Cari Missionari

A proposito di Noma

Caro Direttore,
da anni sono abbonata alla vostra rivista, che apprezzo molto. Sul numero di giugno 2006 ho letto con interesse e immenso dolore l’articolo sui bambini colpiti da quella terribile malattia di cui non conoscevo l’esistenza: il cancro orale o noma.
Voglio assolutamente fare qualcosa per loro e aiutarli in qualche modo. È mio intendimento inviare un’offerta per le cure necessarie, ma non so se inviarla direttamente all’ospedale della Nigeria (Sokotho) oppure al vostro istituto di Torino. Sarei grata se mi indicaste la via giusta. Attendo quindi una gentile risposta.
Maria Grisa
Bussoleno (TO)

Cara Redazione,
sul numero di giugno 2006, ho letto della malattia dimenticata denominata «noma». Mi ha molto colpito la sua gravità e incidenza sui bambini.
Desidero conoscere se qualcuna delle vostre missioni si interessa di questi casi, per concordare un possibile progetto di sostegno da offrire come attenzione ai nostri bambini e adulti nei prossimi mesi. Grazie e buon lavoro per una rivista concreta e attenta all’evangelizzazione.
Padre Silvano Porta Omv
Pantelleria (TP)

Appena ricevuta la lettera della signora Maria Grisa (inizio di luglio), inviai e-mail a tre dei nostri ospedali, domandando se avessero casi di «noma» e se li curassero nei loro ospedali. Il dottore di Gambo (Etiopia), rispose immediatamente, dicendo che da una decina di anni non riscontrano casi del genere e, qualora ve ne fossero, possono solo fermare il male; per la riparazione devono portare il malato ad Addis Abeba. Dagli altri ospedali sto ancora aspettando una risposta.
A settembre ho posto le stesse domande al vescovo di Maralal (Kenya), mons. Virgilio Pante, che ha interpellato i dottori dell’ospedale di Wamba e mi ha dato la seguente risposta: nel territorio ci sono alcuni casi di «noma» e vengono curati in detto ospedale.
Per cui, chi volesse contribuire alla loro cura, può servirsi del nostro ccp (vedi ultima pagina della rivista) specificando la causale: «Ospedale di Wamba – malati di noma».

Troppa grazia…!

Cari missionari,
sono tornato in Italia dopo 4 mesi trascorsi come volontario ospedaliero a Nkubu (Kenya). Ho avuto occasione di vedere il lavoro che avete fatto e tutt’ora state facendo in quella parte di  Africa: avete portato non solo il vangelo, ma anche la civiltà nella sua espressione migliore. Parlare di Consolata Mission significa dire: scuole, ospedali, chiese e tante altre belle cose. Dirvi bravi è troppo poco. Avete fatto un lavoro grandioso agli occhi del mondo e di Dio; specialmente le vostre suore sono dei veri angeli.  
Mi piacerebbe leggere  la vostra rivista missionaria. Vi abbraccio frateamente tutti e vi dico: Asante sana, Bwana Mungu Baba ietu akubariki (grazie tante; il Signore Dio nostro Padre vi benedica).
Giulio Zucca
Genova

Tanta ammirevole simpatia ci impegna a continuare nella nostra missione e a non deludere le aspettative di Dio e della gente a cui ci manda. Grazie e continui nel suo spirito di servizio missionario: per questo abbiamo provveduto a inserire il suo nome nella lista dei nostri abbonati.

Incatenato…
alle missioni

Caro Direttore,
per tanti anni sono stato… missionario delle missioni della Consolata e sento di esserlo ancora. Ma ora vivo nella casa di riposo e non so come regolarmi con la rivista Missioni Consolata: per mia parte sospendo l’abbonamento (ma in questi giorni farò pervenire ancora un mio saluto… economico). Vi prego, però, di un favore: sentitemi sempre un missionario della Consolata e pregate per me che mi sono ritirato in questa casa per prepararmi a una santa morte.
Ma devo essere sincero: una mia collaboratrice, quando presiedevo l’Ufficio missionario diocesano, mi ha rapito e, anche se rimango a Maruggio, mi ha incatenato con le catene dell’amore alla missione di Iringa (Tanzania), dove essa svolge il suo compito di volontaria. Mi ha addirittura iscritto a far parte del presbiterio diocesano, così che il carissimo mons. Tarcisio Ngalalekumtwa si prende il mio respiro e il mio cuore… In ottobre 2005 ho avuto il piacere di averlo a cena a Maruggio, dove ero ancora parroco.
In conclusione, il beato Allamano con la sua immagine mi accompagna sempre nella recita del breviario. Allora sono e sarò sempre missionario della Consolata. In Cristo,
don Salvatore Gennari Maruggio (TA)

Abbiamo provveduto a cambiare il suo nuovo indirizzo e continueremo a inviarle la nostra rivista. Le sue preghiere e il suo affetto per le missioni e per i missionari della Consolata sono un compenso più che adeguato. Continueremo a sentirla dei nostri. Gradisca anche lei il nostro affetto e gratitudine per quanto ha già fatto a favore dei nostri missionari.

Benedetta croce!

Reverendo Direttore,
ho apprezzato molto il dossier sull’Etiopia pubblicato nel numero di aprile 2006. Veramente interessante. Ringrazio anche i suoi collaboratori per questa ulteriore conoscenza.
L’interesse è stato maggiore quando ho letto alcuni passaggi, come quello che descrive come ogni prete o monaco porti la croce manuale sotto la tunica, e l’altro che racconta del passaggio del testimone nella parrocchia di Asella, per 24 anni evangelizzata dai missionari della Consolata, ora consegnata al clero locale. Quelle pagine mi hanno fatto rivivere con gioia e nostalgia la santa messa a cui ho partecipato nella vostra chiesa, il 23 ottobre 2005, Giornata missionaria mondiale. Due ospiti religiosi erano stati invitati a dare la loro testimonianza. Uno di essi era africano. Si presentò dicendo di chiamarsi abba Ghebremariam Amante, viveva ad Addis Abeba. Trovandosi a Roma per il suo 50° anniversario di ordinazione, era venuto a Torino per manifestare la sua stima e gratitudine per la lunga amicizia che lo lega ai missionari della Consolata. Era stato battezzato da un vostro missionario. Concluse benedicendoci con la sua croce etiopica.
In molti uscendo abbiamo salutato e ringraziato, commossi e ammirati, questo abba per la sua bella testimonianza e la sua benedizione. Sono certa che anche altri, leggendo il vostro dossier, avranno ricordato con simpatia abba Ghebremariam.
Rita Simonato
Torino

Grazie anche per questa sua testimonianza, con l’augurio di vivere ancora tanti altri momenti di gioia, sia leggendo la nostra rivista che incontrando i nostri missionari.

Reverendo Direttore. Leggo con piacere la sua rivista, che mi viene passata da un parente, dopo che a sua volta l’ha letta. Vorrei chiederle, se lo ritiene utile, di dare alcune precisazioni, sulla rivista, in merito all’articolo a firma Aldo Antonelli, pagina 66 del numero di luglio-agosto 2006. Verso la fine della prima colonna, egli osserva: «…sono stati sostituiti con personaggi grigi e ultraconservatori “polonizzando” la chiesa, ecc., ecc.». Poche righe oltre, accenna a «una religione tutta e solo intimistica, legata a figure problematiche di “santi” quali Padre Pio e Josemaria Escrivà…».
Subito ho pensato al classico prete-compagno e stavo per archiviare mentalmente il tutto quando però la curiosità ha preso il sopravvento. Se Missioni Consolata l’ha pubblicata, vuol dire che ne condivide lo spirito. Sia chiaro, io non ho particolare interesse a conoscere le diatribe tra preti di destra o di sinistra, ma avrei invece curiosità di chiarire quanto segue: «Polonizzando», riguarda una critica a Giovanni Paolo ii? Se sì, quale o quali? Figure problematiche di «santi»: evidentemente, virgolettando il termine santi, vuol dire che non condivide il giudizio della chiesa sulla loro santità, tanto è vero che prima li definisce figure «problematiche». Per quale motivo non li considera autentici santi?
Vorrei ribadire che non so se l’autore dello scritto ha ragione o no, non ne conosco le sue motivazioni; ma ritengo che dovrebbe chiarire il tutto lei, come direttore della rivista. Potrebbe nascee un serio confronto tra posizioni diverse e, comunque, un approfondimento di tematiche e posizioni.
Capisco che per lei questo possa essere un piccolo fastidio, ma non credo che lei abbia solo intenzione di pubblicare lettere maxi-elogiatorie nei confronti del suo mensile, ma che sia aperto anche a tematiche più scottanti. Altrimenti, mi scusi la franchezza, sarebbe come tirare un sasso e poi nascondere il braccio, cosa indegna per chiunque e della quale non la ritengo capace.
Ritoo a dire che il mio scritto non ha in sé alcuna polemica. Il fatto che scrivo a lei è dovuto alla convinzione che se il rev. Aldo Antonelli avesse espresso posizioni contrarie alla fede cattolica o altro, lei non le avrebbe pubblicate. Pubblicando invece le sue critiche, vuol dire che in esse vi ha trovato del vero e ritengo che i suoi lettori meritino anch’essi di conoscere il suo pensiero.
Agostino Cariano
Genova

Leggendo la sua lettera, all’inizio pensavo di girare la patata a don Antonelli, autore dello scritto in questione; ma, proseguendo la lettura, vedo che sono proprio io chiamato a «chiarire» la sua «curiosità». Lo faccio volentieri, dicendo soprattutto cosa mi viene in mente leggendo tale articolo.
È chiaro che, sostanzialmente, ne condivido il contenuto, anche se, personalmente, avrei usato un vocabolario più sfumato: «normalizzando» anziché «polonizzando»; vescovi «meno profetici» invece di «grigi e ultraconservatori»; «frenata» al Concilio invece di «bavaglio» (frase non citata).
In fatto di «normalizzazione» mi viene in mente la chiesa in Brasile, con le voci profetiche di Helder Camara, Evaristo Has e tanti altri vescovi, talora messe a tacere o sostituite con voci meno scomode. Incontrai, poco tempo prima della sua scomparsa (2004), il vescovo di Roraima, mons. Apparecido Dias, che, parlando dei vescovi brasiliani impegnati nel portare avanti le idee del Concilio, mi diceva: «Siamo ancora in maggioranza, ma siamo rimasti troppo pochi».
Tale «normalizzazione» non è attribuibile solo a Giovanni Paolo ii, che non poteva conoscere tutti i candidati vescovi, ma anche e soprattutto a coloro che gli sono stati attorno. Da parte mia ho grande stima del defunto pontefice, anche se non sono tra coloro che gridano «santo subito!».

Per quanto riguarda Padre Pio e Josemaria Escrivà, né l’articolista né io dubitiamo della loro santità: siamo certi che sono santi (senza virgolette) in paradiso, insieme ad altri che vedrei più volentieri innalzati agli onori dell’altare, come Oscar Romero. Tra l’altro, il libro del fondatore dell’Opus Dei, «Cammino», è stato anche un mio nutrimento spirituale, quando ero ancora studente di teologia.
Tuttavia, ciò che l’autore dell’articolo mette in questione, e io condivido pienamente, è l’opportunità o meno di proporre tali «santi» (rimetto le virgolette), e così in fretta, all’imitazione della chiesa universale;  e questo non solo per non favorire «una religione tutta e solo intimistica», come scrive don Antonelli, ma anche per rispetto della loro santità, soprattutto quella di Padre Pio, invocato come protettore da attricette e da mafiosi, come un certo Provenzano.




Batterio dai molti misteri

In viaggio tra malattie e sottosviluppo

L’Organizzazione mondiale della sanità la definisce una delle malattie tropicali più dimenticate, ma curabile. Di solito non è mortale, ma le conseguenze dell’infezione possono essere devastanti e debilitanti: le parti del corpo colpite dall’infezione rimangono deformate, limitando l’autonomia e la vita dei malati.
Nell’Africa occidentale un malato su quattro rimane con disabilità permanenti, e nella maggior parte dei casi si tratta di bambini.

La famiglia dei micobatteri
Il germe responsabile dell’ulcera di Buruli è un micobatterio (Mycobacterium ulcerans), della stessa famiglia dunque dei batteri che provocano la tubercolosi e la lebbra. Ma di Mycobacterium ulcerans (M. ulcerans) e delle conseguenze della sua infezione si parla ancora meno. Produce una tossina chiamata miconolattone, isolata soltanto alla fine degli anni ‘90, che svolge un ruolo nella distruzione dei tessuti e dell’osso e interferisce con il sistema immunitario.
Il M. ulcerans è presente nell’ambiente, ma vi sono ancora diversi punti oscuri sulla sua distribuzione e trasmissione. Sembra essere collegato ad ambienti umidi, tropicali, in prossimità dell’acqua. È stato visto, per esempio, che profughi rwandesi rifugiatisi in Uganda, in campi in prossimità del Nilo, hanno iniziato a manifestare la malattia, assente nel loro paese, ma quando si sono spostati in altre zone, non vi sono stati più nuovi casi.
Rimane sconosciuto il modo in cui l’ulcera di Buruli viene trasmessa all’uomo ed è sotto studio il ruolo di insetti o di altri fattori nella trasmissione. In particolare, se venissero confermati i dati di alcune ricerche che hanno trovato collegamenti con insetti acquatici e zanzare, si tratterebbe della prima malattia nota da micobatterio trasmessa da insetti. Non sembra comunque esserci un passaggio da uomo a uomo e nemmeno una maggiore facilità a infettarsi in persone con l’Hiv, al contrario di quanto accade con la tubercolosi, anch’essa causata, come detto prima, da un micobatterio.

Ulcerazioni della pelle
L’ulcera di Buruli si può manifestare in entrambi i sessi e a tutte le età, anche se la maggior parte delle persone infettate ha meno di 15 anni. Le lesioni possono presentarsi in ogni parte del corpo, ma in 9 casi su 10 vengono colpiti gli arti, e circa il 60% di tutte le ulcere si manifesta alle gambe.
Anche se la mortalità per questa malattia è bassa, sono numerose e importanti le conseguenze dell’infezione sulla vita dei malati, anche una volta arrivata a guarigione.
L’ulcera di Buruli inizialmente si manifesta con un rigonfiamento mobile della pelle (nodulo) che non è causa di dolore. Progredisce senza sintomi, quali febbre o dolore, per l’azione della tossina prodotta dal batterio (miconolattone) o forse anche per altri meccanismi non conosciuti; i malati si sentono bene in generale; e questo porta a un ritardo nella diagnosi, perché non richiedono subito visite o trattamenti.
Compaiono poi ulcere, con distruzione dei tessuti e bordi profondi, scavati. Talvolta viene colpito anche l’osso, con conseguente deformità; in un paziente su quattro circa, dopo la guarigione della malattia, con la cicatrizzazione delle lesioni, restano limitazioni ai movimenti degli arti e disabilità permanenti.

Conseguenze nel tempo
La diagnosi è in genere clinica; non sono necessari, se non di rado, accertamenti di laboratorio: basta l’esperienza degli operatori sanitari nella zona dove la malattia è presente.
La terapia si basa su antibiotici, sulla chirurgia per rimuovere il tessuto distrutto dall’infezione e riparare le lesioni della pelle e le deformità, su ulteriori interventi per ridurre o prevenire l’insorgenza di disabilità legate agli esiti cicatriziali delle ulcere.
Molti pazienti nei paesi poveri arrivano alla diagnosi e al trattamento troppo tardi, quando la malattia è in stadio avanzato. Di conseguenza, il suo impatto sulle poche strutture sanitarie presenti nei paesi in cui l’ulcera di Buruli è presente, è enorme dal punto di vista dei costi.
Spesso sono necessari ricoveri in ospedale di oltre tre mesi, con conseguente mancanza di produttività, quando si tratta di pazienti adulti e capi famiglia, o interruzione degli studi nel caso dei più piccoli. Vi è inoltre il carico dovuto alle disabilità permanenti, che richiedono cure anche dopo l’intervento e fisioterapia e limitano le possibilità di lavoro dei pazienti.

Alla luce
dopo un lungo silenzio
La storia di questa malattia tropicale è di lunga data, ma l’attenzione intorno all’infezione e alle sue conseguenze è arrivata solo in tempi recenti. Nel 1997 l’allora direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità, Hiroshi Nakajima, dopo aver visto gli effetti devastanti dell’ulcera di Buruli sulla pelle di pazienti in Costa d’Avorio, ha annunciato l’organizzazione di sforzi inteazionali per contrastare l’infezione. L’anno successivo è nata l’iniziativa globale contro l’ulcera di Buruli (Global Buruli Ulcer Initiative, Gbui) ed è stata organizzata la prima conferenza internazionale dedicata al controllo e alla ricerca sulla malattia.
Lo scopo della Gbui, cui partecipano oltre 40 organizzazioni non governative, istituti di ricerca e fondazioni, è cornordinare gli sforzi nel campo della ricerca e del controllo dell’ulcera di Buruli.
Infine, nel 2004, nell’ambito dell’Assemblea mondiale della sanità (World Health Assembly), la malattia è stata oggetto di una risoluzione che richiede, oltre a maggiore sorveglianza e controllo, una intensificazione delle ricerche per sviluppare strumenti di diagnosi, trattamento e prevenzione.
Qualcosa si muove dunque, rispetto al silenzio del passato, e apre la porta alla speranza di nuove conoscenze e possibilità per curare la malattia e contrastae la diffusione.

Valeria Confalonieri


Valeria Confalonieri




La parabola del «figliol prodigo» (5)

Il mestiere di Dio: è il perdono, sempre e comunque
«Getta sul Signore il tuo affanno ed egli ti darà sostegno» sal 53

Se guardiamo attentamente i comportamenti dei due figli della parabola lucana, ci accorgiamo subito che ci svelano due figure speculari che si integrano e si illuminano a vicenda: l’uno mette in risalto la figura dell’altro e tutti e due insieme fanno da sfondo e contrasto a quella del padre.

