Non basta il silenzio delle armi

Incontro con mons. Celestino Migliore, nunzio apostolico presso l’Onu

L’ambasciatore del Vaticano non nega la crisi del Palazzo di vetro, ma allo stesso tempo vede segnali importanti di rinnovamento. Perché le Nazioni Unite non siano una «Torre di Babele» al servizio del potere.

New York. Nella metropoli statunitense ha sede il segretariato delle Nazioni Unite dove sono prese alcune delle principali decisioni politiche a livello intea-
zionale. Le trattative e negoziazioni sono discusse durante l’Assemblea generale dai rappresentanti permanenti, ovvero dagli ambasciatori dei 191 stati membri.
Anche la Santa Sede è presente all’Onu, però solo come «osservatore», ovvero, come altre organizzazioni inteazionali ivi presenti (per esempio, la Lega degli stati arabi, il Comitato internazionale della Croce Rossa, etc.), pur partecipando ai dibattiti, non ha diritto di voto in Assemblea generale.
Il rappresentante della Santa Sede (altrimenti detto «nunzio apostolico») presso le Nazioni Unite è un diplomatico di carriera: mons. Celestino Migliore, arcivescovo di Canosa. Mons. Migliore, piemontese di Cuneo, oltre a godere di un’eccellente reputazione a livello internazionale, ha un importante curriculum professionale e una preparazione accademica unica.

Monsignore, cosa significa essere un diplomatico della Santa Sede?
«Rappresentare il papa. Tra i suoi titoli c’è quello di Sommo pontefice, che, nonostante l’aulicità dei termini, significa una gran bella cosa e cioè: colui che più di tutti cerca di costruire ponti. In questo senso, la diplomazia della Santa Sede è anzitutto uno strumento pastorale a disposizione del papa per cercare di realizzare l’ideale della coesistenza dei popoli nella pace, nella solidarietà, nella cura reciproca e nel senso della comune dipendenza da Dio».

Come concilia l’attività diplomatica con quella di sacerdote?
«Ogni mattino nella messa la preghiera eucaristica mi fa ringraziare il Signore“ per averci ammessi alla sua presenza a compiere il servizio sacerdotale”. Il mio servizio sacerdotale comincia subito all’inizio di ogni funzione, quando si riconosce il nostro stato di peccato: in quel momento porto davanti al Signore i peccati miei e quelli della famiglia Onu che possono essere lentezze che penalizzano i poveri, verbosità e fumosità di certi discorsi che tradiscono inazione, egoismi nazionali o regionali a scapito del bene comune, impertinenze di chi vuole sostituirsi a Dio in tante maniere. La meditazione quotidiana sulla parola di Dio getta luce sulle questioni all’ordine del giorno. Le parole “questo è il mio corpo” voglio pronunciarle con la fede che il miracolo operato da Gesù non si fermi alla trasformazione del pane in corpo suo, ma si estende al corpo mistico della chiesa, della società umana. Una lezione di umiltà e di tenacia allo stesso tempo, perché i conflitti li avremo sempre tra noi, ma l’unità la crea lui.
Negli incontri quotidiani con funzionari e diplomatici, non è infrequente sentirmi dire: “preghi per me”, “dia una benedizione perché l’iniziativa vada in porto”, “ho bisogno della sua preghiera” … intenzioni che amo tener presenti nella preghiera dei salmi o nel rosario, perché esse manifestano la convinzione di molti che tutti viviamo nella dipendenza da Dio».

Il suo incarico di rappresentante della Santa Sede presso l’Onu cosa comporta concretamente? Quali sono i suoi compiti?
«Nell’ambito dell’Onu, la Santa Sede ha scelto di essere non un membro a pieno titolo, ma osservatore. Il che significa che esercita tutte le funzioni normali dei membri ad eccezione del voto e della partecipazione nella gestione istituzionale e amministrativa dell’organismo. Essa contribuisce al dibattito sulle grandi questioni come la pace, la sicurezza, lo sviluppo, l’ambiente; i diritti del bambino, della donna, dell’anziano; questioni sociali e altre riguardanti il diritto alla vita; l’informazione, la cultura e la collaborazione delle religioni alla costruzione della pace. Segue da vicino i vari negoziati che si intavolano sulle questioni appena accennate ed altre ancora».

Perché è importante partecipare nei negoziati dei testi adottati dall’Onu?
«Perché quelli giuridicamente vincolanti – anche se vincolano solo i paesi che li ratificano – entrano a far parte della normativa internazionale. Anche i testi con valenza politica creano quella che viene comunemente detta soft law, ma la tendenza di ogni parlamento nel mondo è quella di legiferare tenendo un occhio su tali indicazioni e pertanto quello che oggi si dichiara all’Onu domani molto facilmente entrerà nelle legislazioni nazionali. Infine, c’è un altro compito della mia attività dell’Onu che forse è quello che maggiormente assorbe tempo e forze ma che offre anche una certa gratificazione. Con un po’ di presunzione, la chiamerei “dar voce a chi non ha voce”. Ma è proprio così. Quante volte dalle comunità cattoliche, e non solo, sparse nel mondo qualcuno scrive al papa o va ad incontrarlo ed espone situazioni di guerra o di fame o di violazione dei diritti umani che sembrano non aver né fine né soluzione. A volte si tratta di parlare in nome loro, ma spesso è invece il caso di aiutarli ad incontrare chi può far qualcosa, ad esporre essi stessi, perorare la loro causa con le loro proprie parole e il loro carico di speranza».

Quali sono i più grandi ostacoli che vede in questo momento nel processo di riforma dell’Onu? Perché l’Onu è in crisi?
«È forse questione della bottiglia mezzo piena o mezzo vuota. Ciò che vedo in questo momento e mi pare giusto sottolineare è la parte mezzo piena. Nonostante un evidente clima di crisi, il processo di riforma sta producendo misure importanti. È stata adottata la commissione per il consolidamento della pace, che segna un importante passo avanti: e cioè, si è riconosciuto che la pace non è il solo silenzio delle armi, ma va preparata e costruita con strutture nuove o riformate a livello politico, giuridico e sociale; essa va consolidata con processi di accertamento della verità storica e di riconciliazione; essa va coltivata con modalità che coinvolgono i singoli vincitori e vinti. È in dirittura d’arrivo la riforma del meccanismo di monitoraggio e implementazione internazionale dei diritti dell’uomo (1). Ne sono in cantiere altre, intese a rendere il Palazzo di vetro sempre più dimora della trasparenza e del servizio alle popolazioni, più che non all’equilibrio del potere. Evidentemente, si registrano problemi, ritardi, ostacoli, resistenze. Nell’Onu, dove si trovano ogni giorno, gomito a gomito, rappresentanti di tutti i paesi del mondo, si riflette in modo evidente la grande frammentazione culturale di oggi che a volte rischia di rendere questa istituzione una Torre di Babele. La globalizzazione unifica il mondo su tanti livelli, non su quello culturale, anzi sembra accentuae le differenze. Essa va avanti con una sua logica ferrea, ma le manca un’etica comune».

Barbara Mina da New York

(1) Il 15 marzo 2006 l’Onu ha deliberato la fine della «Commissione dei diritti umani» e la nascita del «Consiglio dei diritti umani», anch’esso con sede a Ginevra

Barbara Mina




Contro il silenzio

Come lavora l’associazione «METER»
fondata da don Fortunato Di Noto.

L’associazione «Meter» nasce nel settembre 2002 ad Avola (Siracusa), per volontà del suo fondatore, don Fortunato Di Noto, che già in precedenza aveva lavorato in ambito associativo al fine di promuovere e difendere l’infanzia, diventando un nome noto in Italia e all’estero.
La parola «meter» è di origine greca e significa «accoglienza, grembo» e, in senso più lato, «protezione e accompagnamento». Meter prende vita dall’esigenza di intervenire nelle realtà ecclesiali e non ecclesiali per radicare e promuovere, assieme alla pastorale ordinaria delle comunità cristiane, la cultura, i diritti e la tutela dell’infanzia. Meter vuole essere un significativo punto di riferimento in Italia e all’estero, per educare alla cultura dell’infanzia, per prevenire abusi e maltrattamenti, e progettare interventi mirati di aiuto concreto alle vittime degli abusi sessuali, attuando la «Convenzione dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza» del 1989. In tal senso, l’associazione si erge sulla convinzione che non basta la repressione, demandata alle sole forze di polizia, per stroncare il turpe commercio di minori nel mondo. Ci vuole anche una rete capillare di persone competenti e motivate, capaci di collegarsi con la società in cui vivono, perché si crei una mentalità di vigilanza, di sostegno e protezione dell’infanzia come tale, rendendo l´abuso, e l´omertà che lo copre con i suoi paludosi silenzi, un crimine insopportabile per la coscienza collettiva.
Le finalità dell’associazione sono molteplici e tutte incentrate sulla tutela del minore:
• migliorare la qualità della vita dei bambini e degli adolescenti per assicurare un sano sviluppo psico-fisico;
• svolgere iniziative contro lo sfruttamento sessuale sui minori e contro ogni altra forma di aggressione fisica, culturale, psicologica e spirituale perpetrata sugli stessi;
• promuovere e sostenere iniziative che agevolino proposte educative della famiglia rivolte alla tutela dei bambini, attraverso un percorso di formazione nel rispetto della loro identità culturale, politica, sociale e religiosa;
• sostenere e realizzare progetti di leggi volti a migliorare la normativa esistente a tutela dei diritti inviolabili della persona umana e, conseguentemente, del fanciullo.
Gli obiettivi di Meter sono realmente seguiti da azioni concrete, grazie alla collaborazione di professionisti, anche all’estero (Romania, Belgio, Portogallo) che, in modo volontario, danno il loro apporto all’associazione.
Nel sito dell’associazione si può accedere alla consulenza psicologica, sociologica, giuridica, medica ed informatica. Il sito inoltre permette a chiunque di segnalare siti sospetti. In tal senso, l’attività di monitoraggio e di denuncia di siti a contenuto pedofilo, viene portata avanti, da anni, da don Di Noto e dai suoi collaboratori. I siti pedofili e pedopoografici, infatti, rilevati vengono in seguito segnalati, grazie a protocolli d’intesa, alla polizia postale e delle comunicazioni italiana, all’Fbi, all’Interpol, alla gendarmeria francese, alla polizia spagnola, svizzera, tedesca e brasiliana.
Moltissimi, poi, sono i progetti che Meter sostiene nelle scuole e a livello provinciale e regionale in collaborazione con le Istituzioni, in cui vengono coinvolti anche esperti di noto calibro nazionale. In particolare, un progetto che si sta diffondendo sul territorio con un entusiasmo considerevole, è il «Progetto infanzia».
Uno sportello Meter in ogni parrocchia (e nelle realtà anche laiche)». Esso consiste nell’apertura, in ogni parrocchia o realtà ecclesiale assimilabile, di un ufficio Meter, che faccia capo ad un referente e ad uno staff scelto di operatori, e il cui fine sia quello di fornire supporto ogni qualvolta, sul territorio, accada un abuso a danno di minori, ma non solo. Lo sportello ha anche il compito di promuovere l’infanzia organizzando corsi, attuando progetti nelle scuole, diventando insomma un punto di riferimento importante nella realtà dove sorge.

