Sorriso «divorato»

Si chiama Noma: è la malattia più dimenticata; ogni anno toglie il sorriso,
e la vita, a migliaia di bambini. Nel silenzio.

Cancro orale, o stomatite cancrenosa, o ulcera della povertà. Questa ultima definizione è forse la meno scientifica, ma è quella che racchiude meglio la storia e le caratteristiche della malattia. Il termine «ulcera» evoca infatti dolore, sofferenza, distruzione; il termine «povertà» le persone che colpisce, i più poveri fra i poveri.
Ma anche il nome proprio che le è stato attribuito, «Noma», una volta tradotto rende subito l’idea di cosa si ha davanti. Deriva dal greco nomein e significa divorare. Quello che divora è il volto dei malati, soprattutto bambini sotto i sei anni. Uccidendone sette-otto su dieci e sfigurando i sopravvissuti per tutta la vita.

I numeri incerti
della sofferenza

Noma può essere considerata anche il simbolo delle malattie dimenticate, perché, fra le tante che di rado conquistano i riflettori e l’attenzione dei media, è quella più ignorata. «Quando abbiamo sentito il suo nome per la prima volta, non sapevamo cosa fosse. Quando abbiamo sentito la sua descrizione, non potevamo crederci. E da quando abbiamo visto la devastazione causata dalla malattia con i nostri stessi occhi, non siamo stati più gli stessi» scrive Bertrand Piccard, il presidente di una fondazione (Winds Hope Foundation) che si è occupata della Noma.
Anche le notizie sulla sua diffusione non sono precise. Proprio perché presente nelle zone più povere e isolate; non si ha certezza sulla reale quantità di persone colpite, uccise o sfigurate. Valutazioni dell’Organizzazione mondiale della sanità, che risalgono al 1998, riportano 140 mila casi ogni anno, concentrati soprattutto in Africa, ma anche in Asia e in America Latina. Analisi più recenti segnalano 25 mila nuovi casi l’anno, considerando solo i paesi lungo il confine con il Sahara.
La prevalenza, ovvero il numero di malati in totale, potrebbe essere intorno a 800 mila casi nei tre continenti indicati. Numeri già alti, soprattutto se si considera che i casi reali potrebbero essere molti di più, 10 volte tanto.
Secondo un articolo uscito sulle pagine della rivista medica The New England Joual of Medicine, i casi di Noma (o ulcera della povertà estrema, come la definisce il titolo dell’articolo) che vengono riconosciuti rappresenterebbero solo la punta dell’iceberg: appena il 10% dei malati di Noma viene visto da un operatore sanitario, con conseguente diagnosi della condizione. L’articolo è firmato da Cyril Enwonwu, medico che ha raccontato sulle pagine della rivista la sua esperienza in Nigeria, seguendo i bambini dei villaggi nel nordovest del paese africano.

Volti distrutti,
vite perdute

I pazienti sono soprattutto bambini che non hanno ancora sei anni, in particolare fra uno e quattro anni di età. Tutto comincia con una lesione a carico delle gengive, che non curata, progredisce, allargandosi e coinvolgendo via via i tessuti più profondi. La ferita, dolorosa, si estende quindi alle labbra o alla guancia, distruggendo, «divorando» uno dopo l’altro i tessuti che incontra: lingua, mucose e poi ossa, parti della mascella e della mandibola, fino alla possibile caduta dei denti. La cavità sempre più profonda che viene a formarsi, partita dall’interno della bocca, affiora alla superficie, sfigurando per sempre il viso, e la vita, di bambini nati nella povertà estrema.
I pochi che sopravvivono, avranno comunque la vita, oltre al viso, segnata per sempre. La guarigione della ferita, con esiti cicatriziali, impedirà una normale funzione respiratoria e masticatoria, non potranno più parlare né mangiare come gli altri bambini. Non solo le cicatrici residue deturpano il volto, ma distruggono, divorano, anche la vita sociale degli ex malati: vengono confinati, trattati come i lebbrosi, lasciati ai margini della società. Non li si vuole vedere e li si isola; talora vi sono credenze per le quali la malattia è collegabile agli spiriti, e si sospetta persino che le famiglie con casi di Noma attirino il malocchio.

Le radici nella povertà

Non sono note la cause di questa ulcera. Si pensa possa derivare dalla combinazione di diversi fattori, riuniti dalla parola chiave povertà. La malnutrizione, che comporta carenze importanti, quali quella di vitamine, proteine e ferro, ma anche la scarsa igiene orale, la presenza di lesioni sulle gengive e la contemporanea compromissione del sistema immunitario di difesa dell’organismo.
È stato visto, infatti, che spesso la stomatite cancrenosa compare in bambini che hanno avuto da poco malattie infettive, come il morbillo, la malaria, la varicella, la scarlattina, la tubercolosi, la diarrea. Malattie che hanno lasciato indebolito l’organismo del piccolo, già di base malnutrito e con scarse difese. Infine, per completare l’elenco della possibile somma di cause che concorrono alla Noma, in alcuni casi (ma non in tutti, e non è noto il motivo) è stata trovata anche la presenza di germi, introdotti con acqua e cibo contaminati, altra condizione che si riallaccia alla povertà estrema delle persone colpite dalla malattia, che vivono con misure igieniche scarse o assenti.

Prevenire è possibile

Bastano due o tre settimane alla Noma per completare la sua opera di distruzione e, se non curata, portare alla morte nel 70-80% dei casi. Ma la causa di tanto dolore potrebbe essere fermata prima, molto prima, con la prevenzione: basterebbe un’educazione sanitaria alle famiglie, un’alimentazione equilibrata dei bambini, una igiene orale corretta e qualche accorgimento igienico in più. Le persone a rischio per questa malattia infatti non la conoscono, non sanno dell’importanza di una diagnosi precoce e di un intervento tempestivo.
Ma anche se si arriva un pochino più tardi, si può ancora intervenire con l’utilizzo di disinfettanti orali e antibiotici. Quando ormai la malattia è avanzata e si sono già formate le cavità, è ancora possibile fare qualcosa, seppur con maggiori difficoltà e costi, con interventi di chirurgia plastica complessi e ripetuti; in ogni caso, raramente è possibile recuperare le caratteristiche del volto.

Farla scomparire

La Noma è una malattia, come si diceva, strettamente connessa alla povertà. Anche i paesi ricchi, che ora non si ricordano nemmeno di cosa si tratti, l’hanno conosciuta. In Europa e nel Nord America era diffusa fino all’inizio del ventesimo secolo. È sparita grazie al miglioramento delle condizioni igieniche in cui vivevano le persone e con la possibilità di una alimentazione più equilibrata e corretta. Vi sono stati ancora casi durante la seconda guerra mondiale, nei campi di concentramento di Auschwitz e Bergen-Belsen, e, in tempi più recenti, con la diffusione di terapie immunosoppressive e dell’Aids, condizioni cioè di marcata riduzione delle difese immunitarie dell’organismo.
Le strade da seguire per fermare e far sparire la Noma ci sono: prima fra tutte la prevenzione, perché, nel silenzio, non tolga più il sorriso dei bambini in Africa, Asia e America Latina.

Valeria Confalonieri

MALATTIE DEI POVERI – MALATTIE DIMENTICATE

I paesi poveri, ogni giorno, fanno i conti con malattie che li uccidono, per le quali non possono curarsi, che spazzano via la vita dei più piccoli e deboli. Sono malattie dimenticate dal mondo ricco, perché non oltrepassano, se non di rado, i confini geografici, climatici o della povertà.
Malattie dimenticate anche dalla ricerca, dall’industria per la produzione di strumenti di prevenzione, diagnosi e terapia, perché interessano solo una parte della popolazione mondiale: una parte che ha poca voce per farsi sentire.
Eppure la leishmaniosi uccide 50 mila persone ogni anno, l’encefalite giapponese ha causato la morte di centinaia di indiani e nepalesi lo scorso anno, soprattutto bambini, la partita con il virus di Marburg in Angola si è chiusa con oltre 300 vittime. Sono solo alcuni esempi, per portare lo sguardo, con una serie di articoli, su quelle malattie che solo di rado, magari quando si avvicina il rischio che approdino ai paesi ricchi, ottengono l’attenzione del resto del mondo.

Valeria Confalonieri




I protagonisti della lotta

Il movimento d’indipendenza irlandese trae origine dall’United Irishmen (irlandesi uniti), fondato nel 1790 sull’onda degli ideali della rivoluzione americana e francese. Lontana dagli ideali religiosi, l’United Irishmen aspirava a creare una nazione unita e secolare attraverso l’azione politica. Solo nel 1850, con la fondazione del Movimento feniano, appoggiato dagli irlandesi emigrati in Usa dopo la grande carestia, si fa strada l’idea di una rivoluzione armata su larga scala.
Nel novembre 1913 vennero formati gli Irish Volunteers (Oglaigh na hEireann. volontari irlandesi) per «assicurare e mantenere i diritti e le libertà comuni a tutta la gente dell’Irlanda». L’Insurrezione di pasqua del 1916, repressa nel sangue da Londra, indusse Micheal Collins, leader degli Irish Volunteers, a iniziare la guerriglia, divenendo l’Irish Republican Army (esercito repubblicano irlandese), dal quale nacquero tutte le altre organizzazioni paramilitari repubblicane che operano in Irlanda del Nord.
La divisione dell’isola sancita nel 1922, con la nascita dello Stato libero d’Irlanda menomato delle Sei Contee a nord, provocò un violento dibattito all’interno del movimento repubblicano che sfociò in una sanguinosa guerra civile tra l’Ira dell’Eire e l’Ira delle Sei Contee. Nel 1932 Eamon de Valera, si staccò dall’Ira fondando il Fianna Fail, il maggior partito della nazione.
L’Ira continuò la sua battaglia nel territorio britannico, senza però destare particolari preoccupazioni all’esercito di sua maestà. Solo dopo gli anni ‘60, con la comparsa dei movimenti dei diritti civili attaccati violentemente dagli unionisti e dalla polizia locale (Royal Ulster Constabulary, Ruc), la popolazione cattolica nordirlandese cominciò a chiedere protezione ai volontari armati. I vertici dell’Ira, però si divisero sulle azioni da intraprendere e nel dicembre 1969 l’organizzazione si divise tra Official Ira (Oira), di orientamento marxista e ateo, contraria all’uso della violenza, e la Provisional Ira (Pira o Ira, chiamati anche Provos), di ideali socialisti, dichiaratamente cattolica, che continuò la lotta armata.
Se la Pira era politicamente rappresentata dallo Sinn Fein, l’Oira ebbe come ombrello politico il Partito dei lavoratori (Workers’ Party). Nel 1972 l’Oira dichiarò una tregua armata, non condivisa dai membri più radicali che, il 10 dicembre 1974, fondò il Pra (People’s Republican Army, esercito repubblicano del popolo), in seguito diventato Crf (Catholic Reaction Force, forza di reazione cattolica) e infine Inla (Irish National Liberation Army, esercito di liberazione nazionale irlandese), ancora oggi presente con una trentina di membri attivi, rappresentata politicamente dall’Irsp (Irish Republican Socialist Party, partito socialista repubblicano irlandese).
Il processo di pace in cui venne coinvolta la Pira dal 1986 non trovò consensi tra un centinaio di militanti, i quali nel 1986 fondarono la Cira (Continuity Ira), appoggiata dal Republican Sinn Fein, responsabile della bomba al Kyyhelvin Hotel di Enniskillen del 1996 e dell’uccisione di lord Mountbatten. Proprio la bomba di Enniskillen portò una successiva divisione della Cira che vide staccarsi un gruppo di militanti fondatori della Real Ira (Rira), politicamente appoggiata dal 32-Counties Sovereignity Movement (movimento per la sovranità delle 32 cotee).