Amore sconfinato e insufficiente
Ma il padre, nonostante i suoi sforzi, non riesce a fare incontrare i due fratelli, che, stando alla parabola, non si riconciliano; non riesce a farli abbracciare e vede incrinata la gioia che aveva nel cuore, pregustando il sapore di una famiglia di nuovo riunita e felice.
La parabola, infatti, resta sospesa sull’atteggiamento del padre che è giornioso di avere recuperato il figlio che credeva morto; ma è atterrito dall’atteggiamento del figlio maggiore, che gli è sempre stato accanto, ma da estraneo, interessato solo all’eredità e geloso del fratello minore, di cui avrebbe preferito la morte. L’amore immenso del padre resta come un macigno tra i due fratelli; ma specialmente il maggiore non sa o non vuole approfittare del momento di grazia.
Per essere capace di amare, bisogna lasciarsi amare e perdersi tra le braccia di un amore gratuito. Il minore, schiacciato dalla colpa, si lascia travolgere dall’amore del padre; il maggiore non può: è troppo pieno di sé e della sua presunzione di essere sempre stato «il figlio buono».

Per eccesso o per difetto
Per ragioni diverse tutti e due i figli hanno impostato la vita attorno alla «roba», lasciandosi abitare da falsi problemi o, peggio, «da cose»; non si sono accorti che il tempo passava e il vuoto aumentava e tutti e due si allontanavano dal padre: uno andandosene lontano e l’altro restando in casa.
Non basta stare fisicamente in una casa per essere famiglia; non è sufficiente essere in un gruppo per fare comunità. Famiglia e comunità sono eventi del cuore, scelte dell’anima, non meccanismi per risolvere i problemi personali. Si può stare insieme agli altri ed essere soli; fare folla senza condividere nulla. Si può vivere in una comunità una vita intera e restare isolati nel proprio egoismo.
Se si dovesse dare una misura di colpevolezza, sarebbe difficile dire chi dei due figli sia più colpevole, almeno inizialmente, perché alla fine della parabola la colpa del figlio maggiore supera di gran lunga quella del figlio minore. I due fratelli di sangue, ma non di anima, hanno un elemento in comune: di fronte alla scelta tra la vita e la morte, tutti e due hanno preferito la morte, il giovane scambiandola per la vita indipendente, il maggiore per grettezza ed egoismo. In loro si realizza alla lettera la parola della scrittura che dice: «Davanti agli uomini stanno la vita e la morte; a ognuno sarà dato ciò che a lui piacerà» (Sir 15,17; cf Dt 30,15.19; Ger 21,8).
È sempre meglio non peccare; ma se uno pecca è preferibile chi pecca per eccesso di colui che pecca per difetto. Il primo pecca per errore di valutazione e comunque per amore debordante, anche se sbagliato; il secondo pecca per grettezza e insufficienza di anima, perché incatenato alla golosità del suo egoismo.

Da Adamo a Davide
Allargando lo sguardo alla scrittura nel suo complesso, vediamo che il comportamento dei due figli in Lc non è una «sindrome» isolata, ma un’epidemia che segna la storia della salvezza fin dalle origini. Già nel giardino di Eden, Adamo ed Eva si accusano a vicenda, scaricandosi addosso reciprocamente il barile delle proprie responsabilità e tutti e due «disobbediscono» a Dio, loro padre (Gen 12,13), fino a nascondersi dalla sua presenza (Gen 3,10), con la conseguenza che sono cacciati «fuori» dal giardino della pateità (Gen 3,23-24).
L’esempio dei genitori cade a valanga: Caino e Abele arrivano fino alla morte per gelosia (Gen 4,8). Anche il primo omicidio si compie «nei campi», fuori dalla pateità.
I fratelli di Giuseppe sono gelosi del fratello minore, che considerano un arrogante concorrente per l’eredità, e arrivano a concepire un fratricidio pur di disfarsene; ma poi ripiegano su altra soluzione: lo vendono a mercanti madianiti che lo portano «fuori» in terra straniera, in Egitto per venderlo come schiavo (Gen 27,28-29).
Nella lotta per la successione a Isacco, il figlio minore Giacobbe riesce a ingannare il fratello Esaù, primogenito a cui la legge riconosce il diritto di erede (cf Gen 27).
Tamar, l’incestuosa nuora di Giuda e antenata di Gesù (Mt 1,3), partorisce due figli, ma il secondo, Perez, già nel grembo materno soppianta il fratello Zerach, che avrebbe il diritto legale di essere il primogenito (cf Gen 38,27-30).
Per la successione al trono del re Saul, tra otto fratelli, Dio non sceglie il primogenito, il più prestante o appariscente, ma il giovane Davide, l’ultimogenito, mite e innocuo pastorello. Egli addirittura è scelto mentre non è assente alla cerimonia d’investitura (cf 1Sam 16,1-13).
Tutti questi personaggi hanno in comune un dato con la parabola lucana: il figlio minore prevale sul fratello maggiore, anche contro il diritto e consuetudine. Non è il diritto che conduce la storia della salvezza, ma la gratuità con cui Dio sceglie i suoi inviati, attraverso criteri che esulano da quelli umani. Il comportamento di Dio può apparire ingiusto agli occhi degli uomini, perché questi agiscono in base a un principio cieco di diritto, mentre Dio guarda alle ragioni del cuore e consistenza dell’anima.
Il figlio maggiore della parabola lucana appare il «figlio buono», perché è rimasto in casa accanto al padre, mentre agli occhi del mondo il figlio minore è una pecora nera, perché ha abbandonato il padre, spezzandogli il cuore. A guardare bene però, con gli occhi della verità dell’esistenza di ciascuno, la situazione si capovolge: il figlio che è «fuori» ha il padre nel cuore, mentre il figlio che è «dentro» ha il cuore nella «roba».

Disperde i superbi, innalza gli umili
In questo contesto, la parabola lucana è una cartina di tornasole della storia della «nuova alleanza»: descrive e illustra che Gesù è venuto ad abolire la distinzione tra «dentro» e «fuori» per dare diritto di figliolanza a tutti coloro che ne sono esclusi dalle leggi di purità, dai pregiudizi religiosi o dalla presunzione di chi si ritiene «puro» e considera se stesso come l’ombelico del mondo.
Così pensa e agisce il figlio maggiore, quando rispondendo al padre dice sprezzante: «Ora che questo tuo figlio che ha divorato i tuoi averi con le prostitute è tornato, per lui hai ammazzato il vitello grasso» (Lc 15,30). Non è «suo fratello», ma solo figlio di suo padre. Il «puro» che presume di essere giusto non ha nulla da spartire con uno che è andato a prostitute, non vuole sporcarsi con il fratello che reputa «peccatore immondo». Non si accorge che, mentre il fratello minore ha lasciato le prostitute nel «paese lontano», egli, il «puro», porta nel suo cuore il virus della prostituzione, perché è tutta la sua vita a essere prostituita.
È il capovolgimento della situazione descritta nel Magnificat: «Ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato a mani vuote i ricchi» (Lc 1,53). Il comportamento di Dio è la rivoluzione dei sistemi su cui si regge il mondo degli uomini: chi non ha diritto, è accolto; chi è escluso, è accettato; chi è condannato, è salvato; chi non conta vale; chi crede di contare è espulso.
Con questa parabola Lc descrive il comportamento «scandaloso» di Gesù, che accoglie gli avanzi della società: «Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo» e volutamente lo oppone all’atteggiamento dei farisei e scribi, che «mormoravano: costui riceve i peccatori e mangia con loro» (vv. 1-2; cf Mt 9,11).
Nulla c’è della logica umana nel comportamento del Figlio dell’uomo, venuto perché nulla si perda di quanto il Padre ha affidato alla sua tenerezza (Gv 6,39). Se da una parte il figlio minore rappresenta l’umanità marginale, che istituzioni e potere escludono anche dall’orizzonte di Dio, perché confondono la propria miseria con la volontà di Dio, il figlio maggiore è il degno rappresentante di chi crede in un Dio costruito a propria immagine e somiglianza e usato come strumento di discriminazione ed esclusione per fare della chiesa una sètta di puri, cioè di senza Dio.

Novità del dio scandaloso
La parabola dei due figli è parallela a quella del fariseo e del pubblicano (Lc 18,9-14). Essi si recano al tempio per pregare, ma ritornano a casa a ruoli invertiti: l’atteggiamento del fariseo corrisponde a quello del figlio maggiore, mentre quello del pubblicano è identico a quello del figlio minore. Ne leggiamo il testo:
«Disse ancora questa parabola per alcuni che presumevano di essere giusti e disprezzavano gli altri. Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore. Io vi dico: questi toò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro, perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato» (Lc 18,10-14).
Nell’interpretazione di questa parabola, molti si fermano alla superficie. Non si tratta, come potrebbe apparire a prima vista di un insegnamento sulla preghiera, che deve essere umile e non presuntuosa. C’è anche questo sullo sfondo, ma non deve oscurare l’insegnamento primario che è la proclamazione di una costante nell’agire di Dio in quanto Dio. Gesù non viene ad annunciare un «Dio nuovo», diverso da Yhwh, Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe (Es 3,6); ma viene a rivelare, a raccontare (Gv 1,18) la natura intima di questo Dio, i cui comportamenti sono molto diversi da quelli dell’uomo.
La parabola espone in modo drammatico il concetto di giustizia come viene applicato da Dio: Dio è giusto perché salva. In Dio giustizia e misericordia s’identificano, tanto da potere dire che Dio è giusto perché salva e salva perché è giusto. Tale «natura» di Dio, che la scrittura aveva codificato (Sal 33,5; 36,11; 40,11; 85,11; 88,15; 103,17; Sir 35,23), si è offuscata nel corso della storia mano a mano che l’uomo si allontanava da lui e si faceva un’immagine di Dio sempre più conforme alle sue idee e al suo immaginario.

Fariseo/figlio maggiore,
figlio minore/pubblicano
La parabola del fariseo e pubblicano è ambientata al tempio, simbolo di Dio stesso, quasi a dire che lo stesso Dio si fa garante dell’autenticità dell’insegnamento di Gesù, «nuovo» e sconvolgente per il contesto in cui viene fatto: un peccatore che si pente è più gradito a Dio di un superbo che si crede giusto e frequenta il tempio, fa offerte generose e si dedica alla beneficenza. Dio non si può comprare perché nessuno lo può vendere.
Dietro al pubblicano pentito in fondo al tempio e al fariseo gradasso davanti alla balaustra si oppongono due concetti di giustizia: quella umana e quella di Dio. Il principio è codificato dallo stesso Lc nel criterio generale: «Egli disse (ai farisei): voi vi ritenete giusti davanti agli uomini, ma Dio conosce i vostri cuori: ciò che è esaltato fra gli uomini è cosa detestabile davanti a Dio» (Lc 16,15). Osservare tutte le prescrizioni religiose, partecipare ai riti di culto, dare denaro in beneficenza non rende necessariamente giusti davanti a Dio. A volte aumenta il peccato.
Il fariseo non chiede nulla; apparentemente ringrazia solo e dichiara la sua gratitudine a Dio per la sua benevolenza e benedizione. È lo stesso atteggiamento del figlio maggiore che dichiara di avere dedicato tutta la vita al servizio del padre, senza chiedere neppure un capretto per fare festa con gli amici. Chi potrebbe condannare un simile atteggiamento? Il fariseo del tempio è il figlio maggiore.
Al contrario, il figlio minore è scappato di casa, ha peccato, ha dissolto il suo patrimonio, è diventato impuro tra gli impuri; torna e, secondo la giustizia umana, non avrebbe diritto a nulla. Egli stesso pensa di essere escluso dalla giustizia patea, quando dice nel suo intimo: «Mi alzerò e andrò da mio padre e gli dirò: non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni» (Lc 15,18-19). Il figlio minore ha coscienza di essere diventato servo, cioè uomo senza diritti. Non ha diritto alla giustizia e se il padre lo cacciasse di sua iniziativa lontano da sé, chi potrebbe condannarlo?
Allo stesso modo il pubblicano nel tempio non osa avvicinarsi a Dio; consapevole della sua Presenza, se ne sta in fondo, quasi che il suo stato di peccato possa contaminare il tempio stesso. Egli è impuro e rende impuro tutto ciò che tocca. Non ha diritto di stare nel tempio (cf Lv 10,10; 13,46). La sua preghiera è disperata, simile a quella di Davide dopo l’omicidio di Uria l’Hittita e l’adulterio con la moglie di lui, Bersabea (2 Sam 12,9): «Abbi pietà di me, o Dio, nella tua chesed (amore di tenerezza), secondo l’abbondanza delle tue rahamìm (grembo materno) cancella il mio peccato» (Sal 51,3).
Il pubblicano del tempio è il figlio minore che si butta ai piedi della giustizia di Dio, abbandonando lì la stessa speranza di essere salvato. Secondo la logica umana, il fariseo nel tempio e il figlio maggiore in casa sono modelli di vita e di fede, mentre il figlio minore e il pubblicano sono la faccia peggiore dell’umanità. L’uomo si crede giusto quando fa le parti uguali; Dio è giusto quando tra diseguali sceglie il più svantaggiato.

il mestiere di dio è perdonare sempre
Nelle due parabole Luca espone la dottrina della giustificazione di Paolo (Rm 1-9; Ef 2,8-10), che si fonda sulla fede e non sulle opere umane, se è vero che «il giusto cade sette volte al giorno» (Pr 24,16); ma è qui che si rivela e si celebra la grandezza di Dio, che chiama ciascuno di noi a imitarlo nel suo comportamento: se tuo fratello «pecca sette volte al giorno contro di te e sette volte ti dice: mi pento, tu gli perdonerai» (Lc 17,4).
Dio è giusto perché perdona senza tenere conto di meriti e demeriti perché la sua misericordia è radicata nel cuore stesso di Dio. Con una frase a effetto si potrebbe dire che il mestiere di Dio è il perdono. È la teologia della croce la sorgente di questa «novità». Su quel legno di morte Cristo insieme a sé ha crocifisso anche il peccato dell’umanità (Rm 5,19; cf 3,24-25; Gal 2,21), inaugurando «l’anno di grazia del Signore» (Lc 4,19), che consiste nel dare la giustificazione a coloro che non possono accedervi (Rm 3,23-25; 4,4-8; 5,9-21), perché non hanno nemmeno la forza di alzarsi dalla loro debolezza.
Alla luce di questa spiegazione che allarga la visuale della parabola del figliol prodigo, trasferendola da storia familiare a simbolo della storia della salvezza o della giustificazione, possiamo meglio comprendere le corrispondenze delle due parabole lucane, osservandole in sinossi, assaporandone il testo:
Simmetrie e contrasti sono evidenti. Il fariseo nutre lo stesso disprezzo «morale» che il figlio maggiore riserva verso «questo tuo figlio», che pertanto disconosce come «suo» fratello, nonostante il padre glielo ricordi espressamente: «Questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita» (v. 32).
Il pubblicano e il figlio minore non perdono tempo a «giudicare» il comportamento degli altri, ma vivono la pesantezza della loro situazione e offrono quello che hanno: cioè nulla, solo il loro peccato e «distanza» da Dio. Alla fine il fariseo, che «stava in piedi» davanti a Dio, e il figlio maggiore, che non sa accogliere il fratello corrotto, si ritrovano lontanissimi da Dio e aggravati da un altro peccato; mentre il figlio minore e il pubblicano, che avevano coscienza del loro peccato, si ritrovano accanto a Dio che li accoglie e li «risuscita», per fae uomini nuovi.
I primi hanno perso tempo a guardare la pagliuzza nell’occhio dei fratelli, senza curarsi della trave che c’era nei loro (Lc 6,41-42); gli altri hanno «gettato» letteralmente il loro peso su di Dio, affidandogli la loro cecità e rimettendosi alla sua misericordia: «Getta sul Signore il tuo affanno ed egli ti darà sostegno» (Sal 55/54,23) [continua – 5].

Paolo Farinella

Paolo Farinella




MESSICO, fagioli neri e champagne

Preti d’America

È la dodicesima potenza economica mondiale.
Ha alcuni tra gli uomini più ricchi del pianeta. Ma, allo stesso tempo, è un paese con enormi disparità.
Ne abbiamo parlato con padre Gabriel Estrada Santoyo, missionario comboniano, poco dopo la controversa elezione del nuovo presidente, il conservatore Felipe Calderón.

Soltanto lo scorso 5 settembre, due mesi dopo le elezioni,  il Tribunale federale elettorale ha ufficializzato la vittoria di Felipe Calderón,  candidato del Partito d’azione nazionale (Pan). Per i prossimi 6 anni, sarà lui il presidente del Messico, dodicesima potenza economica mondiale. Intanto, lo scorso 4 ottobre il presidente degli Stati Uniti ha firmato la legge che prevede la costruzione di un lungo muro tra Messico e Usa, per frenare l’immigrazione illegale (cfr. Glossario). Di tutto ciò abbiamo parlato con padre Gabriel Estrada Santoyo, missionario comboniano, nato in Messico nello stato di Michoacán, sacerdote da quasi 20 anni. Padre Estrada ha lavorato in Brasile, Perù e Bolivia. Dal 2000 è tornato nel suo paese natale. Vive a Città del Messico, dove lavora come produttore televisivo per la chiesa locale. Collabora anche con Esne Tv, canale cattolico che trasmette da Los Angeles (Califoia).

