anni le
cose sono cambiate. Più assistenza e prevenzione hanno portato più
controllo e qualche piccolo miracolo.
Uno dei più significativi di questi miracoli lo si trova immergendosi
nel centro storico di Lima, in un quartiere popolare dal nome
ingannevole di Barrios Altos (quartieri alti). Qui di turisti ne
passano, ma è un mordi e fuggi; vedono le cose importanti: la chiesa di
San Francesco, con le sue enormi catacombe, Plaza Mayor, la piazza
principale in cui si trova il Parlamento.
Proprio a due passi da Plaza Mayor, dal 1995 esiste un luogo conosciuto
come Hogar San Camilo, centro di accoglienza per le persone
sieropositive.  Qui pochi uomini, con il loro intenso lavoro,
ridanno speranza a decine di famiglie che con il «sida» (versione
spagnola di aids) combattono una dura battaglia quotidiana.
Questi uomini sono preti dell’ordine di San Camillo de Lellis. La loro
prima presenza nel cuore di Lima data metà secolo xviii, quando
aprirono una casa di formazione vocazionale nella parte nord del
Convento de la buena muerte, ancora oggi attiguo all’Hogar San Camilo.
Nell’Hogar, camilliani italiani, peruviani e di altre nazioni accolgono
in particolare le madri che hanno contratto la malattia con l’obiettivo
che i loro figli nascano sani. Un miracolo? Di certo un grande
traguardo raggiunto, a livello scientifico e, quindi, umano.
Un’innovazione che permette di salvare migliaia di vite.
Lo sa bene padre Zeffirino Montin, l’anima fondatrice dell’Hogar, che,
proprio per la sua attività missionaria, è stato nominato un paio di
anni fa Cavaliere della Repubblica italiana. «Siamo partiti con pochi
mezzi, ma tanta speranza, unita alla voglia di fare – dice padre
Zeffirino -. Oggi contiamo sempre di più; lo si capisce dal crescente
numero di persone che arrivano fin qui da tutte le zone disagiate di
Lima».
I numeri la dicono tutta sull’autorevolezza che il Centro ha acquisito
negli 11 anni di attività: 400 persone ospitate, almeno 6 mila
beneficiari diretti delle cure contro la malattia e 20 mila beneficiari
indiretti. Alle medicine, i gestori dell’Hogar alternano il latte
mateizzato, il vero antidoto che salva migliaia di bambini
dall’infezione sicura. «Oltre a distribuirlo all’Hogar, con due gruppi
di medici, operatori e volontari, andiamo a portarlo direttamente nelle
case dei malati, soprattutto quelli più poveri» continua padre
Zeffirino.
E ccoci di ritorno nelle baracche, quindi. Qui, nascosti tra i vicoli e
le strutture fatiscenti di quartieri come Callao, Ventanilla e tanti
altri, si addentrano i camilliani e i loro aiutanti. Le visite sono
sempre organizzate prima. Alla gente del posto il camioncino bianco è
sempre più familiare e, dove prima c’era diffidenza, ora c’è un
sorriso, anche se malato. Come quello a tre denti di Ana, 31 anni, ma
che ne dimostra almeno il doppio per lo stato avanzato della malattia,
e i sorrisi dei suoi figli Nina e Andres, 3 e 6 anni, che giocano con
alcune scatolette nella piccola aia di terriccio.
«Io so di non avere molta vita davanti, ma ai miei figli vorrei dare
qualcosa di più – dice Ana -; ma mi ritengo già fortunata: loro non
hanno preso la malattia grazie alle cure, già questo è un piccolo
miracolo».
Come Ana, tante altre donne hanno ripreso la speranza dopo aver
conosciuto l’Hogar. Oggi anche lo stato peruviano, dopo anni di totale
assenza, riconosce il lavoro dei camilliani e collabora ai loro
progetti, soprattutto dal punto di vista economico. Dall’inizio del
2006 molti bambini del Centro hanno anche una famiglia (italiana) in
più, grazie all’adozione a distanza, sostenuta dall’organizzazione non
governativa Coopi (Cooperazione internazionale), che ha sede a Milano e
una storia di 40 anni nella cooperazione.
M a la presenza dei padri ispirati a san Camillo, patrono dei malati e
dei dottori, vive anche di altre splendide realtà. Una di queste è il
seminario, sorto nel 1980 dopo l’arrivo di padre Giuseppe Villa
dall’Italia. Dagli 8 seminaristi peruviani con i quali è iniziata la
scuola vocazionale, oggi si arriva quasi a 40, molti dei quali
provengono dalle terre amazzoniche, nel nord del paese.
Oggi a dirigere la scuola del seminario è padre Camillo Scapin,
sacerdote veneto, da più di  20 anni a Lima. «Ogni anno accogliamo
nuovi studenti, mentre altri finiscono gli studi e sono a un passo
dall’ordinazione – dice padre Camillo -. Anche qui le vocazioni sono
diminuite, ma quelli che arrivano sono convinti, raramente lasciano gli
studi durante il cammino di formazione».
Gli alunni del seminario, oltre agli studi teorici, seguono la
vocazione camilliana fin da subito, entrando come volontari nelle
strutture ospedaliere della città per portare assistenza e spiritualità
ai malati. Alcuni di loro, terminati gli anni da seminaristi, ricevono
la chiamata per lavorare in altre nazioni. Oggi i camilliani sono uno
degli ordini più presenti nel mondo: offrono il loro servizio in ben 35
paesi.
Padre Camillo, oltre all’insegnamento, passa molto tempo negli ospedali
della capitale e nelle strade. Con lui può capitarti di fare un giro
nella Lima «quotidiana»: i mercati vivacissimi e pieni di frutta
esotica mai vista in Europa, le scuole blu costruite qualche anno fa
nei quartieri poveri dal presidente-ladròn Fujimori a caccia di voti;
oppure, nella Lima storica: le catacombe, la casa di Santa Rosa da
Lima, prima santa del continente americano di cui i peruviani sono
devotissimi, il monte San Cristobal, che domina tutta la città e,
quando la niebla lo consente, permette di vedere il mare, posto alla
fine dei quartieri ricchi.
«Ma anche qui da noi c’è qualcosa di particolare» svela padre Camillo,
che apre le porte della Iglesia de la Buena Muerte, chiesa del convento
spesso chiusa al pubblico per salvaguardae i tesori storici, tra cui
una serie di quadri inediti del Veneziano. «La chiesa è comunque aperta
a chiunque voglia pregare – continua il padre -. Lasciarla sempre
aperta in questa zona della città è pericoloso».
Fuori dal convento, infatti, un vociare continuo e macchine che passano
da tutte le parti fanno capire che Barrios Altos è un quartiere molto
frenetico, dove ognuno vende quel poco che ha, e chi non ce l’ha vive
di espedienti.