Accanto a queste attività, Meter sostiene altre forme di promozione dell’infanzia. Nella sede centrale di Avola è operativo il «Centro di primo ascolto alle vittime di abuso sessuale e disagio infantile» al quale, chiunque, si può rivolgere, anche attraverso il numero verde 800-455270. Le chiamate e le consulenze sono a totale carico dell’associazione. Recentemente, è stato realizzato uno spot contro gli abusi e i silenzi – «Il silenzio che parla» – lanciato alle radio, ai siti internet, alle Tv e alle agenzie di stampa. Esso affianca altri due importanti momenti promossi da Meter: la Giornata della memoria dei bambini (25 aprile); e la Giornata internazionale dei diritti dell’infanzia (20 novembre).

Nicoletta Bressan

DI NOTO, UN SACERDOTE INVESTIGATORE

Don Fortunato Di Noto nasce ad Avola (Siracusa) il 18 febbraio 1963. Nel settembre del 1984 entra in Seminario, nella diocesi di Noto ed inizia gli studi filosofici e teologici presso la facoltà teologica «S. Paolo» di Catania. Prosegue, poi, la sua formazione presso l’«Università Pontificia Gregoriana», conseguendo la licenza in «Storia della chiesa». Il 3 settembre 1991 viene ordinato sacerdote. Dal 1995 è parroco della parrocchia Madonna del Carmine di Avola.
Insegna in diversi istituti siciliani e, dal 1991, è professore ordinario di storia della chiesa alla Pontificia Università Teologica di Santa Croce di Roma, sede periferica di Noto. In ambito di tutela dei minori e di lotta alla pedofilia, oltre che fondatore dell’associazione Meter nel 2002, è stato consulente tecnico in varie procure italiane per delicate indagini sul fronte della criminalità pedopoografica e dello sfruttamento sessuale dei bambini.
A livello istituzionale ha rivestito importanti incarichi. Attualmente, è membro dell’Osservatorio nazionale dell’infanzia e dell’adolescenza; dal 2002, è consulente del ministero delle Comunicazioni per le politiche dell’infanzia, membro effettivo del Comitato di garanzia e tutela Inteet@Minori che fa capo a tale ministero e membro del comitato scientifico «Ciclope» della presidenza del consiglio dei ministri. Dal 2004, è membro del comitato scientifico della polizia postale e delle comunicazioni, contro il fenomeno della pedofilia e della pedopornografia; e, nello stesso anno, è diventato membro del comitato scientifico dell’ICAA (Inteational Crime Analysis Association).
Numerosi sono i riconoscimenti nazionali ed inteazionali che sono stati consegnati a don Di Noto, fra cui l’alta onorificenza di «Cavaliere della repubblica italiana» per l’impegno profuso nei confronti dell’infanzia. Al suo attivo ha numerosi articoli e saggi in riviste nazionali e inteazionali sul tema dello sfruttamento sessuale dei minori, nonché è autore di importanti testi, tra cui «La pedofilia. I mille volti di un olocausto silenzioso», edito nel 2002 dalle Edizioni Paoline, tradotto in più lingue.

N.B.

Nicoletta Bressan




L’innocenza violentata

Questa è un’intervista «forte»: gli argomenti sono da brividi. Di più, sono dei pugni allo stomaco. Ma fanno pensare a un dramma sul quale è delittuoso chiudere gli occhi. Come ci dice don Fortunato Di Noto, la «strage degli innocenti» non ammette coscienze dormienti.

Lisa chiede alla maestra: «Chi è il pedofilo?». «Il pedofilo – risponde l’insegnante – è un uomo che sembra buono, un uomo che fa finta di essere un vostro amico, perché si mostra affettuoso e perché non vi fa sentire soli, ma che poi vi chiede di fare giochi strani insieme a lui». Entusiasta come tutti i bambini, Lisa replica: «Ma è bello giocare!». Paziente, la maestra riprende a spiegare: «Certamente. Quello dei pedofili, però, non è un gioco, è un modo diverso di cercarvi, di incontrarvi, di accarezzarvi, di toccarvi, di stare insieme, anche quando voi non volete, anche quando a voi non piace, è qualcosa che dopo tempo vi fa stare male. Il pedofilo non vuole che raccontate a nessuno cosa fate insieme e dice che deve essere un segreto».
Questo dialogo tra Lisa e la maestra è riportato in uno splendido libretto dal titolo Raccontarsi. Mamma, papà, maestra: cos’è la pedofilia?.
È una pubblicazione di «Meter», l’associazione fondata e diretta da don Fortunato Di Noto, il sacerdote conosciuto come «il prete anti-pedofilia». Con il padre siciliano, parroco ad Avola, cittadina della provincia di Siracusa, abbiamo lungamente conversato, proprio in coincidenza con un periodo che vede la pedofilia sulle pagine dei giornali e nei discorsi della gente comune.

NUMERI INCREDIBILI

Don Di Noto, potrebbe dare delle stime in merito al fenomeno degli abusi sui minori?
«La difficoltà è avere stime che rispecchino concretamente la realtà dell’abuso (inteso in senso lato); per non citare i bambini scomparsi, trafficati, venduti, “i bambini fantasma” (quelli nati ma che non hanno una identità anagrafica); i bambini del lavoro minorile; i bambini soldato o quelli vittime del traffico di organi. Questa condizione ci inquieta, ci vergogna, ci indigna ma soprattutto ci deve impegnare.
Comunque, se dovessimo definire la condizione dell’infanzia e della adolescenza in Italia e nel mondo attraverso i numeri, allora potremmo dire che “la strage degli innocenti continua”, un vero e proprio “rosario della sofferenza e del dolore”, un “olocausto silenzioso”, così silenzioso che imbavagliamo le grida assordanti di bambini e bambine che interpellano le nostre coscienze dormienti.
Se guardiamo – ad esempio – al dossier di Fides e al rapporto Unicef, possiamo scoprire numeri da brivido:
• 860 milioni di bambini nel mondo hanno un futuro drammatico con 211milioni di “bambini operai”; alla radice di molte forme di sfruttamento c’è il fatto che nei più poveri tra i paesi in via di sviluppo oltre 50 milioni di bambini non vengono nemmeno registrati alla nascita;
• in Asia, l’ultimo rapporto Unicef parla di 24 milioni di piccoli “clandestini” nella loro stessa terra, e per l’Africa subsahariana si sale a 28 milioni di nascite non registrate;
• ogni 9 ore un bambino di strada muore di fame, di stenti, di freddo: sono 120 milioni i bambini di strada, incontrati tra le fogne di Bucarest o ai margini delle strade del Brasile, o nella vasta distesa della terra Russa, o iraniana e irakena;
• sono almeno 300 mila i “piccoli soldati”;
• 11milioni di bambini muoiono di fame prima di aver compiuto 5 anni;
• il traffico di esseri umani è un problema su scala mondiale che coinvolge ogni anno almeno 1.200.000 minori al di sotto dei 18 anni;
• 4 milioni di bambine vengono comprate e vendute per matrimoni, prostituzione e schiavitù;
• 2 milioni di bambine hanno gli organi genitali mutilati;
• in Asia i due terzi dei bambini che non ricevono un’educazione sono bambine e la conseguenza è che poi saranno donne analfabete: oggi oltre 600 milioni;
• nella nostra civile Italia, circa 20 mila sono i baby accattoni di cui 8.000 solo nel Lazio, come ha messo in luce l’inchiesta parlamentare italiana presentata nella Giornata dell’infanzia.
E con numeri e statistiche potremmo continuare all’infinito».

IL RUOLO DI INTERNET:
BUSINESS E PERVERSIONI IN VETRINA

A parte il Sud Est asiatico, dove il fenomeno del mercato del sesso è particolarmente sviluppato, in Europa com’è la situazione?
«Non credo che il Sud Est asiatico abbia il primato del mercato del sesso. Ci sono anche la Russia, l’Ucraina, la Polonia, la Repubblica Ceca, la Romania, la Moldavia; le strade delle nostre grandi città europee sono piene di minori indotti alla prostituzione. L’uomo ridotto a merce. E il concetto di merce racchiude, evidentemente, anche la scadenza, il deperimento. Merce scaduta che deve essere sempre sostituita: i bambini sono il prodotto nuovo di questa nuova, strategica, lucrosa forma di schiavitù. Merce in Europa e nel mondo che si può acquistare nelle grandi vetrine virtuali di internet, esposta come prodotto da megastore, ipermercati del sesso per tutti i tipi di perversione umana. Non dimenticherò mai, da un ultimo viaggio in un paese dell’est europeo, la proposta di acquisto che mi fecero di una bambina di meno di 10 anni!».

Le cause prime della situazione nascono dalla miseria?
«Ovviamente. Lo sfruttamento dell’infanzia ha le sue radici nell’estrema povertà, nell’ingiustizia sociale e nelle condizioni disumane in cui versano le famiglie, famiglie frantumate e “impazzite” per la fame e la totale precarietà di vita e di sussistenza primaria. I bambini sono spesso considerati come una possibile fonte di reddito supplementare per una famiglia: questa concezione incentiva lo sfruttamento sessuale e la pedofilia».

Lei ha accennato alle «vetrine» di internet. È indubbio che il mondo sia stato rivoluzionato dall’avvento di questo strumento. Ma è altrettanto vero che esso ha fatto da moltiplicatore di alcune problematiche, tra queste proprio lo sfruttamento dei minori. È così, padre?
«Inteet ha una sua valenza positiva per la comunicazione, ma permette di “accedere” con grande facilità a questo enorme mercato di sfruttamento sessuale sui minori (oltre che sugli adulti)».

Quanti minori, all’anno, diventano vittime dei pedofili?
«È vittima del pedofilo chi non è amato da nessuno. Possiamo stimare che ogni anno circa 2 milioni di bambini nel mondo sono adescati e indotti ad avere rapporti sessuali con adulti. Minori tra 0 (zero anni!) e 12 anni, è questa l’età preferita dai pedofili. Ma la stima è sempre per difetto e non rispecchia la realtà».