Piergiorgio Pescali




Muro o dialogo?

Dopo la nascita dell’Eire (cfr. dossier MC maggio ‘06), i cattolici irlandesi rimasti nell’Ulster britannico hanno lottato per la riunificazione dell’isola e contro l’oppressione dell’autorità protestante. Per decenni Belfast e Londonderry sono state insanguinate da feroci attentati e repressioni. Ora un muro separa i quartieri cattolici da quelli protestanti; una serie di accordi hanno messo a tacere le armi. Ma la vera pace ci sarà quando le due comunità cominceranno a dialogare.

La famiglia di turisti si ferma davanti al Republican Memorial Hall, che sorge a pochi passi dal Clonard Monastery. Sean, il taxista che fa anche da guida, illustra in modo partecipato e commosso le fasi che hanno portato le comunità cattoliche e protestanti di Belfast a confrontarsi per decenni, mietendo tra il 1969 e il 2006 più di 3.600 vittime.
«Sono stato catturato nel 1974, con l’accusa di essere membro attivo dell’Ira» spiega Sean, quando mi vede seguire con attenzione la sua esposizione; poi continua: «Ho passato 14 anni in diverse prigioni dell’Irlanda del Nord prima di essere liberato. Da allora ho vissuto svolgendo lavori saltuari fino a quando, con alcuni amici ex militanti politici, abbiamo fondato la Belfast Black Taxi Tours, una compagnia che accompagna turisti attraverso i luoghi più simbolici della guerra che ha sconvolto la città».
Mi presenta i suoi ospiti: una famiglia americana di New York che vanta discendenze irlandesi. «Mio padre era membro della Noraid» dice con orgoglio il capofamiglia, stringendomi la mano. La Noraid (Irish Northe Aid) è la potente organizzazione statunitense che, con generosi sovvenzionamenti, ha permesso all’Ira di comprare armi dalla Libia e ai suoi aderenti di addestrarsi nei campi palestinesi dell’Olp.
La famiglia O’Brian continuerà il suo «political tour», entrando nella zona protestante e osservando il bellissimo monastero cattolico di Clonard dalla parte opposta del muro.

BARRIERA DI VERGOGNA

Già, perché se a Berlino il muro che divideva simbolicamente due mondi politicamente e ideologicamente contrapposti, è crollato oramai da diciassette anni, a Belfast il quartiere protestante di Shankill e quello cattolico di Falls continuano a essere separati da una parete di cemento e acciaio alta 5-6 metri. Una barriera di vergogna nel cuore della Comunità Europea e della cristianità che, nel goffo tentativo di farla apparire meno truce e spettrale, è stata denominata Peace Wall (Muro della pace).
Un divisorio, questo Muro della pace, voluto e costruito da una classe politica incapace di amministrare un territorio in guerra, nel disperato tentativo di riportare tranquillità in una Belfast sconvolta dai troubles (disordini) degli anni ‘70 e ‘80. Un muro che da 20 anni divide europei cattolici da europei anglicani, europei repubblicani da europei unionisti, europei filoirlandesi da europei filobritannici.
È pur vero che molti analisti, specialmente quelli più legati alle comunità ecclesiastiche cristiane, pur non negando le radici religiose del conflitto irlandese, spiegano il suo acutizzarsi con lo sviluppo di elementi comuni a tutti gli stati di belligeranza: prevaricazione economica di un gruppo rispetto a un altro, differenze culturali che si ripercuotono sul tessuto sociale e familiare, contrasti politici a sfondo ideologico e, non ultimo, ingerenze di potenze straniere, che, sfruttando la debolezza intea britannica, hanno giocato la carta dell’irredentismo irlandese per rafforzare i propri interessi inteazionali e le lobby di potere.

LACRIME E SANGUE

Il dramma dell’Irlanda del Nord è questa micidiale miscela di ingredienti che, spaziando dal nazionalismo storico al dogmatismo religioso, hanno finito per sfociare in una lotta che divampa sin dal xvii secolo, quando, con le Plantations, Londra sostenne la colonizzazione dell’isola a favore dei coloni inglesi e scozzesi, espropriando le terre coltivate dai contadini locali.
Il fatto che questi ultimi fossero cattolici e i primi protestanti, trasformò quella che sarebbe stata una contesa economica e nazionalista, in una lotta confessionale che vide confrontarsi la chiesa di Roma e quella anglicana; papa e re.
Fu Oliver Cromwell, sbarcato nell’agosto 1649 sulle coste irlandesi, a sfogare il suo odio contro la chiesa di Roma, stritolando l’economia agricola degli irlandesi e massacrando un quarto della loro popolazione. Da allora la storia irlandese è sempre stata segnata dalla divisione tra le due fedi, frattura che venne sancita definitivamente nel 1795, dopo che il re cattolico Giacomo ii fu sconfitto da Guglielmo iii d’Orange. Non è un caso che ancora oggi il movimento Orangista, nato allora «per sostenere il re (Guglielmo) e i suoi eredi, finché egli o costoro sosterranno la supremazia protestante», viene ancora oggi ritenuto l’organizzazione più fedele alla Corona britannica di tutta l’Irlanda.
Eppure furono proprio i protestanti, ansiosi di allargare i loro domini al di fuori delle sei contee in cui erano maggioranza assoluta, a reclamare per primi l’indipendenza da Londra, raggiungendo una semiautonomia nel 1782. La rivoluzione americana prima e quella francese poi, indussero gli irlandesi, prescindendo dalla confessione religiosa, a riunirsi nella Society of United Irishmen (società di irlandesi uniti), un movimento politico che si prefiggeva di ottenere la totale secessione dell’isola. La repressione inglese della Society e l’approvazione dell’Union Act (legge dell’unione), che riportò l’Irlanda in seno al Regno Unito, comportò anche un radicale cambiamento della politica da parte di Londra. I governi britannici vararono una serie di riforme agrarie, economiche e sociali miranti a proteggere esclusivamente i cittadini di fede protestante. Ed è in questo preciso periodo che le parti si invertono: i cattolici diventano nazionalisti e gli anglicani unionisti.
Le carestie che sconvolsero l’Irlanda tra il 1845 e il 1849, vennero viste da Westminster come un’opportunità per sbarazzarsi del nascente movimento cattolico secessionista fondato da Daniel O’Connell. La voluta e cinica inefficienza inglese nel prestare soccorso alla popolazione irlandese, falciò un milione di vite, mentre indusse un altro milione di persone alla fuga verso gli Stati Uniti.
Coloro che rimasero nell’isola, anziché sottomettersi all’impero, ritrovarono la forza di riunirsi in diversi movimenti, tra cui l’Irish Republican Brotherhood (Fratellanza repubblicana irlandese), la Gaelic League (lega gaelica) e il Sinn Fein (Solo noi), sostenitore dell’idea che i deputati irlandesi avrebbero dovuto riunirsi nel Dail (Parlamento) di Dublino e non a Westminster.
Per arginare ciò che era diventato un chiaro tentativo di separazione, nel 1913 Londra varò la Home Rule, una legge che consentiva l’amministrazione autonoma dell’Irlanda a eccezione delle sei contee di Tyrone, Donegal, Derry, Armagh, Cavan e Ulster, dove storicamente risiedevano i protestanti unionisti.
Ma le carte erano state ormai giocate e l’inizio della prima guerra mondiale diede chiari segnali di non collaborazionismo con Londra da parte dei nazionalisti irlandesi, riunitisi nell’Irish Volunteers (volontari irlandesi) tramutatisi in seguito nell’Irish Republican Army (Ira).
Fu prima l’insurrezione di pasqua del 24 aprile 1916, con la proclamazione della Repubblica d’Irlanda, e due anni dopo la riorganizzazione degli Irish Volunteers, da parte di Michael Collins, a indurre Londra a concedere, il 6 dicembre 1921, l’indipendenza dell’Eire, a esclusione delle «Sei Contee» (Ulster).
E mentre il Dail Eireann (parlamento irlandese) accettò la divisione dell’isola, l’Ira continuò la sua battaglia per la riunificazione completa. Le ostilità tra i nazionalisti irlandesi e gli unionisti delle Sei Contee, sostenuti rispettivamente dai governi di Dublino e Londra, si fecero immediatamente pesanti con l’emanazione di leggi speciali, come il Civil Authority (Special Powers) Act (legge sull’autorità civile, con poteri speciali) che, rimasto in vigore fino al 1974, consentiva alle autorità britanniche di arrestare, imprigionare, perquisire senza mandato o accusa chiunque fosse sospettato di attività repubblicana.

VIOLENZA E REPRESSIONE

Gli anni ‘70 videro l’escandescenza della guerra con il culmine raggiunto il 30 gennaio 1972, quando a Derry, tredici civili vennero uccisi dai parà inglesi, in quella che passò alla storia come il Bloody Sunday (domenica di sangue). Fu la svolta: le critiche piovute da tutto il mondo su Londra e, non ultima, l’ondata emozionale rimarcata dal famoso brano degli U2, ebbero l’effetto di indurre Londra a ricercare una soluzione non più solo militare, ma anche politica del conflitto.
Accanto alla recrudescenza della violenza delle organizzazioni paramilitari (tra il 1972 e il 1979 si contarono 1339 morti, di cui 479 solo nel 1972), si assistette a timidi tentativi di aperture. Vennero riallacciate le relazioni diplomatiche con l’Eire e con gli Accordi di Sunningdale del 1973 si stabilì un principio che sarà alla base degli Accordi del venerdì santo del 1998 e di tutti i futuri trattati anglo-irlandesi: se Dublino accoglie lo status dell’Irlanda del Nord come entità separata e integrante il Regno Unito, Londra a sua volta accetta la riunione delle Sei Contee col resto dell’isola, quando la maggioranza della popolazione esprimerà il desiderio di farlo.
Nel frattempo, però, il governo Tatcher perseguì la linea dura, commettendo errori di sottovalutazione del movimento cattolico. Il più clamoroso di questi fu l’insofferenza verso la Blanket Protest (rifiuto della divisa carceraria, indossando solo una coperta), iniziata dai detenuti politici dell’H-Block nella prigione di Long Kesh, i quali volevano essere riconosciuti dal governo di Londra con lo status di prigionieri politici e non come criminali comuni.
Lo sciopero della fame proclamato dai detenuti, portò dieci di loro alla morte e uno di questi, Bobby Sands, divenne l’icona del movimento repubblicano. La sua eredità viene oggi contesa da tutti i movimenti nazionalisti irlandesi, dal moderato Sinn Fein di Gerry Adams, al più radicale 32-County Sovereignity Committe di Beadette Sands, sorella di Bobby.
Per capire quanto profonde siano le divergenze tra i movimenti repubblicani, due frasi estrapolate da interviste effettuate ai leaders delle due organizzazioni: «Mio fratello non avrebbe mai siglato gli Accordi del venerdì santo. Avrebbe continuato la sua battaglia senza compromessi contro gli occupanti britannici» riferisce Beadette, oggi residente a Dublino. «Bobby Sands era un uomo di pace. Voleva raggiungere i suoi obiettivi senza spargere sangue. Gli Accordi del venerdì santo miravano a questo. Per ciò siamo sicuri che Bobby li avrebbe accettati» replica Gerry Adams nella sede dello Sinn Fein a Fall Roads, proprio sotto un murales che ritrae il martire repubblicano.