I problemi sono gli stessi di altre grandi metropoli, ma qui a Lima la
forbice economica è in continuo aumento ed è sottolineato
«geograficamente»: l’indigente non incontra quasi mai il ricco e
viceversa, poiché questi vive nei quartieri lussureggianti che
finiscono sul mare come Miraflores o quelli delle grandi ville come Los
Olivos, dove le strade sono perfette e i marciapiedi sono puliti. Unico
punto di contatto, le entrate delle tangenziali. Ma è un attimo, basta
un rombo e una chiusura di finestrino, e via.
Dall’altra parte, sulla strada, la vita è ardua. Nonostante il clima
temperato, polvere e smog fanno ammalare migliaia di persone ogni
giorno. Il peruviano in condizioni di povertà, come del resto molte
altre popolazioni sudamericane, è tenace e sorride sempre alla vita,
anche quando le cose non vanno granché bene. Spesso nasconde i
problemi, ancor più spesso (e qui si parla degli uomini) si attacca
alla bottiglia, primo passo per la rovina di sé e della famiglia.
Non che manchino le istituzioni, a Lima e in Perù: dal 2001 a questa
parte, ovvero dopo gli scandali di corruzione legati al dittatore
Alberto Fujimori e al suo braccio destro Vladimiro Montesinos, la
situazione politica nel paese sembra aver cambiato rotta. Il presidente
Alejandro Toledo, seppur mai troppo indipendente dal governo degli
Stati Uniti, ha avviato nuove riforme e cercato di farsi ricordare come
una figura «pulita». Ha aperto relazioni con altri paesi sudamericani e
asiatici, pur manifestando qualche rancore, soprattutto verso i vicini
cileni, con i quali, dalla fine della guerra del Pacifico (1884), il
Perù non ha mai avuto un rapporto veramente  amichevole.
Un’altra svolta è avvenuta con le elezioni di aprile-maggio 2006, nelle
quali, a scapito di una nuova figura politica, rappresentata dal
militare nazionalista e indigeno Ollanta Humala, ha preso il potere il
socialdemocratico Alan Garcia, che dice di essere al governo per
portare il Perù ad avere più peso internazionale e ridurre
drasticamente le differenze intee.

Ma ce la farà davvero? «I detrattori sono tanti, ma un po’ di speranza
non guasta» dice padre Camillo, profondo conoscitore della politica
peruviana.
Di certo una sorta di redistribuzione delle ricchezze non farebbe male,
soprattutto considerando un altro fattore importante di sviluppo: il
turismo. Il Perù è la culla degli Inca; a Macchu Picchu e alla città
sacra di Cuzco arrivano centinaia di migliaia di visitatori ogni anno.
Al sud ci sono splendidi scenari naturali, il canyon del Colca, le
misteriose linee di Nazca, la splendida città bianca di Arequipa, la
penisola desertica di Paracas. Al nord, l’immensa foresta amazzonica.
Il potenziare questo settore e il dividere equamente gli introiti senza
affidarli a società private, che «depredano» il mercato, come accade
per il monopolio ferroviario che PeruRail ha per Macchu Picchu,
porterebbe nuova linfa vitale ai peruviani. Un turismo, naturalmente,
che si attui nel rispetto dei luoghi e delle tradizioni e alla ricerca
del Perù nascosto, non solo quello degli abbaglianti depliant delle
agenzie di viaggio.
Si potrebbe cominciare proprio dalla «brutta» Lima, che poi, sotto la
sua niebla, così brutta non è. E perché no, passare da Barrios Altos,
nei pressi del Convento de la Buena Muerte, a visitare le opere dei
camilliani. Magari fermandosi qualche settimana, qualche mese, per dare
una mano. «Abbiamo sempre bisogno di persone con tanta buona volontà»,
suggerisce con un sorriso padre Zeffirino. 

Daniele Biella

Daniele Biella




Sfratto agli «spiriti»

Religione tradizionale africana e cristianesimo

Mons. Buti Tlhagale, arcivescovo di Johannesburg,
esamina l’impatto del vangelo nella religione tradizionale nell’Africa
Australe. Egli spiega come la conversione al cristianesimo produce un
cambiamento di mentalità: Dio è la sorgente ultima della forza vitale e
non gli antenati. Ma stregoni e indovini hanno ancora un ruolo guida
nella società, per cui poco è cambiato nella vita quotidiana della
gente. La trasformazione portata dal cristianesimo non è ancora
completa e deve essere portata avanti nel rispetto della cultura della
popolazione.

