Per approfondire

BIBLIOGRAFIA

a) per conoscere:

• Giuseppe Altamore, I predoni dell’acqua, Edizioni San Paolo 2004.
• Giuseppe Altamore, Qualcuno vuol darcela da bere, Fratelli Frilli Editori, 2003.
• Vandana Shiva, Le guerre dell’acqua, Feltrinelli 2004.
• Oscar Olivera, Cochabamba! Water war in Bolivia, Usa 2005.
• Luca Mercalli – Chiara Sasso, Le mucche non mangiano cemento, Sms 2005.
• Aa.Vv., L’acqua come cittadinanza attiva, Emi 2003.
• Andrea Palladino e Astrid Lima, L’acqua invisibile, Boker Media e Associazione Liblab 2005 (un film sulla privatizzazione dell’acqua a Manaus).

b) per agire:

• Andreas Schlumberger, 50 piccole cose da fare per salvare il mondo e risparmiare denaro, Apogeo 2005.
• Ugo Biggeri – Valeria Pecchioni – Anne Rasch, Quotidiano responsabile. Guida per iniziare giorno per giorno a prendersi cura del mondo e degli altri, Emi 2004.
• Marinella Correggia, Manuale pratico di ecologia quotidiana, Mondadori 2000.

c) per tenersi aggioati:

• «Altreconomia», L’informazione per agire, rivista mensile, racconta in maniera facile i problemi dell’economia, proponendo vie alternative alle attuali.
• «Valori», rivista mensile di economia sociale e finanza etica; è più specialistica di «Altreconomia», rivolta a chi non crede alle pagine finanziarie ed economiche dei giornali.
• «Altroconsumo», rivista mensile per i consumatori; si riceve per abbonamento e costa abbastanza cara ma per un’ottima ragione: non contiene una sola riga di pubblicità e, di conseguenza, non è da questa condizionata.

SITI INTERNET

a) siti di informazione critica:

• www.contrattornacqua.it – con accurati dossier in formato Pdf
• www.legambiente.com – un sito ricco di informazioni ed idee
• www.acquabenecomune.org – con le principali leggi in materia
• www.waterobservatory.org – un sito internazionale
• www.worldwater.org – un sito internazionale

b) siti commerciali:

• www.aquafed.org – il sito delle multinazionali dell’acqua
• www.mineracqua.it – il sito italiano dei produttori di acqua in bottiglia: molta autopromozione (e, ovviamente, nessuna autocritica)

PaMo




Acqua in bottiglia? No, grazie!

Lo scandalo dell’acqua (4): l’acqua in bottiglia (di plastica

Abbagliati da una pubblicità ossessiva ed invadente, gli italiani sono i primi consumatori mondiali di acqua in bottiglia: 184 litri a testa! Eppure la logica direbbe di non comprare o almeno di limitare l’acquisto di questo prodotto. Che costa uno sproposito, impoverisce lo stato, inquina il mondo e da ultimo non è proprio detto che faccia così bene…

Un famoso calciatore e una giovane miss Italia: sono loro i testimonial più utilizzati in questi mesi del 2006. La pubblicità, invero simpatica, è quella di due note marche di acqua minerale.
I produttori di acque minerali spendono cifre da capogiro sui media e in particolare in televisione per pubblicizzare i loro taumaturgici prodotti: 300 milioni di euro nel 2004, 600 miliardi di vecchie lire (fonte Nielsen).
Dato che gli introiti della pubblicità sono sacri e spesso fondamentali è difficile leggere o vedere qualcosa contro le acque minerali (1). Trovare qualche notizia libera da condizionamenti è un’impresa, soprattutto sui media importanti, come riconosce, con amarezza, Giuseppe Altamore nel suo libro Qualcuno vuol darcela da bere.
«È (…) un tema – si legge – dai risvolti oscuri tale da suscitare una certa indignazione in chi pensa che la libertà di stampa sia un diritto inderogabile. Purtroppo, l’informazione economica è sottoposta a pressioni e contaminazioni il più delle volte ignorate dai lettori. Nel campo delle acque minerali prevalgono gli interessi dei grandi gruppi del comparto alimentare che aderiscono a Mineracqua, organizzazione aderente a Confindustria. (…) i produttori di minerale fanno parlare di sé a ogni spot televisivo, invadono le pagine dei giornali, rimpinguano gli esausti bilanci delle case editrici che accettano ben volentieri milioni di euro di pubblicità in cambio di un tacito silenzio».
Anche la rivista Altroconsumo vive senza pubblicità ed infatti sul numero 126 dell’aprile 2000 si legge: «“Coccola i reni”, rende la vita leggera, aiuta a fare ping! ping!, reintegra il giusto equilibrio di minerali… le teste d’uovo della pubblicità usano tutta la loro fantasia per convincerci che l’acqua minerale è poco meno di una panacea. Dato che in Italia se ne bevono fiumi, c’è da stupirsi che ci sia ancora in giro qualche malato.
La verità è diversa. L’acqua in bottiglia fa bene, sì, esattamente come quella di rubinetto. Non ci sono motivi fondati per aspettarsi chissà quale vantaggi per la salute dall’acqua minerale, così come non ce ne sono neanche per diffidare sistematicamente di quella foita dagli acquedotti (…). In linea di massima, l’unico motivo per preferire l’acqua minerale è il gusto: vi piace di più di quella che passa il rubinetto di casa».
La conclusione dell’inchiesta di Altroconsumo è ironica: «È proprio vero che l’acqua minerale rende più leggeri, soprattutto i nostri portafogli».

ITALIANI: SORDI E CIECHI

Nel 2003 un rapporto di Legambiente (2) scriveva: «In Italia si consuma più acqua minerale che in qualsiasi altro paese del mondo: circa 172 litri l’anno pro-capite, con un giro d’affari attorno ai 3 miliardi di euro (6.000 miliardi di vecchie lire). Nella sola ristorazione si utilizza il 35% del mercato totale nazionale, settore in crescita per effetto dell’aumento dei pasti fuori casa.
Ma l’iperconsumo di acqua minerale in bottiglia non è proprio un comportamento virtuoso. L’impatto ambientale dell’acqua in bottiglia, per cominciare. Se ogni italiano consuma 172 litri di acqua minerale in un anno, vuol dire che consuma in media 90 bottiglie di plastica e una trentina di vetro. La popolazione italiana conta 55 milioni di abitanti. Dunque ci sono quasi 5 miliardi di bottiglie di plastica da smaltire ogni anno. Tenendo conto che la raccolta differenziata della plastica ne intercetta il 20% circa, almeno 4 miliardi di bottiglie finiscono in discarica. Ogni anno bere ci costa circa 1 milione di metri cubi di discariche. Oltre a questo c’è il problema dell’impatto ambientale dovuto al trasporto su gomma delle bottiglie, con spostamenti del tutto irrazionali che portano acque del sud al nord e viceversa».
Intanto, dopo questo rapporto di Legambiente, il consumo è ulteriormente aumentato. Nel 2004 il consumo di acqua in bottiglia sarebbe stato di 184 litri per italiano: un primato mondiale. Il dato proviene dal prestigioso Earth Policy Institute di Lester Brown (3).

VITA DA CONSUMATORE

Immaginiamo che il nostro consumatore vada al supermercato a comprare l’acqua. Il primo problema da affrontare sarà la scelta: le marche sono decine. Prendere quella che aiuta la digestione o quella che fa andare in bagno? Comunque sia, dalla più famosa alla meno cara, tutte regaleranno al nostro compratore un bel peso (difficile che si acquisti un solo litro) da trasportare, prima alla cassa del negozio, poi a casa (dove magari manca l’ascensore).
Arrivate a destinazione, le bottiglie di acqua saranno consumate. Senza certo soffermarsi sulla lettura dell’etichetta, tra l’altro di solito scritta con lettere minuscole. Residuo fisso a 180 gradi mg/l (milligrammi per litri) e poi una lista di sostanze disciolte in un litro d’acqua espresse in ioni e mg. Tra i pochi che leggeranno, quanti sapranno interpretare queste informazioni? La cosa più comprensibile sarà, probabilmente, il nome di quel dipartimento universitario o di quella Asl che hanno svolto l’analisi chimica e chimico-fisica. Quando? Il 22 marzo 2004. Siamo nel giugno 2006 e dunque sono passati più di 2 anni. Un periodo certo non breve in un mondo dove tutto cambia molto rapidamente. Ma, per una volta, cerchiamo di non essere troppo maligni: quella sorgente è sicura, al riparo da contaminazioni.
Il nostro consumatore ha terminato l’acqua. Che ne farà della bottiglia in Pet? Se rientra nel gruppo del 20% degli italiani che fa regolarmente la raccolta differenziata, cercherà un contenitore per depositare le bottiglie vuote (magari dopo averle accartocciate per non occupare spazio inutilmente). Se invece rientra nel gruppo, purtroppo ben più consistente, di coloro che non fa la raccolta differenziata, getterà le bottiglie nel contenitore della spazzatura (magari anche lamentandosi del servizio di nettezza urbana e dei suoi costi crescenti).
Il nostro consumatore è convinto del prodotto acquistato. Televisioni, radio, giornali gli ricordano in continuazione che l’acqua minerale è più sana, più controllata, più salutare dell’acqua del rubinetto.
Non è vero. Svariate inchieste (ad esempio, Altroconsumo n. 160 del maggio 2003) hanno dimostrato che l’acqua del rubinetto è sottoposta a severi controlli e nella maggioranza dei casi è più garantita di quella in bottiglia. Certamente occorrerebbe investire soldi pubblici negli acquedotti, nel trattamento delle acque reflue, nei controlli sugli scarichi industriali ed agricoli. Costi elevati per casse pubbliche sempre più vuote. Ma siamo certi che non sarebbero soldi ben spesi?

PROFITTI PRIVATI,
PERDITE PUBBLICHE

Già, i soldi. Toiamo al nostro consumatore per capire quanto gli costa comprare quei litri di acqua diuretica, leggera, frizzante, briosa, quasi senza sodio, eccetera eccetera. Il prezzo varia dai 20 ai 50 centesimi al litro. Moltiplicate questo per 184 litri all’anno a persona e otterrete un bel costo. E l’acqua che sgorga dal rubinetto di casa? Costa circa un euro. Però non al litro, ma al metro cubo, cioè per 1.000 litri!
Ma l’argomento costi non si esaurisce qui. La bottiglia in plastica (che in Italia è il 77 per cento del totale) (4) fa risparmiare le imprese ma grava – tanto per cambiare – sulle casse pubbliche. Il costo di una bottiglia in Pet è di circa un centesimo contro i 25 centesimi per una bottiglia di vetro. I costi dello smaltimento del le bottiglie in plastica ricadono però sulle regioni che spendono molto di più di quanto incassino dai canoni delle concessioni per lo sfruttamento delle fonti. Per capire l’entità della questione: su un giro d’affari delle aziende produttrici pari a 2,8 miliardi di euro (5.500 miliardi di vecchie lire) il canone di concessione arriva a circa 5,16 milioni di euro (un miliardo di lire) (5). In sintesi: profitto per le imprese, costi per lo stato e la collettività.
L’Earth Policy Institute ha calcolato l’ammontare di plastica usata ogni anno per produrre le bottiglie per l’acqua: 2,7 milioni di tonnellate! Consumata l’acqua, le bottiglie vengono riciclate in minima parte (le percentuali variano molto da paese a paese); le restanti vanno ad incrementare le discariche o, qualora siano incenerite, ad aumentare le scorie tossiche.
Insomma, ogni volta che andiamo al supermercato, prima di comprare dell’acqua minerale, pensiamo un attimo se ne valga veramente la pena.