Vicente Fox:
sei anni di delusioni

Quando, nel luglio del 2000, Vicente Fox pose fine al dominio del Partito rivoluzionario istituzionale (Pri) si parlò di svolta epocale per il Messico. Padre Gabriel, oggi, a mandato presidenziale concluso, come giudica gli anni di governo di Vicente Fox?
«I vescovi messicani avevano progettato alcuni elementi da prendere in considerazione per aiutare la transizione democratica. Fox, il candidato trionfatore, li aveva assunti come impegno e programma di lavoro. Oggi, trascorsi i 6 anni di presidenza, vediamo che molte di quelle promesse furono solo demagogia elettorale e che anzi la situazione si è aggravata preoccupantemente. È cresciuta la minaccia di una regressione autoritaria (anche per via elettorale), nonché la minaccia più temuta di tutte: la violenza tra fratelli (come accaduto ad Oaxaca a fine ottobre, ndr)».

A parte il 2001, per l’economia messicana questi anni non sono stati negativi. Fox ne ha approfittato per far progredire il paese?
«Il periodo di governo di Vicente Fox è stato favorito da una certa stabilità economica mondiale e dal mercato petrolifero. L’innalzamento del prezzo del greggio lo ha aiutato moltissimo a tenere tranquilli i leaders dei partiti d’opposizione. Gli ha permesso altresì di aumentare i sussidi ai singoli stati, molti dei quali, non sapendo come spendere questo bonus, si sono dedicati alla costruzione di opere faraoniche non necessarie. Altri, devotamente, hanno aiutato nella costruzione di alcune cattedrali o santuari secondo la vecchia usanza del Pri.
Si è sempre detto che Fox è stato “un eccellente candidato ma un pessimo presidente”.  È stato come uno di quei cavalli che hanno un buon slancio ma poi si perdono nella corsa. Egli non ha saputo lottare con il potere e la sua preparazione amministrativa e commerciale non gli è servita molto per governare tutta una nazione. Questo suo stile “rancero” si è scontrato con la classe politica; i suoi continui errori nel parlare e i suoi atteggiamenti popolani sono stati criticati dalla classe intellettuale e sono stati sempre motivo di burla da parte dei mezzi di comunicazione.
Oltre a ciò la “primera dama”,  la quale non era inclusa nel pacchetto iniziale (Marta Sahagun Jiménez, sposata da Fox nel luglio 2001, ndr), ha pesato molto su questo mandato presidenziale. Sulla signora Fox sono cadute accuse di ogni tipo: corruzione e arricchimento illecito dei parenti; abuso di posizioni di potere; spese superflue in viaggi e vestiti; le iniziative della fondazione “Vamos Mexico”, da lei presieduta senza mai chiarire le sue entrate e uscite economiche.
Altra cosa che ha influenzato pesantemente il cammino del paese in questi sei anni è stato senza dubbio la crescita del narcotraffico, il suo radicamento in alcuni stati del paese (il caso più noto è quello dello stato di Sinaloa, ndr), la indifferenza del presidente verso queste ruberie e verso le esplosioni di violenza.  Molti sostengono che stiamo andando verso una “colombizzazione del paese”, un paese senza legge, dove la violenza è aumentata in forma spaventosa, dove ogni giorno le morti e le rese dei conti sono le notizie principali nei telegiornali nazionali».

Calderón o Obrador:
chi ha vinto veramente?

Lo scorso luglio Felipe Calderón (candidato del Pan) ha battuto  per pochi voti Lopez Obrador (candidato del Prd). Ma Obrador ha parlato di brogli massicci. Secondo lei, sono state elezioni regolari o no?
«Senza dubbio queste elezioni sono state pianificate dal potere in una maniera tanto meticolosa da farci credere che tutto sia stato legale e pulito. Per arrivare ad una simile vittoria si è messo in moto tutto l’apparato dello stato: l’intervento della presidenza della repubblica con programmi sociali per comprare il voto a favore del suo candidato; l’aperta campagna dello stesso presidente Fox in tutti gli ambiti pubblici in cui egli si presentava; la cupola imprenditoriale del Pan che ha fatto una propria campagna. E poi la guerra sporca fatta per screditare Obrador, dicendo che egli costituiva un pericolo per il Messico, diffondendo timori (in puro stile nazista) tra le classi meno protette. Per tutto questo non si può parlare di elezioni limpide.
Comprendo perciò le mobilitazioni e le marce in favore del candidato del Prd. La protesta è stata a livello nazionale. Qui, nella capitale della repubblica, alla prima manifestazione si sono radunate un milione e 200 mila persone; alla seconda, domenica 30 luglio, i manifestanti sono stati più di 2 milioni. Insomma, con il governo del Pan si sono ripetute le stesse trappole messe in atto dal Pri nei suoi 71 anni di “dittatura perfetta” (definizione dello scrittore Mario Vargas-Llosa, ndr). Sfortunatamente il potere cambia le persone e qui noi lo stiamo vedendo chiaramente».

Il neopresidente Felipe Calderón goveerà come Vicente Fox?
«Non si può prevedere esattamente che cosa avverrà con Calderón. Io credo, però, che ci sarà una continuità politica dato che le linee del partito sono rimaste le stesse. Potrebbe accadere che nei prossimi sei anni aumenti l’intransigenza dato che nell’équipe di Calderón ci sono gruppi di fanatici di ultra destra che potrebbero creare seri conflitti».

Televisa e Tv Azteca:
sempre con i vincitori

Lei lavora nel campo della produzione televisiva. In tutto il mondo, i mezzi di comunicazione e in particolare le televisioni giocano un ruolo fondamentale nelle elezioni. Dal suo osservatorio privilegiato, può spiegarci com’è andata in Messico?
«I mezzi di comunicazione si sono venduti al migliore offerente: chi pagava loro lo spazio poteva andare in onda. L’Istituto elettorale federale (Ife) aveva posto un limite alle spese di propaganda sui mezzi di comunicazione. La cosa non è stata però rispettata in alcun momento da parte del Pan, danneggiando molto gli altri candidati. Quel partito ha speso milioni di pesos.
Apparentemente Televisa e Tv Azteca, le due catene televisive più grandi del paese (cfr. Glossario), sono state molto attente a non sbilanciarsi troppo su un lato o sull’altro e questo perché le elezioni erano tanto incerte che esse correvano il rischio di “bruciarsi” con il candidato vincitore.  Senza dubbio, dopo il primo annuncio di Calderón come possibile vincitore, si è vista immediatamente la simpatia di entrambe le televisioni per detto candidato, ponendo sempre il presunto perdente Obrador come un destabilizzatore della pace sociale del paese, come qualcuno che stava facendo perdere milioni di pesos alla borsa messicana. Come qualcuno che attentava contro gli interessi molto particolari dei due gruppi televisivi. Va ricordato che Obrador ha sempre parlato contro i monopoli televisivi esistenti nel paese e mai è stato d’accordo con la famosa legge di radio e televisione, recentemente approvata. Senza dubbio tutto ciò ha favorito Calderón».

Poco stato, poca giustizia

Lo stato offre adeguati servizi pubblici alla popolazione messicana (scuola, sanità, trasporti, pensioni)   oppure anche qui ha vinto il modello neoliberista?
«L’indice di mortalità è diminuito. Però dire che in Messico tutti hanno  il diritto alla salute è molto lontano dalla realtà. Si continua ad avere cittadini messicani che non hanno un centro di salute nel raggio di cento chilometri. Penso pertanto che la salute come servizio pubblico negli anni di Fox sia regredita. L’assicurazione sociale poi non dispone di fondi sufficienti per avere un maggior numero di medicine. Si continua quindi a prescrivere “aspirine” per ogni patologia… ».

E a livello di istruzione come vanno le cose, padre?
«Per quanto riguarda l’educazione a livello universitario continua ad essere un lusso che molti non possono pagare. In generale, moltissimi debbono cominciare a lavorare in giovane età per guadagnarsi  la sopravvivenza. Soltanto una minoranza che termina la scuola media può aspirare ad una iscrizione universitaria; nell’università pubblica i posti sono limitati, mentre in quella privata i prezzi sono inaccessibili. Senza dimenticare che, in questi ultimi anni, il livello scolastico si è abbassato considerevolmente. Si possono incontrare giovani che hanno terminato l’istruzione secondaria senza saper leggere ed altri che sanno leggere ma non hanno una ortografia corretta».

Il Messico è un paese giovane. Ma esiste un’assistenza pubblica per le persone anziane? Obrador, quando era governatore del Distretto federale, aveva tentato qualcosa…
«Le pensioni per la gente anziana non esistono come tali per la legge messicana. Esiste soltanto un diritto per chi era assicurato dallo stato durante il suo tempo di lavoro cioè fino ai 65 anni di età. Tutti coloro che non avevano un lavoro pagato da alcuna impresa non hanno alcun diritto: casalinghe, contadini ed altri non possono pertanto godere di alcun beneficio. Nel Distretto federale, durante il suo governo, Obrador cominciò a dare una piccola pensione a tutte le persone maggiori di 60 anni e per questo fu duramente accusato di populismo dal governo Fox.  Tuttavia molta gente anziana della mia parrocchia vive con quei 65 dollari mensili che il governo della capitale le offre. Anche nella campagna presidenziale Calderón ha proposto qualcosa di simile se avesse vinto e anche questa volta è stato tacciato di populismo».

L’imbroglio petrolifero
e la trappola del Nafta

Parliamo di economia, padre. Le famose maquilas (cfr. Glossario) portano benefici al paese?
«Le maquilas vanno e vengono: non c’è una sicurezza di lavoro con esse. La politica dello stato verso le maquilas non è mai stata chiara. Hanno dato loro molti benefici per installarsi nel nostro paese, ma non si è mai richiesto di pagare un salario giusto ai loro dipendenti. Intanto, negli ultimi 5 anni, migliaia di maquilas sono andate dal Messico alla Cina, dove come sappiamo, la manodopera è cinque volte meno costosa del Messico. Quelle che arrivano da noi lo fanno soltanto per la vicinanza con gli Stati Uniti. I lavoratori delle maquilas costituiscono una vera e propria manodopera schiava. Non dimentichiamo che sono proprio donne che lavoravano nelle maquilas quelle che sono state assassinate a Ciudad Juárez».

L’alto prezzo del petrolio (di cui il Messico è grande produttore) ha portato benefici al paese o soltanto a pochi privilegiati? 
«Il tema del petrolio è un tema complesso. Il Pri ci ha lasciato in eredità un sindacato petrolifero ingovernabile e per di più corrotto. I dirigenti petroliferi sono gli unici beneficiari dell’incremento dei prezzi petroliferi, molti sono implicati in ruberie milionarie ma nessuno di essi sta in carcere. La gente del popolo non ha quindi beneficiato per nulla dell’aumento delle entrate petrolifere. Fox non è mai stato chiaro su queste questioni. Avendo timore dei sindacati del Pri, ha preferito chiudere gli occhi davanti al furto, convertendosi quindi in complice. Probabilmente alla fine del suo governo, le cose appariranno più chiare e sapremo cosa sta dietro questa complicità , come è solito succedere al termine di ciascun sestennio presidenziale».

Messico e Usa (con il Canada) sono legati dal 1994 dall’accordo Nafta. Secondo i messicani, il trattato ha portato più conseguenze negative o positive?
«Per la grande maggioranza dei messicani il Trattato di libero commercio con gli Stati Uniti è stato negativo. Soltanto pochi grandi impresari hanno beneficiato di esso. Per la maggioranza esso ha significato la morte delle loro piccole imprese che non sono state in grado di competere con i prodotti venuti da fuori. C’è poi la poca chiarezza del Trattato. Noi accettiamo senza fiatare tutto quello che loro ci vendono mentre loro con molta facilità vietano i nostri prodotti, inventando un gran numero di ragioni false.  Esempio: io provengo da uno stato che è il primo produttore mondiale di “aguacate” (conosciuto anche come “avocado”, ndr), frutto cui, per molti anni, gli Stati Uniti hanno vietato l’ingresso nel paese, argomentando che, negli anni Cinquanta, esso aveva una malattia, che però già dagli anni Settanta è stata sradicata.            La malattia non esiste più ma soltanto pochi stati degli Usa (13 in tutto) accettano il nostro aguacate. Come interpretare tutto questo? Ci sono una serie di requisiti che loro violano con estrema facilità. Ci mandano latte in cattivo stato di conservazione, prodotti scaduti ecc. Abbiamo dovuto chiudere le industrie zuccheriere del paese perché siamo obbligati a comprare da loro glucosio per l’industria delle bibite. Senza alcun dubbio di tutto questo è colpevole il nostro governo che si piega molto facilmente a tutte le loro richieste e nel contempo non è capace di difendere i nostri prodotti sul loro mercato. In altre parole, noi lasciamo entrare tutto senza guardare la qualità, mentre loro esigono da noi l’adempimento di ogni minima cosa».

Il Nafta ha causato la caduta dei prezzi dei prodotti agricoli, mandando in rovina circa 2 milioni di contadini messicani. Oggi a che punto è la questione agraria?
«Altro tema complesso. Da tempo immemorabile non esiste una politica di aiuto all’agricoltura. Ci sono stati soltanto inganni e programmi inefficienti da cui derivano benefici per pochissimi. Come risultato si sono verificate grandi migrazioni verso le città, da dove poi molto difficilmente i contadini ritoeranno alle loro terre.
Anche perché molti agricoltori, per sopravvivere, hanno svenduto. Così pochi “furbi” si sono andati arricchendo con le loro terre, costituendo grandi estensioni e guadagnando con produzioni vantaggiose,  sempre e comunque per un beneficio personale».

Miliardari e nullatenenti:
è giusto così?

Per molti messicani gli Stati Uniti sono il paradiso da raggiungere a qualsiasi costo. Perché?
«Sappiamo perfettamente che il problema della migrazione è un problema di mancanza di impiego e di opportunità nel nostro paese. E non è solamente la gente semplice e senza studi che va in cerca del “sogno americano”. Allo stesso tempo abbiamo una grande fuga di cervelli, i quali trovano l’opportunità di progredire con l’aiuto del governo gringo, che li incentiva a progredire nel proprio campo.  Per i nostri contadini c’è invece un impiego che li aiuta perlomeno a coprire le loro necessità basilari: non va dimenticato che gli Stati Uniti necessitano sempre di molta manodopera.
Fox, che si professa grande amico di Bush, non ha ottenuto alcuna concessione in tema migratorio. Hanno fatto molto di più i nostri connazionali illegali che, come sappiamo, attraverso manifestazioni multitudinarie (come quelle del 2 maggio, ndr) stanno obbligando il governo di Bush a discutere sulla questione e a legalizzare un buon numero di essi. Tutto questo, però, comporta costi molto alti: le retate quotidiane della polizia statunitense per deportare migliaia di indocumentati; il famoso muro della vergogna, tanto discusso ecc. ecc.».

Come porre un freno alla fuga verso il Nord?
«Un primo freno alla migrazione ci sarà quando il Messico sarà in grado di offrire migliori opportunità alla sua gente, a tutti i livelli, nei campi del lavoro, della sanità, dell’istruzione, dell’economia, ecc.».

Secondo la rivista statunitense Forbes, il messicano Carlos Slim Helu è il terzo uomo più ricco del mondo. A parte Slim, in Messico ci sono molte famiglie tra le più ricche del pianeta. Il fenomeno della concentrazione della ricchezza in pochissime mani è tuttora vigente? 
«Il tema della giustizia sociale è una questione pendente che il Messico non sa come risolvere. La storia del signor Carlos Slim è molto emblematica per capire anche gli altri grandi ricchi del paese: Slim “compera” dal suo amico, il presidente Carlos Salinas, l’impresa telefonica di stato (Teléfonos de México, cfr. Glossario) per pochi milioni, un investimento che recupera a tempo di record in alcuni mesi, aumentando le tariffe del servizio telefonico senza alcun controllo del governo, senza che la gente possa reclamare per le alte spese delle sue bollette telefoniche. Il signor Slim cresce come panna montata nel mondo della finanza, comprando a destra e a sinistra imprese ed aumentando i poveri del paese. Questo caso illumina un po’ quello che è successo a molti altri milionari del paese. Ad esempio, il signor Ricardo Salinas Pliego, che ha comprato la televisione di stato (Imevision) per una cifra irrisoria e ora è tra i cinque uomini più ricchi del Messico».

Padre Gabriel, secondo lei esiste un’economia che si possa definire etica?
«Siamo davanti ad una economia senza Dio o  meglio l’unico dio riconosciuto è il denaro. No, l’economia manca completamente di etica. Ma la cosa più drammatica è il silenzio dei nostri pastori davanti alla situazione e la loro amicizia complice con molti di quegli impresari (la maggioranza dei quali si dice cattolica), che pagano salari ingiusti e miserabili ai loro dipendenti».

La condizione femminile
e il caso di Ciudad Juárez

In Messico, il machismo è ancora molto diffuso? L’uomo medio messicano come si comporta con la moglie, i figli, ecc.?
«Per fortuna le cose sono cambiate per il meglio in questo aspetto. L’accesso all’istruzione ha agevolato molto questo cambio.  I mezzi di comunicazione inoltre hanno fatto conoscere i diritti fondamentali della persona umana. La stessa chiesa ha mutato la sua predicazione  in cui si evidenziavano la sottomissione della donna all’uomo, l’uomo come unico capo della famiglia e cose di questo genere.  Ha favorito il cambio il fatto che la donna abbia più opportunità sia nel campo dell’istruzione che in quello del  lavoro.  Da ultimo, il cambio è venuto dai figli i quali, come sappiamo, hanno oggi molti altri “educatori” e questo significa che i loro genitori non hanno più l’ultima parola, cosicché occorre negoziare su molte cose». 

Dunque, la condizione delle donne è migliorata rispetto al passato?
«Oggi per loro ci sono più opportunità. I genitori sono più coscienti che debbono mandare a scuola tanto il maschio come la femmina. C’è una competizione aperta nel campo lavorativo. Oserei dire che nelle grandi città sono più le donne che concludono i corsi universitari rispetto agli uomini.
Oggi la donna sposata non ha tanti figli come anteriormente. In media, ha dai 2 ai 3 figli, mentre dobbiamo ricordarci che, fino a 20 o 30 anni fa, per una famiglia la normalità erano 8 o 10 figli.  Infine, non va dimenticato il numero sempre maggiore di donne non sposate».