Nel mondo il cristianesimo è proclamato da quasi 2 mila anni; ma in
Africa conta poco più di 150 anni. Benché l’incontro tra la popolazione
indigena e i missionari sia stato difficile, anche gli africani hanno
recepito il vangelo come messaggio destinato a «tutto il mondo e a ogni
creatura» (Mc 16,15);  hanno partecipato all’effusione dello
Spirito e sperimentato il fuoco della pentecoste. I loro cuori sono
stati infiammati dalla parola di Dio, inculcata loro «in tempo e fuori
tempo» (1 Tim 4,2); Gesù Cristo è stato proclamato «via, verità e
vita», la «vera luce che illumina ogni persona» (Gv 1,9), compreso il
popolo africano.

VERITÀ LIBERANTE

L’annuncio cristiano ha prodotto negli africani un impatto
«sovversivo»: ha sconvolto le nozioni tradizionali riguardanti
l’origine e il destino umano; soprattutto, ha inciso profondamente sul
ruolo che gli antenati esercitano nella vita della gente.
Il messaggio evangelico, infatti, risponde alle aspirazioni più
profonde del cuore umano, che coincidono con il progetto di Dio,
origine e meta finale degli esseri umani. «Conoscerai la verità e la
verità ti farà libero» dice il vangelo (Gv 8,32). Nella rivelazione
cristiana Dio è padre dei vivi e dei morti, per cui gli antenati e gli
esseri umani sono tutte sue creature. Di conseguenza Dio solo diventa
il definitivo punto di riferimento, lui solo deve essere l’oggetto di
fedeltà e adorazione, non più gli antenati.
Tale verità libera la mente superstiziosa dalle paure o dalle
suggestioni provocate dagli «spiriti vagabondi». Nel contesto della
fede cristiana, i vivi non aspirano più a essere puramente incorporati,
dopo la morte, nella comunità degli antenati, ma vivono fin d’ora nella
speranza di essere riuniti con Dio, dal quale hanno ricevuto lo spirito
di vita. Inoltre, nasce una nuova consapevolezza: cioè, che gli
antenati non sono imprigionati in un mondo vagamente definito degli
spiriti, ma che anche essi sono in attesa di essere definitivamente
redenti.
La verità su Dio ha la forza di rifondare le relazioni di potere tra i
viventi e gli antenati. Questi ultimi sono inevitabilmente declassati
dallo stato di «quasi idoli». Ai viventi viene offerta la libertà dei
figli di Dio: liberi dalla paura del mondo degli antenati e degli
spiriti maligni, che vagabondano per città e villaggi.
Tutte queste verità vengono accettate in teoria. La conversione a
Cristo produce un cambiamento di mentalità e di percezione della natura
degli antenati: la loro collocazione nell’ordine delle cose non può più
essere la stessa. Nella pratica, però, l’accettazione di tali verità
sembra aver scalfito superficialmente il ruolo, l’influenza e l’impatto
degli antenati nella vita della gente. Il cambiamento non è stato così
radicale come ci si sarebbe aspettato.
Nonostante la chiarezza del messaggio cristiano e l’impegno dei
missionari, gli «spiriti vagabondi» non sono stati «sfrattati» dal loro
piedistallo di «semi-dei» e continuano ad essere consultati, invocati,
temuti.

ANTENATI E IZANGOMA

Nella religione tradizionale africana, il ruolo degli antenati è legato
in generale all’esperienza umana del bene e del male, del benessere e
della disgrazia, della salute e della malattia, della vita e della
morte. In particolare, tale ruolo riguarda il destino dei membri di
ciascun gruppo clanico.
Gli spiriti ancestrali sono descritti come esseri generalmente ben
disposti verso i membri del proprio clan; al tempo stesso, però, sono
ritenuti capaci di infliggere sofferenze ai vivi: o per puro capriccio,
o per punire determinate colpe, o per vendicarsi di essere stati
dimenticati, essi mandano sui loro discendenti ogni specie di male.
Nella visione cosmica africana gli antenati sono la sorgente ultima
delle forze primordiali: un potere misterioso che dà la vita o la
possono distruggere. Per liberarsi da eventuali disgrazie e malattie è
necessario entrare in contatto con le forze primordiali che le
causano. 
Il contatto con gli spiriti ancestrali avviene attraverso il guaritore
o divinatore che nell’Africa australe si chiama isangoma (plurale
izangoma), funzione esercitata in maggioranza da donne, ma non di raro
anche da uomini.
Si dice che l’isangoma è chiamata dagli antenati del proprio gruppo
clanico e sperimenta tale vocazione attraverso la malattia, autentico
segno che essa è posseduta (thwasa) dallo spirito ancestrale e ne
diventa il ricettacolo.
Riconosciuta e accettata tale chiamata, l’isangoma deve sottoporsi a un
lungo tirocinio presso un’altra isangoma, per apprendere l’arte della
divinazione e della guarigione. Al tempo stesso, tale iniziazione
introduce la nuova isangoma a una conoscenza esoterica, ne fa una
persona separata e le conferisce uno stato di «sacralità» che incute
timore e rispetto.
In quanto unico interprete dei desideri degli antenati, l’isangoma ha
il potere di fare scaturire da essi la forza vitale che guarisce. Una
volta diagnosticata la causa della malattia (quasi sempre attribuita
allo scontento degli stessi spiriti ancestrali), procede alla
prescrizione o cura medica, anch’essa suggerita dagli antenati. Tali
cure includono offerte di sacrifici riparatori o propiziatori, rituali
di «fortificazione» contro stregonerie e sortilegi, riti di
purificazione (esposizione a fumi e vapori, bagni in acque lustrali,
assunzione di sostante che provocano vomito, incensature, lavaggi
intestinali…) e assunzione di medicine vere e proprie.