Paolo Moiola

Note:
(1) Informazione libera si può trovare sui giornali delle associazioni ambientaliste (Legambiente, Wwf, eccetera), altromondiste (Mani Tese, Unimondo, ecc.) o dell’economia equa e solidale (Altreconomia, Valori, ecc.).
(2) Legambiente, H2Zero. L’acqua negata in Italia e nel mondo, giugno 2003.
(3) Emily Aold, Bottled Water: Pouring Resources Down the Drain, Earth Policy Institute, febbraio 2006.
(4) Anche in questo l’Italia è in ritardo. In Germania, sono in Pet soltanto il 24 per cento delle bottiglie; ben il 75 per cento sono in vetro.
(5) Si veda il Dossier Acque minerali (2005), curato dal «Comitato italiano per il contratto mondiale sull’acqua».


ACQUA DEL RUBINETTO O ACQUA IN BOTTIGLIA?

• il costo
L’acqua del rubinetto costa molto (molto) di meno di quella in bottiglia.

• la salubrità
Non è affatto detto che l’acqua del rubinetto sia qualitativamente inferiore all’acqua in bottiglia. Anzi…

• i costi per la collettività
A fronte di ricavi collettivi molto esigui (le concessioni di sfruttamento vengono rilasciate alle imprese private per pochi spiccioli) ci sono enormi e crescenti costi collettivi, a cominciare dallo smaltimento delle bottiglie di plastica.

• i costi per il pianeta
L’impatto ecologico dell’acqua in bottiglia di plastica è incalcolabile. Non va, inoltre, dimenticato l’impatto sociale che nasce dal diffondersi dell’idea dell’acqua come merce e non come diritto umano.

• la scala dei valori
Bere acqua del rubinetto sottende anche una scelta valoriale. Bere acqua in bottiglia è infatti una risposta individualistica, un comportamento questo che si traduce nella rinuncia alla ricerca dell’acqua come «bene comune» fornito dal servizio pubblico (*).

Pa.Mo.

(*) Si legga il Dossier Acque minerali curato dal «Comitato italiano per il Contratto mondiale sull’acqua».

Paolo Moiola




Acqua del rubinetto? Si, grazie!

Lo scandalo dell’acqua (3): l’acqua di casa

La strategia è chiara: diffondere diffidenza verso l’acqua del rubinetto, un tempo foita da società pubbliche. Un tempo, perché da qualche anno è in corso il tentativo di vendere le infrastrutture idriche pubbliche a società private. La scelta di privatizzare anche l’acqua del rubinetto si inserisce nel consueto schema neoliberista. Ma è una scelta inaccettabile, a cui molti movimenti nati dalla società civile, a Sud come a Nord, si stanno opponendo strenuamente, pur tra mille difficoltà.

L’acqua che scorre dal rubinetto di casa non è un fatto scontato. Al contrario: solo 16 persone su 100 possono aprire un rubinetto e veder scorrere acqua potabile. Nella maggioranza dei paesi del Sud del mondo, soprattutto in Africa, l’acqua non arriva in casa, ma occorre procurarsela ai pozzi, alle sorgenti, ai fiumi, ai laghi. Si calcola che 18 milioni di bambine e bambini sono costretti a fare i portatori d’acqua a causa della mancanza o dell’inaccessibilità degli acquedotti.
Precisato questo, cosa sta avvenendo dove esiste un sistema di distribuzione, nei paesi del Sud come in quelli del Nord? Si assiste al tentativo di privatizzare gli acquedotti, sottraendoli cioè alla gestione pubblica.
Il tutto accade senza fare troppo rumore, per evitare l’opposizione delle popolazioni. Per fortuna, l’operazione non sempre riesce.

RUBINETTI… D’ORO

Come a Cochabamba ed El Alto, ma anche a Napoli, Caserta, Arezzo: due città boliviane ed alcune città italiane idealmente unite nel combattere contro la privatizzazione dei loro acquedotti.
A Cochabamba e ad El Alto hanno combattuto e vinto, sconfiggendo niente di meno che due multinazionali del calibro della statunitense Bechtel e della francese Suez. Nelle città della Campania e della Toscana si sta ancora discutendo, dopo che la decisa opposizione dei movimenti civici per l’acqua ha fermato la macchina della politica e del business.
A Cochabamba l’eroe della prima «guerra dell’acqua» (la seconda è stata quella di El Alto, sempre in Bolivia) è stato Oscar Olivera, operaio e sindacalista.
A Napoli la rivolta è capeggiata da padre Alex Zanotelli, missionario comboniano molto noto per le sue battaglie a fianco della società civile, prima in Kenya, ora in Italia.
A Sud come a Nord la motivazione addotta per giustificare la privatizzazione dei servizi idrici è sempre la solita: l’inefficienza della gestione pubblica. Invece di correggere il pubblico si pensa subito al privato, facendo finta di non ricordare che il privato ha come primo obiettivo il guadagno e per ottenerlo subito è disposto a tutto, indipendentemente dal consenso della clientela.
A Cochabamba, prima della vittoriosa rivolta, le tariffe della Bechtel-Aguas del Tunari, erano aumentate del 68 per cento! Identicamente sono aumentate le tariffe nei comuni italiani che hanno rinunciato ad una gestione pubblica dei servizi idrici. Ad Arezzo, ad esempio, le bollette sono aumentate del 200 per cento.
L’ordinamento italiano prevede 3 modalità di affidamento dei servizi pubblici locali: la gestione interamente pubblica (definita in house providing), la gestione mista (cioè con capitale pubblico e capitale privato) e la gestione interamente privata. Dopo l’elettricità, il gas, i rifiuti, i trasporti urbani, adesso si è giunti alla privatizzazione dell’acqua e dei servizi ad essa collegati (captazione, depurazione, distribuzione, eccetera).
Ma l’acqua non è un bene come un altro; è un bene vitale a cui tutti debbono avere accesso. Data la sua natura di diritto umano fondamentale, la sua gestione dovrebbe sempre essere esclusivamente ed interamente pubblica. Escludendo dunque realtà come l’Acea di Roma, che è una società pubblico-privata, dove tra i soci di minoranza c’è il gruppo Caltagirone (cioè un pezzo da novanta del capitalismo privato).
Questo chiedono i movimenti civici per l’acqua sorti in tutta Italia. Questo chiede la legge di iniziativa popolare per la quale si stanno raccogliendo le firme.
Sta ottenendo molte attenzioni l’esperienza dell’acquedotto pugliese, società a capitale interamente pubblico, il cui presidente è addirittura il professor Riccardo Petrella, notissimo per le sue battaglie in favore dell’acqua come diritto, nonché presidente dell’«Università del bene comune» (che ha una facoltà dell’acqua).
In Italia ogni persona consuma mediamente 250-300 litri al giorno, ma i litri prelevati sono molti di più a causa delle perdite (tabella 4). Un buon governo pubblico dell’acqua dovrebbe avere come obiettivo anche un uso sostenibile della risorsa, riducendo i consumi e gli sprechi.

L’INDIA E LE DONNE
DELL’ACQUA

In Italia si spreca, in altri luoghi del mondo per avere l’acqua si deve combattere. In India due donne, due personalità come Arundhati Roy e Vandana Shiva, si sono messe alla guida di movimenti popolari che contestano le autorità per le loro scelte in materia di acqua.
La scrittrice Arundhati Roy (famosa soprattutto per il romanzo Il Dio delle piccole cose) sta combattendo a fianco delle popolazioni che si oppongono alla costruzione di un’enorme diga sul fiume Narmada, una diga che sommergerà 91 mila ettari di terra, 249 villaggi e la città di Harsud.
La scienziata Vandana Shiva è al fianco delle popolazioni indiane che stanno battendosi (in Kerala, Rajahstan, Utar Pradesh) contro lo scriteriato pompaggio delle falde acquifere da parte della Coca Cola, che nel paese possiede decine di stabilimenti. Si calcola che per produrre un litro di Coca Cola siano necessari ben 9 (!) litri di acqua potabile.
In India, considerata una potenza economica emergente, 500 milioni di persone non sanno cosa sia l’acqua potabile.

Paolo Moiola


ACQUA-DIRITTO O ACQUA-MERCE?

• l’acqua come diritto
L’acqua è un diritto umano essenziale e pertanto inalienabile. Trarre profitto (privato) dall’acqua dovrebbe essere vietato.

• l’acqua come merce
Come sempre accade quando un bene o un servizio sono gestiti da privati, il beneficio di quel bene o di quel servizio andrà soltanto a chi può permetterselo. Ma allora l’acqua smette di essere un «diritto umano» per diventare una «merce».

• le conseguenze dell’acqua come merce
Abbiamo visto che alla lunga dalle ingiustizie derivano sempre conseguenze negative per le società (si veda quanto accaduto dopo la privatizzazione dell’acqua in Bolivia) e l’intera collettività umana. Per questo la mercificazione dell’acqua va fermata subito.

Pa.Mo.

Paolo Moiola




Alcuni dati sull’acqua

SEMPRE MENO ACQUA

• acqua sul pianeta:
– 97,5% di acqua salata
– 2,5% di acqua dolce
– 0,5% di acqua dolce accessibile

• disponibilità (potenziale) di acqua dolce a testa all’anno:
– nel 1950: 17.000 metri cubi
– nel 2002: 6.600 metri cubi
– nel 2025: 4.800 metri cubi

Fonti: Nazioni Unite, rapporto Legambiente 2003, Quotidiano responsabile (Emi), Internazionale.

DATI DA BRIVIDI

• persone senza accesso all’acqua potabile:
più di 1 miliardo di persone (da 1,1 a 1,4 miliardi); l’88% dell’acqua potabile mondiale viene consumata solo dall’11% della popolazione.

• consumo (domestico) di acqua dolce a testa:
– uno statunitense: 700 litri di acqua al giorno
– un europeo: 200 litri
– un palestinese: 70 litri
– un haitiano: 20 litri
Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) al di sotto della soglia di 50 litri al giorno per abitante si può parlare di «sofferenza per mancanza d’acqua».

• morti a causa dell’acqua insalubre:
30.000 morti al giorno, soprattutto bambini e anziani.

• consumi (domestici) di acqua in Italia:
– ogni italiano consuma 250-300 litri di acqua al giorno (ma – secondo Legambiente – il prelievo alla fonte è di 387 litri: la differenza si perde per strada!); siamo primi in Europa e terzi nel mondo, dopo gli Stati Uniti e il Canada.
Come consumano i loro 250-300 litri d’acqua gli italiani? In maniera sorprendente: 39% per bagno o doccia, 20% per i sanitari (gabinetto), 12% per il bucato (lavatrice), 10% per il lavaggio delle stoviglie, 6% per l’uso in cucina, 6% per il lavaggio dell’auto e per il giardino, 6% per altri usi e soltanto l’1% per bere.
Sono esclusi da questo computo i quantitativi di acqua utilizzati per l’agricoltura (di gran lunga la prima consumatrice), per l’industria e per la produzione di energia.

• consumi di acqua in bottiglia in Italia:
– ogni italiano consuma 184 (!) litri di acqua in bottiglia all’anno, un primato mondiale.

Fonti: Nazioni Unite, rapporto Legambiente 2003, Quotidiano responsabile (Emi, 2004), Internazionale, Earth Policy Institute.

Paolo Moiola




Acqua per tutti? Sì, basta che paghiamo

L’acqua è un bisogno e un diritto umano. Sembra un’ovvietà, eppure gli organismi inteazionali, come dimostra il recente Forum di Città del Messico, non la pensano così. Perché mai? Come sempre dietro questioni di questa portata ci sono le multinazionali e dietro queste, come sempre, la ricerca del profitto privato. A tutti i costi.

