Ripensare… l’Africa

Paese tra i più piccoli dell’Africa, disastrato da 38 anni di dittatura di Gnassimgbé Eyadéma, nazione composta di 37 etnie, società dominata da feticci e fattucchieri… Il Togo rimane un enigma, anche dopo aver visto e ascoltato le testimonianze di alcuni missionari, impegnati nel dare speranza a una popolazione stremata, e delle suore di San Gaetano, dedite al servizio dei più poveri tra i poveri.

Ritoo dall’Africa occidentale. Una terra rossa, nera, cupa, un cuore di tenebra. La gente è fiera e scontrosa, chiusa in un mondo arcaico e lontano, impenetrabile.
Ho visitato Togo e Benin, due paesi che si affacciano sull’Atlantico, sul litorale conosciuto come "costa degli schiavi". L’oceano che la bagna fa paura, non si può avvicinare: le onde sono enormi, le risacche e le correnti impietose. Altri pericoli sono gli insetti, serpenti, malaria.
Si nasce e si muore molto in Africa. I funerali sono belli, grandiosi: si balla e si canta, con gli abiti della festa, ma solo se a morire è un anziano. Il giovane colpito dal male è ritenuto vittima di una maledizione. Tutti temono l’incidente, che sarebbe prova di disgrazia presso il divino. Gli spiriti sono potenti, onnipresenti, e fanno da tramite tra umani e creatore, innominato e invisibile.
Qui, più che nel resto del continente, si viene presi dall’inquietudine. I feticci sono agli incroci dei sentirneri, dentro gli alberi giganteschi, davanti alle capanne di fango.
Il mito si succhia col sangue della madre, dicono, e le madri africane sono forti, fiere. Devono esserlo, perché tutto dipende da loro: lavorano, trasportano pesi sul capo, vendono nei mercati, sempre col piccolo legato sul dorso, col capo penzoloni.
Le bambine di pochi mesi hanno già gli orecchini e minuscoli bracciali. Ti guardano con uno sguardo profondo, maturo. Pare sappiano già tutto sul loro destino e appena possono cercano la tetta matea per consolarsi.
Bambini con la zappa sulla spalla, che partono all’alba per i campi e ritornano la sera. Non ci sono macchine agricole in Togo. Ci sono loro, cui è negata la scuola e l’assistenza sanitaria. Ridono, se li fotografo.
Il viaggio
Dopo lo scalo ad Abidjan, ci ritroviamo in pochi sul volo da Parigi. Sono iniziate le vacanze, ma evidentemente a nessuno interessa venire in Togo. Katia è una signora di Padova che vive in Africa da 20 anni. "A febbraio è morto il presidente Eyadéma e per tre mesi abbiamo avuto gravi disordini – mi spiega -. Giovani scatenati sotto l’effetto di droghe terrorizzavano, uccidevano e saccheggiavano le case. Il console era partito per l’Italia senza avvertire la nostra piccola comunità. Un amico mi ha chiamato per dirmi di correre a casa con quante più provviste possibili e non muovermi".
Katia ama l’Africa e ha deciso di impiantarvi un’azienda che importa dall’Italia vecchi macchinari industriali, buoni per avviare attività in questi paesi ancora molto arretrati. "Abbiamo fatto arrivare le macchine per far mattoni; qui li fanno ancora a mano" mi spiega e pare orgogliosa del fatto che anche il figlio lavora con lei e ha allargato l’attività a molti altri paesi africani.
Lomé
La mattina sono svegliata dal grido sinistro di migliaia di pipistrelli. Apro la finestra e il paesaggio che vedo è sconfortante: tristi edifici in cemento emergono dal verde dei parchi; il cielo grigio è oscurato dagli sgradevoli animali.
A colazione incontro solo militari francesi in divisa mimetica, tra i quali noto anche una donna robusta, in calzoni corti come i compagni. "Siamo qui per i problemi in Costa d’Avorio" mi dice per rassicurarmi.