MALATTIA,  MEDICINA E GUARIGIONE

L’indovino è uno specialista nelle malattie africane (ukufa kwabantu),
che fanno parte della visione africana del mondo. La malattia è
percepita come uno spirito, che può essere incarnato in una sostanza
(come il sejeso/idliso, veleno africano) o rimanere nella forma di
spirito; può essere diretto contro altre persone.
Sono tanti i mezzi con cui può essere causata una malattia:
direttamente dagli spiriti, da fattucchieri (gettando il malocchio su
un oggetto della vittima), da stregoni mediante le medicine, da odio e
gelosia. In questo caso la persona gelosa può richiedere i servizi del
fattucchiere per causare un malanno.
La malattia quindi è nel cuore di un sistema di credenze che comprende
da una parte antenati, maghe e stregoni, e dall’altra sentimenti di
odio e gelosia, emanati dal cuore umano. La malattia si dipana nel
tessuto di relazioni frantumate tra gli stessi viventi o tra i vivi e
gli antenati. La malattia africana non è un avvenimento accidentale, ma
è sempre causata da agenti malvagi, da qualche persona, viva o morta.
In una società come quella africana, dove le relazioni umane sono
fortemente sentite e ricercate, quando capitano eventi sfortunati e
inesplicabili, fioriscono i sospetti. Tale percezione della malattia è
caratteristica e profondamente impressa nella psiche africana. Di
fronte alla malaria, per esempio, l’africano non si accontenta di
sapere che essa è causata dalla zanzara; egli si chiede: chi ha mandato
la zanzara per pungermi?
Anche la medicina, al pari della malattia, è intesa come un «potere
misterioso». Per questo sono offerti sacrifici per placare l’ira degli
spiriti ancestrali; si esorcizzano gli spiriti maligni picchiando le
loro vittime, oppure vengono scacciati dal corpo con il vomito, bevendo
acqua mescolata al sale o cenere; si inseriscono medicine sotto la
pelle (ukugcoba) per proteggere la vittima dal male; si indossano
amuleti protettivi per contrastare il potere degli spiriti maligni. La
medicina per rinvigorire la forza vitale è ricavata da parti del corpo
umano, peli di animali selvatici, pelle di serpenti.
 Anche se malattia e cura riguardano il corpo umano, esse
appartengono al regno spirituale. Corpo e spirito costituiscono una
sola realtà. Per questo le izangoma, non si limitano a individuare le
cause delle malattie e l’eventuale mandante, a prescrivere rimedi e
medicine, ma cercano di far  scaturire dagli antenati un
contro-potere che si oppone alle forze distruttive o previene quelle
dei demoni vagabondi che spargono malanni.
Scopo dell’isangoma è sempre quello di ristabilire pacifiche relazioni
tra gli esseri viventi, tra i vivi e il regno degli spiriti. Il
processo per tale pacificazione e i riti usati denotano in lei una
discreta esperienza psicologica e sociale. Essa conosce odi e amori
interpersonali, conflitti e alleanze tra i gruppi familiari. È stato
più volte provato che proprio l’attenzione e interesse dell’isangoma
verso i suoi pazienti, la sua capacità di dipanare la matassa delle
relazioni familiari e comunitarie sono alla base di certe sorprendenti
guarigioni.
Il coinvolgimento fisico e mentale del paziente e dei familiari è
un’altra chiave di volta della guarigione, in vista dello
ristabilimento della pace e dell’armonia che devono esistere nel
paziente stesso, tra individuo, gruppo, ambiente, mondo degli antenati
e degli spiriti.
I riti stessi hanno una forte componente di suggestione simbolica e
psicologica: l’isangoma danza e canta, fa danzare e cantare; va in
trance per entrare in comunione con gli spiriti; pazienti e familiari
vedono con i loro occhi la malattia che viene «vomitata» per la
somministrazione di emetici; fumigazioni e bagni nell’acqua lustrale li
proteggono dall’assalto delle forze ostili; il capro espiatorio, a cui
viene addossato il castigo per il male, li libera dalla paura.

DISAGIO DEI CRISTIANI

Il culto degli antenati è più di una semplice «ritualizzazione di pietà
filiale»; è la «via africana» di affrontare e vivere il mistero del
male e della sofferenza; il modo con cui gli africani celebrano e
comunicano con il mistero del sacro in cui sono immersi. Si tratta di
un rituale diretto a rivitalizzare le forze naturali e celebrare la
nuova vita o assorbire il dolore della dissoluzione della vita.
Inoltre, è il riconoscimento rituale dell’esistenza di una realtà
spirituale, una intensità di potere al di là della vita e delle cose
naturali.
I cristiani sudafricani non solo capiscono perfettamente questa visione
del mondo, ma la condividono: ne fanno parte. Essi appartengono a due
mondi, quello tradizionale e quello cristiano, che non si sono ancora
armonizzati.
E questo crea non poco disagio tra i cristiani: alcuni giungono perfino
a stigmatizzare il mondo tradizionale e i suoi metodi di guarigione, ma
poi sono felici di farvi ricorso, quando sperimentano disgrazie e
sofferenze. È ormai di dominio comune l’osservazione di G. C.
Oosthuizen, professore di Scienza delle religioni all’Università di
Durban: «Durante il giorno e nelle conversazioni molti fedeli delle
chiese storiche si dissociano dalle chiese indigene, ma sono presenti
nei raduni nottui di guarigione» (Oosthuizen 1992). E durante tali
riunioni non si fa altro di diverso da ciò che fanno le izangoma nelle
cerimonie di guarigione.
Tale disagio deriva dal fatto che i cristiani continuano a far parte
della visione cosmica africana e credono nella presenza degli spiriti
ancestrali, ma sono incerti su come conciliare la credenza nella
mediazione degli spiriti con il nuovo contesto cristiano. Tale
inquietudine è sentita soprattutto in molti cattolici, quando vedono
che alcune izangoma frequentano la chiesa e desiderano ricevere
l’eucaristia. «Possono le izangoma ricevere la comunione?» si
domandano, dal momento che esse pretendono di ricevere conoscenza
esoterica, chiaroveggenza e poteri di guarigione dagli antenati e non
da Gesù Cristo. Anzi, tale potere è percepito in opposizione o in
competizione con quello di Cristo. Cristo e gli antenati sono visti
come due autorità spirituali differenti. Per questo alcuni cattolici
sostengono che non si può essere fedeli a tutti e due.