Il 2006 si è aperto con una grave carestia in Africa orientale: in Kenya, Somalia, Etiopia, Eritrea, Gibuti milioni di persone stanno affrontando una grave carenza di cibo. La situazione è stata provocata dall’ennesima siccità.
Siccità ed alluvioni, in entrambi i casi il risultato è lo stesso: sofferenze, vittime, danni.
Qualcuno ribatte: questo è sempre avvenuto, ma un tempo le notizie non si conoscevano come si conoscono oggi nell’era della comunicazione in tempo reale. Non è così: in tutto il mondo, i cambiamenti climatici e l’alterazione del ciclo dell’acqua stanno provocando la cronicizzazione dei fenomeni estremi, con un sempre più frequente alternarsi di periodi di siccità e di alluvioni. E con l’aggravarsi dei processi di desertificazione (1).

LE RESPONSABILITÀ UMANE

Non tutti sono d’accordo sulla drammaticità dei problemi ambientali e soprattutto sulle responsabilità umane. Ad esempio, l’amministrazione Bush, (che però si è in parte ricreduta dopo i disastri dell’uragano Katrina) o ACQUA DIRITTO UMANO?
SÌ, FORSE, MEGLIO NO

In marzo si è svolto a Città del Messico il IV «Forum mondiale dell’acqua». A prima vista, viene da dire: bello, giusto, importante. Ma poi, quando si legge dietro gli slogan, le cose cambiano e di molto.
Tra gli organizzatori del Forum c’erano i membri di «AquaFed», che è l’associazione degli operatori privati dell’acqua, comprendente più di 200 soggetti, tra cui le grandi multinazionali del settore. Dunque, è importante mettere assieme i tasselli del quadro: il Forum è stato finanziato da quelle stesse imprese che cercano di impadronirsi dell’acqua per fae mercato! Ma le multinazionali non sono mai mosse da slanci filantropici, bensì dalla ricerca dell’utile e dal suo continuo incremento (si chiama «massimizzazione del profitto»).
L’alleanza tra i rappresentanti degli interessi neoliberisti (Banca mondiale, Fondo monetario internazionale, Banca interamericana di sviluppo, ecc.) e di quelli privatistici (le imprese multinazionali) ha pesantemente condizionato il Forum e le sue conclusioni. Nella dichiarazione conclusiva firmata dai delegati di 148 paesi si legge che «l’acqua è una garanzia di vita», ma non si fa cenno al concetto di «diritto».
Presagendo questa conclusione, in contemporanea al Forum ufficiale, a Città del Messico si è anche svolto un forum alternativo dei «Movimenti in difesa dell’acqua» al quale hanno partecipato 300 organizzazioni non governative di 40 paesi. Nella loro dichiarazione finale i movimenti hanno affermato che «l’acqua in tutte le sue forme è un bene comune e il suo accesso è un diritto umano fondamentale e inalienabile».
Bisogno o diritto umano? Non è una banale scelta terminologica. Un bisogno può essere soddisfatto in molti modi, soprattutto da chi ha i soldi. Un diritto umano, invece, appartiene per definizione ad ogni persona e non può essere venduto, non può divenire oggetto di mercato, non ha prezzo. Insomma, una bella differenza.
Ci piace citare l’appello del «Forum italiano dei movimenti per l’acqua»: «L’acqua è fonte di vita. Senza acqua non c’è vita. L’acqua costituisce pertanto un bene comune dell’umanità, un bene irrinunciabile che appartiene a tutti. Il diritto all’acqua è un diritto inalienabile: dunque l’acqua non può essere di proprietà di nessuno, ma deve essere condivisa equamente da tutti».

DISCUTIBILI ALLEANZE

Come si è arrivati a mettere in discussione un bene comune come l’acqua?
In un’epoca di neoliberismo e di fondamentalismo del mercato («più impresa, meno stato», è uno dei tanti slogan), si è celebrata l’alleanza tra istituzioni inteazionali ed imprese multinazionali, un’alleanza forte, che gode di protezioni politiche e di una macchina propagandistica formidabile.
«La Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale – scrive Francesco Martone – operano in base all’assioma secondo il quale la dismissione delle imprese di proprietà dello stato in favore di compagnie private può aumentare l’efficienza economica della gestione delle risorse idriche con conseguente riduzione del debito pubblico ed una migliore gestione del bilancio nazionale. I governi prevedono così di ridurre il loro deficit attraverso la privatizzazione. Tuttavia la volontà delle imprese ad investire dipende principalmente dalla loro capacità di massimizzare il ritorno sull’investimento stesso. Quest’ultima dipende a sua volta dal livello di tariffe imposte agli utenti».
Riassumendo, ecco la sequenza degli eventi che produce la privatizzazione dell’acqua: aumento dei prezzi, impossibilità per le classi più povere di accedere al servizio, incremento dei problemi di salute pubblica (diarrea, colera, gastroenteriti, eccetera), investimenti concentrati nelle zone a reddito certo, escludendo pertanto le zone rurali e le periferie degradate (come sono la maggior parte delle baraccopoli).

L’ACQUA IN UN MONDO
PRIVATIZZATO

Secondo Maude Barlow e Tony Clarke (4), «la mercificazione dell’acqua è sbagliata dal punto di vista etico, ambientale e sociale».
«L’antidoto alla mercificazione dell’acqua – continuano i due studiosi ed attivisti canadesi – è la sua demercificazione. L’acqua deve essere dichiarata e concepita come proprietà di tutti. In un mondo dove tutto viene privatizzato, i cittadini devono stabilire chiari perimetri intorno a quelle aree che sono sacre per la vita e necessarie alla sopravvivenza del pianeta. I governi dovrebbero semplicemente dichiarare che l’acqua appartiene alla terra e a tutte le specie ed è un diritto umano fondamentale. Nessuno ha il diritto di impadronirsene a fini di lucro».
Barlow e Clarke non hanno fiducia né nei governi né nelle istituzioni globali. Le loro speranze sono riposte nella società civile. Ma basterà?

Paolo Moiola


(4) Maude Barlow e Tony Clarke, I padroni dell’acqua, The Nation (Usa), ripreso dal settimanale Internazionale del 30 agosto 2002. Maude Barlow e Tony Clarke sono autori di vari studi sui problemi dell’acqua.

Paolo Moiola




Un dono da custodire

PIEMONTE/ ACQUA IN RISICOLTURA

Ci sono punti di partenza diametralmente opposti per l’utilizzo dell’acqua nelle pratiche agricole. Prendiamo ad esempio la coltivazione del riso, la principale attività agricola del Piemonte orientale.
L’utilizzo dell’acqua e del territorio visti come una risorsa da sfruttare hanno prodotto guasti che sono destinati a continuare nel tempo e, in ultima analisi, hanno prodotto costi aggiuntivi per la bonifica dell’acqua ed il recupero del territorio.
Infatti l’impiego per più di trent’anni dei diserbanti chimici in un sistema idrico complesso che ha le acque di superficie in equilibrio con le falde sottostanti ha prodotto una contaminazione delle falde profonde costringendo ad attingere l’acqua potabile in falde sempre più profonde.
Inoltre, la non corretta cura degli alvei dei fiumi che nella parte montana sono stati costretti in argini che ne hanno fatto aumentare la velocità di deflusso a valle dove i letti dei fiumi non più opportunamente dragati favoriscono dannose, periodiche e sempre più frequenti esondazioni. Ora di fronte a questa realtà fatta di contaminazioni ed alluvioni che fare?
L’ottimizzazione del terreno di risaia porta ad un risparmio dell’acqua necessaria per la sommersione, la ricerca sui diserbanti si è sicuramente affinata e si dovrà operare alla luce delle vicende trascorse. Così, ad esempio, la vicenda del bentazone, composto impiegato massicciamente per il diserbo può sicuramente insegnare qualcosa per il futuro.
Il bentazone, prodotto a bassa tossicità ma ad alta stabilità, ha contaminato praticamente tutte le falde più o meno profonde a seconda della compattezza degli strati di argilla presenti nella nostra piana risicola. A completare il danno è sopravvenuto il rimescolamento delle falde con l’impiego di pozzi che attingono acqua da tutte le falde poste in collegamento tra loro e l’escavazione in profondità di ghiaia dai terreni risicoli. L’impiego del bentazone in risicoltura è vietato dal 1986 ma a tutt’oggi lo si ritrova nelle acque emergenti del vercellese ed in pozzi di bassa profondità.
L’auspicio è che il controllo dell’impiego di nuove molecole sia puntuale e continuo per evitare altre contaminazioni che recano danno economico per la bonifica e danno, difficilmente sanabile in tempi brevi, al sistema idrico nel suo insieme.
Noi non siamo solamente fruitori dell’acqua ma, essendo essa un dono di Dio creatore, dobbiamo diventae anche custodi attenti e previdenti.
Il sistema idrico della terra da riso è delicato ed importante per tutto l’ecosistema e non può solamente essere «usato» ma si deve avere cura di non alterarlo, non solo in superficie ma anche nelle falde profonde. Non solo per avere l’acqua necessaria per le risaie ma perché i nostri figli e nipoti possano trovare un ambiente non esaurito e non devastato.
Allora l’acqua per le risaie non è un problema solo degli agricoltori, non è un problema di produttività, ma è attenzione per un dono che rischia di rompersi per imprevidenza, disinteresse e cupidigia.

Luciano Vietti

Luciano Vietti




Se vince il mercato

Lo scandalo dell’acqua (1): neoliberisti all’attacco

Due miliardi di persone non hanno accesso all’acqua. Milioni muoiono per malattie trasmesse dall’acqua. Mentre si moltiplicano i conflitti per l’«oro blu», governi neoliberisti e multinazionali alla ricerca di nuovi profitti si attrezzano per rendere l’acqua una merce con un prezzo e un mercato. Morale: avrà l’acqua chi potrà pagarla…

Nel mondo ci sono attualmente circa cinquanta conflitti (fortunatamente non necessariamente armati) tra stati, per cause legate all’accesso, all’utilizzo e alla proprietà di risorse idriche.
Ben di più che per il controllo delle fonti di petrolio. Del resto Mark Twain scriveva: «Il whisky è per bere, l’acqua per combattersi».
Ci deve essere una qualche forma di giustizia riparatrice, se è vero che alcuni tra i Paesi produttori di petrolio figurano però agli ultimi posti nella graduatoria mondiale per disponibilità di acqua potabile: in Kuwait 10 metri cubi l’anno pro capite, negli Emirati Arabi 58 metri cubi… contro la Guyana francese, in vetta all’hit parade dell’acqua, con 812.121 metri cubi pro capite l’anno.
Giuseppe Altamore, nell’introduzione al suo libro I predoni dell’acqua, scrive: «Oro blu, un’espressione suggestiva, forse esagerata. Ma dopo aver letto questo libro, probabilmente non riuscirete a trovare una definizione migliore per un affare da 400 miliardi di dollari».
Solo per l’Italia, il Comitato per la vigilanza sull’uso delle risorse idriche, nella Relazione annuale al Parlamento sullo stato dei servizi idrici, ha valutato che l’ammontare del giro di affari nel settore del ciclo dell’acqua (acquedotti, fognature e depurazione) sfiora i 4 miliardi di euro. Notevole anche l’occupazione del comparto: 63.374 addetti.
Che l’acqua sia davvero «l’oro blu», lo hanno ben intuito alcune grandi multinazionali, che si sono prontamente buttate sul mercato dell’acqua potabile.
Nel 1980 solo 12 milioni di persone nel mondo erano rifoite da imprese private; nel 2000 si era già arrivati a 300 milioni, e si prevede che entro il 2015 tale cifra crescerà fino a quota 1 miliardo e 600 milioni.
Il mercato mondiale dell’acqua è dominato da due grandi multinazionali francesi, la «Vivendi» (che ha inglobato la General des Eaux) e la «Suez» (che ha inglobato la Lyonaise des Eaux), che da sole detengono il 40 per cento del mercato planetario dell’acqua.
Un altro ambito è particolarmente attento a fiutare dove si nascondano i possibili «affari»: è quello della criminalità organizzata.