TACCIONO LE ARMI

Gli Accordi, sanciti il 10 aprile 1998, pur approvati in un referendum dal 71% degli elettori nordirlandesi, segnarono la spaccatura di tutte le fazioni unioniste e nazionaliste. Le organizzazioni paramilitari si frammentarono in miriadi di gruppetti più o meno agguerriti e numerosi, rendendo più problematica la gestione del panorama politico e militare. Solo la presenza di figure come John Hume, leader del Social Democratic and Labour Party (Partito socialdemocratico e laburista) o di Martin McGuinness, fondatore storico dell’Ira degli anni ‘60, riuscirono a sostenere l’arroganza e la determinazione di un Ian Paisley, leader dell’estremismo unionista e ispiratore di molti gruppi militari antirepubblicani.
Il lavoro iniziato con gli Accordi del venerdì santo trovò un importante e forse decisivo sbocco il 28 luglio 2005, quando l’Ira rilasciò il famoso comunicato in cui si invitavano tutte le sue cellule a deporre le armi: «La leadership di Oglaigh na hEireannn (Ira) ha ufficialmente ordinato la fine della campagna armata. A tutte le unità dell’Ira è stato ordinato di deporre le armi. A tutti i volontari è stato chiesto di assistere agli sviluppi dei programmi politici e democratici attraverso metodi pacifici. I volontari non devono ingaggiare alcuna attività».
Ma il comunicato va oltre, affermando che la smilitarizzazione dovrà essere seguita da un rappresentante della chiesa cattolica ed uno della chiesa anglicana. Un segno delle radici che nutrono il conflitto e che solo con la buona volontà delle due chiese potrà essere risolto. E di buona volontà ce ne vorrà tanta, perché neppure la politica potrà essere la panacea che riporterà la pace in Irlanda del Nord.
L’equazione esposta con troppa sufficienza cattolico=repubblicano e protestante=unionista, non regge, come ha dimostrato la storia. Infatti, se così fosse, già oggi l’Irlanda del Nord potrebbe tentare il referendum per l’unione con l’Eire. I cattolici, infatti, rappresentano il 44% della popolazione, mentre i protestanti dichiarati il 36% (esiste un 9% di non dichiarati che le statistiche indicano essere a maggioranza protestante). Ma è anche vero che il 35% dei cattolici, in caso fossero chiamati a scegliere tra le due opzioni, opterebbero per rimanere affrancati al Regno Unito, in modo da non perdere i sussidi elargiti da Londra.
Dalla parte opposta, molto più compatto è il movimento unionista, con il 94% dei protestanti favorevoli allo status quo. «Perché l’Irlanda del Nord si unisca all’Eire, bisogna che accadano due fattori concomitanti: che la popolazione cattolica superi nettamente quella protestante, cosa che, con gli attuali ritmi di crescita demografica potrà avverarsi entro il 2030, e che una considerevole parte dei cattolici sia favorevole all’opzione repubblicana. E questo è molto più improbabile che avvenga in pochi lustri» mi dice Stefan Andreasson, professore di Politica internazionale alla Queen’s University di Belfast.

ALLA RICERCA DEL DIALOGO

Le elezioni per il Parlamento locale del 2005 hanno dimostrato che la polarizzazione dell’elettorato si acutizza sempre più, anche se il divario tra i due blocchi si assottiglia. Il Democratic Unionist Party (Dup) di Ian Paisley è divenuto il maggior partito nordirlandese con il 29,6% delle preferenze, superando nettamente il più moderato Ulster Unionist Party (18,0%); mentre nel fronte opposto lo Sinn Fein, raggiungendo il 23,3% dei consensi, ha aumentato il vantaggio sul Socialist Democratic and Labour Party, rimasto al 17,4%.
Forte dei 9 seggi conquistati, il Dup ha chiesto immediatamente la revisione dei trattati del 1998, al fine di «garantire alla comunità protestante, discriminata dagli Accordi del venerdì santo», il rispetto dei diritti umani e delle libertà civili. «Il fatto significativo delle elezioni del 2005 – dice Sean Mac Labhrai, professore di Studi Irlandesi alla St. Mary’s University College di Belfast – è che sono scomparsi i partiti minori, che garantivano la partecipazione politica delle organizzazioni paramilitari. Questo schiacciamento ha portato le frange più estremiste, come il Dup a raggiungere i risultati ottenuti e ad alzare il tiro sulla comunità repubblicana».
Si sta quindi assistendo a una semplificazione della vita politica del paese, che per molti rischia di rianimare le lotte. «L’Irlanda del Nord è stata sempre snobbata dai grandi partiti britannici – afferma Catherine Mellen, della Campaign for Equal Citizenship -. Se i laburisti e i conservatori propagandassero le loro idee qui, come fanno in Inghilterra, anche le differenze tra le comunità cattoliche e protestanti scomparirebbero, per dare luogo a differenze sociali presenti nella normale vita politica britannica, consentendo a Londra una migliore gestione del conflitto».
Ma c’è chi addirittura si prefigge di lottare per la completa indipendenza del Nord Irlanda, come Murray Smith, del New Ulster Political Rasearch Group: «La soluzione del problema nordirlandese deve essere trovata al di fuori degli schemi convenzionali. Non è uno scegliere tra Eire o Gran Bretagna, perché qualunque sia la scelta, una delle due comunità sarà sempre scontenta. La soluzione che proponiamo noi è la creazione di un terzo stato completamente autonomo e indipendente sia da Londra che da Dublino».
Naturalmente queste ultime due tesi non tengono conto del tessuto sociale impregnato di cultura e tradizione religiosa e del fatto che nessuna delle due comunità vuole una Irlanda del Nord indipendente. Rimane quindi il dialogo costante e senza prevaricazioni con tutte le parti in causa, nessuna esclusa, così come la stessa Ira ha chiesto e ribadito nel proclama del 28 luglio scorso. Ian Paisley permettendo.

Piergiorgio Pescali

Piergiorgio Pescali




L’eretico dell’amore

Prete di frontiera, è di scena nell’Italia del dopoguerra come padre degli abbandonati. Ligio e ribelle, obbediente e rivoluzionario. Si definisce un acrobata sul trapezio del tempo, un funambolo sul filo d’acciaio della fede a tentare l’esperienza di una comunità di famiglie. Nel 25° anniversario del trapasso di don Zeno Saltini, il suo confidente, Fausto Marinetti, ne celebra la memoria, mettendo insieme, con le sue parole, questa testimonianza: Zeno racconta Zeno.

Fin da giovane sento la missione di dedicarmi agli altri. Sotto le armi, il mio più caro amico, un anarchico, mi provoca: «Voi cristiani mangiate Cristo in chiesa e fuori avete i poveracci; vi dite fratelli e tra voi ci sono sfruttati e sfruttatori. Non m’interessa il singolo, ma il fenomeno sociale. E le crociate, l’inquisizione, le guerre di religione?».
Che lite! Ha torto lui a demolire senza costruire; ho torto io a essere un cattolico borghese. Sconvolto, chiedo a Dio di morire. Prendo una boccata d’aria alla finestra, fisso un punto lontano: «Né padrone né servo. Cambio civiltà in me stesso». Non un santo, ma un ateo è riuscito a farmi sentire complice del delitto sociale. Decido di rispondergli, testimoniando il vangelo con la mia vita.
Pian piano vado scoprendo, che la fede non è una dottrina sterile e astratta; Cristo non è una mummia. Lo abbraccio, vivo, nei diseredati. Affondo cuore e mani nelle stigmate dei piccoli delinquenti. Li tiro fuori dalla galera e li prendo con me.
Fondo una scuola di arti e mestieri. Risultato? Noi assistenti ci gratifichiamo, bevendo le loro lacrime, ma loro si sentono sempre dei beneficati, dei diversi. Finché non si è alla pari, non ci può essere rapporto di amore.
Studio legge per difenderli in tribunale. La laurea in mano, mi dico: «Potrei mitigare la pena, ma sono stanco di fare del bene in modo che tutto rimanga come prima. Curare è bene, prevenire è meglio. Basta con l’assistenzialismo, mi faccio prete».
Dopo un anno mi presento all’altare con Barile, appena uscito dal carcere. Il primo di 4 mila. La mia messa è quella lì: sposo la chiesa, le do un figlio, non un assistito. Odio l’assistenza. Sono le lacrime delle vittime a darmi la passione per una nuova società, a farmi sentire la nausea dell’assistenza. In parrocchia mi faccio padre del popolo, perché sono due secoli che la chiesa insiste sul sociale e sul politico, ma non sentiamo questi problemi.

Conosco le obiezioni del mondo missionario: «Come essere alla pari con gli oppressi del mondo? Da sempre portiamo religione, cultura, civiltà: cosa è cambiato? I popoli del Nord, bianchi e cristiani, hanno in mano mezzi e strumenti per asservire i popoli del Sud. La religione è funzionale all’economia globale? Dove appoggiare l’uomo evangelico, se non c’è il minimo di dignità umana? Come fare l’adozione a distanza dei popoli-schiavi?».
Rispondo con la mia vita. A che serve denunciare le cause del delitto sociale, se non si propongono esempi alternativi? La canonica piena di abbandonati m’impensierisce: va bene accoglierli, ma così siamo servi del sistema. Esso produce le vittime e noi gliele curiamo. È meglio battersi in piazza, perché questi ragazzi sono frutto di una politica sbagliata. Se non si cambiano le strutture, non cambia niente. Non solo, ma collaboriamo con il disordine costituito.
Sulle piazze, nelle osterie, fisarmonica a tracolla, vangelo nel cuore, invito le donne a venire a fare da mamma e le famiglie a frateizzarsi tra loro. Nel ‘41 arrivano le mamme; nel ’48 le famiglie volontarie. Occupiamo l’ex-campo di concentramento di Fossoli, uomini e bambini buttano a terra muraglie e reticolati con le mani. I giornali parlano di guerra degli angeli. Il mio sogno di una città di Dio prende forma: Nomadelfia, dove la frateità è legge.
Finalmente le famiglie si frateizzano, offrendo al mondo un esempio di vita sociale, la cui legge è il vangelo: tutto quello che è mio è tuo; quello che è tuo è mio; non dalla carne, non dal sangue, ma da Dio siamo nati. Una parentela nuova, oltre le razze e le patrie. Vogliamo far vedere come è possibile essere un popolo nuovo a livello individuale, familiare, sociale e politico.
Perché il cristianesimo non ha attaccato in Cina? Perché non l’abbiamo praticato neppure in Occidente. Non è ancora nato. Tante opere di beneficenza, ma di giustizia, neanche l’ombra. Senza di questa non si fa l’uomo, tanto meno il cristiano. Non più una giustizia provinciale, ma planetaria.
Gli orrori della guerra m’insegnano che in situazione di calamità sociale non è lecito non essere eroi. Al tempo degli schiavi, la fede era così viva che sono sorti i mercedari, uomini che scambiavano se stessi con gli schiavi. E oggi cosa risponde la cristianità ai popoli del terzo mondo, incatenati da nuove schiavitù?
Nomadelfia non è che il laboratorio nel quale lo Spirito mi ha introdotto, per fare l’esperimento di applicare la fede a tutto l’umano. Un modellino piccolo piccolo, ma, se riesce, molti potranno ispirarsi ai suoi principi.
Nel ’51 alcuni disoccupati vengono a chiedere lavoro. «Se volete farvi fratelli, condividiamo quello che c’è, ma noi non siamo padroni di nessuno». Macché fratelli! Vogliono la paga a fine mese.
Danilo Dolci vuole tenerli a tutti i costi. Gli spiego: «Non sono io che rifiuto di aprire le porte ai sofferenti, è la legge della impenetrabilità dei corpi che lo impone. Se il chirurgo tralasciasse di operare il paziente che ha sotto mano, per curare quello che bussa alla porta, non sarebbe nei piani di Dio. A operazione ultimata, curerà l’altro. Noi stiamo facendo l’operazione chirurgica più delicata: tagliare l’individualismo globale, per donare al mondo un esempio di santità sociale».
Ci sono due vocazioni: quella del samaritano, che cura i feriti della società-brigante, e quella di chi vuol piantare una nuova società di fratelli, nella quale non ci sia più bisogno di curare le vittime. Io ho scelto di farmi fratello universale. C’è una sola forza che può salvare il mondo: la frateità.