CHIESE INDIPENDENTI

Se alla luce della fede cristiana gli antenati non hanno quel potere
straordinario accordato loro dalla tradizione africana, ne dovrebbe
derivare una riduzione radicale del loro ruolo tra gli esseri viventi.
Invece l’abbondante presenza di indovini e izangoma, quali interpreti e
mediatori degli spiriti ancestrali, dimostra che è ancora molto forte
la credenza nel potere sovrumano degli antenati e l’esistenza di demoni
e spiriti maligni in giro per il mondo.
Tale sistema di credenze tradizionali è stato adottato da varie chiese
indipendenti africane, nelle quali vengono miscelate le credenze
tradizionali africane e alcuni elementi provenienti dal cristianesimo.
Esempio significativo di tale sincretismo è rappresentato dalla chiesa
zionista, i cui «profeti» sono la versione modea degli indovini
tradizionali: si dicono chiamati da un antenato e dallo Spirito Santo;
in alcuni casi lo Spirito Santo rimpiazza lo spirito ancestrale.
Le due tradizioni non stanno comodamente assieme: è un caso di vino
vecchio in otri nuovi. I riti di guarigione celebrati nelle chiese
indipendenti sono gli stessi compiuti dalle izangoma. Se da una parte
il contesto sociale offerto da tali chiese sembrerebbe liberare i
cristiani dallo stigma legato alle credenze africane nella stregoneria
e negli spiriti maligni, dall’altra sono considerate come un «movimento
moderno fabbricatore di streghe».
Eppure alle chiese indipendenti bisogna riconoscere alcuni meriti.
Innanzitutto, a differenza delle chiese cristiane storiche (cattoliche
e riformate), esse hanno preso sul serio la visione cosmica
tradizionale africana e hanno tentato il dialogo con la religione
cristiana. In secondo luogo, sembrano sapere affrontare meglio dei
cristiani le condizioni di sofferenza della gente, offrendo loro il
senso di appartenenza alla famiglia e comunità. Infine le chiese
indipendenti permettono alle donne di giocare un ruolo significativo
nella vita sociale.
Nonostante ciò, non viene cancellato il loro grande limite:  esse
stanno perpetuando credenze superstiziose, invece di sfidarle alla luce
della nuova esperienza di fede.
Guarigione nella
tradizione cristiana
Nella tradizione della chiesa primitiva, il rituale di guarigione
consisteva nell’unzione con olio e acqua da bere. A questi elementi era
attribuito, nel nome di Gesù Cristo, il potere di guarire, «così che
ogni febbre, ogni demone e ogni malattia possa sparire con questa
bevanda e questa unzione» (Empereur 1986).
Nella tradizione cristiana, quindi, la guarigione è fatta non in nome
degli antenati, ma nel nome e con il potere di Gesù Cristo, trasmesso
dagli apostoli: «C’è tra voi un ammalato? Chiamate gli anziani della
comunità ed essi preghino su di lui, ungendolo con olio nel nome del
Signore» (Gc 5,13-15).
Inoltre, nella tradizione cristiana la guarigione implica la fede da
parte del malato e il perdono dei peccati. È la fede che dà al paziente
la capacità di conoscere e partecipare al potere redentivo di Cristo,
che porta la riconciliazione, non solo con la comunità e gli antenati,
ma anche con Dio e con la chiesa.
Posti questi principi si impongono alcune domande: i cristiani che
lasciano le loro chiese per attendere alle sessioni di guarigione nelle
chiese indigene o per consultare le izangoma lo fanno perché dubitano
del potere di guarigione di Cristo, oppure perché non trovano nelle
chiese storiche quel supporto sociale, psicologico, comunitario che
hanno saputo creare le chiese indipendenti?
Soprattutto, per superare il disagio dei cristiani delle chiese
storiche, non basta rispondere alla questione se questa o quella
isangoma può ricevere la comunione. Il vero problema riguarda gli
aspetti di compatibilità o incompatibilità tra il sistema di credenze
africano e il cristianesimo. È una questione di quanta strada abbia
fatto il processo di evangelizzazione e se sia stato sviluppato o meno
un atteggiamento critico nei confronti della cultura tradizionale alla
luce del messaggio cristiano.
In tale processo critico, il potere di guarigione degli antenati e le
izangoma possono essere viste in una luce differente: la guarigione
viene mediante la fede in Cristo, invocato nel contesto del rituale di
guarigione tradizionale; gli antenati possono anche essere invocati,
non però come sorgenti ultime di potere in sé stessi, ma piuttosto come
mediatori, poiché ora è Cristo la sorgente basilare del potere di
guarigione.
Una cosa sta diventando sempre più chiara: la conversazione non avviene
in un giorno e l’annuncio del vangelo non può più essere un monologo.
Il sistema di credenze o la cosmovisione in cui è predicato il vangelo
devono essere presi seriamente in considerazione, fino a instaurare un
dialogo aperto.
Non si può pretendere di cancellare (o anche ridurre) la credenza nel
potente influsso degli antenati, semplicemente retrocedendoli a un
rango inferiore nella gerarchia delle forze. Stregoneria e divinazione
non spariranno dichiarandoli semplicemente una finzione
dell’immaginazione delle società tradizionali. La presenza degli
spiriti maligni resisterà contro ogni tentativo di bandirla
sommariamente dal cosmo africani.
È in questione la maniera tradizionale africana di affrontare i poteri
soprannaturali e la realtà del male. Queste forze costituiscono il
tessuto delle relazioni umane, sono una parte integrale dell’esperienza
religiosa africana e perciò la base di una spiritualità africana. Per
cui bisogna fare attenzione quando si è troppo preoccupati del potere
degli antenati, del male della stregoneria e della dittatura dei
demoni: cercando di eliminare il mitico e il superstizioso si rischia
di gettare via il bambino con l’acqua sporca.
Non è possibile giustapporre semplicemente una nuova serie di dogmi
accanto a «verità antiche», ritenendole ormai ridondanti o inadeguate
all’incontro con la fede cristiana. Il nuovo deve coinvolgere il
vecchio con tutta la sua limitatezza, altrimenti l’anima africana sarà
lacerata e strappata dal suo centro vitale e non riuscirà ad accettare
un altro centro su cui strutturarsi.
La novità evangelica deve essere articolata in tal maniera che
l’esperienza umana non venga privata del proprio modo culturale di
esprimersi e, al tempo stesso, deve permettere la trasfigurazione e
purificazione della vecchia verità, operate dal potere vivificante del
vangelo. 