E quale sarebbe questa realtà?
«Dall’attento monitoraggio e dallo studio sociale dell’associazione Meter riguardo la pedofilia online risulta che milioni di pedofoto circolano ogni anno su internet; si stima che 700 mila filmini pedopoo siano stati prodotti negli ultimi 12 anni; 2 milioni di bambini sono coinvolti ogni anno, nel mondo, per produzione di materiale pedofilo; l’età varia da pochi mesi a 12 anni (uno studio di Max Taylor su 50 mila foto ha stabilito che l’età media è tra i 4 e gli 11 anni) (1); 70% sono di razza bianca; 20% (asiatici e africani); 10% (paesi arabi e mediorientali); il 78% femmine e il 22% maschi. Il data base dell’Interpol ha raccolto già 300 mila volti di bambini tratti dal materiale sequestrato nelle operazioni di polizia in Europa, soltanto poche centinaia sono stati individuati.
Il Rapporto 2005 dell’Associazione Meter offre un’ulteriore lettura sociale del fenomeno da cui emergono alcuni dati nuovi ed impressionanti:
• aumento di pedofili a viso aperto che abusano di bambini; anche di donne pedofile;
• l‘infantofilia – in gergo, bambini con il pannolino – che si riferisce alla preferenza di bambini in tenerissima età (da pochi giorni a 2 anni);
• aumento di bambini seviziati (in alcuni casi rapporti necrofili);
• violenze a bambini disabili;
• calendari e riviste edite e bollettini settimanali della comunità pedofila;
• aumento dei blog come canali di promozione e contatti pedofili.
Dall’attività di monitoraggio e segnalazione di siti pedofili e pedopoografici per l’anno 2005 risultano n. 9.044 segnalazioni di siti pedofili e pedopoografici. Nel dettaglio sono 3.672 i siti formalmente denunciati al compartimento della Polizia postale e delle comunicazioni di Catania (di cui 21 con riferimenti italiani e in particolare 4 community pedofile, con iscrizione obbligatoria e password segreta), che hanno coinvolto 17 regioni italiane e circa 1.000 indagati tra l’Italia e i paesi esteri (anche medio-orientali, arabi e africani).
Altri 5.342 sono i siti segnalati alle polizie europee e inteazionali (Fbi, Interpol, polizia spagnola, portoghese, australiana, gendarmeria francese…).
Le nazioni dove sono allocati i siti sono, per ordine d’importanza: Usa, Russia, Brasile, Spagna, Australia, Francia, Polonia, Iran, Iraq, Giappone, Italia, Germania, Inghilterra, Rep. Ceca, Romania, Nigeria, Israele».

In Italia, vi è differenza, a livello di stime, tra i minori vittime della pedofilia in ambito familiare e coloro che sono venduti e sfruttati dalle organizzazioni criminali etniche?
«I minori stranieri non accompagnati censiti (provenienti soprattutto da Romania, Albania, Marocco, come emerso durante il Convegno Internazionale “Contro ogni schiavitù” del 4 novembre 2005) sarebbero 20.000. Mentre ci sarebbero circa 7.000 minori stranieri sfruttati e a quanto pare resi schiavi dalle organizzazioni criminali.
Le Nazioni Unite dichiarano che milioni di esseri umani ogni anno sono vittime della tratta e il 30% sono bambini e bambine. Non ci sono dati certi della tratta e lo sfruttamento dalle organizzazioni nei paesi di origine (2). In questa direzione, in Europa sono state condotte diverse operazioni di repressione nei riguardi di organizzazioni che sfruttavano minori producendo materiale pedopoografico e rivendendo il prodotto (video, foto e in alcuni casi anche bambini) sull’asse tra Russia-Europa, Italia-Svizzera-Brasile, e oggi anche Africa-Europa-Paesi dell’Est».

In Italia, si dice che il 90% degli abusi avviene in famiglia. Lei concorda con questa affermazione, oppure il minore può essere vittima di persone estranee con la stessa probabilità?
«Non concordo affatto nella percentuale (90%) degli abusi in famiglia; un dato fuorviante della realtà stando ai dati in nostro possesso. Bisogna parlare di “ambito familiare”, intra ed extra. I dati ufficiali concordano nel dire che gli abusi sessuali, pur avvenendo nell’ambito familiare nel 30% dei casi, sono compiuti da conoscenti o partner occasionali, o da conviventi non stabili. Solo nel 19% circa (comunque non poco) le offese e i reati sono compiuti dal padre, dal nonno, dal cugino. Non dimentichiamo, anche se in percentuale minima, ma crescente, il 4-7% delle violenze o della detenzione di materiale pedopoografico è compiuto da donne.
Secondo i dati del Dac (Direzione anticrimine centrale della polizia), nella prima metà del 2005 le segnalazioni di reati sessuali nei confronti dei minori sono state 410 (407 delle quali risolte). Sul totale di 410, 334 segnalazioni hanno riguardato violenze sessuali, 45 atti sessuali con minorenni, 17 violenze sessuali di gruppo e 14 di corruzione di minorenne. Le bambine sono le più colpite. Nel 77,4% dei casi sono loro le vittime degli abusi, fin da piccolissime – dichiarano ancora i dati del Dac – a conferma di quanto detto precedentemente in merito alla produzione di materiale pedopoografico. La fascia di età più colpita è quella compresa tra 0 e 10 anni. Sul totale di 471 vittime di abusi sessuali sotto i 18 anni, 165 (il 35%) aveva da 0 a 10 anni, 164 (il 34,8%) tra gli 11 e i 14 anni il resto (142) tra i 15 e i 17 anni. Vittime italiane e straniere».

PEDOFILI ED
ORGANIZZAZIONI CRIMINALI

Toiamo alla domanda di partenza, chi sono i pedofili?
«Chi compie abuso sessuale nell’82,4% dei casi conosce la vittima. Il pedofilo infatti non desidera una relazione occasionale, ma duratura e continuativa; vuole riempire il vuoto d’amore del bambino, condizionandolo con i ricatti, le minacce e i sensi di colpa. Un fenomeno che vive nel sommerso e di forti coperture culturali, sociali e di normalizzazione».

Dietro al singolo pedofilo si nascondono organizzazioni criminali…
«Partiamo da un concreto esempio di proposta di vendita di prodotto finito pedofilo. Una denuncia di Meter riguardava un sito internet (costantemente aggiornato) chiamato Pedoland (la terra dei pedofili). La home-page iniziale dichiara: “Vendiamo soltanto materiale esclusivo – 800 immagini ‘hard core’ con adolescenti di 7-14 anni e in più 250 ore di video domestici di bambini poo, video di violenze e di giovanottini seducenti”.
Il costo dell’abbonamento mensile è di 10 dollari, l’abbonamento, all’atto della denuncia, era già stato accordato a 3.550 utenti, con un incremento nell’ultimo mese dell’88% degli utenti. Il guadagno in un solo mese era di 33.550 euro (65 milioni delle vecchie lire, che moltiplicati per 12 mesi equivalgono a circa 800 milioni). E questo per un solo portale, definibile di “pedo-businnes”.
Concretamente ciò evidenzia che la pedocriminalità, negli ultimi anni, si è strategicamente strutturata con diramazioni che potremmo così sintetizzare: al primo livello c’è una sorta di “cupola pedocriminale” che organizza, decide, investe per il procacciamento di bambini; al secondo, c’è invece una rete “intra ed extra familiare” (pedofilia artigianale) per la produzione e vendita al migliore offerente del materiale privato. In questo vasto contesto, esistono i “pedo-free” (i liberi procacciatori di materiale da offrire ai pedofili online) e per finire il “pedo-businnes” (piccole organizzazioni criminali composte da 3-10 persone) che sfruttano, producono e vendono prodotto».

Pedo-business, pedo-free, pedofilia artigianale: padre, è proprio un incredibile catalogo dell’orrore…
«Che debbo dirvi… Alla vasta comunità pedofila (criminale) appartengono una varietà di soggetti per preferenza di bambini (età, contesto sociale e razza) e altri per scelte o orientamenti di perversione: pseudo normali; benpensanti; acculturati e snob; amanti estatici; cultori bellezza infantile; amanti biancheria intima di bambini; amanti orge tra bambini; amanti della pornografia su bambini disabili; amanti dei piedi e gambe dei bambini; foto neonati e feticisti; sadici; necrofili… Ma ci sono anche gli stupidi occasionali (la maggior parte degli indagati online) che alimentano un mercato trasversale e criminale a danno dei bambini».

Utenti ignobili, ma pur sempre utenti. Come arrivare a chi tira le fila del business?
«È arrivato il momento di investire in risorse e uomini affinché si risalga alla fonte ovvero rintracciare i “produttori”, gli “smistatori”, gli “schiavisti” a livello transnazionale.
Una visione generale consentirebbe di seguire le tracce del denaro, e quindi verosimilmente i dirigenti, la “cupola” di questo “mercato”, che non è solo nel mondo virtuale. Pedopoografi che non sono pedofili, e sfruttatori che lucrano con i clienti che cercano “merce e carne bambina”».

Sembra incredibile, ma esistono anche organizzazioni di pedofilia… «culturale». Che sono?
«La pedofilia culturale è invece il tentativo di singole e “congreghe” (meglio definirle lobby) che propongono la normalizzazione del fenomeno dichiarando la liceità della pedofilia come orientamento, stato, categoria della scelta individuale, consapevole e determinata di un uomo o donna.
I pedofili si presentano come “amici e benefattori dei bambini”, dato che, secondo le loro convinzioni, i bambini consensualmente desiderano vivere relazioni affettive e sessuali con i “boylover” (gli amanti dei bambini). Una crescita, negli ultimi 10 anni che ha raggiunto una presenza massiccia e di potere di opinione che mette in difficoltà la più acuta delle menti razionali e anche del buon senso».

Insomma, la pedofilia culturale, pur poco conosciuta dall’opinione pubblica, è subdola e molto pericolosa. Lei ritiene che i pedofili che ne sostengono i contenuti siano diventati, nel corso degli ultimi anni, sempre più abili a proporre la relazione adulto-minore ad un bambino? Potrebbe fare qualche esempio?
«La lobby pedofila culturale ha adottato la strategia della “promozione dei loro diritti e della loro naturale tendenza di attrazione e affettiva e sessuale nei confronti dei bambini” come l’ultimo tassello della rivoluzione sessuale, come l’ultimo tabù da sconfiggere: “perché i bambini hanno il diritto a vivere la propria sessualità e possono decidere di viverla con chi vogliono”. Il corsivo è tratto dai siti di promozione e difesa della pedofilia.
E per fare tutto questo le strategie propagandistiche sono innumerevoli e subdole. Un libro prodotto dalle organizzazioni pedofile, intitolato Pedophilies, rivolgendosi ai genitori dice: “Cari genitori, se vi accorgete che vostro figlio ha una relazione con un pedofilo, prima di denunciare, chiedete se a vostro figlio o figlia gli è piaciuto”. Il sovvertimento e la provocazione raggiunge livelli “culturalmente e strategicamente elaborati” per sovvertire il concetto di “consenso” da parte dei minori. Evidentemente è bene che qualcuno dica, se ne ha il coraggio, se una relazione di un pedofilo con una bambina di 10 giorni (E non è una provocazione da parte mia) o anche di 5,6,7 anni ha la ragione della consapevolezza e della volontà da parte dei minori.
Una inedita analisi di un “portale madre” BL (boylovers), per dare concreti elementi, ha contato ben 1.071 portali suddivisi in n. 391 siti specificamente indirizzati alla pedocultura con riferimenti espliciti al pedosoft (amanti del nudo infantile) e n. 146 indirizzati alle “risorse di rete” (newsgroups, community, siti personali) per scambio informazioni e localizzazioni di situazioni “piacevolmente pedofile”, il restante sono una collezione di links che parlano di bambini (movie, letteratura, arte).
In sintesi le lobby pedofile promuovono:
• un senso di orgoglio;
• il sesso non è dannoso ai bambini;
• la campagna contro i pedofili deriva dalla preoccupazione dei genitori di perdere potere sui figli;
• i pedofili assicurano benessere e la crescita dei bambini; non bisogna criminalizzare un orientamento, una inclinazione, una preferenza sessuale, uno stato, una categoria; numerosi sono gli appelli alle istituzioni, ai governi, con la proposta di verosimili candidature alle elezioni politiche (anche se per provocazione).
La presenza di siti di “rivendicazione sociale del diritto dei pedofili” ha raggiunto livelli estremamente raffinati (non esiste nazione che non ha un gruppo di sostenitori della liceità della pedofilia e dei rapporti tra adulti e minori), una vera e propria rete di lobby stratificata e organizzata anche economicamente. Rivendicazioni che sono sfociate anche in comportamenti criminosi e bracci armati come la “Brigata pretoriana del Fronte di liberazione dei pedofili”, che aveva in progetto la eliminazione fisica degli oppositori della pedofilia, quali sacerdoti, magistrati, esponenti delle forze dell’ordine».