Nel dopoguerra la mia provocazione sarà travisata dalla paura della guerra fredda, dall’inconfessato timore che un governo di sinistra impedisca al papa di esercitare il suo potere spirituale sul mondo intero.
Predico in piazza: «Fate due mucchi! Chi ha i soldi da una parte, chi non li ha dall’altra. Noi poveracci siamo il 95% e andiamo al potere a fare le leggi che vanno bene per noi… Che cosa sono due monetine, niente! Ma se le metti davanti agli occhi, come fai a vedere gli altri? Dio ti ha dato una misura precisa: uno stomaco, non due. Perché vuoi guadagnare più dell’altro?».
Ripeto in alto e in basso: «Le opere di Dio per loro natura portano lo scompiglio nelle coscienze». Le folle, elettrizzate, sognano con me un mondo nuovo. Dio m’ha insegnato a toccare le corde magiche del cuore. Comunico più con la presenza, con il gesto, con tutta la persona. Il mio linguaggio è tagliente, ma non urta, perché parlo col cuore in mano: «I poveri sono dei derubati, non dei condannati da Dio a essere miseri. E da chi? Da tutti coloro che non sono poveri».
Quando narro le parabole politiche, il popolo annuisce, applaude il sogno di tutti. Come nella piazza di Vignola: «Il signorotto abita nel castello sulla collina. Tutte le terre della vallata sono lavorate dai suoi sudditi. Un giorno apre la finestra e vede una moltitudine dirigersi verso lo stradone del castello, chi con il badile, chi con la forca, la falce, la vanga. Chiede al capo dei servi: “Cosa fa quella gente, laggiù? Parla chiaro e subito”. Capiva che si preparava il temporale.
– Béh! Se vuol proprio saperlo, quella gente è stanca di essere sfruttata… da suo padre, dal suo nonno, dal suo bisnonno.
– Ma questo è contro la legge, l’ordine!
– Signore, vada lei a spiegarglielo.
Il signorotto raduna tutti i servi: “Tu, prendi mille lire, corri là in mezzo e grida: viva Gesù Cristo. Tu, ecco mille lire, vai là e grida: viva Carlo Marx. Tu, grida: viva la Russia. Tu: viva l’America”. E sta alla finestra a guardare.
I contadini dicono a quello che grida viva Gesù Cristo: “Dai che andiamo al castello a farla finita”.
E lui: “Viva Gesù Cristo”.
“Cosa dici? Cosa c’entra?”.
In quel mentre saltano su gli altri: “Viva Carlo Marx”; “Viva l’America”; “Viva la Russia”. E si danno tante di quelle botte da orbi, che è un disastro.
Il signorotto chiude la finestra: “Anche questa volta mi è andata bene. Posso dormire tranquillo“».

Negli anni ’50 il sogno della città di Dio è alle stelle. La domenica, curiosi e tifosi della carità, invadono il campo. La comunità, benedetta dai prelati, ammirata dai visitatori, elogiata dalla stampa, sogna borgate e città. Le mamme prendono dal brefotrofio di Roma 120 scartini. Il card. Schuster, in duomo, affida loro una quarantina di abbandonati, pronunciando parole famose: «Tutto il resto è coice, Nomadelfia una pagina di vangelo». Il nunzio, mandato per inquisire, torna entusiasta: «Una città così non la si può capire da Roma, bisogna vederla con gli occhi».
Io guardo in prospettiva: con questo tasso di crescita annua, nel 1972, se non succederanno diaspore, saremo 120.000. È logico, quindi, chiedere al governo un territorio di 30 mila ettari solo per cominciare…
Il congresso di Nomadelfia stabilisce di «costruire una borgata nomade per la missione al popolo; prepararci a costruire una città in Africa; avere un’ambasciata presso la Santa Sede; il papa, oltre che vescovo di Roma, sarà anche vescovo della città di Nomadelfia».
Quali reazioni possono provocare, al di qua e al di là del Tevere, sfide e denunce, proiezioni di città fratee con le vittime della società? Intanto un dossier della prefettura di Modena parla di «amministrazione incontrollata e debiti a non finire». Il ministro Scelba non accetta Nomadelfia e non ripassa gli aiuti assistenziali. Non mi resta che scrivere a mons. Montini: «Guardi, eccellenza, che lo stomaco è d’interesse divino…». Il ministro invia il rapporto modenese al Vaticano, lamentandosi della mia fede troppo audace nella Provvidenza e delle «idee sociali un po’ spinte di Zeno».
Troppo dure le mie sfide, inapplicabili le proposte? «Nessuno ci vuole, perché non siamo né di destra, né di sinistra, né di centro: abbiamo cambiato strada». Paradossale prendere il vangelo sul serio? Praticarlo, poi…? Svuotare il brefotrofio di Roma, farla finita con i correzionali, pretendere di liberare i carcerati, urlare in piazza che siamo fratelli, incominciando dal portafoglio… Non è troppo fustigare i ricchi e le istituzioni inadempienti?
Il silenzio della chiesa avrebbe potuto voler dire consentimento? Secondo padre David Turoldo, proprio la chiesa mi avrebbe impedito di applicare il vangelo: «Ci hanno fermati perché avevano paura che stessimo riuscendo, che noi facessimo la rivoluzione cristiana. Ed è stata impedita dalla chiesa con la DC».

Nel 1951, ridotti alla fame, i miei rifiutano di votare il partito della chiesa, per dare una lezione ai politici. Il Vaticano mi impone di ritirarmi dalla comunità, non può tollerare che un prete, nell’Emilia rossa, predichi la giustizia, facendo il gioco dei senzadio! La mia identificazione con le vittime s’è consumata. È in nome loro che mando lettere e cuore al papa, per scuotere le fondamenta di San Pietro: «Il costume sociale della chiesa è pagano. Santo Padre, la rivoluzione comincia dall’alto. Non sono un ribelle, ma una vittima».
Dei politici dirò: «Il caso Nomadelfia, una delle infinite prepotenze di Scelba. Il mondo ritiene necessario sopprimerci, perché non ci sopporta. Ci hanno crocifisso nel nome di Dio. Non è un’accusa, ma un pianto».
Il ministro Scelba, temendo un’emorragia di voti, ordina la liquidazione coatta di Nomadelfia: gli adulti sono rispediti nei luoghi d’origine, gli accolti riportati nei collegi. Senza il padre alcuni figli tornano in galera. Con la morte nel cuore chiedo la laicizzazione pro gratia: «Se non posso essere loro padre come prete, lasciatemelo essere come laico».
Mi capita un fatto strano e corro a raccontarlo al card. Ottaviani: «Sa cos’è successo stanotte? Entro in pizzeria e vedo una ragazza tutta pitturata, con un uomo: una delle mie figlie.
– Cosa fai qua?
– Tu mi hai abbandonato. Questo signore mi mantiene e faccio quel che vuole…
Neanche a farlo apposta, ho sotto il naso la riprova che i figli tornano alla malavita per causa mia. Io ho il dovere di dirle che, se non rimedio, non posso celebrare, perché sono in peccato. Adesso lo sa anche lei ed è corresponsabile. Fra poco lei parla con il papa ed è responsabile anche lui. Se non mi date la laicizzazione, né io, né lei, né il Santo Padre possiamo celebrare. Mi sono fatto prete per salvare i figli alla deriva e adesso chiedo la laicizzazione per salvarli di nuovo. Tanto, se sono sacerdote, lo sono lo stesso».
Qualche giorno dopo il vescovo mi convoca:
– È arrivato il decreto. Quanto mi dispiace!
– Dispiace anche a me. Fino ad oggi ho sacrificato Cristo, ma questa mattina ho immolato lui e la mia persona. Ed è stata l’ultima messa.

Quasi tutti mi disapprovano. La laicizzazione è considerata una defezione sacrilega o un castigo per colpe gravi. Dalla mia, pochi intimi. Il sacrificio più grosso della mia vita. Quando si arriva a questi estremi, ciò che conta non è la propria persona, ma il bene dell’umanità e della chiesa.
Ma io continuo a torturarmi e a torturare: «Può la chiesa condannare Nomadelfia? A me pare di no, perché condannerebbe se stessa».
E seguito a pestare i piedi, perché senta, nella mia, la voce delle vittime: «Perché ubbidiamo? Lo facciamo come fanno i bambini, consapevoli che da soli nulla possono. Perché ci impenniamo senza ribellarci, ma solo pestando i piedi? Lo facciamo come fanno i bambini, sicuri che, se avremo ragione, il Padre ce la darà e piegherà la Madre a farlo».
Laicizzato, alla fame, continuo il pellegrinaggio nel deserto della chiesa verso la nostra terra promessa, per donarle un popolo che dica con le opere: «Siate nostri imitatori come noi, in quanto popolo, siamo imitatori di Cristo».
Tra noi non c’è il ricco e il povero, padrone e servo, benefattore e beneficato, assistente e assistito. Tutti figli, tutti fratelli, spezziamo il pane sicuri di non mangiare la nostra condanna.
Per dieci anni (1953-1962) vado a messa come un laico qualsiasi. Vi lascio immaginare il mio sacrificio a sentire certe prediche! L’unica cosa, cui mi aggrappo con le vittime è quella briciola di pane innalzata sul mondo, che dice alla storia la verità ultima sull’uomo: «Avevo fame di fratelli e voi vi siete fatti miei fratelli».
Negli anni ’60, irrobustiti i figli, placati i creditori, chiedo di riprendere l’esercizio del sacerdozio. Il 6 gennaio 1962 salgo l’altare, con Barile e tutti gli altri figli, per celebrare la mia seconda prima messa.

Che cosa è rimasto della semente evangelica, che ho gettato a piene mani? Una comunità con una cinquantina di famiglie frateizzate, una tenuta di 380 ettari, sulla statale Siena-Grosseto: Nomadelfia, dove il sogno di un mondo fraterno vive e continua.

Fausto Marinetti

Fausto Marinetti




Un prete per la pace

A quarant’anni
dalla morte del prete «guerrigliero» colombiano Camillo Torres, la
chiesa continua a predicare l’astensione da ogni tipo di violenza, ma
non quella dall’impegno sociale, per la giustizia e la pace. La storia
di Giacinto (Jacinto) Franzoi, missionario della Consolata in Colombia,
incarna questo secondo cammino.