Buti Tlhagale

Buti Tlhagale




La missione nello spirito di Cristo

16 febbraio: festa del beato Allamano, fondatore dei missionri e missionarie della Consolata

Una lettura del pensiero spirituale del fondatore dei
missionari e delle missionarie della Consolata alla luce della teologia
di San Paolo. Anche oggi l’inviato alla missione è colui capace di
lasciarsi «rivestire» da Cristo e orientare le proprie scelte
di vita apostolica sull’esempio del Maestro.

Chi gode di una certa familiarità con l’insegnamento spirituale di
Giuseppe Allamano sa quanto questi insista sull’importanza della
santità nella vita missionaria. Non tutti, però, si rendono conto di
quanta importanza egli attribuisca alla centralità della persona di
Cristo in questo cammino di santità.
Un altro fattore che balza agli occhi quando ci si avvicina allo studio
della spiritualità che l’Allamano desidera comunicare ai suoi
missionari e missionarie è il fatto che egli non trasmette altra cosa
se non quanto lo spirito ha concesso a lui stesso di sperimentare; in
altre parole, l’insegnamento che l’Allamano offre nasce dalla propria
esperienza spirituale.
Come Gottardo Pasqualetti ebbe modo di rilevare nel breve studio
dedicato alla persona di Gesù Cristo nella vita dell’Allamano, uno
degli elementi fondamentali nel cammino spirituale del fondatore fu,
fin dalla sua gioventù, il costante sforzo di «rivestirsi» di Cristo.
Nella teologia paolina il «rivestirsi» di Cristo si presenta in una
duplice prospettiva. Da un lato, nel battesimo noi siamo rivestiti di
Cristo, cioè, siamo uniti in tal modo alla persona di Cristo che,
usando un linguaggio figurato, potremmo dire che la sua vita invade
tutto il nostro essere: questo lo riceviamo come dono gratuito di Dio.
D’altro lato, chi fu rivestito di Cristo nel battesimo è chiamato
costantemente a rinnovare continuamente questa «vestizione» nella sua
vita, realizzando ciò che per grazia ricevette nel battesimo. Il dono
si fa pertanto impegno esistenziale; l’azione di Dio esige la
cooperazione dell’uomo. Esiste, pertanto, qualcosa che è dato, nel
senso che è già una realtà presente, realtà che però, nello stesso
tempo, è anche aperta al suo divenire.
Davanti alla nuova realtà ontologica, data dalla nuova unione con Dio
in Cristo, diventa quindi pressante l’invito che Paolo fa a
«rivestitirsi» del Signore Gesù. È un caldo invito a impegnarsi
costantemente a imparare da Cristo, ad assimilare il suo modo di
essere, di pensare e di fare, perché ciò che il battesimo realizzò
nella nostra vita possa trasformarsi in una scelta esistenziale. Questa
coscienza appare nitidamente negli insegnamenti dell’Allamano: essere
cristiano significa soprattutto rivestirsi di Cristo. Ogni cristiano
vive una chiamata alla santità, che consiste essenzialmente nel farsi
simile a Lui.
Il 6 di gennaio del 1917, festa dell’Epifania, l’Allamano commenta ai
suoi missionari l’omelia del cardinal Richelmy, arcivescovo di Torino,
tenuta per l’occasione in cattedrale. Le parole del cardinale lasciano
trasparire preoccupazione di fronte all’indifferenza religiosa la quale
fa sì che molti cristiani vivano la loro fede al minimo, senza
dimostrare entusiasmo e convinzione. L’Allamano completa la riflessione
dell’arcivescovo sostenendo che non basta essere battezzati e
frequentare le celebrazioni domenicali per essere realmente cristiani.
La vita di fede è un’altra cosa. Per potersi dire cristiano è
necessario che l’«uomo intero» sia trasformato a immagine di Cristo.

Questo aspetto della vita di fede, comune a tutti i cristiani, egli lo
applica, con alcune sfumature particolari ai suoi missionari. Il 28
settembre 1920, nella riflessione fatta in occasione della vestizione
clericale di un gruppo dei suoi seminaristi, prende come punto di
partenza un elemento concreto della vita dei missionari della
Consolata. L’istituto da lui fondato ha ormai quasi 20 anni di
esistenza e conosce già una certa espansione: oltre alle missioni del
Kenya, la congregazione di Propaganda Fide ha conferito anche la
missione del Kaffa (in Etiopia) e di Iringa (in Tanzania). I missionari
devono ora confrontarsi con un immenso campo di lavoro e, mossi da zelo
apostolico, sentono la necessità di aumentare significativamente il
personale per rispondere alle rinnovate esigenze della missione. Nello
stesso tempo, le urgenze della missione non devono far rinunziare ad
uno dei principi fondamentali del fondatore: quello della qualità. Non
è tanto il numero che conta, ma l’essere santi, sacerdoti e missionari.