E rispetto al turismo sessuale che cosa ci dice, padre?
«Dopo la tragedia dello tsunami, si leggeva tra le agenzie di stampa che i fruitori del turismo sessuale dichiaravano che “dopo lo tsunami non ci resta che la bella terra del Brasile”».

Questo significa che si fa poco per contrastarlo?
«Il turismo sessuale è un turismo da vergogna e certamente si fa ancora poco, molto poco per debellarlo con determinazione e forza. Nonostante innovative leggi contro il turismo sessuale è un fenomeno conosciuto, studiato, analizzato nei minimi dettagli, ma non contrastato alla radice. Il turismo sessuale è alimentato dalla povertà e dalla condizione sociale disastrata di milioni di uomini che non hanno “pane, carne e cibo”, così le bambine e i bambini di quelle nazioni diventano “carne fresca da assimilare e mangiare”. Chi fa turismo sessuale esprime tutta la miseria e la malvagità degli uomini; il turista sessuale è il non senso della vita.
Il turismo sessuale è la più becera risorsa economica per un paese povero. Un fenomeno che purtroppo cresce a dismisura: in alcune aree del mondo sta assumendo caratteristiche di massa. Un fenomeno difficilmente circoscrivibile per la sua continua trasformazione e perché dietro ad esso si concentrano enormi interessi economici».

Don Di Noto, lei crede che esistano forti interessi, e di che tipo, alla base della rete mondiale che alimenta il mercato dei minori e il loro sfruttamento?
«L’interesse più grande è, se posso dirlo in questi termini, il relativismo applicato all’uomo, considerato cosa e non persona. È un terrorismo culturale di involuzione della specie. È il più forte che domina sul piccolo e debole. È una cultura della violenza, del potere e del dominio, con una sola regia “il lupo” (non me ne voglia questo splendido animale) che mangia e divora».

Al di là delle metafore, si tratta sempre di domanda ed offerta…
«Il sistema economico ha delle regole: quando la domanda chiede al mercato di offrire la carne innocente dei bambini e l’offerta arriva, è il segnale di una umanità che ha un grosso bubbone e numerosi virus invasivi che distruggono la visione antropologica cui si dovrebbe guardare: quella di un’umanità legata alla conquista del bene per tutti, nessuno escluso».

La nostra società è sempre più dominata dalla cultura mercantilista, in cui l’avere conta più dell’essere, il profitto personale più del bene collettivo. Secondo lei, questo modo di pensare e vivere quanto è responsabile di fronte all’infanzia sfruttata?
«Totalmente responsabile. I numeri dell’infanzia abusata, violata, sfruttata, dimenticata dimostrano e confermano che della vita dei bambini non si può, non si deve fare mercato. I bambini e l’uomo in generale non è in vendita al migliore offerente».

CHIESA E PRETI PEDOFILI:
FERITE PROFONDE

Che cosa ne pensa degli scandali di pedofilia nell’ambito della chiesa cattolica, in particolare negli Stati Uniti?
«Vicende dolorose, ferite profonde che generano dolore e invocano misericordia da Dio per la chiesa e la società intera. Le parole di Giovanni Paolo II racchiudono il mio pensiero e pertanto la determinazione a continuare l’impegno per l’infanzia nella chiesa e nel mondo. Mi dispiace soltanto per l’anticlericalismo che ha generato nelle persone; un accanimento che non rende merito e giusto onore ai sacerdoti che svolgono in grazia e santità il loro ministero.
“In questo momento […] – scriveva Giovanni Paolo II -, in quanto sacerdoti, noi siamo personalmente scossi nel profondo dai peccati di alcuni nostri fratelli che hanno tradito la grazia ricevuta con l’Ordinazione, cedendo anche alle peggiori manifestazioni del mysterium iniquitatis che opera nel mondo. Sorgono così scandali gravi, con la conseguenza di gettare una pesante ombra di sospetto su tutti gli altri benemeriti sacerdoti, che svolgono il loro ministero con onestà e coerenza, e talora con eroica carità. Mentre la chiesa esprime la propria sollecitudine per le vittime e si sforza di rispondere secondo verità e giustizia ad ogni penosa situazione, noi tutti – coscienti dell’umana debolezza, ma fidando nella potenza sanatrice della grazia divina – siamo chiamati ad abbracciare il mysterium Crucis e ad impegnarci ulteriormente nella ricerca della santità"».

Quando ha iniziato ad occuparsi di questo fenomeno? C’è stato un motivo particolare che ha influito sulla sua scelta?
«Quindici anni fa, all’inizio del mio ministero sacerdotale, raccolsi i primi racconti di abusi di bambini. La passione per le nuove forme di tecnologia (internet) nel 1989 mi permisero di imbattermi per la prima volta in immagini pedopoografiche. Durante una meditazione di un passo dell’Esodo in cui si dice che “Dio vide la sofferenza del suo popolo e se ne prese cura”, ebbi l’intuizione, parafrasando il contenuto di quella straordinaria parola di Dio: anch’io “vedevo” le immagini e sentivo i racconti e il dolore dei bambini, per cui dovevo prendermene cura. E così feci, e continuo a fare con Meter. Non salverò tutti i bambini del mondo, ma so che qualcuno lo salverò. È già accaduto e vorrei che accadesse sempre e di frequente».

La «strage degli innocenti», ordinata a Betlemme da Erode, è un episodio biblico narrato nel vangelo secondo Matteo. Prendendo il governatore della Giudea a modello negativo, secondo lei Erode sta vincendo?
«Erode non vincerà mai. Erode sarà schiacciato dagli stessi bambini».

La sua è una certezza o una speranza?
«La mia vuole essere una profezia carica di speranza».

Nicoletta Bressan e Paolo Moiola




LINO BROCKA

Il regista filippino contro il dittatore Marcos

Maestro di Lav Diaz e anche lui presente con i suoi film al Torino Film Festival, Lino Brocka (Pilar, Sorgoson, Filippine 1939 – Quezon City, Filippine 1991), è stato il regista che sotto la dittatura di Marcos è riuscito a far conoscere la tragedia vissuta da tanti filippini, approdando nel 1977 a Cannes con il suo film Insiang. Questo film incisivo si rivela un poderoso affresco della vita squallida e devastante nelle baraccopoli di periferia, dove la bella e docile Insiang, figlia di una donna abbandonata dal marito, subisce violenza dal nuovo compagno della madre e, ingannata dall’uomo che credeva l’amasse, si trasforma in «angelo» vendicatore, tanto da indurre la madre a uccidere il suo volgare «gigolò».
Malgrado la censura nel suo paese, grazie ai molti riconoscimenti inteazionali, Brocka riesce a portare a Cannes nel 1984 un altro piccolo giorniello Bayan Ko: Kapit sa patalim (Paese mio), nominato «migliore film dell’anno» dal British Film Institute. Protagonista del film è una modesta e dignitosa famiglia operaia, che lavora in una tipografia e vive in una baracca di periferia. Quando la moglie, in attesa di un figlio, ha bisogno di costose cure mediche, il marito, buono ma impetuoso, non ottenendo un prestito dal padrone, viene stritolato dal crimine.
Bayan Ko, un inno popolare cantato da tutti i filippini, fa da sottofondo alle proteste pacifiche dei lavoratori filippini, che vogliono costituirsi in sindacato e sono duramente osteggiati dal proprietario, mentre i giornalisti appaiono quasi più spietati dei poliziotti nel fotografare le tragedie.
Nell’intervista radiofonica, presentata nel film Ebolusyon di Diaz, Brocka ammette che, per avere i fondi necessari per girare un film di qualità, doveva produrre almeno cinque film commerciali. Il regista aveva, infatti, iniziato la sua carriera producendo spot pubblicitari alla fine degli anni ’60, dopo aver studiato alla Nuova Ecija North High School e alla facoltà di legge dell’Università delle Filippine, divenendo un membro attivo del Laboratorio di teatro diretto da Wilfredo Maria Guerrero.
Disgustato dall’alto tasso di commercializzazione dell’industria cinematografica filippina, solo nel 1974 riuscì a fondare con un gruppo di amici una casa di produzione cinematografica e a realizzare i piccoli giornielli che lo renderanno famoso a livello internazionale, facendolo definire «il poeta del terzo mondo». Morirà tragicamente in un incidente automobilistico nel 1991.

Il critico cinematografico José B. Capino, con un’acuta sintesi, ha tratteggiato bene il lavoro del regista filippino, scrivendo: «Nel presentare e allegorizzare la situazione del paese, Brocka non distoglie lo sguardo dagli elementi più sgradevoli del vasto repertorio di orrori offerto dal terzo mondo: illegalità, gang di vigilanti e cannibalismo… Il successo di Brocka, come polemista che denuncia la situazione determinata dal regime totalitario, finisce con l’oscurare la stupefacente sofisticatezza e ampiezza di respiro della sua visione sociale.
Mostrando di essere molto di più che il lucido critico della tirannide, dispotismo e rapacità, Brocka ha affrontato quasi tutte le tematiche sociali contemporanee, dalla famiglia omosessuale all’imperialismo americano, dagli abusi matrimoniali all’esportazione incontrollata della manodopera filippina. Spesso, ha discusso più tematiche insieme, articolando con sagacia l’indagine della società attraverso la testimonianza intima di vite individuali».

Silvana Bottignole

Silvana Bottignole




«Pazzo sogno»

Arte e coraggio del regista filippino Lav Diaz, che ha partecipato al XXIII Torino Film Festival (2005) con Ebolusyon ng Isang Pamilyang Pilipino (Evoluzione di una famiglia filippina), della durata di 11 ore e girato in 10 anni.