IN SICILIA,
L’ACQUA È… «COSA NOSTRA»

La prima vera guerra di mafia – secondo gli storici di Cosa nostra – inizia nel 1874, a Monreale, quando viene ucciso il guardiano dell’acqua Felice Marchesi. Il delitto si inserisce nel conflitto tra due organizzazioni mafiose rivali, i Giardinieri e gli Stoppaglieri, che è appunto la prima guerra di mafia documentata.
La mafia siciliana fa affari su tutto il ciclo dell’acqua, grandi lavori compresi. Se non esistessero interessi criminali dietro il controllo delle risorse idriche, difficilmente si capirebbero alcune incredibili contraddizioni della realtà siciliana. In Sicilia piovono normalmente 7 miliardi di metri cubi d’acqua l’anno. Il fabbisogno agricolo, civile e industriale è calcolato in 2 miliardi e 482 milioni di metri cubi. La Sicilia, insomma, potrebbe addirittura esportare acqua, invece alcune province (Agrigento, Caltanissetta ed Enna) soffrono di una sete endemica. Nonostante di acqua in Sicilia si occupino in molti, forse troppi: 3 enti regionali, 3 aziende municipalizzate, 2 società miste, 19 società private, 11 consorzi di bonifica, 284 gestioni comunali, 413 consorzi.
Risultato? Una rete idrica-colabrodo. Anche per lavori fatti male, e sui cui appalti la mafia ha sempre detto la sua. Così come nei lavori di costruzione delle dighe e gli invasi, molti mai iniziati, molti mai finiti. E così i proprietari dei pozzi (spesso controllati dalle famiglie mafiose) vendono l’acqua a caro prezzo.

LE PROSSIME GUERRE

Di fronte ai dati allarmanti sullo stato delle risorse idriche del pianeta, molti esperti concordano nel prevedere che le guerre del XXI secolo scoppieranno proprio a causa delle dispute sull’accesso alle risorse idriche.
Non stiamo parlando di uno scenario futuribile, ma della stringente attualità. Non stiamo facendo della fantascienza, ma della cronaca.
Prendiamo la Turchia, che con risorse idriche pro capite superiori a quelle italiane, è da anni ai ferri corti con Siria e Iraq per il controllo di Tigri ed Eufrate. Ma quello turco non è il solo esempio.
Basti pensare alle dispute che oppongono l’Egitto a Etiopia e Sudan per il controllo delle acque del Nilo (un fiume, tra l’altro, che attraversa ben 9 diversi paesi africani). O alla crisi che, sempre per il controllo delle acque, oppone Israele ai suoi vicini arabi.
E proprio il caso israelo-palestinese è forse il più eloquente. Come testimonia la differenza tra coloni israeliani e popolazione araba che, pur vivendo negli stessi territori, usufruiscono di differenti possibilità di accesso e di utilizzazione delle risorse idriche.
Il consumo medio palestinese, in Cisgiordania e a Gaza, è di circa 150 metri cubi pro capite all’anno, mentre quello dei coloni israeliani dei territori occupati si aggira intorno ai 700-800 metri cubi.
E non è un caso se in Israele la gestione delle risorse idriche fa capo al ministero dell’Agricoltura, mentre l’Autorità palestinese ha affidato la stessa competenza al ministero della Difesa…
Toando alla Turchia, poi, l’attuazione di un gigantesco progetto che prevede la realizzazione di 22 dighe e 19 centrali idroelettriche è diventato un tassello importante della strategia geopolitica nell’area.
La Turchia, con questo progetto, punta a due obiettivi: ribadire la sua supremazia rispetto a Siria e Iraq e controllare militarmente (con l’alibi di proteggere i cantieri dagli attentati) i territori dell’Anatolia sudorientale, che da sempre sono la roccaforte dei curdi.
Sul piano mondiale, dei 263 bacini idrici la cui estensione interessa più di un paese, circa un terzo attraversa più di 2 stati e 10 ne coinvolgono 5 o più.
Più della metà delle risorse idriche di gran parte dei Paesi dell’Africa e del Medio Oriente ha origine fuori dei loro confini; altrettanto succede nell’America Latina.
Negli ultimi cinquant’anni le controversie tra stati per il controllo delle risorse idriche sono state 1.831, in gran parte risolte con la firma di 200 trattati di condivisione dell’acqua o la costruzione di nuove dighe o bacini artificiali; 507 casi invece sono stati conflittuali, in 37 casi hanno comportato scontri violenti, in 21 vere e proprie guerre con l’intervento degli eserciti.

MILIARDI DI PERSONE
SENZA ACCESSO ALL’ACQUA

L’acqua è oggi il bene più prezioso per l’umanità, quello che decide della vita e della morte, del benessere e della povertà.
A livello mondiale, 1 miliardo e 400 milioni di persone non hanno praticamente accesso all’acqua potabile; 1 miliardo beve acqua non sicura; 3 milioni e 400 mila persone muoiono ogni anno per malattie trasmesse dall’acqua.
Si prevede che entro il 2025 vi saranno almeno 3 miliardi di persone che soffriranno per la scarsità di acqua potabile. L’80 per cento delle malattie nei paesi in via di sviluppo sono provocate dall’impiego e dal consumo di acqua insalubre. Ogni giorno 6.000 bambini di età inferiore a 5 anni muoiono in seguito al consumo di acqua non potabile.
E l’Onu ci avverte: «In meno di 25 anni due terzi della popolazione mondiale sarà colpita dalla crisi idrica».
Il futuro, dunque, non è roseo. Le necessità di risorse idriche sono destinate a salire in proporzione alla crescita della popolazione: secondo l’Unesco in tutto il pianeta ci saranno 8 miliardi e 300 milioni di persone nel 2025 e tra i 10 e i 12 miliardi entro il 2050. Ma se la popolazione aumenta, le risorse idriche potabili, tendono invece a diminuire.

IO SPRECO, NOI SPRECHIAMO

Il consumo di acqua nel mondo, dal 1960 ad oggi è aumentato del 60 per cento. Abbiamo parlato di consumo, ma occorre parlare anche di spreco, dei singoli consumatori e delle industrie. Qualche dato è più eloquente di tante parole: per un bagno in vasca si consumano fra i 120 e i 160 litri, ma questa quantità d’acqua corrisponde a quella disponibile gioalmente per 12 o 16 abitanti del Madagascar!
E ancora: per produrre un chilogrammo di carta sono necessari 325 litri di acqua, 95 litri per un chilo di acciaio, 10 litri per un litro di benzina. Per costruire un’auto del peso di una tonnellata, di litri di acqua se ne consumano addirittura 150 mila.
Senza una radicale svolta nella politica idrica e con gli attuali investimenti, l’acqua non inquinata potrà raggiungere l’intera popolazione africana non prima del 2050, quella latinoamericana non prima del 2040 e quella asiatica non prima del 2025. Nel frattempo, milioni di persone moriranno in questa strage silenziosa.

SEMPRE MENO ACQUA

La situazione è allarmante. Perché il 97,5 per cento dell’acqua della terra è salata e del rimanente 2,5 per cento, soltanto lo 0,007 per cento è a disposizione dell’uomo. E le riserve d’acqua stanno diminuendo (sempre fonte Unesco): tra vent’anni ognuno di noi disporrà mediamente di un terzo di acqua in meno.
La maggior parte dell’acqua dolce viene utilizzata per uso agricolo. Più precisamente, l’agricoltura utilizza il 70 per cento delle risorse, l’industria il 20 per cento, e il restante 10 per cento viene indirizzato verso altri usi.
Tuttavia – tornando all’agricoltura – la gran parte dei sistemi di irrigazione è inefficiente, dal momento che essi perdono circa il 60 per cento dell’acqua a causa dell’evaporazione o di flussi di ritorno verso i fiumi e le falde freatiche sotterranee. L’irrigazione inefficiente non determina solamente uno spreco di acqua, ma causa anche dei rischi ambientali e sanitari, fra i quali la perdita di terreni agricoli produttivi a causa dell’acquitrinizzazione dei suoli, un fenomeno che rappresenta un importante problema in alcune zone dell’Asia meridionale, e del fatto che la superficie delle acque stagnanti facilita la trasmissione della malaria.
In alcune zone del mondo il consumo idrico ha comportato degli impatti ambientali impressionanti. In alcune aree degli Stati Uniti, della Cina e dell’India, le falde freatiche vengono consumate più rapidamente di quanto non riescano a ricostituirsi, e le superfici delle stesse si stanno riducendo costantemente. Alcuni fiumi, come il Fiume Colorado negli Stati Uniti occidentali e il Fiume Giallo in Cina, spesso si prosciugano prima di raggiungere il mare.
Un altro problema considerevole è quello delle dighe, che drenano l’acqua, spesso alterando il corretto equilibrio ecologico. Si calcola che nel mondo ci siano più di 800 mila dighe di varie dimensioni, che immagazzinano 6.000 chilometri cubi di acqua, pari al 15 per cento circa della riserva rinnovabile del pianeta.
Quasi la metà dei maggiori fiumi è stata in qualche modo alterata dalla costruzione di questi sbarramenti artificiali.
In Italia sono state censite circa 11 mila dighe, solo 800 delle quali controllate dal Servizio nazionale dighe. Le altre 10.000 sfuggono alle verifiche del Servizio nazionale per il semplice fatto che non rientrano nei parametri previsti per il controllo obbligatorio: un’altezza superiore ai 15 metri o un invaso della capacità di almeno 1 milione di metri cubi d’acqua.

LA DESERTIFICAZIONE
AVANZA

C’è poi l’incubo della desertificazione. Anche qui qualche dato:
• il 39% circa della superficie terrestre è «affetta» da desertificazione
• 250 milioni di persone sono direttamente a contatto con la degradazione della terra nelle regioni aride
• più di 100 paesi nel mondo sono interessati dal fenomeno
• la perdita di reddito imputabile alla desertificazione è di circa 45 miliardi di dollari ogni anno
• il 70% dei terreni aridi utilizzati in agricoltura sono già degradati
• la desertificazione impoverisce le possibilità di produzione alimentare: ogni anno 12 milioni di ettari vengono così persi
• la desertificazione impoverisce la biodiversità.

ITALIA: INQUINAMENTO,
PERDITE, CONSUMI ECCESSIVI

Il fenomeno della desertificazione riguarda anche l’Italia. Le zone italiane più interessate dal processo di desertificazione sono soprattutto le isole, grandi e piccole, e le coste del Sud: la Sicilia e la Sardegna, le isole Pelage (Lampedusa, Linosa e Lampione), Pantelleria, le Egadi, Ustica e parte delle coste di Puglia, Calabria e Basilicata per un totale di 5 regioni, 13 province per 16.100 chilometri quadrati di territorio pari al 5,35% dell’Italia.
La regione dove più alto è il rischio di terre «aride e desolate» è la Sicilia con il 36,6% del suo territorio sensibile alla desertificazione e 5 province (Siracusa, Enna, Ragusa, Trapani e Agrigento). Segue la Puglia con il 18,9% del territorio ed anche una zona non costiera (l’interno del Gargano); la Sardegna con il 10,8%.
Secondo le previsioni di Legambiente, infatti, la temperatura nel nostro Meridione è destinata a salire di 2-3 gradi nel giro di un secolo, facendo calare le risorse idriche da 6,3 miliardi di metri cubi a 5,1 miliardi.
Secondo le stime del Wwf, ciascun italiano ha una disponibilità teorica annua di 2.700 metri cubi d’acqua, ma la quantità realmente disponibile crolla a 1.100 metri cubi a causa dell’inquinamento delle falde e dei fiumi e della rete idrica vecchia e inadeguata, con una significativa percentuale delle riserve sprecata per via delle perdite e degli allacciamenti abusivi.
I consumi domestici nel nostro paese rimangono a livelli eccessivi, se si pensa che l’italiano medio consuma 250 litri d’acqua potabile al giorno, mentre i nostri vicini svizzeri ne consumano 159 litri e gli svedesi 119.
Le perdite della rete di distribuzione continuano a superare mediamente il 35 per cento, ma raggiungono il 60 per cento in alcune regioni meridionali. In Svizzera e in Svezia la percentuale di tali perdite si attesta attorno al 9 per cento.