Prendendo come spunto il significato della vestizione clericale, spiega
come questa indichi una certa separazione dal mondo, ma, soprattutto,
l’esigenza di «rivestirsi» dello spirito di Cristo.
In altre occasioni, l’Allamano applica le stesse riflessioni alla vita
missionaria: «Non mi basta essere cristiano, ma missionario; e devo
avere questa intenzione, e non basta volerlo, ma devo avee lo spirito
– e aggiunge – se non abbiamo questo spirito di farci santi a questo
modo, hic non est eius. Saremo ombre, ma non veri missionari» (CS
II,16).
A varie riprese, l’Allamano riprende questa insistenza sopra
l’importanza di conformarsi a Cristo per essere missionario secondo il
modello che lui vuole per i suoi: «Così pure voi, non solo dovete avere
lo spirito di nostro Signore; ma dovete avere i pensieri, le parole, le
azioni di nostro Signore. Voi dovete essere missionari nella testa,
nella bocca e nel cuore». (CS III, 16). E ancora, motivando i giovani a
prepararsi bene per la vita sacerdotale e missionaria, dice: «È questo,
d’ora in poi, tutto il vostro dovere: rivestirsi del Signore Gesù
Cristo» (CS I, 443).
Certamente, l’Allamano vede in Paolo quello che gli piacerebbe vedere
in ciascuno dei suoi missionari. Perciò ricorda loro una frase
dell’apostolo particolarmente significativa in questo contesto: «Siate
miei imitatori, come io stesso lo sono di Cristo» (1Cor 11, 1 in CS
III, 31).

Negli insegnamenti dei maestri di spiritualità di tutti i tempi
incontriamo un uso abbondante del linguaggio simbolico o allegorico. Lo
stesso succede con l’Allamano. Nella conferenza tenuta alle missionarie
il 21 febbraio 1920, traccia una bozza del suo cammino formativo.
L’ideale che propone è la santità, attraverso l’assimilazione dello
spirito di Cristo; che questo spirito: «Subito s’impossessi di tutta
l’anima nostra. Pervada: vuol dire che entri nelle nostre vene; faccia
come il pane, che si mangia, si digerisce, poi passa nel sangue e
questo va nelle vene (…). In modo che siamo noi, ma non siamo più noi,
come disse S. Paolo: “Vivo io, non più io, vive in me Gesù Cristo”»
(CSS III, 39). L’Allamano legge questa frase di S. Paolo ai Galati (Gl
2, 20) come espressione di un’unione esistenziale con Cristo tale che
l’apostolo sente la sua vita permeata dal Signore. Grazie alla sua
presenza nella vita di Paolo, Cristo è per l’apostolo un nuovo
principio di azione, parte intrinseca della sua identità e parte
costitutiva del dinamismo della sua personalità. Realtà, questa, che
l’Allamano esprime con la frase: «Farsi una sola cosa – con Cristo»
(CSS II, 304).

Altra frase di particolare interesse fu pronunciata dall’Allamano nella
conferenza alle suore del 1 dicembre 1918: «Affetti. È lì il punto…
Il nostro cuore se vive di fede fa le cose diversamente. S. Paolo era
tutto di Gesù, viveva di Gesù… Vivo, ma non sono io che vivo, è
Cristo che vive in me… Io vivo solamente nel Signore» (CSS II, 432).
In primo luogo, la frase ci mostra che per il fondatore gli affetti
hanno una dimensione particolarmente importante nella vita spirituale.
L’espressione: «Ecco il punto» richiama l’attenzione su un elemento
centrale, di particolare importanza. In secondo luogo, ed è quello che
più ci interessa, con questa frase l’Allamano continua a spiegare la
relazione di Paolo con Cristo. Dato che l’apostolo è visto per Allamano
come un modello speciale che egli invita i suoi discepoli a imitare,
possiamo dire che, in verità, egli si serva di Paolo per parlare della
relazione di ogni cristiano con il Signore. A livello di contenuto, la
frase fa riferimento a una relazione molto intima al punto da poter far
dire a Paolo: «Il Signore vive in me». Così come il cristiano partecipa
di tal forma della vita di Cristo, al punto da poter dire: «Io vivo nel
Signore».