Se la condizione femminile è migliorata, allora come spiegare il caso di Ciudad Juárez (cfr. Glossario)?
«Il caso delle donne assassinate a Ciudad Juárez è un caso unico e tuttora non risolto, anche perché si vede poca volontà di risolverlo da parte dei vari governi. Ci sono varie ipotesi al riguardo:  alcuni correlano il fenomeno al narcotraffico, altri ad alcuni gruppi di assassini seriali provenienti dagli Stati Uniti, altri ancora alla normale violenza contro le donne in questa città. Non va dimenticato che la grande maggioranza delle donne uccise provenivano da altri stati ed erano arrivate in questo posto di frontiera in cerca di lavoro». 

Agli indios del Chiapas
non basta Marcos

In Messico, ci sono 56 gruppi indigeni, che rappresentano circa il 25-30 per cento della popolazione totale. Gli indios del Chiapas sono i più noti perché si sono ribellati alla loro condizione. Che ne pensa, padre?
«I governi di tuo hanno fatto poco per la popolazione indigena. Questa rappresenta quella parte della popolazione messicana che manca anche dell’indispensabile. Il Chiapas è uno degli stati messicani più dimenticati.  Il governo di Fox non ha fatto niente per superare questa dimenticanza, anzi ha mostrato una notevole indifferenza. Gli stessi mezzi di comunicazione si sono alleati al governo per parlare poco di questa situazione di povertà estrema, secondo  la regola per cui ciò che non apporta voti non è di interesse per il governo.  Per tutte queste ragioni sono più che giustificate le proteste che sono state fatte in Chiapas.  In tutta sincerità io credo che c’è più interesse ed informazione all’esterno del Messico che all’interno e ciò dovrebbe far vergognare i messicani.  Credo inoltre che con la partenza di mons. Samuel Ruiz dal Chiapas siano venute meno molte delle voci a favore degli indigeni di questa zona del Messico».

È rimasto il subcomandante Marcos, che in Italia è sempre molto famoso…
«Marcos ha compiuto alcuni gravi errori in questo sestennio e ciò ha prodotto molta indifferenza da parte di un buon numero di simpatizzanti.  Fox lo annullava con la sua mancanza di dialogo e la sua indifferenza.  Quando egli affermava che in 15 minuti avrebbe potuto risolvere il caso del Chiapas, non voleva dire altra cosa se non che la migliore arma per annullare Marcos era di non prestare attenzione ai suoi reclami. Tutto questo va letto assieme a certe dichiarazioni di Marcos, per esempio a favore dell’Eta spagnola o contro lo stesso Obrador… Ci sono, infine, i malpensanti i quali affermano che Marcos si è venduto al governo di Fox come dimostrerebbe il silenzio che egli ha tenuto durante questi ultimi sei anni. Un silenzio che gli è valso la totale dimenticanza di gran parte della popolazione».

La chiesa, le sètte,
i legionari di Cristo

Qual è l’importanza della religione in Messico?
«Continua ad essere motivo di unità nel paese. Senza dubbio però non c’è una profonda evangelizzazione nella nostra gente. La rottura tra fede e vita fa sì che tutta questa serie di ingiustizie che caratterizzano il Messico vengano giustificate. Ci sono narcotrafficanti cattolicissimi che da un lato ammazzano, dall’altro presenziano alla messa domenicale e sono i principali benefattori della chiesa. D’altra parte, sempre a causa di questa evangelizzazione rachitica, la gente umile si sposta facilmente verso altre religioni oppure frequenta altri  riti o ancora sviluppa riti sincretici o combina la sua fede cattolica con esoterismi senza alcun problema di coscienza.
Adesso, qui in Messico, è di moda il culto della “santa morte” (cfr. Glossa-
rio), devozione nata tra i narcotrafficanti e i ladroni che sta causando grossi problemi alla chiesa cattolica. Non di meno la maggioranza dei suoi seguaci si dice cattolica».  

In Messico, ci sono molti istituti missionari. Come operano? Sono in accordo con la gerarchia cattolica del paese?
«Generalmente in Messico gli istituti missionari lavorano nelle situazioni di frontiera, tra gli indigeni soprattutto. In molte diocesi noi siamo semplicemente tollerati, quasi mai valorizzati dai vescovi che sempre ci vedono come un pericolo a livello vocazionale (cioè temono che possiamo sottrargli candidati) e a livello economico. Attualmente c’è un fiorire di vocazioni diocesane ma non di vocazioni missionarie perché, come spiegato anteriormente, noi non godiamo di un appoggio aperto e cosciente dei nostri prelati. Il Messico è stato l’iniziatore dei famosi congressi missionari, che ora si tengono ovunque. Senza dubbio, essi hanno suscitato euforia, ma come chiesa messicana non ci hanno portato ad assumere impegni. Abbiamo vocazioni sufficienti, ma – come suggerisce Puebla (DP 368) – non osiamo dare “dalla nostra povertà”».  

Come in tutti i paesi latinoamericani, le sètte evangeliche hanno guadagnato molti adepti. Come si spiega questo fatto?
«Come ho spiegato in precedenza, l’evangelizzazione non  è profonda, non ha messo radici, manca di testimonianze da parte di noi del clero. A ciò va aggiunta la penalizzazione della “teologia della liberazione” e delle “comunità di base”, che stavano rispondendo alle necessità dell’umile e del povero. Pertanto la gente cerca un luogo dove sia ascoltata, dove sia valorizzata come persona, dove si trovino risposte alle sue necessità come appunto facevano le comunità di base. Oggi non ci sono questi spazi all’interno della chiesa cattolica, mentre ci sono all’interno delle sètte evangeliche. Inoltre le sètte rispondono immediatamente, senza pretendere di arrivare alla coscienza dei suoi adepti. Fanno molta leva sul sentimentalismo, sulla guarigione rapida, sul miracolo. È chiaro che la gente preferisce vivere nell’inganno piuttosto che vedere la cruda realtà che caratterizza gran parte del nostro paese».

Il Messico è la patria dei «Legionari di Cristo» (cfr. Glossario) di padre Marcial Maciel Degollado. Può spiegarci qualcosa su di loro?
«Sono nati per influire sul potere, nello stile dell’Opus Dei durante la Spagna franchista. Hanno metodi similari. Però noi sappiamo bene che il potere è una “croce dalla quale nessuno vuole scendere”. Credo che i Legionari, invece di influenzare le classi politiche evangelizzandole, abbiano preso gusto al potere e si siano accomodati lì, secondo lo stile dei potenti, con i benefici che essi possono ottenere.
Stanno aprendo collegi e università per le élite del paese, rafforzando quella coscienza di classe secondo la quale i loro figli sono migliori di tutti gli altri e di conseguenza meritano una istruzione a parte, senza coinvolgimenti con le altre classi sociali.
In sintesi, i Legionari hanno saputo adattare il vangelo al ricco e in cambio hanno ottenuto grandi benefici economici e di status nella società messicana». 

Paolo Moiola

Glossario messicano
Parole e personaggi per orientarsi nel paese latino

Calderón, Felipe: è il contestato successore di Vicente Fox alla guida del Messico. Come Fox appartiene al Pan. Nelle elezioni del 2 luglio 2006, ha vinto con il 35,9 per cento dei voti.

Ciudad Juárez: città nello stato di Chihuahua, al confine con gli Usa. Divenuta famosa perché, in pochi anni, circa 400 giovani donne vi sono state rapite, stuprate, torturate ed uccise. Le indagini non hanno mai portato ad una soluzione, anche a causa dello scarso impegno delle autorità locali e del governo messicano.

Emigrazione: le rimesse degli emigrati costituiscono la seconda voce nel Pil messicano, dopo il petrolio.

Fox Quesada, Vicente: è stato responsabile della Coca-Cola Company per il Messico e l’America Latina. Nel 2000 è divenuto il primo presidente messicano non appartenente al Pri.

Helu, Carlos Slim: nel 1990 il presidente Carlos Salinas de Gortari decise la privatizzazione della compagnia statale Teléfonos de México. Slim la acquistò per una cifra eccezionalmente bassa (suscitando molte polemiche). Oggi, secondo la classifica stilata annualmente dalla rivista statunitense Forbes (www.forbes.com), il magnate messicano della telefonia (Telmex) è al terzo posto tra gli uomini più ricchi del pianeta (23,8 miliardi di dollari nel 2005).

Legión de Cristo: congregazione religiosa fondata nel 1941 dal sacerdote messicano Marcial Maciel Degollado. Conta più di 650 sacerdoti e 2.500 seminaristi. Ha proprie sedi in 18 paesi. Il fondatore, padre Degollado, accusato di svariati abusi sessuali, nel maggio 2006 è stato invitato dalla Santa Sede a lasciare gli incarichi pubblici e a svolgere una vita di preghiera e penitenza.

Marcos, subcomandante: leader dell’«Esercito zapatista di liberazione nazionale» (Ezln), che dal 1994 combatte per la dignità del Chiapas, stato meridionale a maggioranza maya, molto povero, ma ricco di riserve di petrolio e gas.

Maquilas: fabbriche che lavorano, con contratti di subappalto, per gruppi industriali stranieri. Il termine «maquila» viene dal verbo spagnolo maquilar; significa, per il mugnaio, prendere per sé una parte della farina macinata in cambio dell’utilizzo del mulino concesso al contadino.

Muro: si estende per 120 chilometri sulla frontiera con la Califoia; ad ottobre 2006, il presidente Bush ha firmato la legge che finanzia un nuovo tratto di muro per 1.125 chilometri. Ogni anno circa 450 mila messicani attraversano illegalmente il confine tra Messico e Stati Uniti, una frontiera di 3.200 chilometri.

Nafta: è il «Trattato nordamericano di libero scambio» tra Stati Uniti, Canada e Messico entrato in vigore il 1.º gennaio 1994.

Obrador, Andrés Manuel López: detto Amlo (dalle lettere iniziali del suo nome), è stato governatore del distretto federale di Città del Messico dal 2000 al 2005, quando si è dimesso per concorrere alle presidenziali. Secondo i dati ufficiali (sempre contestati), avrebbe perso le elezioni avendo ottenuto il 35,3 per cento contro il 35,9 di Calderón.

Pemex: compagnia petrolifera di stato. Attraverso il sindacato degli impiegati della compagnia ha spesso finanziato illegalmente con milioni di dollari il Pri.

Pan, Partito d’azione nazionale: è il partito conservatore, che ha rotto l’egemonia del Pri.

Prd, Partito della rivoluzione democratica: è il principale partito della sinistra.

Pri, Partito rivoluzionario istituzionale: al potere ininterrottamente dal 1929 al 2000, quando è stato sconfitto da Vicente Fox, candidato del Pan.

Santa Muerte: figura santa messicana, non riconosciuta dalla chiesa cattolica. È venerata soprattutto da criminali, narcotrafficanti, truffatori, poliziotti.

Televisa: è una delle più grandi e potenti reti televisive di lingua spagnola; si autodefinisce «el Canal de las Estrellas» (www.televisa.com.mx).

Tv Azteca: la seconda televisione privata del paese. È nata nel 1993 in seguito alla (controversa) privatizzazione di Imevisión, la televisione pubblica messicana. Il suo principale azionista è il miliardario Ricardo Salinas Pliego.                                                

  Paolo Moiola

Paolo Moiola




IRAN, un paese da rispettare

La Repubblica islamica e il suo presidente sono un vero pericolo?

Mahamoud Ahmadinejad è presidente dell’Iran dal giugno 2005. Con le sue dichiarazioni è arrivato subito sulle prime pagine dei media mondiali.  Oggi la repubblica islamica (sciita) è “sotto osservazione” per i suoi progetti nucleari.
Ma la realtà ha molte sfaccettature, troppo spesso taciute. Per interesse…

Di certo il presidente Mahamoud Ahmadinejad avrebbe molti requisiti per essere scelto dal settimanale Time come il “Personaggio dell’Anno 2006” (Person of the Year 2006), come lo era stato nel 1979 il grande ayatollah, Segno di Dio, Khomeini. E così, 27 anni dopo la rivoluzione che dette vita alla Repubblica islamica, l’Iran sarebbe di nuovo sulla prima pagina del periodico statunitense che, nel 1927, varò questo Oscar editoriale ormai diventato una tradizione consolidata. Naturalmente non è detto che la scelta cada  su Ahmadinejad, poiché quando Time nominò Khomeini, mentre era ancora in atto il sequestro del personale dell’ambasciata Usa a Teheran, ricevette ben 14 mila lettere di lettori, che si lamentavano di quella nomina. Dopotutto fin da quando è apparso sulla scena internazionale Ahmadinejad, nonostante il suo sorriso raggiante,  non è che riscuota, anche lui, grandi simpatie.
La sua elezione a presidente dell’Iran sorprese persino i suoi connazionali. Figurarsi il resto del mondo. Infatti, a poche ore dalla sua nomina  i mezzibusti dei telegiornali si affannavano a pronunciae il cognome producendo suoni surreali. Ma nel giro di pochissimi mesi ci ha pensato lui a costringere tutti a imparae la pronuncia esatta e lo ha fatto con una brutale dichiarazione con la quale si è guadagnato le prime pagine dei giornali di tutto il mondo: “Israele va cancellata dalle carte geografiche”. Apriti cielo. Da allora ci ha abituati ad un linguaggio di singolare durezza. Come quando, intervenendo all’Assemblea generale dell’Onu, ha ammesso di aver avuto un’illuminazione di fronte ad una recente tragedia aerea a Teheran e ha affermato che le 108 vittime hanno “indicato la strada che dobbiamo seguire”. Sulla questione religiosa è tornato quando il suo governo è entrato in carica e i ministri hanno sottoscritto i comuni obiettivi in una lettera indirizzata all’”imam nascosto”, che è stata poi gettata nella fonte di Jamkaran, poco distante dalla città santa di Qom, dove si cela. Poiché il dodicesimo imam al-Mahdi, scomparso nel 939 d.C., secondo la credenza sciita, toerà a vivere e darà la vittoria.

I “pasdaran”
Ahmadinejad  ha aderito a questo messianesimo fin da quando ha mosso i primi passi nella politica. L’apprendistato l’ha svolto tra i pasdaran, i guardiani della rivoluzione iraniana, il corpo scelto dell’esercito creato dopo la rivoluzione. E ad essi deve il sostegno, al limite della regolarità, nelle elezioni vinte nel giugno 2005. Costoro formano il gruppo politico della “nuova destra” neoconservatrice, composto prevalentemente dai comandanti dei pasdaran, da uomini della milizia e dei servizi, di età compresa tra i 40 e i 50 anni, formati sui campi di battaglia di diversi fronti: da quelli contro le opposizioni a quelli della guerra contro Saddam Hussein che durò 8 anni. I pasdaran combatterono negli anni Ottanta contro l’Iraq che a quel tempo era armato dagli Stati Uniti: sono uomini fortemente ideologizzati, che hanno visto cadere centinaia di migliaia di loro commilitoni sui campi di battaglia, chiamati i “campi della morte”.  Sono pervasi di un nazionalismo estremo, che si alimenta con la visione messianica religiosa appunto, con connotazioni millenariste e apocalittiche tipiche degli uomini che si votano alla morte; una falange di coetanei che, considerandosi inflessibili e forti, non tollerano alcuna variazione sulla visione piena, totale e organica del loro credo.

L’ingegnere conservatore
Nato nel 1956 ad Aradan, nella provincia di Semnam, un centinaio di chilometri a sud est di Teheran, figlio di un fabbro, Ahmadinejad arriva con i genitori a Teheran l’anno seguente. Laureato in ingegneria civile, consegue il dottorato in pianificazione del traffico e dei trasporti. Nel 1979 sostiene – secondo le affermazioni di Said Hajarian, ideologo del riformismo islamico e consigliere di Khatami – che bisogna occupare l’ambasciata sovietica e non quella degli Stati Uniti come di fatto accadde. Tuttavia alcune voci insistenti (di provenienza prevalentemente statunitense) lo collocano tra gli studenti che partecipano al sequestro del personale dell’ambasciata Usa a Teheran, ma sono voci non supportate da prove concrete. È il 4 novembre quando un gruppo di studenti che si definiscono “seguaci dell’imam Khomeini” prendono in ostaggio 55 persone tra funzionari e impiegati con il pretesto di volere l’estradizione dello scià rifugiatosi a New York. Il sequestro durerà 444 giorni durante i quali nel deserto iraniano muore un intero reparto dei Navy Seals, truppe d’élite e fiore all’occhiello della macchina bellica statunitense, commandos inviati dal presidente Carter per liberare gli ostaggi con un blitz. Su quella tragedia non fu mai fatta completa chiarezza, certo è che Carter subì un crollo d’immagine tale che non fu rieletto. Sarà Ronald Reagan, insediatosi alla Casa Bianca il 20 gennaio 1981, ad annunciare la liberazione degli ostaggi.
Nel 1985 Ahmadinejad è al fronte nella guerra contro l’Iraq (1980-1988). Come membro della brigata Qods partecipa a diverse operazioni oltre confine. Conclusa la guerra, diventa governatore delle città di Maku e Khoi, vicino al confine con la Turchia; poi per due anni è consigliere del governatore generale del Kurdistan iraniano e infine per tre anni è governatore generale della provincia di Ardebil, sempre nella zona nord ovest del Paese. Nel maggio 2003 viene eletto sindaco di Teheran grazie all’altissima astensione dell’elettorato nelle elezioni municipali di quell’anno che premiano i conservatori. Infine, nel giugno 2005 diventa presidente sconfiggendo al ballottaggio l’ex presidente pragmatico Akbar Hashemi Rafsanjani.