ITALIA: EVASIONE FISCALE
E TARIFFE

L’abusivismo è poi diffuso. Siamo di fronte a un vero e proprio «furto d’acqua». Mentre l’uso dell’acqua cosiddetta «produttiva» (cioè per usi agricoli, industriali, energetici e in altre attività del settore terziario) rappresenta il 75 per cento dei prelievi, essa costituisce solo il 10 per cento dell’acqua fatturata. Abbiamo dunque un’evasione pari al 90 per cento del prelievo.
Un’altra anomalia italiana riguarda le tariffe. Le nostre tariffe per la foitura idrica sono tra le più basse in Europa: il costo può variare da 0,15 a 1,55 euro, a seconda delle zone. Questo ha fatto diventare gli italiani i maggiori consumatori europei di acqua per uso domestico, con 250 litri al giorno prelevati da ogni cittadino. Ma, indagando sull’impiego dell’acqua, si scopre che il 39% se ne va in igiene personale, il 20 per il Wc, il 12 per la lavatrice. Appena l’1% è utilizzato per bere.

IL «CONTRATTO MONDIALE SULL’ACQUA»

L’acqua non è una risorsa inesauribile. Sull’acqua, come ricorda Giuseppe Altamore nel suo libro, incombono molti pericoli: la desertificazione di vaste aree, anche nel nostro paese, la salinizzazione delle falde costiere, l’inquinamento e lo spreco stanno compromettendo sia la qualità che la quantità delle nostre risorse.
Si fa dunque indilazionabile una proposta di «governo dell’acqua» che risponda a precisi criteri: garanzia del diritto fondamentale all’acqua concepita non come un mero prodotto commerciale, ma come un servizio pubblico essenziale, e trattato dunque come altri beni fondamentali (l’istruzione, la sanità, l’assistenza sociale) nel quale l’efficacia e l’efficienza si misurano sulla capacità di coniugare la sostenibilità economica e la qualità e diffusione del servizio.
Concretamente ciò significa «rigenerare il bene acqua attraverso un cambiamento strutturale degli usi». Non sono parole mie, le traggo dal Manifesto italiano dell’acqua 2005, stilato dal «Comitato italiano del Contratto mondiale sull’acqua».
La richiesta di un «governo delle risorse idriche» vale su scala nazionale, ma anche tra stati.
Nel Manifesto leggiamo infatti: «Vi sono grandi bacini, come quello del Guaranì, che essendo corpi idrici a valenza globale, dovrebbero essere governati in modo congiunto dai paesi sui quali si estende il bacino. È inaccettabile che il mar Morto stia scomparendo (ha già perso il 30 per cento della sua superficie), come è quasi scomparso il lago Baikal. I grandi laghi dell’America del Nord, come i grandi fiumi dell’Amazzonia, dell’Africa e dell’Asia che attraversano più paesi, costituiscono degli “ecosistemi maggiori” d’importanza vitale per il funzionamento del ciclo integrale dell’acqua e della vita sul pianeta terra».
Per l’Italia, il Manifesto, annota: «Dopo il disastro che è stato fatto in questi anni in Italia del bene acqua, è necessario puntare alla rigenerazione del capitale idrico nazionale adottando severe misure di riduzione drastica delle fonti di inquinamento e di contaminazione, tra le quali restano determinanti i pesticidi, i nitrati, gli idrocarburi, i metalli pesanti e, in maniera crescente le sostanze tossiche di origine umana legate all’alta medicalizzazione delle nostre popolazioni».
Per raggiungere questi obiettivi, il Manifesto suggerisce alcune misure concrete:
• riduzione di almeno il 40 per cento delle perdite in irrigazione legate al metodo di polverizzazione. L’irrigazione rappresenta in Italia il 55 per cento dei prelievi di acqua dolce. Di questi, il 40 per cento si perdono per evapotraspirazione;
• portare al 12-15 per cento i livelli di perdita delle reti di distribuzione;
• effettuare un censimento generale dei pozzi. Si stima che in Italia ci siano circa 1,5 milioni di pozzi illegali, che prelevano acqua dolce dove vogliono, senza nessun controllo;
• riduzione dei flussi negli usi domestici a livello di bagni, tornilette, grazie a sistemi di riciclaggio delle acque reflue.
Naturalmente si tratta solo di alcune indicazioni, tra le tante possibili. Ma il problema è soprattutto politico e di educazione dei consumatori.

IL «CODICE DELL’AMBIENTE»

A febbraio c’è stata la Delega ambientale, chiamata anche Codice dell’ambiente. Che dedica molti dei suoi articoli proprio alla gestione delle risorse idriche.
Mi limito a citare quanto prevede l’articolo 144 (tutela e uso delle risorse idriche), che potremmo definire come un «Manifesto delle risorse idriche»:
• Tutte le acque superficiali e sotterranee ancorché non estratte dal sottosuolo, appartengono al demanio dello Stato.
• Le acque costituiscono una risorsa che va tutelata ed utilizzata secondo criteri di solidarietà; qualsiasi loro uso è effettuato salvaguardando le aspettative e i diritti delle generazioni future a fruire di un integro patrimonio ambientale.
• La disciplina degli usi delle acque è finalizzata alla loro razionalizzazione, allo scopo di evitare gli sprechi e di favorire il rinnovo delle risorse, di non pregiudicare il patrimonio idrico, la vivibilità dell’ambiente, l’agricoltura, la piscicoltura, la fauna e la flora acquatiche, i processi geomorfologici e gli equilibri idrogeologici.
Sulla carta sembrano principi ampiamente condivisibili, ma sull’impianto complessivo della delega ambientale le polemiche non mancano (da Legambiente, ad es.).
Il Codice dell’ambiente, all’articolo 159, istituisce anche l’«Autorità di vigilanza sulle risorse idriche», con il compito di vigilare perché le norme dettate dalla legge siano rispettate.

L’ACQUA DI SAN FRANCESCO

Il documento della Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia e la pace, dal titolo «Frutto della terra e del lavoro dell’uomo», al paragrafo 25 recita: «Al riguardo (dell’acqua) ci sembra opportuno ribadire alcune convinzioni e orientamenti. L’acqua, anzitutto, è un bene di tutti e per tutti. Il suo valore impareggiabile è ben avvertito dal cuore di san Francesco, per il quale l’acqua “è molto utile et humile et pretiosa et casta”. Essa non va sprecata ma custodita con uno stile di vita sobrio, a cominciare dalle famiglie. È necessario fare adeguati investimenti per salvaguardare tale bene».
Siamo così al punto di partenza. L’acqua è la vita, là dove c’è in misura adeguata e con qualità garantita. L’acqua può diventare la morte, dove manca o è inquinata.
Come tutto il creato, è affidata da Dio alle nostre mani. Possiamo attingere alle sorgenti e fare del nostro pianeta l’Eden tra i grandi fiumi. Oppure trasformarlo in un pianeta devastato, desertificato, un Eden perduto.
Il futuro è, più che mai, nelle nostre mani.

Maurizio De Paoli

Maurizio De Paoli




Sorella acqua

Siccità, sprechi, business

Qualche anno fa il presidente statunitense Bill Clinton dichiarò che un quarto della popolazione mondiale non ha mai tenuto in mano un bicchiere d’acqua potabile. I dati sembrano dargli ragione: il 97 per cento dell’acqua del pianeta si trova negli oceani e nei mari salati e solo il rimanente 3 per cento è adatto al consumo umano, ed esso è di difficile accesso, le riserve d’acqua dolce infatti sono costituite in gran parte dalle calotte polari e dai ghiacciai e solo il 20 per cento da riserve e correnti sotterranee. Questi semplici dati confermano che l’acqua è un bene prezioso, dall’equilibrio fragile e delicato, ma se visto sotto l’aspetto economico il tutto diventa un grande affare. L’idea economica legata all’utilizzo delle acque sta prendendo sempre più piede, tant’è che nel mondo attualmente già 10 grandi multinazionali sfruttano, gestiscono e commerciano acqua a pagamento. Grazie al controllo dei mezzi di informazione sempre più si instilla nell’opinione pubblica l’idea che l’acqua dovrebbe essere privatizzata al fine di rendere più agibile e fruibile un bene che in realtà è destinato a tutti e non può essere consegnato nelle mani di pochi. Questo è il nodo della questione, non possiamo permettere che l’acqua venga da una parte inquinata e dispersa e dall’altra accaparrata da pochi potentati economici in grado di aprire i rubinetti a loro piacimento, ovviamente dietro pagamento di bollette sempre più salate.

In teoria tutti i paesi membri delle Nazioni Unite, concordano sul principio che l’acqua non va considerata come una risorsa economica, bensì come un bene sociale, nella pratica invece essa è una merce come un’altra e ultimamente sta diventando una sorta di «gallina dalle uova d’oro». Molti di quegli stessi paesi che riconoscono all’acqua un valore sociale, nelle ovattate stanze dove si trattano i problemi inteazionali fanno di tutto per privatizzarla e questo sarebbe una sventura proprio per quei paesi del Sud del mondo più deboli di fronte alle pressioni politiche dei grandi di tuo e meno preparati all’assalto delle multinazionali.
Un problema di questo genere non è molto di casa in ambito ecclesiale, se non nella variopinta nicchia dei missionari, ma – come dice la «Gaudium et spes» – ogni problema legato all’ambiente è un problema dell’uomo e quindi è un problema della chiesa.
Mons. Feando Charrier, vescovo di Alessandria, concludendo i lavori di un convegno organizzato a Mortara (1), affermava come siano importanti i valori che mettono al centro l’uomo e non invece gli antivalori che vengono spacciati oggi da una visione economicista e liberista della vita. Dove al primo posto viene messo il profitto e lo sfruttamento irrazionale del Creato.