«Che cosa possiamo fare? Quale responsabilità abbiamo come filippini? Perché siamo in America? Perché milioni di cittadini lottano per lasciare le Filippine? Perché l’80% dei filippini vive sotto la soglia di povertà? Che cosa c’è di sbagliato nella nostra cultura?».
Spinti da queste domande innovative, perché non solo critiche verso l’Occidente, ma anche verso se stessi, il giovane regista filippino Lav Diaz e il produttore Paul Tañedo hanno speso 10 anni della loro vita (1992-2002) nelle riprese di Ebolusyon ng Isang Pamilyang Pilipino (Evoluzione di una famiglia filippina), realizzato con mezzi finanziari molto scarsi «per offrire un contributo di un certo livello estetico al cinema delle Filippine, pervaso dallo squallore commerciale dell’industria cinematografica locale».
Questi coraggiosi artisti filippini (Paul Tañedo è un fotografo di professione) sono riusciti a realizzare il loro «pazzo sogno», tanto pazzo da produrre un film della durata di 11 ore? Che cosa hanno voluto raccontare? «Il film Ebolusyon racconta le lotte della gente nella storia delle Filippine, in questo caso nel periodo tra il 1971 e il 1987 – spiega Lav Diaz, durante l’incontro al Torino Film Festival (11-19 novembre 2005) -. L’introduzione della legge marziale, decretata dal dittatore Marcos nel 1972, l’omicidio del senatore Aquino nel 1983 al suo rientro dall’esilio all’aeroporto di Manila, le speranze suscitate dall’ascesa al potere di Cory Aquino nel 1986 e l’enorme delusione dopo l’eccidio dei contadini a Mendiola (1987) attraversano e peggiorano la vita di una micro realtà, protagonista del film, cioè una famiglia contadina».

Nato nel 1958 a Cotabato (Filippine) da una famiglia di insegnanti, Lav Diaz è cresciuto tra i libri e ha vissuto in prima persona i drammi della dittatura di Marcos e del dopo Marcos. Ha intanto frequentato il Mowelfund Film Institute di Quezon City, scoprendo i lavori di Lino Brocka, suo maestro, e solo nel 1990 è emigrato in America, dove ha collaborato alla redazione di giornali per filippini e, nel tempo libero, è riuscito a dedicarsi alla sua grande passione: la produzione di film.
Ha esordito nel 1997 con Serafin Gironimo e nel 1999 si è aggiudicato il titolo di «Miglior film» al Festival di Bruxelles e al Singapore Inteational Film Festival con Batang West Side, pellicola di 5 ore, che narra le peripezie di un investigatore filippino tra i meandri della comunità filippina d’America.
Con Ebolusyon, presentato ai Festival di Toronto, Rotterdam e Torino, Lav Diaz è ormai un regista conosciuto a livello mondiale.
Per raccontare «la lotta della gente nella storia delle Filippine», Lav Diaz in Ebolusyon narra la vita ai margini della società della famiglia Gallardo, che vive in uno dei tanti barrios della periferia urbana e subisce, anche se quasi a livello inconscio, le ingiustizie e soprusi del regime dittatoriale.
La famiglia, dal passato emblematico, è guidata dall’amorevole e autoritaria nonna Puring, capace di affrontare con dignità e coraggio le tante tragedie che colpiscono duramente il nucleo familiare.
Infatti padre delle sue tre nipoti, è il figlio Kadyo, buono ma debole, che trascinato da cattive compagnie si è trovato coinvolto in un furto e, messo alla gogna dalla legge marziale, è anche stato azzoppato da militari brutali.
La figlia Hilda, generosa e instabile, ha adottato il neonato Raynaldo, trovato abbandonato. Egli viene cresciuto con affetto anche da Kadyo, che lo salverà dalla follia suicida di sua sorella, ma non potrà arrestae la fuga, quando la madre adottiva viene brutalmente uccisa.
La nonna Puring è risoluta nel volere che le tre nipoti, orfane di madre e con il padre in carcere, frequentino la scuola e si guadagnino da vivere con la raccolta stagionale del riso e con lavori occasionali presso famiglie ricche.
La nonna offre stabilità alla famiglia e rievoca la tradizione, unendosi volentieri ai canti tradizionali dopo un buon raccolto e onorando il ricordo dei defunti con visite al cimitero e preghiere di suffragio durante la messa. Rifiuta persino l’allettante proposta di matrimonio per una delle ragazze da parte di un arrogante e impettito pastore protestante (forse Diaz si è ispirato al rifiuto dell’intelligente Liz di Orgoglio e pregiudizio).
La nonna chiede a Kadyo, uscito dal carcere, di cercare lo scomparso Raynaldo, anch’egli amato come le nipoti. Durante questa ricerca, Kadyo incontrerà incalliti criminali, che questa volta gli chiederanno di uccidere. Ma Kadyo, che nei momenti di dormiveglia, pensando a Raynaldo o alla morte della coraggiosa madre Puring, vede Gesù cadere sotto il peso della croce, come il «buon ladrone» preferirà la morte piuttosto che macchiarsi di un crimine, commissionato dai «potenti».
Spezzoni di documentari, inseriti nel film, rievocano la storia del paese e propongono le dimostrazioni pacifiche della gente, l’arrogante dittatore Marcos accompagnato dalla bella e subdola Imelda, il sorriso di Aquino sull’aereo prima di essere assassinato, la massiccia partecipazione della folla ai suoi funerali, la repressione nel sangue dei contadini e filmati sullo scomodo regista Lino Brocka (vedi riquadro), la vittima designata dai potenti per il delitto su commissione.
In Ebolusyon la voce e le scomode idee di Brocka raggiungono gli angoli più remoti del paese tramite un’intervista radiofonica, ma le famiglie dei barrios preferiscono cambiare subito programma, per alienarsi con radiodrammi insignificanti e ripetitivi, che però divengono i «padroni» delle loro semplici abitazioni e le rendono così sempre più vittime di un «potere» assoluto e corrotto.

Ripetutamente Lav Diaz nelle sue interviste dichiara: «Kadyo e Raynaldo rappresentano il filippino medio. L’anima dei filippini deve essere salvata». Diaz ha terminato il film con la toccante storia delle due madri: quella che ha abbandonato il neonato Raynaldo, chiedendo ogni giorno perdono, e quella che lo ha salvato offrendogli la vita in una famiglia.
Perché un film con una trama certamente complessa dura ben 11 ore? Anche con queste scelte il regista filippino esprime il suo netto rifiuto nel seguire le più banali regole dei film commerciali: durata massima di due ore e budget altissimi.
Che cosa vediamo nelle 11 ore di scene eccezionali e innovative, girate in bianco e nero? Non ci sono primi piani; lo spettatore deve vivere con i personaggi e condividere le atmosfere reali vissute dalla gente del Sud del mondo: le interminabili camminate, le estenuanti attese alle fermate di autobus che non arriveranno mai, le lunghe ore nottue rischiarate dalla tremula lampada a petrolio, i ritmi lenti dei tempi della raccolta del riso, la bellezza di un paesaggio che potrebbe dar vita a una mostra di meravigliose fotografie d’autore.
Emblematica è la scena dell’agonia di Kadyo, accoltellato all’addome in mezzo alla folla da un sicario con gli occhiali scuri. L’uomo, per più di 20 minuti, si trascina in strade assolate semideserte, cade esausto, per poi rialzarsi con fatica e morire abbandonato in un fatiscente capannone industriale.
Con questa scena Lav Diaz desidera che «il pubblico capisca le sofferenze patite dalla mia gente per un così lungo periodo di tempo: sotto gli spagnoli per più di 300 anni, sotto gli americani per circa 100 anni e ancora attualmente, sotto i giapponesi per quattro anni, e poi sotto Marcos per 20 anni, con effetti che si protraggono al giorno d’oggi».
Per vedere e apprezzare un film come questo, bisognerebbe dedicare un week-end di «totale immersione». Non sarebbe tempo sprecato anzi, forse si potrebbe sperimentare un modo nuovo di fare «cultura».
Sia i filippini che le persone desiderose di conoscere seriamente la storia dell’«arcipelago dorato» imparerebbero molto di più dalla visione di Ebolusyon che da centinaia di conferenze. E, come auspica Lav Diaz, i filippini potrebbero confrontarsi «apertamente con il nostro passato per costruire un futuro migliore».

Silvana Bottignole

Silvana Bottignole




Non dimenticare i malati cronici

L’Organizzazione mondiale della sanità propone un nuovo obiettivo: ridurre la mortalità per malattie croniche, causa di morte in paesi ricchi e poveri.

Malattie cardiovascolari, ictus cerebrale, cancro, diabete, patologie che l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) definisce responsabili di un’epidemia globale, per la quale non vi sono confini fra Nord e Sud del mondo. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, sono infatti diffuse anche nei paesi poveri, con il loro carico di morte e disabilità, ostacolo alla vita e allo sviluppo economico di famiglie e stati.

IL NONO OBIETTIVO
Le malattie croniche, secondo un rapporto pubblicato dall’Oms all’inizio di ottobre del 2005, sono responsabili della morte prematura di 17 milioni di persone ogni anno. L’80% di questi decessi si verifica nei paesi a basso e medio reddito, dove fra l’altro le persone (sia donne sia uomini) si ammalano in età più giovane, con conseguenze maggiori sul lavoro e l’economia: il 41% di morti per malattie croniche in Sudafrica e il 35% in India hanno un’età fra i 35 e i 64 anni.
I dati presentati dall’Oms sono stati ricavati da 9 paesi (Brasile, Canada, Cina, Gran Bretagna, India, Nigeria, Pakistan, Russia, Tanzania), molti dei quali non considerabili ad alto reddito, ed è stimato anche l’impatto economico: le perdite collegate a queste morti premature e ai malati cronici dal 2005 al 2015 sarebbero intorno ai 558 miliardi di dollari in Cina, 236 in India e 303 in Russia.
L’Oms quindi, a 5 anni dalla dichiarazione degli Obiettivi di sviluppo del millennio, ha proposto di aggiungee uno nuovo, da ottenere entro il 2015: ridurre ogni anno del 2% il numero di morti per malattie croniche. Il raggiungimento di questa meta salverà la vita a 36 milioni di persone, metà delle quali non ancora settantenni.
L’Oms afferma anche che le conoscenze per arrivare al risultato sono a portata di mano: la strada della prevenzione e del trattamento è possibile perché le conoscenze scientifiche attualmente disponibili mettono a disposizione soluzioni efficaci e accessibili. Nel rapporto sono foiti anche consigli pratici sulla strada da seguire per ridurre la mortalità e migliorare la vita di milioni di persone: ogni paese, indipendentemente dal suo livello di risorse, ha la possibilità di ottenere miglioramenti significativi nella prevenzione e nel controllo delle malattie croniche.

RIDURRE IL RISCHIO
La maggior parte delle malattie croniche è causata da pochi fattori di rischio, conosciuti e prevenibili, su cui intervenire per bloccare questa epidemia «globale». I più importanti sono: una dieta poco sana, la mancanza di attività fisica e l’uso di tabacco, accanto anche a ipertensione e alta concentrazione di zuccheri e di colesterolo nel sangue.
L’Oms riporta come circa l’80% delle malattie cardiache, ictus cerebrale e diabete a insorgenza precoce e il 40% dei cancri possano essere prevenuti attraverso una dieta sana, un’attività fisica regolare ed evitando i prodotti del tabacco. È proprio sulla prevenzione che l’Oms chiama a raccolta gli sforzi delle nazioni: bastano alcune iniziative semplici ed economiche per arrivare a rapidi risultati.
Tutti sono coinvolti: governi, industria privata, società civile e comunità. Catherine le Galès-Camus, assistente alla direzione del settore dell’Oms che si occupa di malattie non trasmissibili e salute mentale (Noncommunicable Diseases and Mental Health), ha sottolineato che si conoscono i passi da fare di fronte a un numero crescente di persone che muoiono e soffrono molto a lungo per malattie croniche, ed è necessario agire, subito.