Nato a Trento nel 1943, in pieno conflitto mondiale, padre Giacinto Franzoi si definisce un «figlio della guerra». L’esperienza della fame, la grande povertà, la prematura scomparsa della madre e la dura esperienza del dopoguerra lo hanno forgiato, lasciandogli un carattere ribelle e un atteggiamento da leader nato, tratti che ancora oggi lo accompagnano e contraddistinguono.
La sua storia di missionario comincia da giovanissimo, quando suo padre lo fece entrare nel seminario della Consolata, l’unico modo che aveva per potergli offrire un’istruzione decente. Lì, ebbe modo di incontrare amici, ma anche di dover fare i conti con la disciplina che l’istituzione imponeva. Nonostante le difficoltà, l’unico momento di crisi che ricorda di quel periodo fu quando, in pieno noviziato, stava per cedere alle sirene di due importanti squadre di calcio, ben impressionate dalle sue gambe atletiche poste al servizio della squadretta dei missionari. Ma più del football poté la missione…
Nel 1978, venne inviato in Colombia, a Cartagena del Chairá, una piccola cittadina adagiata sulla riva del fiume Caguán, nella provincia meridionale del Caquetá. Del viaggio di andata gli sono rimasti ben impressi nella mente i 45 giorni di mare e l’improvvisa notizia della morte di suo padre, che lo colse nel bel mezzo della traversata atlantica. Dovette ricacciare indietro la tentazione di ritornare per poter andare a benedire la tomba del suo vecchio e tirò dritto per il suo cammino. Fu su quella nave che iniziò a scrivere il diario, un racconto che lo accompagnerà per anni e verrà pubblicato tempo dopo con il titolo: «Dio e coca».
«Arrivavo nel Caguán carico di tutto quanto avevo letto sulla teologia della liberazione: molti sogni albergavano nel mio spirito che è sempre stato un po’ rivoluzionario. Sul posto mi incontrai con rivoluzionari di altro tipo: i guerriglieri. L’incontro, devo ammettere, fu alquanto deludente: trovai una guerriglia che non aveva sostanza e aveva perso tutta la sua carica profetica», commenta al riguardo padre Giacinto.

UN’AMARA LEZIONE

I libri non avevano potuto prepararlo in anticipo su quanto avrebbe incontrato in quelle terre: la coca e la guerra. L’amaro apprendistato con la guerra iniziò immediatamente dopo il suo arrivo, quando le Farc (Forze armate rivoluzionarie di Colombia, il principale movimento guerrigliero colombiano, ndr) assassinarono due catechisti della parrocchia. Il sacerdote ricorda così quest’avvenimento: «Li crivellarono di colpi mentre andavano a cavallo e mi toccò seppellirli. La guerriglia non ha mai potuto sopportare chiunque avesse una posizione di preminenza all’interno della comunità. Come sempre accade quando c’è un funerale fra la nostra gente il cimitero era stracolmo di persone venute a dare l’estremo saluto a questi due concittadini. E lì – non potevo credere ai miei occhi – mischiati fra la gente c’erano anche i loro assassini. Scelsi il brano di Caino e Abele, dove si dice che l’assassino non deve essere perseguitato dagli uomini perché ha già ricevuto il proprio castigo: andrà per il deserto come un serpente, carico del rimorso per la sua colpa. Pare, però, che alla gente del nostro tempo queste parole suonino come leggende vuote che non provocano nessuna reazione».
Quasi per par condicio, la seconda amara lezione la ricevette pochi mesi dopo dall’ esercito governativo, che stava facendo operazioni militari nella zona. Arrivarono in forze, portando cadaveri di guerriglieri che pendevano appesi ad un elicottero; li lasciarono cadere dall’alto nella piazza centrale del paese. «Fu un vero e proprio insulto alla decenza», ricorda con rabbia padre Giacinto. Insieme a un funzionario del comune di Cartagena si recò immediatamente a reclamare i corpi dei guerriglieri morti per poter dar loro sepoltura, ma i soldati presero tempo, e non vollero procedere alla consegna dei cadaveri. Passò la notte e, al mattino successivo, i corpi erano scomparsi. «Mi dissero che erano dei banditi e che non meritavano nessuna sepoltura. Questa frase mi offese moltissimo. Nell’antichità si usava trattare con pietà il corpo di un nemico morto. Si rendeva onore al cadavere. Questa guerra, però, non sa neppure che cosa significa la parola onore».
Padre Giacinto non si arrese e continuò a cercare con determinazione nei campi intorno al paese, fino a quando, dopo tre giorni, scovò la traccia delle fosse scavate di fresco nel terreno del vecchio aeroporto di Cartagena. Giacinto, che non è solito «mandarle a dire» a qualcuno, non risparmiò una battuta ai militari che continuavano a seguirlo come ombre: «Andate a dire al presidente Turbay che il prete di Cartagena del Chairá è stufo di essere angariato e preso in giro. Perché l’esercito colombiano deve uccidere due volte i propri nemici?».
Giacinto fece ritorno in Italia, dove vi rimase per cinque anni. Arrivato nuovamente in Colombia, nel 1988, la situazione era peggiorata ulteriormente. Gli venne assegnata la parrocchia di Remolino del Caguán, un villaggetto che egli stesso aveva collaborato a fondare anni prima e che ora stentava a riconoscere: «Una Babilonia. La coca era venduta per le strade. Il paese era pieno di bordelli e la violenza il pane quotidiano. A Remolino ho imparato a convivere con il delitto, la corruzione e la guerra», ricorda con dispiacere. Gli toccò persino comprare una sala da ballo per poter costruire la chiesa del paese.
«Lo stato è sempre stato assente in quest’angolo della Colombia, come se questo luogo non significasse nulla per la politica del governo, visto che era così lontano dalle città e dai centri di potere».

LA PROVA PIÙ DIFFICILE

Nonostante le grandi difficoltà, padre Giacinto si è sentito in dovere di restare sul posto, per difendere il valore della vita. Un lavoro, il suo, ricco di tante, troppe delusioni. Nel 1992, avvenne un episodio che ricorda come il più amaro di quel periodo.
«Un sabato, proprio alla vigilia della celebrazione delle cresime, la guerriglia arrestò un individuo accusato di aver violentato un bambino e voleva fucilarlo sul posto, nella pubblica piazza, davanti a tutta la gente. Tutto il paese era lì riunito, gridando di ammazzarlo. Decisi di intervenire; afferrai l’uomo di peso e lo consegnai alle autorità del comune. Persino i bambini del posto mi correvano dietro, prendendomi in giro e insultandomi. Mi sentii come defraudato. Avevo rischiato la mia vita, la mia reputazione e questi erano i frutti! Presi su due piedi la decisione di andarmene. Quella, fu la notte più amara della mia vita. Piansi a lungo, perché pensai di esser stato un fallimento come sacerdote e come uomo», dice Giacinto, ricordando come aveva pensato di lasciare il paese la mattina successiva, all’alba.
«Avevo la valigia pronta, vuota, con dentro solo la mia rabbia quando la gente iniziò a riunirsi nella piazza. C’erano circa 700 persone. Gli uomini riconobbero il loro errore e mi chiesero perdono. Ma io, veramente, sentivo di non farcela a rimanere. Infine, arrivò un bambino, uno di quelli che il giorno prima era stato tra i più aggressivi nei miei confronti. Mi disse: “Padre, io ero tra quelli che ieri non la stavano ad ascoltare e la insultavano. Mi perdoni”. Quel bambino mi provocò una stretta al cuore. Mi chiusi un attimo nella mia stanza, dicendomi “Giacinto, è vero, questi te l’hanno fatta sporca, ma che hai intenzione di fare?”. Uscii con forza dalla canonica e, con tutto il coraggio che avevo, dissi agli adulti presenti: “Non è per voi che ho deciso di restare, ma per questo bambino che è venuto a chiedermi scusa. È per lui che continuerò a lavorare in questo posto”. Decisi di restare a Remolino».
Padre Giacinto non se ne andò, sapendo che la sua vita sarebbe stata costellata di giorni felici e di altri amari. «Il benessere, frutto della coca, finì presto e tutto ciò che rimase fu la stessa povertà di sempre. Con l’unica differenza che, in questi ultimi 15 anni, la chiesa si è convertita in un punto di riferimento morale e nel motore di una nascente economia basata su attività economiche lecite, come la produzione di cacao e caucciù e l’allevamento di bestiame. Infine, per rispettare l’impegno contratto con i giovani del posto, quest’anno entra in funzione un collegio per 60 giovani che potranno studiare e conseguire l’esame di maturità. Avranno così un’alternativa in più per non scegliere un futuro fatto solo di guerra o narcotraffico».
Sono stati in molti a definire una pazzia il pensare di poter costruire un collegio nel profondo della foresta, ma in padre Giacinto Franzoi vibra ancora il cuore di quel ragazzo orfano e ribelle che imparò a Trento come si può ricostruire una nazione dopo la guerra. O nel bel mezzo di essa.

Semana




Guerra strana… ma non troppo

Da mesi il Ciad è sull’orlo della guerra civile: gruppi ribelli ed esercito regolare si combattono nelle regioni dell’est e del sud del paese, ai confini con il Sudan e la Repubblica Centrafricana; il 14 aprile la guerriglia è arrivata nella capitale, N’Djamena, nell’ennesimo tentativo di rovesciare il presidente Idriss Deby, al potere dal 1990. Il colpo di stato è fallito, ma la tensione rimane; l’episcopato ciadiano teme una catastrofe nazionale.
Ad aggravare la situazione ha contribuito la modifica della Costituzione, per consentire al presidente un terzo mandato, e della legge del petrolio, per usae i proventi in spese militari, anziché in opere pubbliche a lungo termine, come imposto dalla Banca mondiale.
Tali cambiamenti hanno provocato diserzioni in massa dell’esercito inviato a sedare le ribellioni al confine con il Sudan, ma soprattutto tra gli alti ufficiali, quelli più vicini al presidente, passati dalla parte dei ribelli, raggruppati sotto diverse sigle: Fronte unito per il cambiamento (Fuc), Fronte unito per il cambiamento democratico (Fucd), Fronte per il cambiamento, l’unità e la democrazia (Scud), Movimento per la democrazia e giustizia del Ciad (Mdjt), Coalizione per la democrazia e la liberà (Rdl).
A prima vista sembrerebbe una lotta di potere tutta intea, tra i membri dello stesso clan di cui fa parte il presidente: gli zaghawa, originari del Darfour. Ma i burattinai che tirano le fila sono altrove.
La Francia, per difendere la stabilità politica nella regione e nel resto del continente, mantiene in Ciad un contingente di 1.200 soldati, offrendo aiuto logistico e informativo all’esercito regolare, come ha fatto durante il colpo di stato.
Gli Stati Uniti sono padroni delle finanze del paese attraverso la Banca mondiale, che finanzia le compagnie americane Exxon e Chevron Texaco nella trivellazione ed estrazione del petrolio, che dal bacino di Doha viene convogliato da un lungo oleodotto sulle coste atlantiche del Camerun.
La Cina fornisce armi e mezzi di trasporto ai ribelli, nella speranza di mettere le mani sulle risorse petrolifere, ancora inesplorate, della regione confinante con il Sudan, e convogliarle verso il Mar Rosso.
Di fronte alle turbolenze del Medio Oriente, l’Africa sta diventando la grande riserva petrolifera sulla quale si rivolgono le mire di Usa e Cina, sempre più assetata di oro nero. Il Ciad è una pedina strategica nel grande gioco per l’accaparramento energetico del futuro.

Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Un bambino ci salverà

La chiesa in Ciad vive eventi simili a quelli presenti nel racconto evangelico del paralitico: le folle bussano alla porta della chiesa, malattie e guerra paralizzano la società, africani, donne e uomini, si fanno carico dei problemi della propria gente, tradizioni culturali ne congelano le aspirazioni di liberazione, giovani sensibili all’invito di Cristo di alzarsi e camminare con le proprie gambe: la salvezza dell’Africa dipende dagli africani; a noi il compito di assecondare tale cammino.