Mario Bandera

Mario Bandera




La parabola del «figliol prodigo»

Nessuno è escluso dalla tenerezza di Dio (2)

Il capitolo 15 del vangelo di Luca riporta (si dice comunemente) le «tre parabole della misericordia»: il pastore che ritrova la pecora perduta (vv. 4-7), la donna che ritrova la moneta smarrita (vv. 8-10) e infine il padre che ritrova i due figli perduti (vv. 11-32). Vedremo che le parabole non sono «tre», ma «due», ciascuna delle quali si prolunga in un doppione con un significato particolare. Ma procediamo però per gradi.
Il capitolo si apre con una introduzione ambientale: «Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo» (v. 1). Luca sembra che voglia esagerare, parlando di «tutti» i pubblicani e peccatori. Questa forma sintetica esagerata è costante nei vangeli, quasi a sottolineare che Gesù aveva in sé una forza attrattiva che non lasciava indifferenti, ma al contrario attirava con forza a sé quanti erano esclusi ed emarginati dal perbenismo religioso e sociale del suo tempo. Gesù attira i pubblicani e i peccatori come in Mc «accorreva (a Giovanni) tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme per farsi battezzare» (Mc 1,5), o come agli inizi della sua attività missionaria gli apostoli gli dicono entusiasti: «Tutti ti cercano» (Mc 1,37; cf Mt 12,23, ecc.).
Nessuno può esimersi dal fascino e «singolarità» di Gesù, che porta una parola tanto «nuova» e tanto attesa, che «tutti» la percepiscono come personale. Potremmo dire che con tale espressione gli evangelisti ci offrono un criterio di pastorale missionaria, che può codificarsi così: l’annuncio del vangelo non può mai essere «generalizzato» e «generalizzante» da divenire anonimo e amorfo; al contrario, esso deve essere sempre talmente «unico» che ciascuno deve sentirlo come rivolto soltanto a sé.
Lc ci vuol dire che i pubblicani e peccatori davanti a Gesù si sentivano «unici» e importanti: sapevano che Gesù parlava a ciascuno di loro con la libertà di chi non giudica e non condanna, ma si avvicina per chiamare e convincere. L’evangelista, infatti, sottolinea che pubblicani e peccatori si avvicinavano con lo scopo «di ascoltarlo» (v. 1), cioè, entrare in relazione vitale con lui, per lasciarsi coinvolgere dalla sua proposta rivoluzionaria e sconvolgente. L’espressione pubblicani e peccatori nei vangeli è quasi un modo di dire tecnico, per presentare due categorie di persone, considerate come la feccia della società dell’epoca, la cui sola vicinanza rendeva impuri: le persone religiose e pie si tenevano pertanto a debita distanza (Mt 9,9-13; 11,19; 21,31-32; Mc 2,13-17; Lc 5,27-32; 7,34; 15,1).
Di fronte a Gesù però, come è abituale nei vangeli, questi schemi sociali saltano. Pubblicani e peccatori, infatti, all’apparire di Gesù compiono due azioni: si avvicinano e ascoltano. I poveri e gli esclusi hanno le antenne pronte per captare il segnale della misericordia e dell’accoglienza, perché intuiscono che l’uomo Gesù non è un uomo qualsiasi, ma qualcuno che porta loro un annuncio folle: Dio è venuto per loro. Chi può venire apposta per un pubblicano? Chi può dire all’emarginato dal perbenismo religioso e sociale che egli è un «valore» fino al punto che Dio ha perso la testa per lui, peccatore o pubblicano?
Lo stesso Lc nel racconto della chiamata/conversione di Levi (5,32) fa dire a Gesù: «Io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori a convertirsi»; e in quello di Zaccheo (19,10) dichiara espressamente che «il Figlio dell’uomo è venuto a cercare e salvare ciò che era perduto». In Lc 15 tale concetto centrale si trova 4 volte, come un ritornello che ritma le due doppie parabole:
– v 6: «perché ho ritrovato la mia pecora perduta»;
– v 9: «perché ho ritrovato la mia moneta perduta»;
– v 24: «questo mio figlio era perduto ed è stato ritrovato»
– v 32: «questo tuo fratello era perduto ed è stato ritrovato».

A l comportamento, abituale per Gesù, di stare con gente poco raccomandabile del v. 1, corrisponde un clima di opposizione da parte dell’autorità ufficiale del tempio: «I farisei e gli scribi mormoravano: costui riceve i peccatori e mangia con loro» (v. 2).
Questo contesto di opposizione è espresso dal «mormorio» di coloro che avrebbero dovuto invece «ascoltare» la novità di Dio perché sono «scribi e farisei», cioè i capi, i responsabili della formazione e crescita del popolo e gli specialisti della parola di Dio: essi infatti sono membri del sinedrio, che sovrintende la vita sociale e religiosa del popolo d’Israele. Solo le guide e maestri d’Israele, eppure non sanno riconoscere la novità di Dio (Gv 3,10) e mormorano. È il mistero della salvezza che si fa storia: coloro che dovrebbero «vedere» diventano ciechi e coloro che sono ciechi invece vedono/ascoltano (cf Lc 8,10). Ci troviamo di fronte al capovolgimento delle situazioni già descritto nel «Magnificat» di Maria (Lc 1,51-53) o nelle beatitudini (Lc 6, 20-26).
Per descrivere l’atteggiamento interiore degli scribi e farisei, Lc usa il verbo onomatopeico diegòngyzon che alla lettera significa borbottare/mormorare: si riferisce a colui che brontola sottovoce in malafede contro qualcuno per non farsi sentire, ma in modo che l’altro possa percepire il borbottio. Borbotta chi trama nell’oscurità. Lo stesso verbo e la stessa espressione si trovano in Lc 5,30: «I farisei e i loro scribi mormoravano e dicevano ai suoi discepoli: Perché mangiate e bevete con i pubblicani e i peccatori?». In Lc 7,34 Gesù è accusato da farisei e dottori di essere «un mangione e beone, amico dei pubblicani e peccatori».
A gli occhi dei benpensanti del tempo (e di ogni epoca), Gesù appariva scandaloso, irritante, pericoloso: il suo atteggiamento di accoglienza verso i «delinquenti», immorali e deviati lo rivelava come un sovversivo dell’ordine costituito o, si direbbe oggi, del sistema.
Nell’Italia di oggi qualcuno lo avrebbe accusato di essere un pericoloso «comunista» e come tale bandito e crocifisso. Se vivesse fisicamente oggi, Gesù non starebbe certamente nei salotti buoni della borghesia, ma andrebbe per tutte le suburre della sua città, nei tuguri degli immigrati senza permesso di soggiorno, dormirebbe dietro i cancelli dei Cpt (Centri di prima accoglienza), radunerebbe tutte le vittime di qualsiasi ingiustizia e, senza cambiare una virgola, rifarebbe lo stesso discorso che fece trasalire i suoi compaesani nella sinagoga di Cafaao, tanto che lo costrinsero ad andarsene dal suo paese: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi e predicare un anno di grazia del Signore… Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi» (Lc 4,18-20).
Poveri, prigionieri, ciechi, oppressi e ora pubblicani e peccatori. In Mt 21,31-32 addirittura pubblicani e prostitute sono portati a modello di fede e hanno la precedenza nel regno di Dio; in Mc 2,15 pubblicani e peccatori mangiano seduti a mensa con lui e, come al solito, le persone perbene e di buona educazione s’indignano per tale comportamento sconveniente.
«È venuto il Figlio dell’uomo che mangia e beve, e voi dite: Ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori. Ma alla sapienza è stata resa giustizia da tutti i suoi figli» (Lc 7,34-35). Il vangelo della misericordia che Lc annuncia nel capitolo 15 è tutto qui: nessuno può dire di essere escluso dalla tenerezza di Dio. Nessun peccato è più grande di Dio (1Gv 3,20), nessun peccatore può giudicare se stesso più severamente di quanto non faccia Dio, che viene apposta per cercare la pecorella, per trovare la dramma, per salvare i figli perduti. Nessuno. Se qualcuno pensasse ciò, commetterebbe sì l’unico peccato imperdonabile in cielo e in terra: contro lo Spirito Santo (Lc 12,10).
Il tempo della chiesa, dice Lc, è il tempo «dell’anno di grazia del Signore», un prolungamento di tempo per dare a tutti e a ciascuno la possibilità di ritornare, l’occasione di farsi trovare. Allora e solo allora ci ritroveremo figli della sapienza (Pr 8,22), che sanno riconoscere la fonte della giustizia che in Dio si chiama misericordia.
Dai primi due versetti di Lc 15 dovremmo già sapere che l’evangelista ci vuole portare a scoprire la follia di Dio: abbandona, infatti, 99 pecore per andare a cercarne una sola perduta, così come mette sottosopra la casa per trovare una moneta smarrita. Nella seconda parabola abbiamo un padre che si lascia squartare da due figli pur di farli vivere attraverso la sua stessa vita e recuperarli a sé stesso e tra di loro.

A bbiamo detto che le parabole non sono «tre», ma «due». La narrazione vera e propria, infatti, inizia con il v. 3: «Ed egli disse loro questa parabola». Si usa il verbo narrativo per eccellenza (il passato remoto «disse») e subito dopo si usa il singolare «questa parabola», a cui seguono di fatto due racconti: il pastore e la pecora (15,4-7), la donna casalinga e la moneta (15,8-10).
La parabola è unica, ma è illustrata da due esempi. Dopo avere introdotto, infatti, al v. 4 il primo esempio del pastore che perde e trova la pecora con una domanda interrogativa: «Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia…», l’autore prosegue lo stesso ragionamento al v. 8 con un’alternativa: «Oppure quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende…». Letterariamente vi è una precisa corrispondenza tra i due esempi: chi di voi… oppure quale donna? L’evangelista descrive una sola parabola a due membri o un doppio esempio, uno maschile e uno femminile, dello stesso insegnamento. Un uomo e una donna, cioè la totalità del genere umano, perché nessuno può essere escluso o può escludersi dalla salvezza che Gesù porta in dono a nome del Padre.
Al v. 11 ritroviamo di nuovo per la seconda e ultima volta il verbo narrativo (sempre al passato remoto) «e disse», che introduce la seconda parte del capitolo. Questo duplice uso dello stesso verbo narrativo «disse» è un indizio notevole che per Lc le parabole sono due e non tre.