I NUMERI DELL’ASIA
Considerando solo i paesi del Sud-Est dell’Asia, questo nuovo obiettivo del millennio salverebbe otto milioni di vite nel decennio a venire. In questa parte del mondo, infatti, oltre la metà delle cause di morte rientra fra le patologie croniche e, secondo le previsioni, da qui al 2015 uccideranno 89 milioni di persone, di cui 60 nella sola India.
Ricerche pubblicate sulla rivista medica Lancet, che all’argomento ha dedicato una serie di articoli, riportano come in India le malattie croniche siano responsabili di oltre la metà dei decessi: le malattie cardiovascolari e il diabete sono diffuse in particolare nei centri urbani e il tabacco è la causa di una grande fetta di tutti i tumori. Nel paese, il consumo di tabacco, sia fumato sia da masticare, è comune soprattutto fra le persone povere e nelle regioni rurali; ancora, fattori di rischio quali l’ipertensione e i livelli alti di grassi nel sangue non vengono adeguatamente riconosciuti e trattati.
In Cina, i morti per malattie croniche raggiungono addirittura l’80% del totale e i maggiori protagonisti sono le patologie cardiovascolari e i cancri. I fattori di rischio sono diffusi: sono oltre 300 milioni gli uomini che fumano sigarette e 160 milioni gli ipertesi, la maggioranza dei quali senza terapia. Si pensa poi che sul suolo cinese sia prossima un’epidemia di obesità: nelle grandi città, oltre 2 bambini su dieci fra i 7 e i 17 anni sono già sovrappeso od obesi.
L’obesità, presente anche in paesi poveri, è il fattore di rischio maggiore per le malattie croniche e si stima sia collegata a due milioni e mezzo di morti ogni anno.

NON SI PUO’ ASPETTARE
Il carico di morte e malattia di queste patologie appare in salita. Gli Obiettivi di sviluppo del millennio stabiliti nel 2000 si sono occupati esplicitamente di tematiche sanitarie in tre settori: ridurre la mortalità infantile, migliorare la salute matea e ridue la mortalità, prevenire la diffusione di malattie infettive, come Hiv/Aids, malaria e altre.
Ora l’attenzione viene portata anche sulle malattie croniche, che sempre su Lancet, in un editoriale di accompagnamento alla serie di articoli dedicati al tema, vengono definite come una «epidemia dimenticata», nonostante rappresentino una consistente percentuale delle patologie che minacciano la salute dell’uomo.
Sempre l’editoriale, riporta infatti come, secondo le previsioni del 2005, il 30% dei morti previsti nel mondo sarebbero appannaggio di malattie cardiovascolari, il 13% di cancro, il 7% di malattie respiratorie croniche e il 2% di diabete. Se non si inizia subito a fare qualcosa, viene sottolineato sulla rivista, si rischia di perdere il guadagno ottenuto dagli interventi sulle malattie infettive, perché queste patologie prevenibili travolgeranno, ancora una volta, le persone meno in grado di proteggersi.
Non ci sono dunque scuse, secondo il mondo medico, per continuare a permettere che le malattie croniche uccidano milioni di persone ogni anno, quando ci sono a disposizione le conoscenze scientifiche per impedirlo.

Valeria Confalonieri

Valeria Confalonieri




EJJP: cosìè e cosa fa

Nata ad Amsterdam nel 1992, la Ejjp (European Jews for a just peace, ebrei europei per una pace giusta), è una federazione di gruppi ebraici di vari paesi europei che si oppongono con azioni nonviolente all’occupazione dei Territori palestinesi. La fine di tale occupazione rappresenta, a loro avviso, la prima e più importante pre-condizione per la pace.
La Ejjp ha partecipato insieme alla popolazione palestinese di Bi’lin alle proteste contro il muro di separazione; ha organizzato la riunione del proprio comitato esecutivo durante la conferenza internazionale indetta per l’anniversario della lotta nonviolenta intrapresa dal villaggio; ha incontrato i membri del neoeletto parlamento palestinese, Hamas compresa, e ha aiutato la gente a ripiantare gli alberi di ulivo sradicati dagli israeliani.

La Dichiarazione di Amsterdam
«Noi, rappresentanti di 18 organizzazioni pacifiste ebraiche di 9 paesi europei, ci siamo riuniti per la Conferenza “Non dire che non lo sapevi” in Amsterdam, il 19 e il 20 settembre 2002, chiamati a discutere su: a) il governo israeliano deve cambiare la sua attuale politica e dar seguito alle proposte contenute nella presente dichiarazione; b) tutti i governi, Onu e l’Ue, devono esercitare pressioni sul governo israeliano affinché porti avanti tali proposte.
Crediamo che l’unica strada per uscire dall’attuale situazione sia attraverso un accordo basato sulla creazione di uno stato palestinese indipendente e vivibile e la garanzia di sicurezza per Israele e per la Palestina. Condanniamo tutte le forme di violenza contro i civili, da chiunque siano perpetrate.
Chiediamo: la fine dell’occupazione israeliana dei Territori palestinesi e il riconoscimento dei confini del 4 giugno 1967; il ritiro totale di tutti gli insediamenti ebraici dai Territori occupati; Il riconoscimento del diritto di entrambi gli stati ad avere Gerusalemme come loro capitale; il riconoscimento da parte di Israele della sua parte di responsabilità nel problema dei profughi palestinesi. Rivolgiamo un appello alla comunità internazionale, specialmente all’Europa, affinché offra un sostegno politico ed economico».

Boicottaggio dell’occupazione
Durante l’incontro di Londra, nel settembre 2005, la Ejjp ha deciso di aggiungere alla sua dichiarazione di intenti le seguenti clausole: a) la Ejjp sostiene azioni nonviolente che hanno lo scopo di porre fine all’occupazione israeliana della terra palestinese e alla violazione delle leggi inteazionali; b) la Ejjp richiama tutti gli stati ad assicurare che le loro relazioni con Israele siano in accordo con le leggi inteazionali e con la Dichiarazione universale dei diritti umani.
«Per 38 anni nei Territori hanno avuto luogo confische di massa della terra, blocchi stradali, uccisioni extragiudiziarie, chiusure, coprifuochi, punizioni collettive. Il governo israeliano, attraverso gli anni di occupazione, si è sentito autorizzato a violare le leggi inteazionali… Le Nazioni Unite e la comunità internazionale hanno fallito nel portare a compimento ogni concreta sanzione contro la violazione israeliana del diritto internazionale. La nostra azione di cittadini attraverso l’Europa è rivolta ai governi affinché smettano di usare due pesi e due misure e di assecondare Israele».

Angela Lano




«Refusenik», obiettori in Israele

Ricercatore di fisica presso l’Università ebraica di Gerusalemme, 27 anni, Itai Ryb è un refusenik: militare che rifiuta di prestare servizio nei Territori occupati; per questo è finito più volte in prigione. Fa parte di Yesh G’vul (c’è un limite). Durante l’assedio alla basilica della Natività (2002), a Betlemme, era stato richiamato alle armi come riservista: il suo rifiuto gli è costato un mese di carcere.

Quanti refusenik ci sono attualmente in Israele?
Sono più di mille, tra soldati e ufficiali che rifiutano il servizio di leva e che hanno firmato la petizione che sta circolando via internet.

Come vi considerano i vostri connazionali?
Molti ci definiscono «traditori», antidemocratici. L’atmosfera generale è molto dura. Il sostegno ci arriva dagli accademici, alcuni intellettuali, persone di strada. Ma alcuni gruppi ortodossi sostengono che sia giusto uccidere i refusenik.

Ha ricevuto delle minacce?
Per lo più e-mail cattive. Durante le dimostrazioni capita che qualcuno venga picchiato o addirittura ucciso. Soprattutto fra coloro che svolgono attività di protezione dei contadini palestinesi durante la raccolta delle olive: vengono attaccati da coloni israeliani ultraortodossi.

Si considera un pacifista?
Nel movimento dei refusenik esistono tante tendenze. Non tutti sono pacifisti nel senso generale del termine. Spesso si tratta non tanto del rifiuto a servire nell’esercito, ma a far parte delle forze di occupazione nei territori arabi. È una forma di obiezione «selettiva». Personalmente mi considero un obiettore di coscienza alla politica di Sharon, basata su un progetto di «pulizia etnica» contro i palestinesi.

Qual è il ruolo dei refusenik e delle organizzazioni pacifiste israeliane nell’attuale scenario di conflitto?
Può essere cruciale la presa di coscienza di un numero sempre crescente di militari e riservisti: molti refusenik, infatti, arrivano dalle «prime linee», cioè da postazioni importantissime per l’esercito; l’acquisire consapevolezza del proprio ruolo e possibilità di opporsi al programma previsto da Sharon, potrà essere fondamentale per fermare l’escalation della guerra e dei massacri. Alla violenza e alle brutalità si può opporre un rifiuto. Da ambedue le parti. Ecco perché parte delle mie attività sociali e culturali sono destinate ai ragazzi palestinesi.

Quali sono i progetti in cui Yesh G’vul è impegnata?
Principalmente si tratta di azioni per «fermare la distruzione», come «protezione» o interposizione nei confronti dei palestinesi, ma anche attività di sensibilizzazione. Altri gruppi svolgono attività indirizzate alla «costruzione», come il sostegno ai soldati che si rifiutano di combattere, progetti educativi e culturali sia tra gli israeliani che tra i palestinesi, azioni specificamente nonviolente, petizioni, raccolta fondi da consegnare alle famiglie dei refusenik (senza stipendio per tutto il tempo della prigionia), sostegno psicologico e legale.

A quale figura si ispira. Chi è il suo eroe?
Mordechai Vanunu, il tecnico israeliano rapito a Roma dal Mossad nel 1986, perché aveva denunciato la presenza di una base per la costruzione di armi nucleari nel deserto del Negev. Da 16 anni sta pagando con il carcere duro e l’isolamento quel suo atto di coraggio: aveva capito la responsabilità di ciò di cui era stato testimone e non si è mai tirato indietro.

Qual è la cosa più terribile per lei in Israele?
Che stia crescendo una generazione senza speranza e senza strumenti per un cambiamento costruttivo. I giovani pensano sia impossibile uscire dall’attuale situazione di guerra e di violenza. Per questo la soluzione deve giungere al più presto, altrimenti sarà impossibile modificare la loro mentalità.

E qual è la soluzione per lei?
Due stati dai confini labili, senza muri, dove palestinesi e israeliani possano spostarsi liberamente, vivere vicini, in pace e in amicizia.

Angela Lano (*)

(*) La seguente intervista è stata rilasciata nel 2003.