Prima di partire per un soggiorno prolungato (3 mesi e mezzo) nella missione di Fianga (Ciad) affidata a 3 preti Fidei donum di Treviso, mi è stato chiesto di raccogliere alcune informazioni e riflessioni su questo paese che è piuttosto sconosciuto. Vorrei farlo, a esperienza conclusa, sulla falsariga del racconto evangelico della guarigione del paralitico.
Si tratta indubbiamente di un modo singolare di raccontare, ma potrebbe essere un genere letterario molto appropriato quando si voglia «raccontare la missione».

LA RESSA… AMBIGUA

«Quando si seppe che Gesù era in casa, si radunarono tante persone da non esserci più posto neanche davanti alla porta».
L’impressione che in Ciad si faccia ressa davanti alla porta della chiesa è molto netta, specialmente nei giorni di festa. Si possono vedere fiumane di gente, dai vestiti sgargianti, che si affrettano verso chiese, aree sacre, o all’ombra di immense piante, dove si celebra la preghiera domenicale con o senza eucaristia.
Questo è tanto più stupefacente, se si pensa che il cattolicesimo è entrato piuttosto di recente in Ciad. La missione di Fianga, per esempio, non ha neppure 50 anni. La popolazione di questa nazione, che si autorappresenta come paese musulmano dal punto di vista dell’appartenenza religiosa, può essere divisa a metà, se da una parte si collocano i musulmani (51%) e dall’altra si mettono insieme seguaci delle religioni tradizionali e cristiani (protestanti e cattolici).
C’è ressa anche di richiedenti il battesimo. Nella sola missione di Fianga sono in media 200 gli adulti che chiedono di incominciare l’itinerario della preparazione al battesimo, anche se, poi, dopo i 3-5 anni di preparazione non ne resterà che una quarantina.
Questi dati sembrano tanto più lusinghieri, se si tiene conto di quanto mi è stato detto da un vecchio missionario del nord Camerun: l’attuale crescita dell’islam è più di carattere fisiologico e non più di carattere propulsivo, come sembrava essere nelle decadi 70-80 del secolo scorso.
Tuttavia questi dati non sono in grado di giustificare alcun trionfalismo. Molti preti locali, che d’altronde stanno diventando sempre più numerosi, sembrano più attratti dal ruolo che chiamati alla sequela di Gesù, pastore che dà la vita. La loro richiesta di amministrare il battesimo ai bambini segnala la tendenza a una pastorale di conservazione e di contenimento, piuttosto che a una pastorale missionaria. La debolezza delle motivazioni che li conducono al sacerdozio ha pesanti ripercussioni sul loro stile di vita. In genere non li ho visti molto motivati ai problemi di inculturazione del cristianesimo.
La produzione dei testi della bibbia e della liturgia sembra essere più la preoccupazione degli stranieri che dei locali. Per quanto riguarda i battezzati non è raro il caso che un certo numero di essi tornino a certe pratiche ancestrali, abbandonando di fatto la vita cristiana.
La maggioranza dei richiedenti il battesimo è costituita generalmente da giovani appartenenti a famiglie cristianizzate o per lo più di religione tradizionale. «La ressa» che si nota alle porte della chiesa nasconde, quindi, ambiguità e debolezze che potrebbero compromettere l’incontro forte e personale con Gesù Cristo.

I MALI PARALIZZANTI

«Si recarono da lui con un paralitico».
Il Ciad può essere raffigurato dal paralitico? Oggi è un po’ rischioso parlare «dell’Africa del dolore, della fame, della morte…».
Le classi medio-alte africane, assecondate dai mass media occidentali desiderosi di cancellare ogni traccia di neo-colonialismo, rifiutano questa immagine dell’Africa. Non è così in America Latina, dove la presa di coscienza collettiva e dichiarata dei propri mali provoca dinamiche di liberazione. Non vorrei che tale atteggiamento delle classi medio-alte africane significhi una presa di distanza rispetto alle masse dei poveri del continente e un occultamento delle loro condizioni di vita.
Durante il periodo che ho passato nella missione di Fianga ho avuto la forte sensazione che il tema della vita costituisca il messaggio centrale del cristianesimo della savana, la quale resta un luogo dove la vita sembra minacciata dalla onnipresente signoria della morte. Le minacce più violente sono costituite dalla malaria e dall’Aids.
La malaria, più di tutto. La morte per malaria sembra ancora più gratuita, perché è conosciuta e curabile. Ma quando è unita a una mancanza cronica di alimentazione bilanciata, alla tenace resistenza di pregiudizi legati alla cultura tradizionale, alle distanze che separano le persone dai dispensari e ancor più dall’ospedale, all’assenza di mezzi di trasporto, all’impraticabilità delle vie di comunicazione, essa è all’origine di un numero così elevato di morti da creare l’impressione di trovarsi di fronte a una qualche forma di peste.
Il tema della vita e, perciò, il tema della liberazione dalle cause strutturali, ambientali, igienico-sanitarie e culturali che la minacciano è, forse, il motivo profondo che determina l’attrazione avvertita da molti africani della foresta verso Gesù guaritore.
«Il grido dell’uomo africano» come è stato definito dal teologo camerunese J. Marc Ela, è un grido che reclama vita e liberazione.

GUERRA E TURBOLENZE

A questi fattori di morte si unisce ora la guerra. Una guerra strana che riguarda direttamente alcuni territori, soprattutto quelli frontalieri con il Sudan e, particolarmente, con il Darfour. Bisogna tentare di individuare nella migliore maniera possibile, le dinamiche di questa strana guerra e le sue conseguenze sulle popolazioni.
Da più di 2 anni affluiscono verso il Ciad i rifugiati della regione del Darfour, cacciati da ribelli armati, i cui collegamenti con il governo di Khartoum sono avvolti da una complice oscurità. La fuga verso il Ciad era favorita non solo dalla vicinanza con il Sudan, ma anche dal fatto che le popolazioni profughe appartenevano, in genere, alla stessa etnia del presidente ciadiano. Esse, perciò, confidavano in una qualche solidarietà etnica con «il fratello presidente».
Ma all’interno del clan presidenziale, in questi ultimi mesi, si è sviluppata una lotta intestina durissima, determinata, molto probabilmente, dalla spartizione del potere e delle risorse: da 3 anni il Ciad è un paese produttore di petrolio. Gli «oppositori» trovano, perciò, nella regione del Darfour un ambiente favorevole per stabilire alleanze e svolgere eventuali incursioni in territorio ciadiano. Dal mese di dicembre 2005 si è creato uno stato di belligeranza tra il Ciad e il Sudan, il cui esito finale è estremamente incerto.
Il resto del paese apparentemente non sembra sfiorato dalla guerra, anche se alcune situazioni fanno capire che, di fatto, il Ciad si trova in un periodo di turbolenza.
Fra queste segnalo le retate di giovani che, specialmente nei mercati della capitale, vengono fatte dalla polizia che poi, dopo averli rasati e rivestiti di casacca militare, provvede a inviarli al fronte. Insegnanti e personale medico e paramedico da mesi non vengono pagati, creando una forte inquietudine sociale.
Questi e altri fattori fanno capire che i soldi che restano, dopo il saccheggio operato da una voracissima corruzione, vengono utilizzati per la guerra, piuttosto che per lo sviluppo del paese.

I BARELLIERI

«Il paralitico era portato da 4 uomini».
Chi sono i 4 volontari che si fanno carico del popolo della savana, paralizzata dai suoi molti mali? Durante il mio ultimo soggiorno ho avuto la conferma che non siamo noi, i bianchi, i barellieri dell’Africa.
Essi sono africani, anche se per il momento sembrano essere maledettamente pochi e anche se per ora non hanno raggiunto quella dimensione collettiva che caratterizza, invece, i popoli e i credenti latinoamericani.
È giusto ricordare almeno alcuni di questi barellieri che, a mio parere, costituiscono il fermento pasquale, che è all’opera all’interno di una situazione apparentemente stagnante.
Ricordo Arsène, un giovane medico ciadiano di 34 anni, padre di 4 figli. Laureato a N’djamena, scarta l’ipotesi di farsi un gabinetto medico privato nella capitale, per inserirsi nel servizio pubblico. Viene assegnato all’ospedale di Fianga, lasciato già da alcuni anni da médécins sans frontières.
Prima di arrivare a Fianga fa uno stage nel campo specifico dell’Aids. A pochi mesi dal suo arrivo ha già messo in piedi un comitato per la lotta contro l’Aids, dove sono presenti 2 suore cattoliche, alcuni membri delle chiese protestanti, un giovane musulmano.
Allo stesso tempo fa interventi chirurgici e pratica le cure mediche che sono possibili. Nonostante qualche fallimento che gli brucia dentro, continua con passione la sua lotta personale contro «la signoria della morte», che sembra dominare senza efficace contrasto nella zona.
Un efficace ruolo di barelliere è svolto da suor Maria Albert, settantenne senegalese, che dal mattino alla sera visita malati di ogni tipo ed entra nelle case di tutti, accolta con affetto da musulmani e cristiani e non cristiani. Con i suoi metodi, pur ispirati a un cristianesimo di altri tempi e da una molto improbabile farmacopea, riesce a convincere molti malati di Aids a dichiararsi, a sottomettersi al test.
Considero barellieri due signori, nativi di un grosso villaggio, che hanno il coraggio e il potere di far mettere in prigione il temutissimo e intoccabile «capo locale», che aveva bastonato a morte il loro fratello trentenne.
Anche Pascal, responsabile del centro per disabili, fisioterapista autodidatta, fa parte a mio parere del gruppo di barellieri. Con il tempo si è fatto un fiuto particolare per scoprire le persone colpite da handicap e metterle a contatto con il centro.
Infine, dentro questo ristretto gruppo di barellieri, inserirei il giovane emigrato, di ritorno da Douala, che sfida costumi e convinzioni ancestrali, facendo ricorso alla giustizia ordinaria che finisce per dargli ragione.
Sono tutti barellieri con un volto africano. L’opera di qualsiasi bianco sarebbe meno efficace della loro.

FARISEI… AFRICANI

«Seduti là, erano alcuni scribi che pensavano in cuor loro: perché costui parla così?».
L’azione liberatrice di Gesù viene criticata dagli scribi, cioè dai ringhiosi custodi delle leggi e delle tradizioni svuotate di anima e di senso. Nell’Africa profonda sono all’opera fattucchieri, impostori, gerarchie, che vogliono conservare immutabile il passato.
Certo, le culture, perché non di una sola si tratta, non possono essere liquidate come eredità inutile o, peggio, dannosa del passato. Negli anni ‘70, l’Africa ha riscoperto e riaffermato la sua autenticità e identità culturale, a dire il vero in maniera piuttosto sventurata in alcuni paesi, come l’ex Zaire di Mobutu, la Repubblica Centrafricana di Bokassa, il Ciad di Tambalbaye. In ogni caso, la sua cultura costituisce la spina dorsale di un popolo e delle sue strategie di organizzazione sociale e di resistenza.
Tuttavia, nel delicatissimo film Yaaba (nonna), successivo a quel periodo, opera di un regista africano, si ebbe il coraggio di guardare in maniera critica agli aspetti disumani legati al rispetto di certe tradizioni. Il compito di superarli fu affidato, nel film, a un bambino, che nell’innocenza del suo rapporto con una donna anziana, proscritta dalla comunità perché considerata come «strega», ha messo a nudo i limiti e le disumanità di certi comportamenti indotti dalla rigida osservanza della tradizione.
La sfida dell’inculturazione nei diversi paesi africani ha bisogno anche di questi occhi e comportamenti innocenti, liberi e liberati dalla paura.
Congelare le tradizioni e le culture africane, nonostante il mutamento dei tempi, è lo stesso che distruggerle e risponde più agli impossibili sogni degli occidentali che alla ricerca degli africani.