Teheran e Mosca: l’alleanza del gas
Quando a metà gennaio 2006 Teheran annuncia di voler riaprire le centrali nucleari, riprendono a suonare i tamburi di guerra, si diffondono di nuovo parole come fondamentalismo, radicalismo, islamismo e via dicendo. L’immagine del presidente Ahmadinejad e le sue dichiarazioni scatenano un’ansia planetaria che a ogni suo intervento si rinnova.
Eppure pochi sanno che nello stato iraniano esiste una legge che vieta al governo e a vari enti e organismi governativi di intraprendere qualsiasi attività nel settore militare relativo al nucleare. Come sostiene Rajab Saparov, consigliere della Duma, il parlamento russo, l’Iran è l’unico paese al mondo dove la costruzione delle armi di distruzione di massa è vietata per legge. Secondo Saparov, le pressioni che gli Stati Uniti esercitano sull’Iran riguardo la questione nucleare sono dovute alla presenza e all’influenza che la Repubblica islamica ha in Iraq, in Afghanistan, nel Caucaso e nell’Asia centrale. Buoni, se non ottimi sono anche i rapporti con la Russia di Putin, che non perde occasione per reclamare il suo diritto a una poltrona tra “i grandi della Terra” (il G8) con le enormi riserve di gas e petrolio a sua disposizione, in un pianeta sempre più affamato di energia. A luglio 2006 a San Pietroburgo, grazie all’Iran, Putin si è potuto presentare ai suoi ospiti del G8 forte di un altro successo raccolto a  margine del vertice dell’”Organizzazione di cooperazione di Shanghai” (OcS), poche settimane prima. In quell’occasione i due più importanti produttori di gas del mondo, la Russia appunto e l’Iran, avevano concluso un accordo strategico che tutela non solo i loro interessi, ma anche quelli del Pakistan e dell’India e, probabilmente, del Turkmenistan e della Cina. La Gazprom, compagnia statale russa, finanzierà la costruzione del gasdotto che dal 2009 collegherà l’Iran all’India passando per il Pakistan, un progetto invano osteggiato da Washington. L’idea di un gasdotto che colleghi l’Iran al Pakistan e all’India era stata avanzata da Teheran già nel 1996. La canalizzazione sarà lunga 2.775 chilometri e costerà 7 miliardi di dollari. A partire dal 2010, l’India e il Pakistan potranno ricevere 35 miliardi di metri cubi di gas all’anno e 70 miliardi nel 2015. Secondo alcuni osservatori, questo riavvicinamento tra la Russia e l’Iran nel settore del gas creerà le condizioni necessarie all’emergere di un’organizzazione di paesi produttori di gas, analoga al cartello petroliero. L’unificazione delle reti di trasporto di gas russo e iraniano permetterà a Gazprom di partecipare alla gestione della quasi totalità del sistema di gasdotti asiatici. Tanto più che il Turkmenistan ha in vista l’integrazione in questo sistema (grazie al già esistente gasdotto Turkmenistan-Iran). Seguirà l’Asia centrale e ne risulterà un mercato del gas che riunirà il Turkmenistan, l’Iran, il Pakistan, l’India e la Cina. Il futuro economico di buona parte dell’Asia sembra assicurato, nel momento in cui quello degli Stati Uniti e, in misura minore, dell’Europa occidentale sono minacciati.
Pochi sanno che i pragmatici ayatollah si sono rivelati da sempre maestri come pochi altri nel conciliare “il diavolo con l’acqua santa” e si sono mantenuti sempre cauti anche quando l’Urss era sull’orlo del collasso. Con la Russia del resto c’è una salda amicizia. Tra il 1989 e il 1993 l’Iran ha acquistato armamenti russi per 10 miliardi di dollari per riequipaggiare le sue forze armate dopo la devastante guerra con l’Iraq. Poi ha cominciato a comprare missilistica e tecnologia nucleare, a stringere le relazioni commerciali e a incrementare gli scambi energetici con Mosca.
Il rapporto di amicizia si è consolidato su una preoccupazione comune ai due paesi: considerare i talebani e l’influenza statunitense i due maggiori pericoli per la stabilità regionale. Sullo sfondo, l’impegno di non permettere agli Stati Uniti il controllo delle esportazioni di energia – gas e petrolio – in Asia centrale. È un’attenzione che Mosca coglie, apprezza, incoraggia. Infatti in nessun Paese dell’Asia centrale gli ayatollah propagandano i precetti della religione sciita o della rivoluzione islamica così come fanno in Medio Oriente. Il motivo è semplice e di natura religiosa: essi hanno capito che l’ideologia sciita non sarebbe bene accetta nell’Asia centrale di radicata tradizione sunnita. Molto meglio stringere relazioni tra stato e stato e saldarle con contratti commerciali cementati dalla riconoscenza, perché l’Iran è stato il maggior fornitore di armamenti dell’alleanza antitalebana e la sua caparbia volontà di tener testa ai talebani ne ha incrementato la stima nella regione. Naturalmente la Russia ha tratto un enorme vantaggio dal fatto di avere un alleato solido e non minaccioso nell’ambito dell’islam radicale, sebbene l’Iran appartenga alla fazione minoritaria sciita.

“No” al nucleare (ma non per tutti)
L’Iran è retto  da una teocrazia che non è la democrazia di tipo occidentale, ma non può essere nemmeno confusa con una dittatura. L’Iran non ha nella sua storia episodi di aggressività tali da allarmare la comunità internazionale. È membro dell’Onu e ha firmato quasi tutti i trattati inteazionali tra i quali  il Trattato di non proliferazione nucleare (Tnp), nel rispetto del quale ha accettato le ispezioni dell’Aiea ai siti deputati allo sviluppo del programma nucleare civile. Nonostante le rotture diplomatiche, Teheran si è detta sempre disponibile a proseguire nelle trattative.
Anche il Pakistan è una potenza nucleare, ma è pure un paese amico degli Stati Uniti, quindi non gli si può chieder conto di nulla. Lo stesso accade con l’India, potenza nucleare che ha stipulato accordi per interscambi di tecnologia nucleare con Washington. Né Israele né il Pakistan né l’India hanno firmato il Trattato di non proliferazione nucleare. Eppure tutti e tre hanno armi nucleari. Tutti e tre hanno sistemi aerei e missilistici in grado di trasportare le bombe atomiche sugli obiettivi nemici. Tutti e tre sono in aperta violazione delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu. L’Iran rappresenta l’esatto contrario: non ha armi nucleari, non ha sistemi missilistici per portarle a destinazione, ha ratificato il Tnp e dichiara di volerlo rispettare. Per completare lo scenario va aggiunto che neppure la ricerca nucleare condotta dal Brasile ha sollevato i timori del mondo come quella dell’Iran, sebbene questo paese, membro del Tnp, abbia opposto e continui a opporre resistenza alle ispezioni dell’Aiea ai suoi impianti nucleari. Il Brasile ha realizzato quanto sta cercando di fare l’Iran, ma gli Stati Uniti non gli hanno chiesto di smantellare il suo programma nucleare e non lo hanno neppure criticato per la sua riluttanza ad aprire le porte agli ispettori Aiea.
Gli Usa  non hanno mostrato nei confronti del programma nucleare del Brasile l’ostilità riservata all’Iran in quanto se il primo è loro alleato strategico nel continente sudamericano nel ruolo di moderatore del Venezuela del bolivarista Chávez, il secondo è loro inconciliabile antagonista nella fascia strategica del Rimland (fascia marittima e costiera, ndr) eurasiatico. Mentre stigmatizza il programma nucleare di Teheran, Washington, senza preoccuparsi delle critiche generalizzate alla sua politica dei “due pesi, due misure”, continua a stanziare 27 miliardi di dollari l’anno per conservare e costruire nuove armi nucleari (in piena trasgressione del Tnp che impone agli stati nucleari il disarmo progressivo) e prepara nuovi piani per l’impiego delle stesse.

“Sì” alle sanzioni (ma non per tutti)
Bisogna ricordare, inoltre, che con le loro sanzioni gli Stati Uniti ostacolano lo sviluppo dei progetti iraniani nel settore del gas e petrolio.
Gli Usa con l’Iran Non-Proliferation Act del 2000 (firmato da Clinton) impongono sanzioni agli individui e alle società che aiutano i programmi iraniani per la costruzione di armi di distruzione di massa, ma colpiscono anche quelle società che investono nel settore energetico in Iran. In questo modo, le capacità estrattive rimangono modeste determinando minori introiti. E quindi l’economia va in crisi, aumentano i poveri  delle grandi metropoli come Teheran, quelle masse delle grandi periferie sensibili ai proclami populisti e nazionalistici che hanno determinato la vittoria di Ahmadinejad. Infatti, egli ha ottenuto i loro voti in cambio di grandi promesse di ridistribuzione del reddito e di un miglioramento delle condizioni economiche. Nessuno di questi impegni è stato fino a ora tradotto nei fatti. Anzi, nel bilancio di quest’anno – 1385 dell’Egira secondo il calendario persiano – che si concluderà il 20  marzo 2007, l’inflazione sta viaggiando, secondo le stime degli osservatori più ottimisti, intorno al 45 per cento, 15 punti in più di quanto aveva pianificato il governo. Che non entrerà comunque in crisi poiché da quando gli Usa continuano ad esercitare la pressione sull’Iran, inevitabilmente si rafforza il blocco conservatore che ha vinto le elezioni e governa il paese. Non credo che così agendo si possa esportare la democrazia in Medio Oriente   come predica il presidente Bush. Molto più realistiche le conclusioni dello studioso statunitense John Mearsheimer quando sostiene che lo scopo della politica di non proliferazione non è affatto quello di scongiurare possibili pericoli nucleari, “ma di prevenire tutto ciò che può limitare la libertà d’azione degli Stati Uniti nei loro rapporti con gli altri paesi: perché uno stato dotato di armi nucleari diventa inattaccabile”.
Dopotutto l’Iran per molti versi inattaccabile già lo è anche senza l’atomica, se si tiene conto che è un paese con una forte tradizione di nazionalismo e che è una delle più antiche nazioni del mondo.  Resta comunque il fatto che il diritto dell’Iran ad avere il nucleare civile costituisce un collante universale. Il 90 per cento degli iraniani, di destra o di centro (o della sinistra, ridotta però alla clandestinità), laici o religiosi, filostatunitensi o filo Hamas non tollerano un’imposizione dall’esterno. Su questo non c’è ombra di dubbio. Infatti in tutti questi mesi di affannose trattative l’Iran non ha ceduto di un millimetro, e il presidente non manca occasione per ribadire che mai Teheran fermerà il proprio programma nucleare, anche in presenza di sanzioni.
Quindi ben si comprende perché gli ayatollah al vertice del “Supremo Consiglio nazionale di sicurezza”, l’organismo che, tra le altre cose, gestisce e negozia appunto la politica nucleare di Teheran abbiano nominato come negoziatore il filosofo e matematico Mohammad Ali Ardashir Larijani. Larijani appartiene a una famiglia di religiosi di alto rango (con il padre e il suocero, entrambi  ayatollah), di cui ha acquisito lo stile, anche formale: la giacca di buon taglio, i capelli in piega, la compostezza sobria e disciplinata, i toni pacati. Non ha insomma l’aspetto trasandato e non usa le frasi terremotanti del presidente Ahmadinejad. È perciò uomo di fiducia del regime come pochi altri.
La guida suprema Khamenei non può che essee soddisfatto. Il fatto  che l’abbia scelto per negoziare il nucleare iraniano è l’ennesima riprova di quanto sia oculata la strategia degli ayatollah al potere in Iran. Se ci si ostina a ignorarla o a negarla, come fanno i neocon statunitensi e i loro simpatizzanti europei, ben difficilmente si raggiungerà la pace in Medio Oriente. 

Vincenzo Maddaloni

Un (ottimo) saggio di geopolitica

TEHERAN, WASHINGTON E GLI ALTRI

Dopo l’Afghanistan e l’Iraq, ora la Casa Bianca ha nel mirino l’Iran.
Cosa c’è dietro questo desiderio di una nuova “guerra preventiva”?

“In questi tempi ammorbati da una rabbia endemica che stringe ed indurisce i cuori”. La frase si legge nella premessa de L’atomica degli ayatollah, un appassionante (e appassionato) saggio  di geopolitica scritto da Vincenzo Maddaloni e Amir Modini. Gli autori, un cristiano italiano e un musulmano iraniano, nell’ultima parte del libro si confrontano in un dibattito, anche aspro, sulle rispettive fedi, ma il lavoro non trova i motivi della “questione iraniana” nei contrasti religiosi. Al contrario, li trova in fatti tangibili come gli interessi petroliferi, il mercato, il businness, i rapporti di forza tra i paesi.  
L’interpretazione più semplicistica ed acritica della questione iraniana divide il campo in due: da una parte la teocrazia iraniana, dall’altra la democrazia statunitense.   

Iran, un grande paese. “L’Iran è una grande nazione, di raffinata cultura, di lunga storia. I suoi dirigenti non possono essere trattati come fossero dei criminali. Perché non sono dei criminali. Usano i toni forti? Qual è il paese che non li usa quando si sente stretto in una morsa? Certamente la Repubblica islamica dell’Iran non ha mai aggredito alcun paese. Al contrario è stata aggredita – è storia – da Saddam Hussein al quale gli occidentali avevano fornito le armi chimiche quando stava per soccombere agli iraniani” (pag. 62).

Dio e mercato. Negli ultimi anni la politica Usa è stata scritta dai cosiddetti “neocon”, neoconservatori, insostituibili sostenitori della famiglia Bush. “Essi hanno due archetipi a cui si riferiscono uno è il mercato che domina tutti ed assicura la ricchezza ai pochi che lo controllano; l’altro è il divino, cioè il mostrarsi al mondo in comunione con Dio, come i veri messaggeri della sua volontà. (…) È opinione diffusa che il free trade favorisca solo il grande business, danneggi il medio-piccolo, riduca lo Stato a servire gli interessi di bottega. I neoconservatori supporter dell’amministrazione Bush sono l’espressione dell’ala più aggressiva del capitalismo contemporaneo” (pag. 217).

Il dominio sulle risorse energetiche. L’Iran è un grande produttore ed esportatore di petrolio e gas naturale. Ed ha pessimi rapporti con Washington dal 1979, anno della rivoluzione islamica guidata dall’ayatollah Khomeini. I neocon statunitensi vogliono porre fine a questa situazione inaccettabile per un paese che vuole essere unica guida del mondo come previsto nel progetto del New American Century (nuovo secolo americano). “L’obiettivo dichiarato è quello di ridisegnare la mappa del Medio Oriente e mettere definitivamente le mani sulla quasi totalità delle risorse energetiche dell’area per assicurarsi il dominio sull’intero globo. Di conseguenza, dopo l’Afghanistan e l’Iraq, il “presidente di guerra” George W. Bush avrebbe chiesto ai propri consiglieri: “Who is the next?” (Chi è il prossimo?). Questi ultimi, essendo la diretta espressione dei potentati economici nordamericani, gli hanno ricordato che l’obiettivo è sempre lo stesso: l’Iran. (…) La riconquista dell’Iran significa prima di ogni altra cosa: controllare quasi completamente tutte le aree circostanti e le risorse energetiche racchiuse tra il Golfo Persico e il Mar Caspio; mettere l’Europa e il Giappone, la Cina e l’India – gli attuali e futuri maggiori importatori e consumatori di idrocarburi – in una condizione di dipendenza dal nuovo assetto impostato da Washington. Poi gli consentirebbero di tenere sempre sotto osservazione Russia, Cina, India e di esercitare un’influenza diretta sull’Asia centrale ex sovietica, sul mondo arabo e sul subcontinente indiano” (pag. 23-25).

Dollaro ed euro. Gli Stati Uniti sono il paese più indebitato del mondo, ma stampano il dollaro, moneta internazionale per antonomasia. “Alcuni analisti – scrivono Maddaloni e Modini (pag. 96) – ritengono che il reale motivo del contrasto tra Washington e Teheran – e quindi la causa di un probabile conflitto armato –  non sia il programma nucleare ma il suo progetto di borsa petrolifera in euro. La stessa decisione era stata presa da Saddam Hussein prima di essere rimosso dal potere con l’attacco del marzo 2003. (…) In effetti, la guerra preventiva contro Saddam non aveva avuto niente a che vedere con gli armamenti di distruzione di massa, con la difesa dei diritti umani, con la volontà di difendere la democrazia e neppure con il desiderio di volersi accaparrare i campi di petrolio; lo scopo prioritario era invece quello di salvaguardare il valore del dollaro, di salvaguardare cioè il fondamento dell’impero americano. Due mesi dopo che gli Stati Uniti avevano invaso l’Iraq (…) il mondo non poteva più comprare in euro il petrolio dell’Iraq. In questo modo la supremazia globale del dollaro venne ristabilita. (…) Tuttavia l’Iran ha deciso di raccogliere la sfida decretando di aprire entro l’anno 2006 la sua borsa petrolifera in euro in modo da inaugurare un circuito alternativo a quello del dollaro. Se ciò dovesse accadere, moltissimi clienti se ne avvantaggerebbero; per prima l’Europa che non sarebbe più costretta a comprare e mantenere riserve in dollari al fine di assicurarsi la moneta di pagamento per il petrolio perché potrebbe pagarlo con la propria valuta”. Anche Cina, Giappone, Russia e paesi arabi ne trarrebbero vantaggio, diversificando le proprie riserve e proteggendosi dalla svalutazione del dollaro. “Naturalmente gli americani non potrebbero permettere che ciò accada”. Naturalmente.