Gli unici senza divisa sono due grassi cinesi, che fumano e si riempiono il piatto di salsicce. La guardia all’ingresso mi sconsiglia di uscire verso la spiaggia, può essere pericoloso. Cerco allora un autista, che in un’ora mi porterà ad Anfoin, dalle suore di San Gaetano.
Lasciamo la capitale attraversando un vasto mercato; poi superiamo il porto, con lunghe file di containers. Lo hanno venduto a stranieri; di stranieri sono i capannoni industriali che stanno sorgendo lungo la strada costiera.
Olandesi, francesi, anche italiani, ma i più ricchi sono i libanesi, da sempre presenti in Africa occidentale. Pare siano anche molto arroganti; ma da sempre sono loro a provvedere agli approvvigionamenti in questi paesi disastrati.
La missione è immersa in un giardino bellissimo di fiori e frutta. Vengo accolta dalla superiora della piccola comunità, suor Natalina, che è infermiera e responsabile del dispensario. Con lei farò le prime visite e ascolterò i consigli utili per il viaggio che da qui mi porterà nel nord.
VENTO
L’harmattan è un vento carico di polvere, che sfuma i contorni delle cose e rende il sole pallido. Dopo tre mesi di siccità, questo vento sta prosciugando la terra. Solo la manioca resiste. Le folate dovrebbero portare sollievo dall’afa, ma mi rendo conto che il sudore continua a bagnare la camicia, anche se resto immobile. Il viaggio è duro, su strade polverose, attraverso villaggi dove la vita degli abitanti è rimasta a livelli primordiali.
Prima di partire sapevo che avrei visitato l’Africa dell’animismo e che la popolazione, pur aderendo ormai al cristianesimo o all’islam, non ha abbandonato il credo degli antenati. L’idea del sacro insito in ogni cosa, albero, roccia, fiume, mi affascina. Così percorro queste strade cercando di cogliee gli aspetti.
Quassù nel nord non riesco a dormire; qualcosa di profondo mi turba: il paesaggio è arido, punteggiato da grandi alberi e denuncia uno sfruttamento antico delle foreste. La pastorizia è ancora praticata dai peul, gente fiera e bella, venuta da lontano, che vive spostandosi continuamente alla ricerca di nuovi pascoli. Poi i tatasumba, con i loro castelli d’argilla, che cercano di uscire dalla loro arretratezza.
Ovunque sono presenti i feticci e i feticheurs, uomini dai poteri magici, che sovrintendono la vita delle comunità. Incontro anche alcuni giovani che vanno a scuola e, specialmente le ragazze, che desiderano un’altra vita.
Missione
Ritoo nella missione di Anfoin e comincio a capire. "Noi suore abbiamo imparato molto da un’anziana donna, ora defunta – mi dice suor Natalina -. I suoi insegnamenti saggi, di grande rispetto per la vita, hanno influenzato e segnato la vita della famiglia e della comunità. Era animista, ma era una santa donna".
Questi sono paesi di grandi, antiche civiltà, che a contatto con gli europei hanno subito lo scardinamento sociale. C’era una forma di governo che si fondava sulla scelta della persona più idonea, fatta dal consiglio dei saggi. Gli inglesi hanno imposto un loro uomo di fiducia, che facesse i loro interessi, inviso alla popolazione, ma scelto tra gli abitanti. I francesi, invece, hanno governato direttamente i territori, sfruttandoli senza scrupoli. Anche oggi lo fanno, tramite i corrotti capi di stato che sostengono, anche con le armi.
La mattina padre Coelio celebra la messa. Alto, pelle scurissima, le sue poche parole di commento al vangelo mi commuovono. Poi incomincia la giornata di lavoro.
Suor Luciana è una marchigiana energica e positiva, arrivata in Benin tanti anni fa, dopo una lunga esperienza missionaria in Brasile. Suor Luciana trova molta soddisfazione nella cura dell’orto e del giardino. "Non posso più fare a meno di questo paese – mi confida – il caldo, il senso di libertà… Quando mi chiamarono a Torino, per due anni in casa madre con le sorelle cieche, mi pareva di essere in prigione".