Considerando entrambi questi elementi, così come li cogliamo nei testi
dell’Allamano, potremmo dire che l’esperienza di fede coinvolge la
persona nella sua totalità.  «La nostra fede se non si dimostra
nelle opere è fede morta (…) La fede dev’essere il principio e la
regola dei nostri sentimenti, delle azioni e di tutta la nostra vita»
(CS III, 264). Il che consiste, in primo luogo, in una esperienza di
amore alla persona di Cristo e nell’unione esistenziale con lui; questo
è l’elemento fondamentale dal quale nascono gli altri. Tale elemento
appare di forma particolarmente chiara nella sua conferenza alle suore
del 29 giugno 1917. Punto di riferimento è nuovamente Paolo, l’apostolo
delle nazioni, nel quale individua particolarmente accentuate due
virtù: «Insomma tutte le virtù le aveva, ma le due principali furono:
l’amore verso Gesù Cristo e le anime. Tutti i momenti nelle epistole
nomina Nostro Signore. Lo nominava con gusto, si vedeva che per lui era
tutto… Diceva: “Non sono mica io che vivo, io sono un fantasma, è
Gesù Cristo che vive in me”» (CSS II, 104).
L’Allamano, pertanto, riconosce in Paolo un cuore che vibra per il suo
Signore e questo amore costituisce un motivo fondamentale della sua
adesione a lui. Il suo è un amore totale e viscerale, per Cristo e per
l’umanità (CS III, 115). L’Allamano coglie la centralità di Cristo
nella vita di Paolo, il fondamento, a partire dal quale l’apostolo
organizza tutta la sua esistenza. Da questa relazione, come normale
conseguenza, nascono le opere. Quando Cristo vive in noi in forma
permanente, la sua presenza viene automaticamente resa esplicita dal
nostro agire (CSS II, 105). Ciò significa che, vivendo in noi, Cristo
agisce in noi e attraverso di noi (CSS I, 420).
Dentro questa prospettiva del «rivestirsi di Cristo», ci sono alcuni
elementi verso i quali Allamano orienta in modo particolare
l’attenzione dei suoi missionari.
Innanzitutto, nota come Cristo viveva in forma armoniosa un’intensa
attività apostolica e un’intensa intimità con il Padre, manifestata in
modo particolare nel silenzio e nella orazione (CSS I, 265).
In secondo luogo ricorda che lo stesso Gesù chiese di essere imitato
nell’umiltà e nella mansuetudine: «Imparate da me che sono mite e umile
di cuore». Sottolinea come  la mansuetudine abbia caratterizzato
costantemente tutto il ministero apostolico di Cristo e vuole che
diventi un’attitudine che marchi vita e attività dei suoi missionari:
sa, l’Allamano, che qualsiasi tipo di violenza costituisce un ostacolo
per l’evangelizzazione.
Terzo, il fondatore si associa alla meraviglia delle tante persone che
presenziando quanto Gesù realizzava nelle sue opere, pieni di
ammirazione esclamavano: «Ha fatto bene ogni cosa» (Mc 7,37).
Nell’esegesi attuale si identifica questa frase dell’evangelista Marco
come un’allusione al libro della Genesi (Gen 1,31), attraverso la quale
l’autore vuole presentare l’opera di Gesù come una nuova creazione. Le
parole dell’Allamano non puntano verso questa interpretazione. Al
contrario, mettono in evidenza il fatto che, dall’incarnazione al
Calvario, Gesù vede tutta la sua vita in perfetta sintonia con la
volontà del Padre. Per questa ragione, il fondatore insiste che «non
basta fare il bene, ma farlo bene; cioè che ogni nostra cosa anche
buona sia fatta nel retto fine e con tutte le circostanze volute da
Dio» (CS II, 669).
Questa frase fa riferimento a due elementi fondamentali: la retta
intenzione e la sintonia con la volontà di Dio. Fare il bene ben fatto
implica un’attitudine spirituale eucaristica: tutte le nostre azioni se
vogliamo farle bene dobbiamo farle per lui, con lui e in lui (CSS II,
305).
«Far bene il bene» si riferisce anche alla dimensione materiale delle
opere. Un accumulo eccessivo di lavoro, per esempio, può impedire di
fare questo lavoro bene. A questo riguardo, l’Allamano si mostra
contrario ad assumere territori di missione sproporzionatamente estesi.
Vuole, invece, che i suoi si limitino a prendersi cura di territori a
cui possano poi offrire adeguata assistenza. Non gli importa che siano
fatte molte cose, ma che quello che si fa sia fatto bene.
Quando l’Allamano parla di «imitazione di Cristo», non intende una
copia materiale del suo comportamento o una mera ripetizione delle sue
azioni. Questa espressione indica, al contrario, un’intima
partecipazione del cristiano alla vita di Cristo e, nello stesso tempo,
di Cristo nella vita del cristiano.
Molte volte, suggerisce ai suoi che si chiedano: «Che cosa farebbe
Cristo se si trovasse al mio posto?». Questa domanda, nella sua estrema
semplicità, riconosce che la vita cristiana esige un costante
discernimento. Spinge a conoscere il cuore di Cristo, il suo modo di
sentire e di relazionarsi con la vita, con gli altri e con il Padre,
facendo proprie le sue attitudini fondamentali. Saranno poi esse a
determinare il nostro comportamento nel contesto in cui viviamo,
inevitabilmente diverso da quello in cui visse Gesù e, quindi,
bisognoso di un approccio differente.
In altre parole potremmo dire che vivere di forma adeguata
all’esperienza di rivestirsi di Cristo comporta, in primo luogo,
l’assumere pienamente la dimensione storica della propria esistenza.
Ciò vuol dire che il cristiano vive inserito nel suo tempo, nel suo
mondo ma, nello stesso tempo, in costante riferimento alla persona di
Gesù. Questo lo porta a vivere come lui, ma nel proprio contesto
socio-culturale e storico. Un continuo discernimento diventa, quindi,
condizione essenziale per la realizzazione di una vita cristiana.
Questa infatti, per potersi considerare tale, deve essere vissuta non
al margine, ma inserita nelle tensioni e difficoltà caratteristiche
della storia: «Voi siete il sale della terra e la luce del mondo» (Mt
5,13).
Gesù, Dio e uomo, non rifiutò nulla di quello che è pienamente umano.
L’incarnazione mostra che non esiste opposizione fra il mondo di Dio e
il mondo degli uomini e qualsiasi tipo di dualismo che tenda ad opporsi
a queste due realtà non è autenticamente cristiano. Senza perdere di
vista che il tempo ancora deve raggiungere la sua pienezza e solo
allora la configurazione con Cristo risuscitato sarà pienamente
raggiunta. 

Luiz Balsan

Luiz Balsan è un missionario della Consolata brasiliano; dottore
in teologia, professore di spiritualità, attualmente è rettore del
seminario filosofico della Consolata di Curitiba. Collabora alla
rivista Missoes.

Abbreviazioni:
CS: Conferenze Spirituali
CSS: Conferenze Spirituali alle Suore

Luiz Balsan