Angela Lano




«Tu non adorearai le pietre»

Mentre gli estremisti delle opposte fazioni continuano a confrontarsi e la diplomazia finge dialoghi che preludono più alla guerra che alla pace, numerosi movimenti e gruppi israeliani nonviolenti, dentro e fuori d’Israele-Palestina, si oppongono all’occupazione israeliana di terre palestinesi, difendono i diritti umani e lavorano concretamente alla costruzione di una pacifica convivenza fra i due popoli. Tali movimenti, purtroppo, raramente sono portati a conoscenza dell’opinione pubblica.

Paola Canarutto è un medico torinese, ma è anche la rappresentante per l’Italia dell’organizzazione del Ejjp (European Jews for a Just Peace). Ad aprile era tra i candidati alla Camera, all’interno di un partito che ha assunto posizioni coraggiose a favore del popolo palestinese e contro la politica di oppressione di Israele. E lei vi ha aderito anche per questo.
L’abbiamo incontrata subito dopo il suo viaggio di solidarietà con la popolazione palestinese di Bi’lin, a febbraio 2006.

Dottoressa Canarutto, quando è nata la Ejjp e perché?
La Ejjp, che rappresenta una sorta di «ombrello» di organizzazioni ebraiche contro l’occupazione israeliana dei Territori palestinesi, è stata creata ad Amsterdam, nel 2002, per iniziativa di tre anziane signore ebree olandesi, che fanno parte dell’associazione «Un’altra voce ebraica». In quell’occasione, hanno invitato nella capitale olandese rappresentanti di organismi ebraici europei ed è stata siglata la «Dichiarazione di Amsterdam».
L’obiettivo era quello di promuovere una pace tra Israele e la Palestina, che prevedesse il ritiro israeliano entro i confini del ‘67. Teniamo conto che questa riunione è avvenuta due anni dopo lo scoppio della «seconda intifada».

Un obiettivo coraggioso, tenuto conto del silenzio internazionale sui diritti palestinesi violati quotidianamente…
(Ride) Coraggioso… Quindi, noi esistiamo da allora. La Dichiarazione di Amsterdam è la base su cui altre associazioni possono dare la propria adesione.

Concretamente cosa fate?
Quest’anno, a febbraio, abbiamo organizzato un viaggio di solidarietà in Palestina, che vorremmo ripetere.
In Ejjp c’è un comitato esecutivo, formato da sette persone, che si riunisce periodicamente nei vari paesi europei. Questa volta abbiamo deciso di portare concretamente la nostra solidarietà agli abitanti di Bi’lin e alla loro lotta nonviolenta contro l’occupazione israeliana. Ci siamo riuniti il 17, dopo la manifestazione a sostegno della popolazione palestinese. Il 21 si è svolta una conferenza internazionale: hanno partecipato i movimenti pacifisti Gush Shalom (lett.: blocco della pace), Rabbis for Human Rights (rabbini per i diritti umani) e altri gruppi.

Come mai avete scelto di sostenere la popolazione di Bi’lin?
Perché loro portano avanti una lotta nonviolenta. Tuttavia, noi non ci permettiamo di dire che non vada bene anche quella armata contro l’occupante, perché questo è un diritto riconosciuto dalle dichiarazioni inteazionali. La mia idea è che con la lotta armata, in questo caso specifico, non si ottiene nulla. Non significa che essa non sia utile in assoluto. Dobbiamo infatti ricordarci che la nostra resistenza è stata armata, dunque, lungi da me giudicare.
È necessario tenere in considerazione che i palestinesi sono soli e che l’effetto di tirare una pietra o di farsi saltare in aria in un autobus si ripercuote solo su di loro, al di là del giudizio morale che possiamo dare. L’unica possibilità concreta è quella di ricevere il sostegno dell’opinione pubblica internazionale. Quindi, abbracciare una battaglia nonviolenta.
Parliamoci chiaro, con la caduta del blocco sovietico, i palestinesi non hanno più sostegni. Sono stati abbandonati. Il risvolto pratico di quel poco di resistenza armata che riescono a organizzare è controproducente. È un boomerang.
In ogni caso, attaccare i civili non va bene: sia che ad organizzare attentati siano i movimenti islamici, sia che si tratti di quelli laici o di sinistra.
Inoltre, lo squilibrio delle forze è tale che non ottengono nulla: Israele li colpisce quattro volte tanto. Ha altri mezzi e i giornali stanno quasi tutti dalla sua parte.

Dunque, l’interlocutore palestinese è scelto in base alle modalità di lotta.
Sì, deve essere pacifica e nonviolenta, proprio per stimolare lo sviluppo di questa linea. Bi’lin resiste da mesi.

La popolazione locale come vi ha accolti?
Era felicissima. Anche quando siamo andati a piantare gli alberi di ulivo, che poi gli israeliani hanno sradicato quasi subito. Alla conferenza del 20-21 ci hanno addirittura offerto da mangiare e da dormire, tutto a spese del villaggio, su cui pesa una disoccupazione altissima. La riunione del nostro Comitato esecutivo è stata ospitata nella loro sala consiliare. Anche questo è significativo.

Non ci sono state diffidenze nei vostri confronti, dunque?
Assolutamente no. Nel linguaggio comune, i palestinesi identificano i soldati israeliani con gli ebrei, poi, nella pratica, sanno distinguere un aspetto dall’altro e son felici di riceverci. E questo non è scontato.

Quanti aderenti a Ejjp ci sono in Italia?
Pochi.

Come siete visti dalle comunità ebraiche?
Male, come dei traditori della patria. Ma io non sono più iscritta alla comunità già da tempo.

È praticante?
No. Dal ’98 sono fuori dalla comunità. Frequento quella di Agàpe, nelle valli pinerolesi, in provincia di Torino.
Ho studiato per sette anni nella scuola ebraica e ho capito che quello che mi avevano raccontato non corrisponde al vero. Dunque, mi sono sentita presa in giro.

Il suo legame con l’ebraismo è culturale soltanto?
Il legame è obbligatorio nel momento in cui ci si vuole dissociare dalle politiche israeliane. Si dice che quello è lo stato degli ebrei e così a me tocca prendere le distanze e dire: «Scusate, ma mi avete chiesto in cosa mi riconosco?».
Il problema n.1 è questa identificazione tra l’ebraismo e lo stato israeliano. Il problema n.2 è che chi condanna le pratiche israeliane contro la popolazione palestinese è accusato di essere antisemita. Dunque spetta a noi ebrei parlare, opporci a queste politiche.

Si tratta di una strumentalizzazione, perché il rispetto dell’ebraismo, come religione e cultura, non comporta automaticamente l’accettazione delle scelte dello stato israeliano. Ultimamente i due aspetti vengono associati…
Infatti. Perché, in realtà, la storia di quel luogo è molto semplice: il gruppo A ha deciso di espellere il gruppo B dal paese dove abitava per viverci lui. È accaduto nel 1947-48, nel 1967 e sta accadendo oggi. Però i sionisti nascondono l’evidenza dei fatti e della storia, prendendo come scusa e giustificazione la necessità dell’esistenza dello Stato degli ebrei.
Su questo discorso non c’è unanimità in Ejjp, ma ciò su cui siamo tutti d’accordo è che Israele deve ritirarsi dai confini del 1967. Certamente, la maggior parte del Comitato esecutivo è anti-sionista.

Qualcuno di voi è contrario all’esistenza dello Stato di Israele?
È contrario al sionismo, cioè a uno stato costituito su base religiosa, in cui gli appartenenti all’ebraismo abbiano più diritti degli altri.

Quale sarebbe, allora, la soluzione migliore?
Ci sono alcuni che sono favorevoli allo stato binazionale, e questa è una posizione rispettata; altri sostengono che debbano scegliere gli abitanti il tipo di stato da creare, basato però sull’idea del «un uomo, un voto».
Poi c’è l’opzione «due popoli e due stati». Una di queste soluzioni deve essere accolta: adesso la situazione è di apartheid, e non può essere condivisa. Così non è democratico.

La storia dei due popoli non è in contrasto: sono entrambe religioni abramitiche, con un lungo passato in comune…
Mi sono laureata in Lettere a ottobre e la mia tesi aveva come argomento il giudeo-cristianesimo in Transgiordania e Siria: gli ebrei che arrivano lì sono cugini dei palestinesi che buttano fuori ora. Tito, nel 70 d.C., non li aveva espulsi tutti: aveva mandato via i capi. Tant’è che il vangelo di Matteo è giudaico-cristiano ed è stato scritto nel 90, in Galilea; la Mishnà, sempre in Galilea, nel 200; il Talmud palestinese è del 400. Gli ebrei sono sempre stati lì e in parte si sono convertiti al cristianesimo, in parte all’islam, altri sono rimasti tali.
Questa vicenda è ancora più brutta di quella dei pellirossa: perché lì, coloro che i bianchi mettevano nelle riserve non erano i «propri cugini». Qui sì.

Però nessuno ha il coraggio di dire queste cose pubblicamente…
Si tenta di fare quello che si può. Cerchiamo di tessere relazioni con associazioni palestinesi. A Torino lavoriamo con il Comitato di solidarietà con il popolo palestinese. A Roma hanno fondato il gruppo Kidma, che organizza un cineforum dal titolo «Al cinema con il nemico».

Mi pare di capire che i vostri interlocutori palestinesi in Italia sono laici?
Certo. In Palestina, no. Il viaggio di febbraio era organizzato da un’associazione ebraica, la nostra, e non poteva avere un interlocutore solo: abbiamo incontrato il Fronte popolare di liberazione della Palestina (Fplp), Fatah e Hamas.
Con Hamas, la simpatia reciproca è scarsa, perché noi siamo laici. Dopo di che, riconosciamo che le elezioni sono state democratiche, ci congratuliamo con la popolazione e ci auguriamo che Hamas continui su questa linea e che non imponga la shari‘a.

Per concludere, possiamo affermare che esiste una via non-sionista all’ebraismo?
Sì. Il sionismo ha fatto fallire anche uno dei principi dell’ebraismo, che è la non idolatria. La santificazione del muro del pianto, dei luoghi sacri ebraici, della tomba di Rachele, ecc. sono idolatria allo stato puro. Una delle raccomandazioni che gli ebrei si sono ripetuti per 2400 è: «Tu non adorerai le pietre». Ma guarda un po’, invece, cosa è successo!

a cura di Angela Lano*
*Da gennaio 2006 Angela Lano è responsabile del sito web www.infopal.it che si occupa di Palestina

Angela Lano




La parabola del «figliol prodigo»

La salvezza diventa storia di ciascuno (1)

Un nostro lettore, il dott. Giorgio Lacquaniti di Frosinone, mi scrive ponendo alcune domande sulla parabola del «figliol prodigo» (Luca 15,11-32). All’età di 12 anni egli ha «incocciato» la parabola lucana e non se n’è più liberato; con essa continua a fare i conti anche oggi, sebbene siano trascorsi 65 anni.
Ecco le domande: «Da dove Lc ha attinto questa parabola, non essendo apostolo? Come spunta questa meravigliosa “perla”, visto che è esclusiva di Lc e non compare nei sinottici (Mt e Mc) e in Giovanni? L’ha pronunciata veramente Cristo? Possibile che, oltre Luca, nessuno l’abbia raccolta? Si può dire che sia stata rivelata a Luca dal Maestro per “ispirazione dello Spirito Santo”?». Secondo il sig. Lacquaniti, se esistesse un “Premio Nobel del vangelo”, bisognerebbe darlo senza ombra di dubbio a questa parabola, perché essa «contempla l’unica soluzione apprezzabile e possibile tra il finito e l’infinito e l’unico rapporto autentico e possibile tra Dio (necessario) e la creatura (contingente)».
La rubrica «Così sta scritto» è nata per gettare qualche supplemento di comprensione sulla Parola di Dio per aiutare i lettori che non dispongono di strumenti adeguati ad assaporare i risultati della ricerca biblica. Essi hanno il diritto d’intervenire e suggerire gli argomenti che più possono interessare o che possono apparire più difficili (cf in MC 5, 2005, pp.16-17, l’intervento di una nostra lettrice sul Salmo 137/136). Ho pensato non di dare risposte in pillole al nostro amico Giorgio, ma di fare un discorso organico sull’intero capitolo 15 di Lc, dedicandovi diverse puntate, senza la pretesa di esaurirla. Il metodo che userò parte dal testo così come lo possediamo e avrà un andamento dal generale al particolare, dal grande al piccolo, per cui una visione completa si potrà avere solo alla fine.