Quando deve uscire dalla missione suor Luciana indossa un pareo sopra la veste bianca e si fa sempre accompagnare da un africano. Ciò risolve molti problemi, nei mercati così caotici, dove il francese non è molto conosciuto. Innocent è uno degli uomini di fiducia della missione e in questo periodo ha grandi preoccupazioni. La moglie, incinta del terzo figlio, è stata messa in un convento di feticheuses dalla sua mamma. Ora vorrebbe ritornare, ma Innocent non potrà più accoglierla in casa.
La più anziana del gruppo è suor Adolfa, una vera roccia, che sa gestire le proprie forze in questo paese dal clima impietoso. "In Brasile, dove ho lavorato per 19 anni prima di arrivare in Africa, le cose erano più semplici, per via della lingua comune a tutti". Adolfa mi spiega che qui a volte non ci si capisce da un villaggio all’altro.
Suor Anna è un tesoro di cuoca. Sa che dipende anche da lei la salute della comunità. Qui ci si ammala e si muore improvvisamente, come è capitato la scorsa estate, quando una consorella cadde ammalata e morì in poco tempo, pare per un blocco renale. Nell’orto si coltivano manioca, melanzane, banane, mais e frutta. Poi ci sono le galline, per le uova fresche. Alle palme da olio mature è stata praticata un’incisione, da cui fuoriesce un succo che beviamo a tavola, come vino. Fermentando, produce la soda B, una specie di acquavite, amata dai locali.
A tavola si conversa e vengo a sapere tante cose. In questa natura forte, primordiale, noi non potremmo sopravvivere, con tutte le nostre conoscenze e la nostra supponenza. La gente è molto abile nel catturare i serpenti velenosi, mentre rispetta i pitoni sacri, che non uccidono. I serpenti si possono nascondere nelle case o sugli alberi e sono sottili, invisibili. Prima di avvicinarsi a un albero e salire sui rami, l’africano getta un pugno di terra. Per farsi la casa scava una buca e ne lavora la terra, con cui costruirà i muri; poi la buca si riempirà, durante le piogge, evitando che il terreno dilavato danneggi i muri.
Corale
L’Africa può cambiare una vita. Non sarò più la stessa dopo aver mangiato questa polvere, aver udito queste voci.
Si sono seduti in circolo, ora. Stanno solo accordando le voci e stonano anche. La notte è fuori e ci avvolge. Siamo nel gazebo della corale e ho accanto i due piccoli al tamburo. Questa sera mi pare si canti meglio del solito. I ragazzi erano venuti a dirmelo nel pomeriggio, che ci sarebbero state le prove.
Oggi si è presentata in missione una giovane in carrozzella. Era in lacrime. Pare sia stata scacciata dalla sorella, che l’accudisce da quando, bambina, è stata colpita dalla polio: non la vuole più e le ha anche preso i soldi ricevuti per pagare il corso da parrucchiera.
Suor Luciana controlla, la ragazza è nell’elenco degli handicappati seguiti dalla missione. Prima di tutto carichiamo la giovane sul mototaxi per riportarla a casa, e le diamo 2.000 franchi (Cfa) per il vicino, che la assisterà nei prossimi giorni. Poi suor Luciana decide di portare la carrozzella dal meccanico: è tutta rotta e arrugginita, la faremo riveiciare. Emergenze ce ne sono sempre e le suore si organizzano; con calma cercano una soluzione a tanti problemi.
Padre Roberto
Padre Elio è un personaggio vulcanico, pieno di iniziative e col piglio deciso dei comboniani. Dopo aver diretto per qualche anno la rivista Nigrizia, ha fondato Radio Speranza, che trasmette dalla sua parrocchia, a 30 km da Anfoin. Sono ospiti in questi giorni un missionario spagnolo molto simpatico e un veronese dall’aspetto triste e sofferente. Quest’ultimo mi pare critico nei confronti di un confratello molto conosciuto nel paese e stimato per la sua profonda conoscenza del Togo e della sua gente.