Questo e molto altro racconta L’atomica degli ayatollah, un libro che si legge con crescente interesse perché i tasselli – di storia, politica, economia, religione – non sono buttati lì alla rinfusa, ma si fondono in un collage complesso eppure comprensibile e quasi sempre condivisibile.

Paolo Moiola

L’atomica degli
ayatollah, Nutrimenti, Roma 2006.

Anno 632, la scissione musulmana

ISLAM: SCIITI E SUNNITI

Gli sciiti rappresentano il 10-15 per cento del miliardo e 300 milioni di musulmani del mondo. Di questi, 180 milioni (sia persiani sia arabi) vivono in Medio Oriente. Sono la maggioranza religiosa in Iran, Iraq, Libano, Azerbaijan e Bahrain e rappresentano una significativa minoranza in Afghanistan, Pakistan, India, Siria, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. In cosa il loro islam è differente da quello dei sunniti? Il profeta Maometto muore nel 632, senza eredi maschi e senza aver designato un successore. Ali è il cugino di Maometto e sposo di sua figlia Fatima. Tra i musulmani si apre la lotta alla successione. La maggioranza di loro (sunniti, da sunna, “tradizione”) crede che sia necessario individuare nella comunità il successore (in arabo khalifa, da cui califfo) di Maometto. Un piccolo gruppo di musulmani (shi’ha, “partito”, da cui sciiti) crede invece che la guida dell’Islam spetti ad Ali, unico rappresentante della famiglia del profeta. Ali, proclamato imam (originariamente “colui che guida la preghiera”), rimane al potere per soli cinque anni, finché non viene ucciso in un agguato. I suoi due figli Hassan e Hussein moriranno in battaglia.
Nei secoli successivi il potere rimane nelle mani delle dinastie sunnite degli ommiadi, poi degli abbasidi e infine degli ottomani. Il califfato diventa una monarchia ereditaria. Gli sciiti passano all’opposizione. Contrariamente ai sunniti essi non credono che il corano sia esistito da sempre, bensì che sia stato creato  e quindi non enfatizzano l’interpretazione testuale delle scritture e la loro applicazione giuridica, ma designano uno o più studiosi eletti dalla comunità dei fedeli a interpretare il corano e le altre fonti del diritto islamico. Diverso è anche il loro atteggiamento nei confronti del potere: nei Paesi a maggioranza sunnita i sacerdoti sono pagati dal governo e vi sono sottomessi, quelli sciiti sono indipendenti, vivono con le offerte dei fedeli, non riconoscono alcun potere temporale, perché secondo loro il potere legittimo appartiene al dodicesimo imam ritiratosi dal mondo visibile e che riapparirà un giorno trionfalmente per aprire un’era di pace e di giustizia.
È nel 1502 che lo sciismo diventa la religione di stato dei persiani fino ad allora, nella grande maggioranza, sunniti. Ad  imporlo – ben 10 secoli dopo la morte di Ali e gli avvenimenti che hanno originato la shi’ha –  è la dinastia turca dei safawidi, i quali fanno venire dalla Siria meridionale e dal Bahrain i predicatori e i propagandisti necessari alla loro opera di sciitizzazione del paese. Le motivazioni sono in realtà puramente politiche: lo si può capire dall’alleanza che i regnanti stringono con la chiesa di Roma per combattere gli ottomani. Messo al riparo dalla persecuzione sunnita, lo sciismo diventa il carattere fondante dell’Iran.

Quattrocento anni dopo lo sciismo (più che il clero sciita) è protagonista dell’ultima rivoluzione del XX secolo. Al pari di sant’Agostino, Khomeini sostiene la tesi secondo cui tutti i governi sono artificiali. Ma a differenza del filosofo cristiano, l’ayatollah non indica soltanto “la Città di Dio” come la soluzione ideale di riferimento. Egli ritiene indispensabile che ci sia sulla terra un governo islamico, composto dal collettivo dei giuristi, i fuqaha (i giureconsulti musulmani), uomini di grande virtù ai quali spetta il diritto di governare. È un richiamo forte alla tradizione degli sciiti che, diversamente dai sunniti che riconoscono fin dal VII secolo la legittimità dei califfi, accettano soltanto quella degli imam. In attesa della fine dei tempi e dell’imam nascosto, che verrà a ristabilire un regno di giustizia sulla terra, a chi spetta il compito di guidare la comunità dei credenti? Per l’ayatollah Khomeini tale ruolo spetta ai mullah (“teologi”) e al faqih (“il saggio”), vicario dell’imam nascosto e delegato alla sovranità divina. Questa dottrina del “governo del saggio” (velayat-e-faqih), che accorda ai mullah enormi poteri e che orienta il potere iraniano, è stata contestata in passato – e lo è tuttora – da altri ayatollah. È l’onda di questa dottrina che ha travolto lo scià e che oggi, come detto, è al centro di una controversia che rischia di spaccare il clero sciita e che ha avuto nell’ayatollah Montazeri, uno dei “padri della rivoluzione”, la sua vittima più illustre. Massima convergenza invece su un altro punto nel quale la teologia sciita si differenzia da quella ortodossa sunnita: il valore dato all’ideale, all’utopia, basato esclusivamente sulla sofferenza, sul martirio che nello sciismo assume un carattere quasi redentivo (dall’evento dell’anno 680, quando Hussein viene ucciso a Kerbala). La rivalutazione del dolore, della sofferenza, della sconfitta sulla terra diventano fatti religiosamente positivi. Non a caso Khomeini esalterà la figura dello shaid, del martire, durante la lunga guerra contro l’Iraq di Saddam. Da allora le missioni dei martiri (diverse da quelle suicide, sunnite) diventano una costante nella lotta armata di matrice islamica.                                                                               

Vi.Ma.

Se ogni mezzo diventa lecito

LA LEGGE DI WASHINGTON

Interrogatori “pesanti”, prigioni segrete, tribunali militari.

Il premio Pulitzer Thomas Friedman, sul New York Times non è stato tanto tenero con  Bush. “Il mondo -ha scritto – detesta George Bush più di qualsiasi altro presidente statunitense che io ricordi da quando sono nato. Bush è radioattivo, ed è così invischiato nella sua stessa bolla ideologica da essere incapace di concepire o predisporre strategie alternative”. Infatti, i fondamenti teorici del progetto americano che hanno portato alla guerra all’Iraq sono il risultato del lavoro intellettuale e politico di un piccolo nucleo di neoconservatori (neocon), a iniziare da Norman Podhoretz, Richard Pearle, David Frum, Beard Lewis, Fuad Ajami e dal “prediletto” del presidente Bush, l’ex dissidente sovietico e politico israeliano di destra Natan Sharansky. Sono uomini accomunati dalla stessa visione del mondo musulmano, descritto come un universo in decadenza continua, dovuta ai difetti culturali, psicologici e religiosi delle società islamiche. Questa caratteristica “genetica” spiegherebbe, secondo costoro, l’ondata di violenza terrorista sempre più virulenta cui assistiamo e si frapporrebbe come ostacolo ad una democratizzazione concepita come l’unico rimedio possibile a tutti questi mali. Di fronte alla quale l’America, secondo i neocon, non può aspettare, ma deve agire per modificare il corso della storia nel mondo arabo-islamico, ricorrendo anche alla forza, e se necessario con l’aiuto di Israele.
È una strategia politica che mette insieme il fondamentalismo cristiano di destra, il sionismo americano militante e un militarismo senza limiti. Questo spiega anche la facilità con cui si tollera la tortura e si investe di poteri illimitati il presidente, consentendogli di tenere in carcere indefinitamente persone che non sono state non solo giudicate, ma neppure accusate.

Si aprono pagine nere per la democrazia. Secondo Amnesty Inteational, dopo l’11 settembre oltre 1.200  persone di origine mediorientale (o appartenenti a comunità musulmane) sono state arrestate. L’attenzione pubblica si è soffermata sui sospetti membri di al-Qaida e sui talebani catturati in Afghanistan e deportati al campo X-Ray di Guantanamo, ma la questione della “sicurezza nazionale” ha portato ad abusi ed ha implicazioni che scavalcano il drammaticamente famoso reticolato delle basi militari.
Infatti, subito dopo i tragici eventi dell’11 settembre, circa 5 mila uomini tra i 18 e i 33 anni, provenienti da paesi del Medio Oriente sono stati interrogati, in quelle che venivano ufficialmente denominate “interviste volontarie” ma che di fatto costituivano una schedatura a sfondo etnico. Diecimila persone di origine musulmana, araba, sud-asiatica sono diventate obiettivo di investigazione. Uomini di tutte le età, provenienti da 25 paesi target (paesi  prevalentemente musulmani), senza che esistesse alcuna accusa nei loro confronti, sono stati richiamati dall’ufficio immigrazione per essere interrogati  e sono state loro prelevate le impronte digitali. Più di 82 mila  persone hanno dovuto subire questa “special registration”, per oltre 13 mila si è tradotta in espulsione. Tutto questo facilitato da una legge creata ad hoc, il 26 ottobre 2001, l’ormai triste e famoso Patriot Act. “U.S.A. P.A.T.R.I.O.T.” è, infatti, un acronimo che sta per “Uniting and Strengthening America by Providing Appropriate Tools Required to Intercept and Obstruct Terrorism” (“unire e fortificare l’America foendo strumenti appropriati per intercettare e ostruire il terrorismo”). È una legge approvata dal Congresso alla quale sono seguiti – 21 marzo e 21 giugno 2003 – i più incisivi “Military Commission Orders” del presidente e le 8 “Military Instructions” che li attuano.

Il 17 ottobre 2006, ecco il Military Commissions Act, la legge sui tribunali militari che è stata firmata da Bush e che consentirà alla Cia e in genere alle agenzie antiterrorismo americane di detenere a tempo indeterminato e senza la necessità di prove qualsiasi persona considerata un “nemico degli Stati Uniti”. E per i detenuti di Guantanamo si apriranno i processi davanti alle military commission, tribunali militari dove saranno giudicati senza la necessità che siano esibite prove contro di loro e senza che siano assistiti da un avvocato. La legge autorizza anche gli interrogatori “pesanti” – ma la Casa Bianca nega che si tratti di tortura – e la creazione di prigioni in luoghi segreti. “Sono rare le occasioni – ha detto il presidente Bush alla cerimonia della firma – in cui un presidente può firmare una legge che sa che salverà vite americane. Oggi io ho questo privilegio”. Un privilegio che però non gli è bastato per evitare la pesante sconfitta elettorale del 7 novembre.                 

V. Maddaloni

Vincenzo Maddaloni




Il kif del rif

Coltivazione e commercio della cannabis

Sono semplici coltivatori. Raccolgono i frutti della terra e li vendono in Europa. Con quello che guadagnano mantengono figli e famiglie. Sono i circa 500 mila agricoltori che vivono nel Rif e che oggi si oppongono alla distruzione delle loro coltivazioni, ordinata dal governo marocchino. Ma perché il regno alawita vuole impedire ai contadini di lavorare la terra? Perché quello che producono è marijuana. Droga, per chi non la conoscesse.

Il caldo inizia a farsi insopportabile e gli animali diventano nervosi, ma i mercanti del souq di Mizan el Harara non si muovono dai loro banchetti. Nell’arco di un’intera mattinata non hanno venduto quasi nulla: frutta e verdura sono rimaste a marcire sotto il sole.
I clienti abituali di questo paesino, incastrato nelle montagne tra Ouezzane e Ksar el Kebir, nella regione di Larache, non si sono fatti vedere: la loro unica fonte di reddito è stata distrutta dai militari marocchini e oggi non hanno più denaro per fare acquisti. “L’anno scorso – spiegano amareggiati gli uomini del mercato – aerei carichi di agenti chimici e quasi 100 trattori agli ordini dei gendarmes hanno raso al suolo tutte le coltivazioni di cannabis e sono entrati nelle case dei contadini per distruggere le riserve di hashish”.
L’operazione è stata ordinata dall’inflessibile governatore di Larache, Maoulainine Ben Khellihenna, che negli ultimi due anni ha fatto distruggere oltre 4 mila ettari di kif, nome locale della cannabis, nel quadro della campagna contro il narcotraffico, voluta dal governo marocchino, in accordo con le autorità europee e statunitensi.
“Il progetto di sradicamento delle colture di cannabis è stato fatto in accordo con i contadini – ha puntualizzato Khellihenna in una conferenza stampa – e oggi i locali hanno ritrovato la pace e la dignità. I coltivatori, inoltre, non hanno subito alcun danno, perché con i fondi del governo marocchino abbiamo compensato le perdite, facendo piantare oltre 50 mila olivi. Abbiamo anche donato 523 capre e 200 alveari per dare impulso all’apicoltura”.

Il successo della hamla, l’operazione di sradicamento, è stato anche lodato dall’ultimo congresso delle Nazioni Unite sul traffico di droga, che ha messo in luce come in meno di due anni la produzione nazionale di hashish sia diminuita sensibilmente.
A sentire i contadini del luogo, però, le cose sono andate diversamente: il governatore non avrebbe preso alcun accordo; anzi, avrebbe imposto la distruzione delle coltivazioni con la forza. “Gli imam e i funzionari pubblici hanno iniziato a dire che la coltivazione della cannabis era proibita – dice un contadino della zona -, ma noi pensavamo fosse l’ennesimo trucco per spillarci denaro”. “Invece questa volta i militari sono arrivati davvero – aggiunge un altro – e in 60 giorni hanno distrutto le riserve e incendiato le coltivazioni. Ci hanno anche costretto a fornire il cibo per gli operai che stavano devastando i campi e chi si rifiutava veniva minacciato con le armi”.
Per il momento i risultati dell’operazione “Larache région sans cannabis”, sono una campagna non coltivabile e sinistrata, incapace di attirare le centinaia di stagionali che nei mesi autunnali venivano a dare una mano per la raccolta. “Il governatore parla di dignità – dice un contadino che fino all’anno scorso coltivava cannabis -, ma non capisco che dignità possa avere uno che non ha più un dirham in tasca”.
Non avendo ricevuto compensazioni sufficienti, molti coltivatori sono emigrati nelle periferie delle città, dove vivono in condizioni di povertà e sono più soggetti al richiamo delle ideologie islamiche estremiste: alcuni addirittura hanno smesso di mandare i figli a scuola, perché non sono in grado di far fronte alla retta o perché non sono riusciti a saldare i debiti che avevano contratto durante il periodo della semina.
“La hamla contro la droga così come è stata organizzata è l’ennesima ipocrisia – scrive secco sul settimanale marocchino Tel Quel Driss Bennani -. Si è deciso di colpire i contadini, che sono l’anello più debole della catena del narcotraffico e il resto è rimasto invariato: nessun accenno ai consumatori europei e i processi contro i trafficanti vanno a rilento”.
Bennani non ha tutti i torti. Anzi. Dei proventi del commercio di cannabis, infatti, ai contadini arrivano poco più delle briciole: i passaggi dell’hashish arricchiscono ogni giorno molti ufficiali della gendarmeria e alti funzionari dell’amministrazione pubblica, i cui nomi appaiono all’inizio dei processi per poi sparire nel dimenticatornio.
“Ogni famiglia – dice senza mezzi termini Mohammed, che ha una piccola coltivazione vicino ad Akchur – scrive sui pani di hashish le proprie iniziali così la polizia sa a chi appartiene la droga e la fa passare alla dogana solo se i contadini hanno pagato il pizzo”.

Nei recenti processi ai trafficanti, però, per la prima volta le autorità marocchine hanno ammesso che esiste un legame tra il commercio di droga e il mondo politico. Tra il 2005 e il 2006 sono stati indagati l’ex capo della Securité Royale, Abdelaziz Izzou, e l’ex capo della sicurezza del palazzo reale, Mohamed Mediouri. Nei processi sono anche spuntati i nomi del figlio di Meyer Michel Azeroual, ricchissimo magnate degli acciai, legato alla corte del precedente sovrano, Hassan ii, e di altri importanti protagonisti della vita economica e politica di Tangeri.
Recentemente, inoltre, le indagini della polizia parigina hanno rivelato che alti funzionari del governo marocchino sono attivi nel riciclaggio del denaro sporco, proveniente dalla vendita di hashish e che alcuni uomini d’affari in vista nel regno alawita traggono dalla droga la maggior parte dei loro guadagni.
Tra i meglio organizzati ci sarebbero i membri della famiglia Chaabani, che fanno la spola tra il Nord del Marocco e Parigi. Originari di Nador, hanno il loro quartier generale in una stazione di servizio e usano alcuni negozi di tessuti e cybercafé come appoggio. Nel retro delle loro botteghe i Chaabani danno istruzioni ai loro intermediari europei e franco-marocchini nel vecchio continente su come piazzare l’hashish e trasportarlo a bordo di 4×4, camionette e autobus diretti in Belgio, Germania e Olanda. Al ritorno gli stessi mezzi portano denaro o addirittura lingotti d’oro. Parte dei soldi vengono poi investiti nel settore immobiliare in Marocco e in Europa e ovviamente in nuove colture di kif.

Eppure, almeno ufficialmente, il governo marocchino appare molto impegnato nella lotta alla produzione di cannabis, ed è il solo paese produttore che ha finora apparentemente collaborato con l’Ufficio sulla droga e il crimine delle Nazioni Unite (Unodc), stilando statistiche e censimenti sullo stato delle coltivazioni in Marocco.
Questa generale volontà nazionale che sta dietro all’operazione antidroga di Larache risulta però quantomeno ambigua, se si pensa che nella dirimpettaia regione di Chefchaouen, peraltro la zona di produzione del kif per antonomasia, si continua a coltivare cannabis senza troppe preoccupazioni.
Secondo l’Unodc, Larache fornisce solo il 12% del kif marocchino, contro il 62% di Chefchaouen. Inoltre, la qualità è quasi sempre nettamente inferiore e per questo il kif di Larache entra in scena solo quando i coltivatori di Chefchaouen e del resto delle montagne del Rif non riescono a far fronte da soli alle richieste del mercato interno e internazionale.
Secondo le autorità marocchine, però, la hamla di Larache è una campagna preliminare, alla quale ne seguiranno molte altre. La scelta di cominciare da qui nascerebbe dal fatto che la coltivazione di cannabis è stata introdotta più recentemente e ha avuto meno tempo per radicarsi, “anche se è noto a tutti – aggiunge un militante di un’associazione anti-hamla – che in queste zone ci venivano i Rolling Stones negli anni ‘60, perché c’erano grandi musicisti e erba a volontà”.
Il problema è che sono milioni le persone che vivono di questo tipo di coltivazioni e nessun paese al mondo può permettersi di togliere il lavoro a così tanti cittadini. Qualunque sia la fonte di reddito.