I l verbo introduce la seconda parabola: del padre e figlio minore (15,11-24), prolungata nella relazione dello stesso padre con il figlio maggiore (15,25-32).
Anche qui abbiamo una parabola a due membri, in cui i protagonisti sono tre uomini: un uomo anonimo e due figli. L’insegnamento è lo stesso della prima parabola, ma prospettato da due angolature diverse: la prospettiva del figlio minore e quella del figlio maggiore, ambedue collegati dalla figura del padre. I due figli nella parabola non s’incontrano mai, non si parlano, sono estranei: l’unico collegamento tra loro è il padre: anche quando i fratelli sono distanti tra loro o addirittura nemici e nessun dialogo intercorre tra loro, essi continuano a comunicare attraverso la vita del padre, attraverso cioè un canale che li supera e li contiene.
Questo vale in ogni circostanza per ciascuno di noi, nella propria esperienza di vita. Ma vale anche a livello geopolitico, riguardo ai tre popoli che si richiamano idealmente al comune padre Abramo: ebrei, musulmani e cristiani. C’è chi vuole la guerra di religione anche attraverso il terrore di uomini-bomba, c’è chi vuole una nuova crociata in difesa di un concetto di civiltà inesistente e c’è chi vuole che il cristianesimo si presti a fare da baluardo contro gli immigrati, specialmente i musulmani, brandendo il crocifisso come simbolo di una identità nazionale che è la negazione dell’universalità di quel simbolo.
In questo contesto, poiché tutti e tre i popoli fanno riferimento ad Abramo e al suo Dio, anche senza saperlo e senza volerlo, essi sono in comunione tra loro perché ogni volta che attaccano gli altri, anche uccidendo, essi ne diventano sempre più parte, sempre più intimi. Essi non sanno che possono agitarsi, possono armarsi, possono uccidersi, ma il loro destino è già segnato: sono condannati a ritrovarsi figli dello stesso Padre, il quale nonostante le apparenze li sta guidando verso un percorso che si concluderà con il riconoscimento reciproco della propria figliolanza e della propria frateità.
Non si può credere in Dio ed essere estranei agli altri. Non si può essere figli di Dio e non riconoscere negli altri i propri fratelli, cioè la carne della propria carne e il sangue del proprio sangue. La pateità è la roccia su cui poggia la frateità e la frateità non può escludere del tutto la pateità, perché il figlio è figlio solo perché c’è un padre e un fratello può anche rinnegare il fratello, ma non del tutto, perché verrà un giorno in cui la pateità avrà il sopravvento e rigenererà i fratelli riportandoli alla stessa mensa della vita.
La parabola del padre e i due figli è la parabola dell’umanità intera di ieri e di oggi; se oggi Lc fosse tra noi scriverebbe la stessa parabola per dare una risposta agli immani problemi che assillano l’umanità a causa della stupidità dei fratelli che perdono tempo a uccidersi, sapendo che prima o poi dovranno ritrovarsi, convivere e aiutarsi.
Il capitolo 15 ha un orizzonte grande, ampio, universale; l’applicazione della sua catechesi non ha confini. Essa si rivolge a uomini e donne in qualsiasi situazione si trovino, in qualsiasi ambiente tentino di realizzare la propria vita:
– c’è un uomo, il pastore, e c’è una donna, la casalinga;
– c’è un animale, la pecora, e c’è una cosa, la moneta;
– c’è il fuori del deserto e c’è il dentro della casa;
– c’è un uomo che è padre anonimo e ci sono due figli anonimi;
– c’è il figlio minore che uccide il padre e il figlio maggiore che odia il padre e il fratello;
– c’è un paese lontano che è l’esilio e c’è la coscienza dell’abiezione che sono i porci;
– c’è il ritorno del figlio minore e l’accoglienza senza misura del padre;
– c’è la gioia e anche la festa in terra insieme all’allegria del cielo.
Le due doppie parabole non sono scritte da Lc per edificarci a buoni sentimenti; al contrario, sono scritte per noi, per chi legge, per l’uomo e la donna di tutti i tempi, di ogni tempo, per me qui e ora, stimolati a essere felici di gioia nell’impegno di una disperata ricerca di cose perdute e trovate. L’uomo-pastore-pecora-deserto fa da parallelo alla donna-moneta-casa, quasi a dire che nessuna situazione della vita può estraniarsi dalla presenza di Dio che viene a fare le cose più impensabili, come rischiare la vita stessa pur di salvare una sola pecora. Il padre non tiene conto del suo patrimonio, perché egli dà la sua stessa vita per i figli, anche se ribelli.
Le due parabole sono anche una esasperazione che contrappongono il comportamento di Dio a quello degli uomini. Questi hanno un concetto di giustizia feroce: non puntano a salvare l’uomo, ma solo a punirlo, secondo il principio apparentemente corretto che chi sbaglia deve pagare. Dio, al contrario, ha un senso di giustizia diverso, opposto a quello dell’uomo: chi sbaglia deve essere salvato, a ogni costo.
Il motivo risiede nella natura stessa di Dio, il quale è Dio non è uomo: «Sono Dio non uomo, sono il Santo in mezzo a te» (Os 11,9). In Dio, infatti la giustizia s’identifica con la misericordia perché il Dio di Gesù Cristo che non ha esitato ad abbandonare il Figlio sulla croce per salvare l’umanità (Mc 15,34) è il Dio giusto perché perdona. [continua-2]

Paolo Farinella

PUBBLICANI

Il termine pubblicano (in greco telônês) è un latinismo che designa il funzionario dell’amministrazione: pubblicanus, cioè agente commerciale privato, che aveva in appalto la riscossione delle tasse per conto del governo romano. Per esercitare il diritto di riscuotere le tasse in una data regione, egli riceveva una somma fissa annua, calcolata sulla previsione delle entrate, valutate al ribasso per dare all’esattore/pubblicano lo stimolo e la convenienza.
Egli aveva tutto l’interesse a riscuotere «ogni» tassa perché, doveva dare allo stato solo quanto aveva pattuito e quindi teneva per sé tutta l’eccedenza dell’incasso. In questo sistema gli abusi erano frequenti.
Accanto ai pubblicani ufficiali, vi erano esattori di grado inferiore, di norma arruolati presso le stesse popolazioni tassate: essi erano dei subaltei in sub-appalto, che avevano interesse a fare pagare quanto più potevano per guadagnare anche loro.
Nel vangelo solo Zaccheo (Lc 19,2) non è un subalterno, ma un capo degli esattori (architelônês). Questi esattori erano odiati dal popolo, sia in quanto esattori e sia in quanto truffatori e ladri, ma specialmente perché erano collaborazionisti del nemico oppressore. Matteo (Mt 9,9) e/o Levi (Mc 2,14; Lc 5,27), uno del gruppo dei dodici era un pubblicano chiamato direttamente mentre raccoglieva le imposte (Mt 10,3).

SCRIBI, FARISEI E SINEDRIO

Gli scribi al tempo di Gesù erano gli studiosi del giudaismo ufficiale tramandato nella Toràh scritta (bibbia) e nella Toràh orale (la tradizione dei saggi, che verrà raccolta per iscritto nella Mishnàh e Talmud solo tra il ii e il iv secolo d.C.). Formavano la categoria degli intellettuali dell’epoca, coloro che sapevano leggere e scrivere e, pur non appartenendo a nessuna setta particolare, erano molto vicini alla corrente dei farisei, gli interpreti rigidi del giudaismo.
Essi avevano il titolo di rabbi-maestro/guida e svolgevano anche la funzione di giureconsulti, giudici e consiglieri: seduti nel porticato del tempio, dirimevano problemi e questioni legali che la gente portava alla loro attenzione.
Mt 7,29 dice che Gesù, anch’egli rabbi, ma itinerante, insegnava con autorità, ma non come gli scribi, per dire che l’insegnamento di Gesù non si fondava su una scuola, anche se antica, ma era personale, nuovo e originale come si può osservare nel discorso della montagna di Mt, dove Gesù stesso per ben sei volte contrappone il suo insegnamento a quello della tradizione: «Vi è stato detto… ma io vi dico» (Mt 5,21-22. 27-28.31-32.33-34.38-39.43-44).

I farisei (ebr. perushìm; aram. perishayyàh = separati). La loro origine risale al sec. i a.C. al tempo dei Maccabei. Sono citati da Giuseppe Flavio come la prima delle tre correnti filosofiche accanto ai sadducei e agli esseni (Guerra Giudaica, ii,8,2,119; Antichità Giudaiche, xiii,v,9,171). Lo stesso Flavio dice che essi insorsero contro il re Giovanni Ircano (135-104 a.C.), che svolgeva anche il ruolo di sommo sacerdote e per questo considerato un usurpatore: «Tanto grande era il loro influsso tra la folla che anche quando parlano contro un re o contro un sommo sacerdote hanno credito immediatamente» (A.G, xiii,x,5,288).
Sono laici e non svolgono funzioni sacerdotali di alcun genere, ma insieme alla casta sacerdotale, i sadducei, fanno parte del sinedrio. Dopo la distruzione del Tempio e l’interdizione agli ebrei di risiedere in Gerusalemme e in Giudea (70 e 135 d.C.), fu l’unica corrente di pensiero sopravvissuta che continua ancora oggi nell’ebraismo moderno.

Il sinedrio (gr. synèdrion) è il supremo consiglio che governa Israele come autorità religiosa e civile, sotto il periodo della dominazione greco-romana. Nell’AT è citato nei libri dei Maccabei che sono databili al sec. i a.C. (1Mcc 11,23; 12,6; 14,28; 2Mcc 1,10; 4,4; 11,27). Al tempo di Gesù era formato da tre classi: gli anziani, ossia i più anziani tra i capi famiglia e tribù; i sadducei che foivano i sommi sacerdoti, gli scribi e farisei; vi appartenevano di diritto gli ex sommi sacerdoti. Era formato da 71 membri, compreso il sommo sacerdote in carica, che durava un anno e svolgeva la funzione di presidente.
Al tempo di Gesù la sua giurisdizione era limitata alla Giudea (sud Palestina), mentre la Galilea (nord Palestina) ne era esclusa. Il sinedrio aveva una certa autorità anche sotto il dominio romano: poteva imporre tasse proprie, emanare leggi e condannare anche a morte, ma non aveva il potere di eseguire la condanna (ius gladii, potere della spada) che era riservata solo ai romani. Il sinedrio vide in Gesù e nella sua predicazione un pericolo per la sopravvivenza stessa del giudaismo.

Paolo Farinella




Il ponte sullo Spreca

Dopo i 10 lunghi anni di guerra condotti negli anni Novanta fra le popolazioni della ex Jugoslavia, le giovani generazioni possono realmente giocare un ruolo attivo nel processo individuale e collettivo di elaborazione costruttiva del dolore e nella ricostruzione non solo materiale del proprio paese? Nove ragazzi tra i 16 e 20 anni, 4 musulmani e 5 serbi, sono da anni impegnati come mediatori e facilitatori nel processo di riconciliazione interetnica delle comunità a cui appartengono.

Per secoli, serbi e musulmani che abitavano lungo il fiume Spreca erano convissute pacificamente. Poi, con lo scoppio della guerra serbo-bosniaca, tutta la regione da esso attraversata diventò teatro di combattimento tra l’esercito dei serbi bosniaci (sostenuti dalle truppe regolari serbe) e le forze spontanee delle comunità musulmane: sulle sue sponde si sono consumati scontri continui tra persone che fino a poco tempo prima si erano sposati e imparentati, costituendo numerose famiglie miste.
In base agli accordi di pace di Dayton del dicembre 1995, questo confine naturale costituisce anche la linea di separazione fra la comunità di Orahovica, paesino della Federazione musulmana croata di Bosnia, e Petrovo, cittadina della Repubblica serba di Bosnia. Per molti anni, nonostante la guerra nei suoi aspetti più distruttivi fosse finita, tale confine fu considerato invalicabile dagli abitanti delle due parti.
La paura costituiva un blocco che inglobava, però, la necessità di ricominciare. Da un lato, gli adulti sembravano come paralizzati, in lotta con i fantasmi del passato, mentre i giovani venivano trasportati dalle esigenze dell’età. Fra questi ultimi, però, vi erano Sheila Dugic, Verko Popadic, Samina Ahmetovic, Sulio Ahmetovic, Rade Cvijanovic, Jelica Mihajlovic, Ivana Todorovic, Alma Becic, Svetlana Ceca Petrovic, che non potevano e non volevano farsi scivolare addosso l’adolescenza.
Da tempo, questi 9 giovani tra i 16 e 20 anni, di etnia mista, quattro musulmani e cinque serbi, sono impegnati come mediatori e facilitatori nel processo di riconciliazione interetnica tra le comunità di Orahovica e Petrovo a cui appartengono.

A raccogliere le istanze di questi giovani e incanalarle in un processo di riconciliazione è un gruppo di italiani di Cremona, che opera nella zona dalla fine della guerra, portando aiuti umanitari. «Quando iniziammo a portare gli aiuti alle due comunità, svolsi anche il ruolo di messaggero – racconta Maurizio Furgada -. Andavo da una parte all’altra in bici, portando dei bigliettini che le famiglie si inviavano. A questi contatti facemmo seguire l’organizzazione di corsi separati di computer, italiano, inglese; poi lanciammo l’idea di prenderci una vacanza nel mare del Montenegro, riunendo in un solo gruppo i ragazzi delle due parti».
Nell’estate 2002 il direttore didattico della scuola di Orahovica, Adburaman Dzinic, mette a disposizione la casa di villeggiatura per l’occasione. Nel clima vacanziero, notando l’affiatamento dei ragazzi, Maurizio Furgada e Stefano Cirelli propongono loro di costituire un gruppo interetnico per elaborare le esperienze vissute e per interrogarsi su temi che li toccano da vicino: conflitto, diritti umani, discriminazioni, pregiudizi.
L’idea è accolta con entusiasmo e da quel momento i ragazzi cominciano a lavorare per consolidare e far maturare il gruppo. Nel luglio 2003 i ragazzi furono ospitati da alcune famiglie cremonesi per due settimane di svago e formazione; successivamente, alcuni di essi ricambiano l’ospitalità, accogliendo a casa loro tre ragazzi della città italiana, dando vita a uno scambio ancora in corso.
Intanto maturano le riflessioni. I giovani cominciano ad avvicinarsi a certe tecniche che permettono di mediare i conflitti e prevenie l’escalation violenta. Indagano sulla natura della violenza e analizzano le cause dei conflitti, non solo sul piano del coinvolgimento di nazioni o fazioni, ma anche a livello più domestico, come nei casi di dissidio fra due amici; esplorano le posizioni, gli interessi, i bisogni primari messi in gioco in ogni conflitto; ricercano gli stili risolutivi, provano a immaginae una trasformazione costruttiva.
In tale approccio perde di valore il confronto vincere/perdere. Si evidenzia la capacità di promuovere rapporti di collaborazione nelle diversità, il dialogo, il riconoscimento reciproco, l’ascolto e partecipazione.
Con tali tecniche, si scopre che il conflitto ha un connotato positivo, poiché è occasione di incontro tra bisogni, interessi, visioni opposte e apparentemente inconciliabili. Fondamentali sono le modalità con le quali lo si gestisce e risolve.