FACCIAMO TIFO

«Ti ordino: alzati e va a casa tua!».
«Alzati e cammina»: è lo slogan della campagna proposta alla gioventù cristiana del Ciad per quest’anno. Con due numerosi gruppi di giovani ho realizzato due ritiri e qualche incontro su questo tema.
La gioventù ciadiana sembra essere particolarmente sensibile a questo appello di Gesù. Penso che, per accoglierlo in profondità, i giovani devono superare due sfide: la prima è la titubanza, o addirittura la paura, che essi provano di liberarsi da maniere di pensare e agire, determinate da alcune tradizioni ancestrali. Credo che, razionalmente, essi riescano a vedee i limiti e la nocività, ma emotivamente è molto difficile opporvi una efficace resistenza.
La seconda sfida è costituita dall’attrazione del consumismo e dei modelli occidentali che esercitano un forte fascino su di essi.
«Africa, alzati e cammina»: se questo avverrà, gli africani lo dovranno solo a se stessi. A noi il compito di stare ai limiti dell’area, di offrire, quando richiesti, la nostra collaborazione e di fare tifo perché ciò avvenga.

Giuliano Vallotto

Giuliano Vallotto




Nagasaki e Hiroshima

Tappe obbligate del nostro pellegrinaggio sono Nagasaki e Hiroshima, le due città distrutte dalla bomba atomica nell’agosto 1945. Entrambe le città sono state ricostruite, conservando, però, la memoria dell’incredibile tragedia: nel cuore di ognuna delle due città sono stati fatti bellissimi parchi, con vari monumenti alla vita e alla pace. In quello di Nagasaki ce n’è uno intitolato «Inno alla vita», offerto dalla città di Pistornia 1987.
Nei musei passano ogni giorno migliaia di persone e sostano in silenziosa meditazione davanti all’orrore stampato sulle fotografie di volti, scene, situazioni, e sugli oggetti sfigurati dal calore della nube atomica. Abbiamo avuto la fortuna di incontrare qualche superstite: sul loro volto non si legge alcun sentimento di rancore, ma solo la speranza che mai più si ripetano orrori del genere.

Identici sentimenti li ritroviamo nel santuario dei martiri cristiani a Nagasaki, dove riviviamo una pagina triste e, al tempo stesso, tra le più gloriose della storia del Giappone e della chiesa.
Era il 5 febbraio 1597: Paolo Miki e altri 25 cristiani, dopo essere stati invitati a rinnegare la propria religione, furono messi a morte per crocifissione. Alcuni morirono pregando in silenzio, altri cantando i salmi e tutti perdonando ad alta voce il loro persecutore e i carnefici che eseguivano gli ordini di morte.
A quella persecuzione seguirono oltre due secoli d’isolamento, finché i missionari poterono ritornare nel paese. Il venerdì santo del 1865, a Nagasaki, si presentò in chiesa un gruppetto di giapponesi che rivelarono agli stupiti missionari la presenza in zona di circa 10 mila cristiani, sparsi nei villaggi dell’isola di Goto e nella valle di Urakami. Li chiamavano kakure kirishitan, cioè «cristiani nascosti». Un vero miracolo: per generazioni avevano resistito a persecuzioni e umiliazioni, trasmettendo la fede cristiana di padre in figlio, senza l’aiuto e la guida di nessuna struttura ecclesiastica.

VM




Seimeizan: montagna della vita

L’ispirazione viene da due assemblee tenute negli anni ‘70 dalla Federazione delle conferenze episcopali asiatiche, le quali suggeriscono di dotare la chiesa in Asia, oltre alle tradizionali strutture ecclesiastiche (parrocchie, opere sociali, scuole, asili…) di centri di preghiera e di dialogo tra le grandi religioni dell’Asia. La scintilla che lo fa nascere è l’incontro provvidenziale tra il padre saveriano Franco Sottocornola e il monaco buddista Furukawa. Dopo anni di gestazione, nel 1987, su una collina sovrastante la cittadina di Kikusui, nell’isola di Kyushu, nasce il «Seimeizan» (montagna della vita), centro di spiritualità e dialogo interreligioso.
Il centro rispecchia in tutto le caratteristiche culturali e spirituali della tradizione giapponese: la struttura dell’edificio, immersa in una foresta di bambù e cipressi, con pareti e porte scorrevoli, la luce che penetra diffusa e non violenta, sembra non avere alcuna discontinuità tra l’interno e l’ambiente circostante. Inoltre, la semplicità dell’arredamento, l’uso del legno o della paglia di riso intrecciata, il tatamì che invita a stare insieme, creano rapporti familiari e calore umano che fanno pensare a una psicologia della casa, diversa dalle nostre tradizioni europee.
Ma ciò che caratterizza il Seimeizan è, soprattutto, l’assunzione di tre elementi classici dello spirito del popolo giapponese: la natura, la montagna, la via del tè. Vivere in mezzo alla natura, sentita come luogo sacro, significa vivere in un contesto di esperienza religiosa. La montagna è luogo di silenzio e d’incontro con Dio. Il silenzio caratterizza molte volte gli incontri interreligiosi che si svolgono al Seimeizan. Il desiderio di stare insieme, di comunicare l’esperienza mistica non ha bisogno di parole. Nella cerimonia del tè, servito dal padrone di casa, i componenti del gruppo (non più di 7 persone) non si guardano in faccia, ma tutti guardano la tazza: bere insieme il tè è segno di pace; è un momento che crea nel gruppo uguaglianza e rispetto, gioia di stare insieme.

La comunità cristiana del Seimeizan (5 persone in tutto) opera in stretta collaborazione con il tempio buddista della vicina città di Tamana, praticando con semplicità e impegno alcune scelte fondamentali: vivere in mezzo ai buddisti per rispondere al dialogo della vita e delle opere; svolgere servizi di vario genere a favore dei bambini, anziani e persone bisognose di aiuto, di consigli e assistenza; offrire accoglienza a singoli e gruppi che vogliono fare esperienza spirituale e di dialogo.
Ogni anno centinaia di persone salgono alla «Montagna della vita» per pregare, vivere a contatto con la natura e con se stessi, comprendere l’animo giapponese, scoprire negli eventi quotidiani la presenza di Dio. Seimeizan è un vero polmone spirituale, in un ambiente in cui il senso religioso rimane spesso in superficie.
Anche noi pellegrini respiriamo un’atmosfera di autentica spiritualità cristiana, fatta di accoglienza, preghiera, contemplazione, attenzione all’altro. Vorremmo condividere per tutto il giorno il loro stile di preghiera, rivolti al sole quando sorge e quando tramonta, ma la pioggia non ce lo permette. Quindi svolgiamo tutto il nostro programma all’interno.
Centro della nostra giornata è la celebrazione della messa, preceduta dalla meditazione zen. Il rito, ispirato alla cerimonia del tè, si svolge con profondo rispetto e dignità liturgica e costituisce per noi un’affascinante novità per rivivere il mistero pasquale.

VM




Sulle orme di Saverio

In occasione dei 500 anni dalla nascita di Francesco Saverio, cinque sacerdoti ripercorrono il suo cammino di evangelizzazione in Giappone, per meglio conoscere la persona e l’opera avviata dal grande missionario. L’incontro con alcune comunità cristiane ed esperienze di dialogo interreligioso offrono l’opportunità di venire a contatto con l’attuale chiesa giapponese.

Domenica 19 febbraio 2006 rimane nei ricordi come un’esperienza unica, cuore del pellegrinaggio, che ormai volge al termine. Siamo invitati a partecipare alla messa in una delle parrocchie della periferia di Osaka, ognuno affidato a un missionario saveriano. Il mio angelo custode mi porta nella comunità cristiana di Kumatori. Dopo la comunione, il parroco, padre Angelo Manni, mi presenta ai fedeli e mi chiede di rivolgere loro un breve messaggio, che lui traduce in giapponese.
«Cari cristiani – esordisco -, sono un missionario della Consolata e vengo da lontano. Mi chiamo Vincenzo Mura. Ho lavorato per diversi anni in Italia e nella Repubblica democratica del Congo. Non vi nascondo che vi parlo con tanta umiltà, perché vedo in voi, innanzitutto, la chiesa iniziata da san Francesco Saverio e i fratelli diretti di generazioni di martiri. Questo mi emoziona tanto. Non è di tutte le chiese avere fondamenta e tradizioni così solide. Esorto ognuno di voi a continuare a dare la vostra bella testimonianza di fede in Gesù Cristo risorto. Grazie».

DUE ANNI EROICI
DI EVANGELIZZAZIONE

Siamo in cinque: tre sacerdoti della diocesi di Brescia, un missionario saveriano e il sottoscritto. Atterriamo a Kagoshima, nell’isola di Kyushu, la più meridionale dell’arcipelago giapponese. All’aeroporto ci attende padre Giuseppe, dei missionari Saveriani, nostro angelo protettore, che ci introduce nel mondo giapponese.
Anche per Francesco Saverio sarebbe stata un’impresa impossibile, nel 1549, raggiungere questa città senza la guida di un esperto del paese. La trovò, infatti in Anjiro, un giapponese sfuggito alla giustizia e ricercato per omicidio, che il missionario aveva incontrato a Malacca, presentatogli da Alvares, capitano di una nave.
Usciti dall’aeroporto, proviamo a immaginare cosa abbia provato il grande missionario di fronte allo spettacolo offerto dalla prima città giapponese che lo accolse. Purtroppo, una fitta e piovigginosa nebbiolina c’impedirà per tutto il tempo del nostro soggiorno di gustarne fino in fondo la bellezza della baia, lunga e stretta, dominata dal vulcano Satura-Jima, isolato in mezzo al mare. Così era e tale è rimasto fino al 1914, quando un’enorme eruzione di lava lo ha unito alla sponda orientale.
Sotto una pioggia torrenziale visitiamo il monumento a san Francesco, dove è raffigurato Anjiro che porta sulle spalle il missionario e lo introduce in Giappone. Passiamo quindi al castello del potente daimyò (governatore locale), dove il Saverio si recò, accompagnato da Anjiro, per avere la libertà di predicare il vangelo. Permesso che ottenne facilmente, anche perché il signorotto sperava di attirare nel suo feudo i commercianti portoghesi.
Continuiamo il nostro pellegrinaggio, visitando la città di Kagoshima e la cattedrale. La giornata termina nella casa del presidente della comunità cristiana, dove siamo invitati a cena, rigorosamente alla giapponese, con tanto di bastoncini (hashi) al posto delle posate.
A Kagoshima Francesco si fermò circa un anno, dando vita alle prime comunità cristiane. Poi si spostò a Hirado, piccola isola a nord di Nagasaki, e dopo quattro mesi raggiunse Yamaguchi. Facciamo anche noi tale percorso, ma prima ci fermiamo per un giorno nel centro di spiritualità Seimeizan, dove veniamo iniziati a tante piccole realtà giapponesi (vedi riquadro). Ci prepariamo a familiarizzare con il tatamì: spessa stuoia di paglia di riso usata come pavimento nelle case giapponesi, nelle quali si entra solo dopo aver lasciato le scarpe all’esterno delle mura domestiche. È piacevole camminare a piedi scalzi sul tatamì: dà una sensazione di leggerezza e di silenzio.
Ci abituiamo al futon, il materasso per dormire, disteso sul pavimento, che al mattino viene ripiegato e riposto in un armadio, lasciando libero lo spazio per i pasti e la vita familiare diua. Impariamo anche a fare la meditazione zen, appollaiati sulle gambe per mezz’ora… Che fatica, la prima volta!
Riposti i futon nei loro armadi, riprendiamo il viaggio sotto la guida di padre Franco Sottocornola, direttore del Seimeizan. Ci fermiamo a Nagasaki, per sostare in preghiera davanti al monumento che ricorda i martiri giapponesi e visitare il museo della bomba atomica (vedi riquadro), quindi anche noi raggiungiamo Hirado, dove visitiamo la bella chiesa dedicata al santo missionario; quindi raggiungiamo Yamaguchi, capoluogo dell’omonima prefettura, nella regione del Chûgoku, nell’estrema punta occidentale dell’isola di Honshû.
A Yamaguchi visitiamo i luoghi che portano la memoria del Saverio: santuario, museo, castello. Ci vengono ricordate le sue peripezie per ottenere piena libertà nella predicazione del vangelo. Tenendo presente la situazione sociopolitica del paese, il Saverio pensava di guadagnarsi i favori dell’imperatore; per questo si recò a Kyoto: un viaggio di 400 km a piedi, d’inverno, tra indicibili stenti e pericoli. Noi faremo lo stesso tragitto in poche ore sul treno velocissimo.
Francesco trovò la capitale dell’impero in preda a gravi tumulti e comprese che il monarca era privo di potere politico. Egli toò subito a Yamaguchi e si procurò l’appoggio del daimyò della regione, che gli concesse un vecchio tempio buddista (poi diventato la prima casa dei gesuiti in Giappone) e di annunciare liberamente il vangelo di Gesù.
Dopo circa quattro mesi, nel 1551, Francesco ripartì per le Indie, con l’intento di organizzare e dare solidità alla sua missione in Giappone ed estendere l’evangelizzazione alla Cina. Ma morì l’anno seguente.