A una manciata di chilometri da Larache, infatti, nella zona di Chefchaouen, il commercio del fumo continua fiorente e i clienti europei non mancano. “Ho pakistano, cioccolato e caramello – dice uno dei tanti che cercano di piazzare i loro prodotti in giro per la città di Ketama, vero e proprio cuore pulsante del narcotraffico -. Se non fumi non è un problema: tanti italiani comprano un po’ di hashish per rivenderlo una volta tornati a casa e rientrare delle spese della vacanza”.
Non bisogna aspettare molto perché qualche capetto della malavita locale si avvicini per proporre un affare. “Questi – afferma Jean, un francese che viene in vacanza nel Rif da una ventina d’anni – è uno di quelli che non coltivano. Vendono e basta, come si vede dalle macchine di lusso con cui vanno in giro. Non stanno certamente in campagna a zappare la terra”.
Quelli che stanno nei campi a curare le piante di kif, i coltivatori veri e propri, sono lontani anni luce dai giochi di potere e dalle partnership tra lo stato marocchino e le Nazioni Unite. Lavorano la terra esattamente come se stessero coltivando patate, barbabietole o pomodori, come Youssef, che con il kif mantiene la sua famiglia. Non ha i fuoristrada di lusso dei trafficanti, ma una vecchia auto e, con i guadagni dello scorso raccolto, ha fatto piastrellare la sua veranda e montare i sanitari nel bagno.
Youssef fa questo lavoro da 30 anni; suo padre lo faceva prima di lui e i suoi figli stanno imparando il mestiere. Quando parla di tossicodipendenza si riferisce alla sua ossessione per il caffè, che ha imparato ad apprezzare grazie ad alcuni amici italiani che gli hanno regalato una moka. Non parla né di hashish né di marijuana. Qui fumano tutti nella pipa tradizionale, la sebsa.
Sebbene la hamla non sia arrivata fin qui, le cose stanno cambiando anche per i coltivatori come Youssef. La continua richiesta di droga da parte dei giovani europei ha fatto espandere il mercato e i trafficanti si sono fatti più aggressivi e meglio organizzati. Insomma, sempre più malavitosi con la macchina di lusso che hanno altre priorità e altri metodi rispetto ai contadini.
Non solo. Da un paio di anni a questa parte i trafficanti usano gli stessi canali dell’hashish per distribuire la cocaina: nel porto di Agadir o in Mauritania, infatti, i due prodotti si incontrano e viaggiano insieme attraverso la Galizia per invadere il mercato europeo.
E la polvere bianca ha fatto il suo ingresso anche in Marocco, dove ha cominciato a diffondersi tra i giovani che, stando alle analisi dei sociologi marocchini, sono sempre meno inclini a rispettare il divieto coranico di assumere alcol e droghe.

Alessio Antonini e Chiara Giovetti

Alessio Antonini e Chiara Giovetti




Il limbo degli emigrati

La disperazione degli emigranti sub-sahariani

Intervista ad Araj Jelloul, esperto di immigrazione clandestina e cornordinatore dell’organizzazione Homme et Environnement.

Oujda. Araj Jelloul sta seduto alla scrivania del suo ufficio nei locali della parrocchia di Saint Louis. È un marocchino corpulento, con spessi occhiali da vista e un viso bonario. Veste la tunica tipica dei musulmani e mastica tabacco. Una volta fumava. Ha smesso durante i sei anni passati nelle prigioni del defunto re del Marocco, Hassan ii: militava in un sindacato e un giorno scrisse su un quotidiano un articolo troppo critico nei confronti del regime.
Oggi Araj cornordina l’associazione Homme et environnement, che raccoglie cristiani, musulmani e atei, per assistere gli immigrati che tentano di raggiungere l’Europa e rimangono incastrati in Marocco. L’associazione sostenuta dal parroco di Saint Louis, padre Joseph Lepine, e da Medicins Sans Frontières, fornisce assistenza medica di primo soccorso, procura abiti e cibo per gli immigrati e fornisce consulenze legali gratuite ai richiedenti asilo.

Noi conosciamo il fenomeno dell’immigrazione attraverso le centinaia di disperati che sbarcano sulle coste europee in cerca dell’eldorado. Chi sono quelli che non ce la fanno? E perché rimangono in Marocco?
Sono i cosiddetti immigrati di passaggio: si tratta di persone che fanno tappa in Marocco per prepararsi a passare in Europa. Spesso però non ce la fanno perché passare il confine è sempre più difficile e si trovano intrappolati qui: l’Europa è loro preclusa ma, al tempo stesso, non hanno né il denaro né le forze per tornare nei loro paesi.
Ad aggravare gli impedimenti materiali, inoltre, c’è anche il fatto che rientrare a casa sarebbe per loro motivo di vergogna nei confronti delle loro famiglie e comunità. E non è solo una questione psicologica perché a volte sono le stesse tribù a cui appartengono che hanno finanziato il viaggio di due o tre elementi del villaggio. Di solito li scelgono tra i più forti, preferibilmente con competenze professionali di qualche tipo, e procurano loro il denaro per pagare il viaggio, nella speranza che una volta arrivati in Europa aiutino tutti inviando del denaro. L’immigrazione è una specie di investimento.

Chi è che emigra?
Di solito si tratta di sub-sahariani tra i 19 e i 34 anni, in buone condizioni di salute, di livello culturale medio o, più raramente, alto. Vengono dalle aree più povere del loro paese, a eccezione della Nigeria, i cui emigranti vengono da tutto lo stato. Il loro sogno è quello di potersi comprare un’automobile e solo qualcuno desidera tornare a casa.

Chi organizza i viaggi della speranza?
Spesso sono mafie locali, magari collegate ai gruppi criminali che operano in Europa. Ma noi non veniamo in contatto con queste organizzazioni se non tramite i racconti delle persone che soccorriamo. Le mafie sono molto ben organizzate e hanno punti di raccolta nascosti ovunque, per ogni tappa del viaggio.
Io stesso sono venuto a conoscenza dell’esistenza di queste reti mafiose accidentalmente, quando due persone vennero ad avvertirci che c’era una donna che stava per partorire e che aveva urgente bisogno di cure mediche. Noi ci precipitammo sul posto che ci era stato indicato e nel bagno trovammo la donna, ormai cadavere, riversa in un lago di sangue e con la neonata accanto. All’interno dell’appartamento c’erano, stipate, almeno altre 50 persone, ma quando uscimmo, per portare la bambina in ospedale e chiamare la polizia, sparirono tutti.
Al nostro ritorno, nell’edificio non c’era più nessuno. Fu allora che capimmo che i due che ci avevano avvertiti non erano soli: ci avevano detto di essere nigeriani, vestivano firmato e avevano dei cellulari ultimo grido. Era evidente che si trattava dei mafiosi che organizzavano il traffico.

I mercanti di schiavi appartengono a un paese in particolare?
Immagino che ci siano diverse varianti; ma secondo le informazioni in mio possesso, per la maggior parte provengono dal Ghana. È da là che vengono organizzate la maggior parte delle traversate del deserto. Ed è nel deserto che muoiono la maggior parte degli immigrati. Quando qualcosa va storto i trafficanti abbandonano gli immigrati a se stessi e quando non riescono a farli arrivare in Europa li portano sulle montagne intorno a Oujda, promettendo che toeranno a chiamarli quando le condizioni saranno più favorevoli.
Mi è capitato di conoscere alcuni di quelli che vivono nei boschi e di rimproverarli per la loro ingenuità; ma la loro fiducia, alimentata dalla disperazione, è cieca e irrazionale. Spesso, nella rete mafiosa cade chi ha già un parente in Europa in grado di trovare il denaro per pagare il biglietto.

Quanto pagano questi disperati per emigrare?
Dipende. Esistono varie forme di pagamento. Posso citare la storia di una ragazza nigeriana che abbiamo assistito qui a Oujda. Nel suo caso, simile a quello di molte altre, la prima parte del viaggio lo ha pagato la famiglia, in contanti.
La seconda tranche l’ha dovuta pagare lei, prostituendosi lungo la strada. In alcuni casi, le ragazze che rimangono incinte devono cedere il neonato a organizzazioni che procurano bambini per le adozioni illegali.
Il saldo della terza parte del biglietto avviene in Europa, dove le ragazze sono inserite nelle reti della prostituzione. Gli uomini invece spesso pagano in contanti. Pagano circa 500 euro per attraversare l’Algeria o il Marocco e altri 4-6 mila euro per arrivare in Europa.

Ma sono un sacco di soldi per vivere in Africa! Perché gli immigrati non scelgono di usare quel denaro per fare altro, ad esempio aprire un’attività commerciale nel loro paese?
Per tanti motivi. In primo luogo, l’Europa è il sogno di una vita per molti. Poi bisogna aggiungere che intraprendere un’attività in Africa non è così semplice. Basta vedere l’esempio delle téléboutique, in cui si trovano i servizi telefonici e internet: se qualcuno ne apre una e inizia a guadagnare, in poco tempo ne apriranno altre dieci nello spazio di poche centinaia di metri e nessuno riuscirà più a sbarcare il lunario.
Questo è dovuto alla mancata applicazione delle leggi che regolano l’economia e la concorrenza. La totale mancanza di regole è uno dei più gravi problemi di tutto il continente.

Ma allora non c’è proprio futuro?
Un futuro c’è. Sono ottimista. Noi africani abbiamo le carte in regola e le potenzialità per avere un domani più roseo, anche se siamo lontani dal risolvere il problema della corruzione delle élite e delle lotte tra le tribù per la spartizione del potere e del denaro.

Quale ruolo può avere l’Europa nello sviluppo africano?
L’Europa è un punto di riferimento per quanto riguarda democrazia e diritti umani. Nonostante gli abusi e la corruzione che esistono dappertutto, in Europa le regole vengono applicate e i cittadini sono uguali davanti alla legge.
In Africa non si può nemmeno parlare di cittadini, ma di sudditi, che hanno doveri ma non diritti.
Ma non è così semplice. L’Europa è in parte responsabile della condizione in cui versa l’Africa oggi: se lavorasse più attivamente ed efficacemente per contribuire allo sviluppo dei paesi africani, ci sarebbero dei risvolti positivi anche sull’immigrazione verso il vecchio continente.

Ma a voler essere cinici, si potrebbe dire che a noi europei conviene tenere l’Africa nelle condizioni in cui si trova oggi. Un grande supermercato a cielo aperto e un bacino di manodopera a basso costo è meglio di un concorrente, o no?
Forse. Ma allora l’Europa dovrà rassegnarsi a sopportare anche i costi che comporteranno il terrorismo, l’immigrazione selvaggia, le orde di disperati che cercano e cercheranno di raggiungere le coste spagnole, francesi, italiane. Credo invece che, grazie alla prossimità geografica, l’Europa sarebbe la prima a beneficiare di un’Africa più sviluppata e stabile.
Da che mondo è mondo, gli esseri umani si sono spostati da una parte all’altra del globo e la mondializzazione è ormai un dato di fatto. Non si può pensare che i problemi dell’Africa non coinvolgano il resto del pianeta. Le conseguenze di questi problemi, piaccia o non piaccia, pesano sulle spalle di ognuno. Il sottosviluppo dell’Africa è un problema per tutti e a tutti è richiesto un piccolo sacrificio.

Alessio Antonini e Chiara Giovetti




Rientro da superstar

Quando gli espatriati marocchini tornano in patria

Arrivano a migliaia, con le Mercedes targate Spagna, Francia o Italia, gli occhiali da sole ultimo grido e le camicie firmate. Vanno nelle case che si sono fatti costruire con i soldi che hanno guadagnato lavorando in Europa, oppure tornano al paese a trovare mammà. Sono i marocchini che ce l’hanno fatta: gli ammiratissimi e invidiatissimi “zmagria” (espatriati), il cui mito si contrappone alla disperazione di chi ci sta ancora provando e che non ha nulla da perdere.

L’alba fresca di Sidi Lahcen trova i mercanti berberi pronti ad aspettarla. Sono arrivati nella notte percorrendo decine di chilometri a piedi o a dorso d’asino. Sui loro vestiti c’è ancora la polvere ocra che il vento solleva dalle piste ghiaiose delle montagne dell’Atlante. È giorno di souq, di mercato: l’unico avvenimento che anima questo villaggio tra le montagne marocchine, strappato al deserto, dove tutto è silenzio.
Le donne avvolte nei loro veli colorati devono ancora arrivare. Poi saranno le voci delle contrattazioni a invadere la piazza del paese. Solo un rumore rompe la quiete e fa innervosire le bestie: il crepitio dei pneumatici di una grossa berlina grigia con targa spagnola che avanza sui sassi della sterrata. “Macchine così da queste parti se ne vedono solo in luglio e agosto – dice Omar, il medico del villaggio, indicando l’auto parcheggiata accanto ai muli – sono quelle dei marocchini residenti all’estero che tornano qui in ferie a trovare le famiglie”.
Dalla vettura scende un uomo sui quaranta, ben vestito. Ha una camicia di marca, perfettamente stirata, occhiali da sole e jeans in netto contrasto con le tuniche tradizionali dei contadini, che lo guardano di sfuggita. Attraversa velocemente le bancarelle del souq, scambiando qualche rapido saluto con i più anziani. Gli altri li ignora. È venuto a comprare solo le sigarette e non si sofferma sui cesti di spezie o sui servizi da tè esposti al mercato. Lui, la spesa, la fa al Marjane: “Il primo centro commerciale del Marocco”, come recita lo slogan pubblicitario. Esattamente come farebbe un europeo in Europa. E come fanno i quasi due milioni di marocchini che ogni estate invadono i lungomare della costa atlantica e mediterranea con in tasca un salario da occidentale.

Il rientro dei marocchini vacanzieri inizia a partire dalla seconda metà di giugno. I porti di Tangeri e Nador e l’aeroporto Mohammed v di Casablanca vengono presi d’assalto e gli zmagria (termine dispregiativo che indica gli espatriati) diventano l’oggetto preferito di discussione dei giornali e delle televisioni locali.
L’amministrazione li chiama Mre: Marocchini residenti all’estero. Il loro contributo all’economia del paese è a dir poco determinante. Secondo le statistiche dell’Office des changes, nel 2005 gli emigrati hanno inviato rimesse per 4 miliardi di euro; con le vacanze estive, poi, nelle casse dello stato e dei commercianti locali arriva un’altra pioggia di dirham, la moneta marocchina.
Anche per questo re Mohammed vi, sovrano del Marocco, ha voluto creare un ministero per i residenti all’estero, con il compito di agevolare i rientri estivi e facilitare eventuali ritorni definitivi. “Mohammed vi – spiega Hussein El Bouziani, aggiustandosi la sua cravatta sul vestito grigio da banchiere – sta mettendo a punto una strategia per recuperare competenze ed euro sulla base dell’esperienza delle tre “i”: Italia, Irlanda e Israele, paesi che si sono sviluppati proprio grazie alle loro diaspore”.
Ma se il governo considera gli Mre elemento fondamentale della ripresa economica, i marocchini continuano a descriverli come “persone senza educazione, che sono scappati dalle zone più povere del paese e oggi cercano la rivalsa”. “Quando senti una macchina che sgomma e uno stereo a tutto volume – commenta caustico Ahmed, sorseggiando una coca ai tavolini del Jour et Nuit di Agadir – non c’è nemmeno bisogno di guardare: è sicuramente uno zmagria. In Europa rispettano la legge, perché hanno paura e non sono nessuno, qui fanno le superstar, perché sanno che con un euro di bakshish (mancia) la polizia lascia correre. Chi ha già un lavoro qualificato preferisce stare in Marocco, dove è qualcuno tutto l’anno, non soltanto in agosto”.

Il giudizio dei marocchini sui loro connazionali espatriati, però, è raramente oggettivo: o è viziato dall’invidia di chi vorrebbe partire, ma non ci è ancora riuscito, oppure dal disprezzo di chi non ha bisogno di emigrare per mantenere la famiglia perché ha un reddito più che adeguato per vivere nel suo paese. Che si tratti di immigrati di prima generazione, come quelli arrivati negli ultimi anni in Italia e Spagna, o di figli di espatriati di vecchia data, come i franco-marocchini, l’effetto sugli zmagria è sempre lo stesso: quello di sentirsi isolati.
Come tutte le superstar, sono al tempo stesso amati e ammirati o odiati e incompresi. “Ogni estate è la stessa storia – sbuffa accaldato uno dei passeggeri in attesa di varcare i cancelli del porto di Nador -. La realtà è che i nostri connazionali ci invidiano perché vorrebbero essere al nostro posto e, quando non ci odiano, ci considerano vacche da mungere. Il problema è che siamo marocchini in Europa e turisti a casa nostra”.
L’amarezza del primo impatto, però, è presto dimenticata: basta una passeggiata sul lungomare di Saidia, Essaouira o Agadir, o più semplicemente il tajin preparato dalla mamma alla maniera tradizionale per riportare il buonumore. E per le loro serate, i turisti marocchini possono scegliere tra decine di festival, concerti e spettacoli che animano le grandi città, eventi capaci di radunare centinaia di migliaia di persone intorno a un palcoscenico, su cui si alternano artisti di fama internazionale, come Khaled, Yossou N’Dour e Shaggy.
Spesso, dopo il concerto, la festa continua in spiaggia, con il classico falò e le chitarre intorno al fuoco, o in una delle tante discoteche della costa. “Quest’anno ho deciso di rimanere in Marocco tutta l’estate – sorride Abdul, giocando con il suo lettore mp3 appeso al collo -. Mi piace tornare a casa perché qui tutto costa meno e posso andare al mare senza che la polizia mi fermi per la strada perché sono un arabo. Non mi importa se mi chiamano zmagria; io qui sto bene e le ragazze non sono arroganti come le francesi”.  