Il 2003 è pure l’anno della fondazione della scuola di pace «Fabio Moreni» (volontario di Cremona, ucciso il 29 maggio 1993 presso Goj Vakuf, insieme a Sergio Lana e Fabio Puletti, componenti un convoglio umanitario). Tale scuola è formata dai ragazzi e i direttori didattici delle scuole bosniache, che accolgono il gruppo per farlo lavorare, e dagli italiani, che nel frattempo hanno costituito allo scopo l’associazione di volontariato «Iniziative spontanee di solidarietà fra i popoli» (Issp).
«L’originalità del progetto sta nel voler “costruire” ambasciatori di pace, partendo da candidati che portano ancora addosso le conseguenze tragiche di quegli eventi – spiega Furgada -, non quindi bravi funzionari, maestri della teoria come potremmo al limite diventare noi, ma veri attori, capaci di recitare la loro parte nelle trame che portano alla risoluzione delle divisioni fra popoli. Questi ragazzi stanno superando in concreto le barriere che altri hanno costruito per loro».
La creazione della scuola porta in sé un significato più ampio, il direttore della scuola di Petrovo, Jovo Jovovic, quando accompagnò il gruppo nella prima visita a Cremona, affermò: «L’esempio portato da questa esperienza contribuisce a frantumare il muro eretto dalla guerra». «È un modo per rendere i ragazzi consapevoli delle possibilità di pace che dimorano dentro di loro. Ai loro genitori va il merito di aver staccato la corrente che li legava in modo quasi indelebile al passato e a quello dei loro genitori per dare ai ragazzi questa possibilità che sapevano bene di non aver mai avuto» continua Furgada.
Durante i corsi di formazione a Cremona e poi nel gennaio 2004 in Bosnia, i ragazzi elaborano e maturano i concetti acquisiti attraverso giochi, simulazioni, rappresentazioni teatrali. «Quando scoppiò la guerra avevo quattro anni – dice Jelica, di origine serba, in un’esercitazione in cui doveva scrivere una lettera ad un amico israeliano – e non sapevo neanche il significato della parola. Mi limitavo a chiedere che cos’è la guerra. È stato orribile crescere in quegli anni.
Il brutto è che ben presto finisci per abituarti alla violenza, che diventa un qualcosa di normale nella vita di ogni giorno. Non capivo perché non mi era permesso di uscire dalla mia casa. Se devo proprio imparare una lezione da quei giorni terribili del mio passato, allora vorrei usarla per chiedere di pensare a ciò che ti sta succedendo. Davvero vuoi la guerra? Immagina di vedere te stesso nelle condizioni dell’altro e ti accorgerai di come può pensarla lui».
Sheila, musulmana, scrive ad un amico palestinese: «Noi, che abbiamo sofferto le conseguenze della guerra, dobbiamo essere in grado di indicare una nuova via di pace. Cerca di parlare con la tua gente, cerca di persuaderla a tentare di cambiare il loro approccio ai problemi, di smetterla di gridarsi contro. Fa’ in modo che considerino le loro pretese nei confronti degli altri con rispetto e forse allora potremmo trovare la via verso la risoluzione».
Sheila sfuggì con la famiglia alla pulizia etnica che travolse Olovo, piccolo paese perso tra le montagne sulla via che da Sarajevo porta a Tuzla. Sostarono un anno in un campo profughi vicino ad Orahovica; ora il padre è riuscito a trovare un lavoro e a costruire, nel paese di adozione, una piccola casa.

Un’idea lega i 9 giovani: tutti gli uomini sono uguali e allo stesso modo diversi; l’identità di ognuno deve essere rispettata.
Il concetto emerge più volte nelle discussioni guidate, in particolare in relazione ad alcune letture sul popolo cherokee, nell’episodio ricordato come «trail of tears» (sentirnero di lacrime). Nel 1838 e nel 1839, la nazione cherokee fu costretta ad abbandonare le proprie terre ad est del fiume Mississipi e migrare nell’area oggi chiamata Oklahoma: una marcia forzata con effetti devastanti e la morte di oltre 4 mila indiani cherokee, per questo chiamata trail of tears.
Samina fu costretta ad abbandonare la sua terra, Srebrenica, e a sopportare l’uccisione del padre nella strage compiuta in città. Si immedesima nel nativo americano e si rivolge, in uno scritto, a un immaginario amico bianco: «Abbiamo cominciato ad arrampicarci come capre per raggiungere la nostra destinazione, dove pensavamo che avremmo vissuto pacificamente. Ma la pace è durata solo due settimane, quando i bianchi sono tornati per obbligarci a lasciare anche quel posto. Se qualcuno della tua famiglia moriva, bisognava portarlo nelle proprie braccia e continuare, in lacrime, distrutti dal dolore. Portare un padre morto nelle braccia non è cosa da niente. In quel momento ti è solo concesso di piangere, maledire chi ti ha fatto questo. Ti prego, cerca di capire il mio sfogo. Perdonami per l’odio che provo verso l’uomo bianco; ma ricorda che io ti considero mio amico e so che non sei come loro».
Sheila rimarca, nello stesso esercizio, l’importanza di evitare le generalizzazioni: «È stato difficile vedere la tua gente farsi beffa del nostro dolore. Tutto ciò che la tua gente ha fatto alla mia è un’ingiustizia totale, frutto di razzismo; ma la tua amicizia è il più bel regalo per me, riesce in parte a lenire i sentimenti d’odio e tristezza che mi porto dentro».

Dopo tre anni di lavoro, il gruppo si sente pronto a trasmettere le nozioni acquisite sui banchi della scuola di pace e l’esperienza viva dell’incontro con l’altro.
Attraverso la collaborazione con l’associazione di volontariato Faros di Atene, nell’estate 2004, i 9 partono alla volta della capitale greca; a loro si uniscono quattro ragazze e un ragazzo di Cremona. Per la prima volta conducono la formazione di un gruppo di coetanei greci. Una volta tornati in Bosnia, i ragazzi, entusiasti, esprimono la volontà di migliorarsi nelle competenze raggiunte e nella capacità organizzativa.
Il gruppo dedica le settimane finali di luglio 2005 alla elaborazione di nuovi materiali dialettici e concettuali, acquisiti con l’esperienza greca, e alla organizzazione delle giornate in cui si sperimenteranno nuovamente come formatori. L’avventura formativa ha un simbolico inizio: una festa svolta nella scuola di Orahovica, che coinvolge i genitori, 12 ragazzi di età compresa tra gli 11 e i 14 anni, i direttori didattici. L’organizzazione è rigorosamente interetnica. Così il cerchio si allarga; i nuovi partecipanti appartengono ad altre due comunità: quella musulmana Dobosnica e quella serba Krtova (frazione della prima).
In quel caldo pomeriggio estivo, musulmani e serbi, di generazioni diverse, si avvicinano timidamente. Sullo sfondo dell’aula appaiono appesi i poster che illustrano i pericoli delle mine antiuomo e ricordano il peso del passato.
«Credo e ho sempre creduto in questo progetto – esordisce Jelica – e sento la responsabilità verso il gruppo e verso mia sorella di 14 anni, che voglio che impari qualcosa di nuovo per la vita. Voglio essere utile a tutti».
Svetlana di Petrovo prosegue: «È mio desiderio mettere in pratica ciò che ho imparato in questi anni, all’inizio è stato un gioco, ma ora è scuola; ed è qualcosa dentro di me che uso per migliorare i miei rapporti con la gente». Sulio, che con la cugina Samina condivide il triste esodo e il massacro del padre, conclude: «Dobbiamo creare legami fra noi sempre più forti».
È l’inizio di un alternarsi di giornate, tra le aule scolastiche di parte musulmana e serba, in cui si fa strada un difficile equilibrio, costituito dalla volontà di comunicare neutralità e apertura verso le comunità.
Il nuovo gruppo, quello composto dai ragazzi più giovani, mostra da subito una disinvolta capacità di amalgamarsi; capacità che progredisce di esercizio in esercizio e che li differenzia dai loro formatori. Questi, infatti, necessitano ancor oggi di qualche spinta estea per non creare gruppi monoetnici, a dimostrazione del fatto che più è lontana la memoria diretta della guerra più è naturale l’incontro fra gruppi diversi.
«È bene che i miei figli facciano quello che noi non facciamo più» dice Boro Stamenic, padre di Milka, dodicenne serba, scampata al rogo della sua casa nel 1996, cresciuta in un campo profughi vicino a Belgrado e ora di nuovo nella casa ricostruita.
Gli adulti hanno ricordi vividi e forse insormontabili: le case bruciate e sventrate, lasciate per non morirci dentro; i faticosi ritorni alla propria terra dopo anni da profughi; le catene di torti, rivendicazioni, odi subiti e perpetrati; le ferite sulla pelle, gli arti mancanti e gli affetti perduti.

Il nazionalismo più fanatico è tuttora presente e domina il contesto economico, politico, sociale e culturale. La linea di confine, tracciata 10 anni fa a 10 mila chilometri di distanza, è nella carta, nella terra e nella mente. Così è possibile che sulla scrivania dell’ufficio del direttore della scuola di Krtova, che ha ospitato parte delle attività estive dei ragazzi, campeggi una cartina della Serbia e, dietro, un quadro di principi serbi.
I luoghi di divertimento sono separati e hanno nomi che definiscono in modo netto la provenienza culturale. E i genitori, fra i quali si contano molti ex combattenti, indietreggiano di fronte a un loro impegno in prima persona.
Sul fronte istituzionale, del resto, nessuna autorità promuove veramente la riconciliazione. Gli attori inteazionali riconosciuti (Onu, Nato, Osce, Eu, chiese) hanno, per diverse ragioni, ridotto notevolmente gli sforzi in tal senso. Queste popolazioni sono lasciate pressoché sole a cercare una nuova forma di convivenza non violenta se non proprio pacifica.
C’è ancora il bisogno di terze parti imparziali ed estee, che favoriscano il riavvicinamento fra le etnie e che sappiano introdurre nel dialogo contenuti di rispetto per la dignità umana. È d’importanza vitale la creazione di occasioni d’incontro e dialogo fra le comunità, oltre a quelle che spontaneamente crea il commercio. Spesso avviene che si superi il confine per andare ad acquistare beni che dall’altra parte sono più convenienti.
A fronte di tutto ciò, ecco che l’esperimento di Orahovica e Petrovo assume la valenza di progetto pilota per la ricerca della pacificazione interetnica. E il risultato sembra essere posto esclusivamente nelle mani delle giovani generazioni, alle quali è richiesto di svolgere il lavoro più imponente nel processo personale e collettivo nel superamento dei risentimenti e nella riappacificazione dei cuori, per creare una dimensione dinamica della pace che vada al di là delle logiche di potere.

Silvia Bianco

Silvia Bianco