LA CHIESA GIAPPONESE

Dopo due anni d’intensa ed eroica evangelizzazione, Francesco Saverio lasciava in Giappone più di 400 battezzati: piccole comunità cristiane che seppero tener viva la fede per secoli, sfidando contrasti e persecuzioni.
Nel nostro pellegrinaggio constatiamo quanto la presenza del Saverio sia ancora viva: li vediamo nei segni che ricordano i luoghi dove egli è passato; i cristiani giapponesi parlano di lui come uomo di Dio, un santo, divorato dalla sua missione; i missionari attualmente presenti lo hanno come patrono e ispiratore del modo di fare missione.
La prima evangelizzazione di san Francesco e altri missionari fu seguita da lunghi e tormentati periodi di persecuzioni e testimonianza nel martirio, silenzio e isolamento dal resto del mondo e dalla chiesa universale.
Il viaggio di Giovanni Paolo ii, nel febbraio 1981, le scelte pastorali dei vescovi e il lavoro dei missionari hanno contribuito, negli ultimi decenni, a frantumare un certo tipo di «congiura» contro il cattolicesimo.
Un papa che parla in diverse lingue, che celebra la messa e ordinazioni di preti locali in lingua giapponese, che si rivolge con umiltà e autorità ai capi di tutto il mondo per implorare la pace… non appare certo come un capo spirituale di una minoranza insignificante!
Ma è soprattutto con i suoi gesti e la sua catechesi che il pontefice penetra nel cuore dei giapponesi, quando, per esempio, invitato dalla nota cantante Agnese Chang, improvvisa un girotondo con alcuni bambini, durante l’incontro con i giovani; oppure quando, durante la messa celebrata il 26 febbraio a Nagasaki sotto una tormenta di neve, loda i martiri giapponesi, paragonandoli ai «primi martiri dell’era cristiana». Tutto questo contribuisce a far sì che il cammino della chiesa faccia notizia.
I vescovi, secondo lo stile giapponese, evitano lo scontro e non prendono posizioni; ma operano come fermento nella società. Significativo rimane il loro documento «Messaggio sulla vita», in cui essi presentano la dignità della vita nella visione cristiana, usando espressioni molto belle e incisive, capaci di penetrare veramente nel cuore della persona, aiutandola a cambiare. Anche aborto ed eutanasia vengono toccati da una prospettiva positiva, secondo il grande valore della vita.
La chiesa è anche propositiva sul problema della discriminazione di gruppi socialmente emarginati, sull’attenzione ai poveri, lebbrosi, orfani, anziani e sul concreto impegno nella giustizia sociale.

PICCOLA, MA DINAMICA

I missionari saveriani che ci accompagnano nel nostro pellegrinaggio sono felici di rispondere alle nostre domande, per darci un quadro sempre più completo sulla situazione della chiesa giapponese.
Oggi, la chiesa in Giappone conta più di 450 mila cattolici, distribuiti in 16 diocesi e 1.000 parrocchie, circa 800 sacerdoti autoctoni e altrettanti missionari esteri. Questa presenza missionaria opera in piena collaborazione con la chiesa locale, per rispondere a tutti gli impegni della chiesa giapponese nell’assistenza religiosa, nel campo dell’insegnamento, dell’aiuto ai poveri e anziani… oltre a dare quella spinta di missionarietà ad extra, di cui il Giappone ha ancora bisogno.
A dare visibilità e prestigio alla chiesa cattolica sono soprattutto le scuole: 559 matee, 54 elementari, 98 medie inferiori, 113 medie superiori, 26 istituti universitari, con corsi di due anni, e altri 18 a ciclo prolungato. Il rapporto tra istituzioni scolastiche e studenti, genitori ed ex alunni è molto intenso e dura tutta la vita. Nelle scuole cattoliche, poi, non c’è nessuna imposizione religiosa.
Gran parte degli studenti non diventa cattolica, ma rimane «simpatizzante» del cattolicesimo. Inoltre, il 90% degli adulti che si convertono e ricevono il battesimo hanno avuto il primo contatto con Cristo e la chiesa attraverso la scuola. La chiesa è molto presente anche in campo sociale: gestisce 234 nidi d’infanzia, 192 case per anziani, 80 centri sociali per i senzatetto o per altri servizi.
Se confrontiamo il numero dei cattolici (450 mila) con quello degli abitanti (126 milioni) la chiesa appare certamente una minoranza. Nonostante la piccolezza, i cattolici si sentono parte essenziale della società giapponese, profondamente radicati nella propria cultura e, al tempo stesso, totalmente integrati nella chiesa universale.
In Giappone sono presenti un centinaio di congregazioni religiose, di cui 5 autoctone, come le suore del Cuore Immacolato di Maria, fondate a Nagasaki. Grande attrazione riscuote la vita claustrale maschile e femminile: 5 monasteri di trappiste (con 30-60 religiose ciascuno), 9 di carmelitane (tutti pieni); e poi monasteri di clarisse, redentoriste, del Preziosissimo Sangue; 2 monasteri di trappisti. In tutto sono oltre 6 mila le suore giapponesi: la percentuale più alta del mondo, rispetto al numero di cattolici.
«Siamo un piccolo gruppo; non siamo certamente una forza come voi in Congo, Vincenzo; ma si lavora bene» conclude padre Franco.

TRA PARCHI E TEMPLI

Nonostante le grandi città e i complessi industriali disseminati in tutto il paese, la prima impressione che si prova in Giappone è quella di trovarsi in un grande parco, dove tutto è pulito e ordinato; e poi la gente, rispettosa di ogni cosa, cerimoniosa nell’accogliere i passeggeri in stazioni e aeroporti.
Il pellegrinaggio sulle orme del Saverio, è un’occasione per conoscere anche la storia, la cultura, l’animo del Giappone. Per questo visitiamo i suoi monumenti religiosi più importanti, come i kofun, tra i più antichi. Sono tombe a tumulo, che si trovano a migliaia in tutta l’isola di Honshû, la più grande del Giappone, e nella parte settentrionale dell’isola di Kyûshû. La loro fioritura ha dato il nome a un segmento della storia del Giappone, conosciuto come «periodo Kofun» (iv-vi secolo d.C.). Dopo questi secoli, i kofun non furono più edificati, sopraffatti dalla diffusione del buddismo e delle usanze funerarie ad esso collegate.
A Kyoto, la Firenze del Giappone, ci troviamo immersi nel parco di Kinkakuji (padiglione dorato) uno dei più pittoreschi tra i molti templi dell’antica capitale imperiale. L’ incantevole piccolo tempio, ricoperto di lamine d’oro, appollaiato su un laghetto, è allo stesso tempo unico tempio zen e sacro reliquiario di Budda.
Come preti ci viene naturale domandare ai nostri accompagnatori: «In che cosa credono i giapponesi? Qual è la loro religione?». Risposte e spiegazioni sono sorprendenti. Questo popolo ha nel sangue lo shintornismo, una religione atavica, secondo la quale tutto è abitato da Dio. La gente ha un profondo senso religioso della natura, un’innata capacità di cogliere la bellezza straordinaria del creato. I messaggi televisivi avvisano quando il pesco è fiorito a Nagasaki o il ciliegio fiorisce a Kyoto. A tali informazioni, tutti sospendono ogni attività e si riversano in campagna per godere della fioritura del pesco o del ciliegio.
«Non domandare mai a un giapponese quale sia la sua religione – spiega padre Marco -; potrebbe risponderti: “Per amor di Dio, non ne ho nessuna!”. Si può domandare, invece, a quale tempio appartenga. Di fatto, su 126 milioni, 80 milioni vanno a un tempio per pregare, ma appena il 5% dei giapponesi sanno in che cosa credono».
L’innata religiosità dei giapponesi è caratterizzata da una diffusissima superficialità. Nelle case si può avere l’altarino buddista per gli antenati e quello shintornista per gli dei. Ma pochi saprebbero dire il nome degli dei venerati in famiglia.
Quando arriviamo nelI’isola di Miyajima e visitiamo il bellissimo tempio shintornista (patrimonio dell’umanità, distrutto da un tifone nel settembre del 2004 e ricostruito), si sta celebrando un matrimonio. Anche questo è un argomento che ci interessa come preti.
«I giapponesi nascono shintornisti; si sposano in chiesa e muoiono buddisti – risponde lapidario la nostra guida -. Tutti sono presentati al tempio shintornista al momento della nascita; un numero sempre crescente si sposa nelle nostre chiese cattoliche (logicamente non si tratta di matrimonio cristiano); è compito dei bonzi fare i funerali».
E finiamo (si fa per dire) a Tokyo, camminando lungo i viali, sempre in ordine e puliti, del parco dove sono le abitazioni dei bonzi buddisti. Anche qui le domande si affollano: hanno costoro una speranza futura? Nessuno ci ha chiesto l’elemosina: ma i poveri ci sono? E questi giovani in visita come noi e ai quali chiediamo di fare una foto insieme, credono a tutto questo?
«Intanto sono qui – spiega la nostra guida -. Hanno fatto le loro abluzioni. Ora guardate come battono la mano destra sulla sinistra per farsi notare dalla divinità: chiedono la grazia di essere promossi o qualche altro favore materiale… E fanno tutto con molto rispetto. Ma non chiedete qual è la loro fede o a cosa credono. Esprimono con la loro presenza la gioia di far parte della natura che li circonda».

Vincenzo Mura

Vincenzo Mura