Di fatto, l’emigrazione viene ancora considerata una prova di virilità. “Chi parla male degli zmagria non ha abbastanza fegato per lasciare tutto e partire – dice Mounir in uno spagnolo elementare imparato per la strada -. Io sono stato due anni a Ibiza senza documenti e posso dire di essermi messo alla prova. Mi sono anche divertito parecchio in giro per le discoteche dell’isola, a bere con gli amici e a guardare le ragazze. Adesso mi sono sposato e sto qui in Marocco, ma domani chissà”.
Racconti come questo contribuiscono ad alimentare il mito dell’emigrato di successo e della bella vita al di là dello stretto di Gibilterra. Nessuno parla di quanto ha sofferto per attraversare il mare e fare l’operaio in Europa, nessuno accenna alle umiliazioni e alla fatica.
“Nella regione di Beni Mellal – spiega Khalid Zerouali, portavoce della Afvic, l’Associazione dei familiari delle vittime dell’immigrazione clandestina – quasi tutti hanno un amico, un parente o fidanzato morto affogato nel tentativo di superare lo stretto o in quello di attraversare a piedi il deserto libico. Nonostante ciò, tutte le iniziative intraprese per scoraggiare l’immigrazione clandestina si infrangono sulla leggenda di chi ce l’ha fatta e sul fatto che le famiglie degli espatriati considerano i loro figli o fratelli degli eroi, perché mandano i soldi a casa”.
Tuttavia, grazie alla tv satellitare che ha portato nelle case le immagini degli scontri nella banlieue parigina, degli scioperi sindacali e del dibattito sulle vignette su Maometto, tra i giovani marocchini istruiti il mito dell’Europa si sta ridimensionando e con esso anche l’amore-odio per gli zmagria.
Le politiche miranti alla selezione degli immigrati, come quelle proposte dal ministro degli esteri francese Sarkozy, suonano ai marocchini come un tentativo deliberato dell’Europa di privare i paesi in via di sviluppo delle loro risorse più qualificate. “L’Europa vuole i nostri cervelli e le nostre braccia migliori a prezzo scontato – racconta Hafid, che ha passato in Francia sei mesi di stage come studente di agronomia -. Quello che non capisce la gran parte di quelli che vogliono emigrare è che anche qui si può avere un futuro”.

A giudicare dalle centinaia di cantieri aperti e dagli investimenti delle imprese marocchine, europee e americane in tutto il regno, il futuro di cui parla Hafid non è più così lontano.
Lo scorso luglio, alla conferenza di Rabat sull’immigrazione le autorità europee non hanno quasi parlato di espatriati marocchini, mentre hanno discusso a lungo del ruolo tampone del Marocco come paese di transito degli emigranti sub-sahariani, che aspettano il momento propizio per passare lo stretto di Gibilterra. “Intoo a Oujda, al confine con l’Algeria – racconta Araj Jalloul, dell’associazione umanitaria marocchina Homme et Environnement -, centinaia di africani sub-sahariani hanno fatto della foresta la propria casa. Vivono come animali, in condizioni igieniche e alimentari tremende, volutamente ignorati dal governo marocchino e dalle autorità europee. Con fiducia cieca, restano ad aspettare che la mafia ghanese che li ha fatti arrivare fin qui vada a stanarli sulle montagne per dire che è arrivato il loro tuo di saltare le barriere di Melilla o di imbarcarsi su due assi inchiodate per attraversare il Mediterraneo. Non c’è modo di convincerli a tornare a casa: sarebbe troppa la vergogna nei confronti della famiglia che ha scommesso su di loro”.

Sono questi gli immigrati delle immagini trasmesse dai telegiornali: il carico dei barconi di disperati che durante l’estate arrivano sulle spiagge della costa mediterranea o sulle isole italiane e spagnole.
Visto l’intensificarsi dei controlli dei militari locali e delle guardie costiere di tutta Europa, il breve tratto che separa la città marocchina di Laayoune dalle Canarie è stato di fatto bloccato e le nuove direttrici della disperazione partono dalla Mauritania attraverso l’oceano Atlantico, solcando oltre mille miglia di acque impetuose che travolgono un terzo delle barche di passaggio e i loro occupanti. Ma la speranza di aiutare la propria famiglia, il sogno di comprare un auto di lusso, di indossare vestiti firmati e occhiali da sole valgono evidentemente una vita intera.
La reazione di chi queste cose le ha già sono sempre le stesse e sfiorano il paradosso: oggi in Marocco, gli immigrati dell’Africa nera sono oggetto dello stesso astio subito dai marocchini appena arrivati in Europa: “Non ci si può fidare di questi negri. Sono qui solo per rubare e creare problemi” avverte il gestore di un caffè nella medina di Casablanca, mentre un avventore si rivolge a due giovani del Mali gridando: “Rentrez chez vous, tornatevene a casa vostra: qui non c’è posto per voi”.
Ma a casa, insegnano gli zmagria, ci torna solo chi può farlo da vincitore.

Alessio Antonini e Chiara Giovetti

Alessio Antonini e Chiara Giovetti




Sessanta chilometri a piedi per un antidepressivo

Un mondo contrapposto: modeità e arretratezza secolare

Le donne non escono di casa senza marito. È la tradizione rurale che le confina nelle loro abitazioni mentre tutto intorno il Marocco cambia e si modeizza. La campagna è ferma a 100 anni fa e la gente va ancora dal farmacista a piedi o a dorso d’asino. E non compra antibiotici. Va a comprare antidepressivi. Perché il mal di vivere non è solo un lusso europeo.

Il sole rosso sparisce dietro le montagne e decine di fari si accendono all’improvviso, illuminando l’imponente lama di cemento che taglia a metà le acque del fiume Za raccolte in un enorme lago artificiale. Poco lontano dalla diga, la luce mette in risalto la scritta “Allah, Al Watan, Al Malik” ( Dio, Patria e Re), costruita con i sassi bianchi provenienti dalle montagne del Medio Atlante.
Oltre il lago, più nulla: le acque dello Za, affluente principale dell’oued Moulouya, sono sparite dal letto del fiume, per essere incanalate nei tubi che portano i rifoimenti idrici a tutta la regione orientale del Marocco, al confine con l’Algeria. Inaugurata da re Mohammed vi nel 2000, la diga è solo una delle tante opere pubbliche volute dall’attuale sovrano e da suo padre, re Hassan ii, per portare acqua e elettricità nelle città e tenere il Marocco al passo con la vicina Europa.

LA MODERNIZZAZIONE

“Negli ultimi cinque anni sono cambiate molte cose – spiega Mounir, attore e regista teatrale di Oujda, capoluogo della regione – e la distribuzione capillare di elettricità e acqua in tutta la città ha permesso la nascita di nuove attività commerciali”. Gli internet café sono sempre più numerosi e frequentati, e il viale Mohammed v di Oujda, con i suoi palazzi modei ricostruiti dopo le tante distruzioni dovute alla guerra con l’Algeria, è costellato da tavolini dei caffè, insegne al neon e maxi-schermi, dove gli uomini guardano le partite di calcio, sorseggiando l’immancabile tè alla menta molto zuccherato.
Poco più in là, davanti alle moschee, la gente si ferma a chiacchierare sotto le luci dei lampioni. “Le téléboutiques – continua Mounir – sono l’esempio più lampante di questa ondata di modeità, perché hanno anche profonde conseguenze sul tessuto sociale: per la maggior parte, infatti, sono gestiti da donne che, per la prima volta, sono uscite dalle case e hanno intrapreso attività commerciali senza nulla da invidiare a quelle dei mariti”.
L’energia elettrica e la progressiva modeizzazione hanno chiamato investimenti stranieri e in quasi tutto il paese sono comparsi i callcenter delle compagnie telefoniche francesi, che sfruttano i costi più bassi della manodopera senza bisogno di fare corsi di formazione linguistica, visto che qui il francese si parla per eredità coloniale.
“Il regno alawita ospita centri assistenza, clienti di tante aziende – spiega il professor Said Belghazi, docente di economia dell’Istituto nazionale di statistica di Rabat -, ma non solo. Grazie alle riforme degli ultimi 10 anni il mercato del lavoro si sta trasformando e richiede sempre di più manodopera qualificata. Questo dà impulso anche alla crescita e al miglioramento dei servizi scolastici e universitari perché sono le aziende stesse ad investire nella formazione”.

VERSO IL 2010

La sensazione costante è che tutto sia in movimento: il nuovissimo porto internazionale di Tangeri, la tratta ferroviaria Oujda-Tangeri, la ristrutturazione urbanistica di Rabat, la tratta autostradale Casablanca-El Jadida, il ramo Fés-Rabat e la gigantesca centrale elettrica di Afourer sono solo alcune delle grandi opere che danno lavoro a migliaia di marocchini.
“Le infrastrutture stanno cambiando il volto del paese – scrive Abdelwahed Rmiche sul quotidiano marocchino Le Matin -. Attualmente la rete autostradale conta 611 chilometri percorribili, ma se si considerano i cantieri aperti sarà possibile raggiungere la meta dei 1.420 chilometri per il 2010”.
Il 2010 sarà una data importante anche per il turismo: secondo le stime del governo, infatti, i visitatori richiamati dalle bellezze del regno alawita saranno più di 10 milioni. “C’è tanto da fare qui da noi – aggiunge Hassan che fa l’apicoltore di Séfrou, vicino alla città imperiale di Fès -. Non si tratta solo dei cantieri delle grandi opere pubbliche: le associazioni e le cornoperative per la valorizzazione del territorio e dei prodotti agricoli stanno sorgendo come funghi, ma abbiamo bisogno di investitori stranieri che sostengano le nostre iniziative e ci permettano di fare il salto di qualità, da un’economia rurale informale a quella d’impresa secondo gli standard europei”.

DOVE LA STORIA SI è FERMATA

“Il Marocco non è solo questo – interviene padre Joseph Lepine, parroco diocesano di Oujda -. A sud di Oujda ci sono zone dove l’acqua e l’elettricità faticano ad arrivare e le scuole sono a volte troppo distanti per essere raggiunte dagli studenti”.
Ne è un esempio Sidi Lahcen, comune rurale a pochi chilometri a sud della diga Hassan ii. La costruzione dello sbarramento l’ha isolato, rendendo la sua terra ancora più arida e quindi difficilmente coltivabile. La sua piazza principale si anima solo il giorno di mercato, quando gli abitanti delle zone isolate arrivano per acquistare e vendere le loro merci, disposte ordinatamente sulle bancarelle.
“Molti partono di notte – spiega Nadia, giovane farmacista del villaggio – e percorrono fino a 60 chilometri a piedi o a dorso d’asino per arrivare qui di mattina. Approfittano del souq per andare anche in comune, dal medico e in farmacia. Poi toeranno a casa e resteranno isolati di nuovo per un’altra settimana”.
A Sidi Lahcen si ha l’impressione che la storia abbia già deciso. Il paesaggio e l’atmosfera della campagna, rimasti identici per secoli, non sopravvivranno al moltiplicarsi delle costruzioni quasi avveniristiche disseminate nel paese: gli abitanti di questa zona sono rimasti isolati e le iniziative modeizzatrici del governo faticano a far sentire i loro effetti. Spesso sono berberi che non sanno né il francese né lo spagnolo e alcuni non parlano nemmeno l’arabo.
“È difficile anche comunicare con questa gente – scuote la testa il medico del villaggio -. Alcune volte mi scontro con credenze popolari perse nel passato e non riesco nemmeno a visitare i pazienti: basti pensare che le donne di qui vogliono partorire in piedi e più di una volta i neonati sono caduti battendo la testa”.
“Molti vengono da me senza una ricetta medica – aggiunge Nadia – ed è davvero difficile capire di quale medicinale hanno bisogno. Gli uomini vengono a comprare farmaci per le loro sorelle o per le madri che, come vuole la tradizione contadina, escono raramente di casa se non sono accompagnate dal marito. Spesso sono io che devo fare le domande per capire di che malattia si tratta e, quando non sono sicura di aver indovinato, finisce che non ci dormo la notte”.

MEDICINE PIù RICHIESTE:
GLI ANTIDEPRESSIVI

Il senso di esclusione dal futuro è ormai talmente radicato nella testa degli abitanti di Sidi Lahcen che oltre al diabete e alle complicazioni cardiache, dovute alle frequenti riproduzioni tra consanguinei, nella maggior parte dei casi i farmaci più richiesti dai pazienti sono antidepressivi.
“In una zona dove le prospettive sono così limitate – continua Nadia, mentre dispensa scatole di medicinali ai clienti accalcati al bancone – l’emigrazione verso la Spagna ha portato via gran parte dei giovani, lasciando nei villaggi qui intorno vecchi, donne e bambini. E finisce che le donne si chiudono in casa e i ragazzini si dedicano alla pastorizia”.
Non stupisce, dunque, che il cosiddetto mal di vivere sia così diffuso. Perfino l’autista dell’unica ambulanza a disposizione della zona, che si estende su più di 800 chilometri quadrati di montagna insidiata dal deserto, ha lasciato il volante e la sirena per correre in Spagna a cercare lavoro.

E alla fine del mercato, anche per i clienti della farmacia è ora di tornare nelle loro case e sparire nel buio. In pochi attimi arriva la sera e il sole tramonta di nuovo per lasciare posto, qualche chilometro più a nord, ai fari della diga, che si riaccendono per illuminare il progresso. La luce mette di nuovo in risalto la scritta “Allah, Al Watan, Al Malik” (Dio, Patria, Re), ma in questa zona saranno pochi a saperlo leggere.

Alessio Antonini e Chiara Giovetti

Alessio Antonini e Chiara Giovetti




Le nostre Afriche

Giro dell’Africa su due ruote

Un viaggio di oltre due anni attraverso mezza Africa, due passaporti, una moto arancione, una macchina fotografica, un telefonino e migliaia di occhi africani: sono gli ingredienti per raccontare il “Continente nero”, il cui futuro per forza nero non è.
Nei prossimi mesi raccoglieremo le storie e le immagini delle mille afriche che popolano i confini zeppi di militari corrotti, i palazzi governativi delle capitali, gli Inteet point della foresta pluviale, le montagne e i villaggi dove un dollaro al giorno non serve, perché non si usa il denaro.
Cercheremo persone disposte a raccontarsi, si tratti di africani – in primo luogo -, di missionari, operatori umanitari, uomini d’affari o semplici viaggiatori.
Non ci concentreremo solo sulle cattive notizie: l’Africa è spesso trattata dai media italiani solo per i suoi drammi e le sue tragedie, ma c’è molto più di questo. Ci sono università dove studiano i leader di domani, progetti di sviluppo ben riusciti, artisti, cantastorie, popoli antichi e meraviglie naturali. Anche di questo vale la pena parlare; e chissà che non aiuti a spazzare via qualche luogo comune su quell’Africa che, sempre di più, è in mezzo a noi, vicina come non mai.
Non saremo sempre sulla notizia. Non correremo dietro le guerre, le catastrofi umanitarie e le conferenze inteazionali che decidono i destini del continente. Per fare la cronaca in tempo reale ci vogliono aerei, telefoni satellitari e jeep ben equipaggiate. Noi abbiamo una moto. Mezzo con tanti difetti, ma ideale per andare in profondità e per prendersi il tempo necessario a guardare con attenzione.
Di più. La moto costringe ad avere bisogno degli altri: per un riparo dalla pioggia, per trovare acqua da bere, per aggiustare un pneumatico che si buca. E questo bisogno favorisce lo scambio, lo studio o anche solo l’inizio di una chiacchierata, in cui ci si rivela e si guarda rivelarsi. Oppure si discute e ci si scontra, non ci si capisce e si ricomincia tutto daccapo.
È il tempo, in fondo, la chiave per cercare di capire l’Africa: nel Continente nero non è mai tardi, non c’è mai fretta e nessuno ti dice quello che pensa, se non hai tempo da dedicargli, per raccontargli da dove vieni e come sei arrivato fin lì.
Senza la pretesa di capire tutto, perché dall’Africa si torna quasi sempre con alcune risposte e con molte nuove domande, proveremo a spiegare quello che vediamo con le parole di chi lo vive tutti i giorni, ma anche con un occhio sempre vigile sull’attualità e sul più ampio contesto nazionale e internazionale.

In questa puntata vi racconteremo, tanto per fare un esempio, la storia della farmacista marocchina che ha aperto il suo negozio in un villaggio sperduto e antico sulle montagne dell’Atlante, ma vi mostreremo un assaggio di com’è il Marocco moderno del 2006, di cui la farmacia è una delle innumerevoli sfaccettature.
Nel corso del viaggio, ci avvarremo della collaborazione e della disponibilità dei missionari, del personale delle organizzazioni inteazionali e non governative e di tutti gli amici e conoscenti che ci ospiteranno e ci metteranno a disposizione la loro esperienza e le loro informazioni.
In particolare, l’inizio di questo viaggio è stato possibile grazie all’appoggio dei Missionari della Consolata e al sostegno del Caaf – Cgil del Nordest.

Alessio Antonini
Chiara Giovetti
www.afriscope.net

Alessio Antonini e Chiara Govetti