È Roberto Pazzi, un missionario che ha fatto una scelta radicale: vivere da eremita nell’arida brousse, in una capanna di paglia come un africano, contando solo sulle proprie forze e su ciò che produce la terra.
Suor Luciana me lo farà conoscere, perché è a lui che le suore di Anfoin si confidano.
Il terreno per il romitaggio è stato concesso dalla diocesi, che ne è proprietaria. Si arriva percorrendo una pista tra palme da olio e campi di manioca. Superata la fontana artesiana, ora a secco, proseguiamo a piedi lungo uno stretto sentirnero e sostiamo davanti alla cappella di fango secco col tetto di paglia. Il crocefisso è fatto con due bastoni di legno incrociati e legati.
Siamo accolti da un’anziana suora, Marie Jeanne. Capo rasato, i piedi scalzi, vestita con un abito-grembiule a fiorellini, mi indica il lusso della sua capanna: il pavimento di cemento. Poi con un sorriso invita suor Luciana, sua cara amica, a visite più frequenti dicendo: "Jamais trop loine la maison d’une amie" (mai troppo lontana la casa di un’amica), uno dei tanti proverbi di questa gente d’Africa, che ha una saggezza antica, impermeabile alle nostre critiche e giudizi affrettati.
Suor Marie Jeanne ha lavorato per anni come infermiera in Togo; ma quando la sua congregazione ha lasciato il paese, ha scelto di restare, per condividere la scelta di padre Roberto.
Non ha certo l’aspetto macilento e sofferente dell’eremita questo comboniano: il fisico robusto, non dimostra i suoi 70 anni; lo sguardo è vivo e sorridente. Mi riceve tra i libri e le carte del suo rifugio: una povera capanna di paglia, meta da anni di tanti visitatori. Lo lascio parlare, dopo 40 anni di vita africana, di cose da dire ne ha molte. Quando suor Luciana mi chiama, mi rendo conto che sono già passate due ore.
Cosa mi ha detto? Forse quello che volevo sentirgli dire. Il rispetto per il paese e la sua gente; la forza della terra e di antiche credenze; Dio creatore e le forze che interagiscono con gli uomini; il vudù come mezzo per avvicinare il divino; la lotta tra il bene e il male; l’intervento dell’uomo bianco con i suoi pregiudizi; gli errori degli aiuti, che si inviano a fin di bene. Come si può adottare a distanza un bambino, che avrà scuola e libri, vestiti e sussidi? E gli altri del villaggio o della sua stessa famiglia? Bisogna ripensare i nostri interventi in Africa e mi sembra che lo si stia già facendo.
Padre Roberto arrivò in Africa 40 anni fa. Durante la Seconda guerra mondiale, da Milano la sua famiglia era sfollata nella campagna di Como, dove Roberto conobbe un padre comboniano e incominciò a sognare l’Africa. Dopo la consacrazione fu inviato missionario in Togo, allora paese modello che, dopo la fine del protettorato tedesco si era ridotto di dimensioni, mantenendo però una solida struttura.
"Anche oggi, gli aiuti che arrivano dalla Germania sono i più intelligenti, mirati allo sviluppo e alla crescita del paese" spiega padre Roberto, che ha occhi che brillano e un sorriso giovane, aperto, con l’unico incisivo rimastogli in bocca. Scalzo, ha un piede bendato alla belle meglio, il segno violaceo di una contusione sotto il ginocchio.
"Noi non possiamo capire l’africano, che non si aprirà mai a un occidentale" mi ripete padre Roberto. Rimane l’enigma e mi torna in mente una frase emblematica, letta su un recente numero di National Geographic: "Qualsiasi cosa tu abbia pensato dell’Africa, pensaci ancora".

Claudia Caramanti

Claudia Caramanti

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