Ricerca di un titolo: imbarazzo della scelta

L’espressione «figliol prodigo» è un titolo convenzionale che non appare nel testo. I codici antichi greci erano scritti a mano e con le parole tutte attaccate l’una all’altra senza spazi intermedi, senza titolo e senza divisioni in capitoli e versetti. Non esisteva la carta: papiri e pergamene erano un materiale da scrivere molto costoso.
La divisione in capitoli e versetti inizia con Johann Gänsfleisch detto Gutenberg (1390ca.-1468), quando il 23 febbraio 1455 pubblica la prima Bibbia stampata, detta a «42 linee». Per facilitare la consultazione del testo, egli divise il testo in capitoli (corrispondenti a una pagina di stampa) e versetti (corrispondenti più o meno a una frase compiuta): è la divisione mantenuta ancora oggi, sebbene non corrisponda alla struttura letteraria del testo secondo la modea scienza biblica.
Le edizioni successive per facilitare la lettura cominciarono a introdurre nel testo i titoli-spia alla luce dei contenuti che pertanto non fanno parte della «Parola di Dio» ispirata, ma sono solo aggiunte editoriali. Queste notizie storico-letterarie servono per spiegare la varietà dei titoli dati alla parabola di Lc 15,11-32. Ogni titolo non è «neutro», ma è una sintesi che esprime una valutazione e offre una prospettiva di lettura o di osservazione dell’intero racconto.
La parabola è tradizionalmente conosciuta come la parabola «del figliol prodigo»; la Bibbia della Cei (ed. 1997, ufficiale per la chiesa italiana) titola: «Parabola del padre misericordioso», mentre la Bibbia di Gerusalemme (ed. 1984) offre un titolo diverso: «Il figlio perduto e il figlio fedele: il figlio prodigo», raggruppando in un solo titolo «tradizioni» interpretative diverse.
L’esegeta Roland Meynet nel suo Vangelo secondo Luca. Analisi retorica (Bologna 2003) parla di «Due figli smarriti». Al contrario lo statunitense Luke Timothy Johnson nel suo commento Il Vangelo di Luca titola «Parabola di cose perdute e ritrovate», preferendo una visione d’insieme dell’intero capitolo 15 di Luca. All’elenco possiamo aggiungere il nuovo titolo che anche il nostro lettore suggerisce: «Il figliolo imbelle e ribelle». Tutti questi titoli dicono la difficoltà di sintetizzare una parabola che sfugge a ogni sintesi e la ricchezza incontenibile di un testo che nessun titolo può esaurire: certe profondità abissali si possono solo sperimentare e contemplare, mai scalare e descrivere.

Il pittore esegeta

Nel 1669 Rembrandt dipingendo il suo famoso «Il figliol prodigo», oggi conservato al Museo Hermitage di San Pietroburgo in Russia, ha raffigurato in modo magistrale «l’anima recondita» del racconto. Si vede il padre di faccia nell’atto di chinarsi ad abbracciare il figlio minore in ginocchio davanti a lui, a capo scoperto e scalzo, ma con le scarpe rotte; le mani del padre sono sulle spalle del figlio: una mano è maschile (la sinistra) e l’altra femminile, sintesi magistrale e irripetibile dell’amore gratuito che accoglie il figlio perduto e ritrovato nell’unica forma possibile che è dato sperimentare sulla terra: l’incastro vitale di padre e di madre. Il figlio è l’amore di madre e di padre fuso e confuso prolungato nel tempo come corpo che vive.
In disparte, sulla destra, seduto dietro il padre, con il capo coperto di un nero berretto, il figlio maggiore osserva, apparentemente partecipe; ma nella mano destra tiene un pugnale, come se stesse studiando il momento opportuno per colpire. Fratelli coltelli, dice il proverbio. Solo il padre (e il maggiordomo) hanno un mantello rosso, mentre i due figli sono avvolti nel grigio della loro tragedia.
Rembrandt è un poeta e attraverso i colori e la disposizione delle figure fa «vedere» plasticamente l’abisso e il vertice della parabola lucana: il padre (con il maggiordomo) spicca nel colore rosso del suo mantello, simbolo del calore della «casa», mentre ambedue i figli sono avvolti nel grigio del loro egoismo ed esilio: uno che ritorna quasi morto e l’altro che nutre pensieri di morte pur stando «in casa».
Non sappiamo se Rembrandt conoscesse l’esegesi giudaica, ma è certo che in quella figura di padre, materno e paterno insieme, egli esprime ciò che la scienza della ghematria, cioè il valore numerico delle lettere alfabetiche, dice con il linguaggio dei numeri meglio di qualsiasi altra forma esplicativa. In ebraico, infatti padre si dice ’ab e ha il valore numerico di «2»; madre si dice ’em e ha il valore numerico di «41», mentre figlio si dice yelèd e ha il valore numerico di «43», cioè la somma di 2+41: il figlio è il risultato della sintesi di «padre+madre». Il figlio è la vita visibile del padre e della madre.

In principio fu la predicazione orale

La parabola del «figliol prodigo» si trova solo in Luca, non in Matteo e in Marco e nemmeno in Giovanni. In termini tecnici, con una parola greca, si dice che è un racconto hàpax, cioè una parabola detta «una sola volta».
Per rispondere alle domande del lettore, è necessario fare un po’ di storia sulla formazione dei vangeli, che non sono opere scritte a tavolino, come la biografia di un personaggio. I vangeli nascono come predicazione che si tramanda oralmente. Gli apostoli, dal giorno della pentecoste non si preoccupano di scrivere una «vita di Gesù», ma si buttano nelle piazze e sulle strade a «predicare» agli ebrei loro contemporanei che Gesù, l’uomo di Nazareth crocifisso, è il messia atteso, che Dio ha risuscitato dai morti.
Per farsi un’idea di questa predicazione basta leggere il capitolo 2 del libro degli Atti, che riporta il primo discorso missionario (tecnicamente si dice kèrigma, cioè annuncio) di Pietro il giorno di Pentecoste. I primi cristiani erano ebrei che frequentavano il tempio a Gerusalemme e la sinagoga nelle altre città e villaggi. Qui ascoltavano la Parola di Dio, cioè quello che noi oggi chiamiamo l’Antico Testamento.
Con la conversione di Paolo di Tarso (35/36 d.C.), inizia anche la predicazione alle persone di lingua greca residenti in Gerusalemme con cui inizia la missione verso i pagani o gentili (dal latino gentes che significa le genti/i popoli). I quali gentili non conoscono la tradizione religiosa ebraica, ma hanno una esperienza religiosa politeista e quindi non sanno nulla della storia degli ebrei: patriarchi, esodo, promessa, alleanza, messia. Si hanno così due kèrigma/annunci: uno rivolto agli ebrei, prevalentemente da Pietro, che parla di Cristo come messia d’Israele nel solco delle promesse dell’Antico Testamento, e l’altro rivolto ai pagani, prevalentemente da Paolo, che svela il piano di salvezza del Dio della creazione realizzato in Gesù Cristo, figlio di Dio e salvatore del mondo. Questi due annunci sono orali.

Le prime raccolte scritte

I primi scritti del NT sono le lettere che Paolo scrive alle comunità da lui fondate e dalle quali si trova lontano (anni 50-67 d.C.). Queste lettere passano di comunità in comunità e vengono lette durante le riunioni eucaristiche (cf 1Ts 5,27; Col 4,16).
Più ci si allontana dalla pasqua di Gesù e più la chiesa primitiva si allarga e si organizza. C’è bisogno di avere strumenti adeguati sia per integrare la liturgia leggendo «fatti e parole» di Gesù accanto all’AT, che ora viene letto e interpretato alla luce della sua morte e risurrezione. Accanto alle lettere paoline, nascono le prime raccolte scritte su ciò che Gesù ha detto e ha fatto.
Nascono così liste di miracoli, raccolte di parabole, insegnamenti di Gesù in diverse occasioni; coloro che avevano conosciuto Gesù fanno a gara a ricordare questa o quella parola o una frase o miracolo che Gesù ha fatto o detto nelle più diverse situazioni. È un cammino lento, che alimenta un materiale sempre più corposo, ma anche sempre più lontano dal suo contesto storico. Quello che Gesù ha detto o fatto non viene ricordato solo per conservae la memoria, ma principalmente per rispondere alle nuove problematiche e situazioni della vita: se i cristiani sono perseguitati, si do-mandano come Gesù si sarebbe comportato e quindi si va alla ricerca di parole e fatti che possono essere di aiuto in questa circostanza; di fronte agli ebrei che negano la messianicità di Gesù, si cercano quelle parole e fatti che invece l’appoggiano; davanti a una religione ufficiale troppo esteriore, si ricordano parole e fatti che esprimono una purificazione della religione e di Dio. Tutti questi scritti in origine sono autonomi e indipendenti gli uni dagli altri.

I primi tre vangeli prima dei sinottici

L’ipotesi più accreditata considera che la predicazione degli apostoli fu messa per iscritto dando vita a un probabile Vangelo dei dodici, forse scritto in ebraico o aramaico a Gerusalemme prima dell’anno 36, anno in cui gli ebrei di lingua greca, chiamati «ellenisti» nel NT, furono cacciati dalla città santa, spostandosi ad Antiochia in Siria, a nord della Palestina. Qui nasce e si sviluppa una fiorente comunità dove per la prima volta i discepoli di Gesù sono chiamati «cristiani». Anche qui si sentì la necessità di avere «scritture» di Gesù sia per la liturgia che per la catechesi.
Si suppone che il Vangelo dei dodici sia stato tradotto in greco, ma aumentato di altro materiale che raccoglieva i gesti e insegnamenti di Gesù sull’universalità del suo messaggio rivolto non solo agli ebrei, ma a tutti gli uomini. Si arriva così alla seconda tappa del vangelo scritto, cioè a quello che possiamo chiamare il Vangelo degli ellenisti.
Vi sono così due «scritture» contemporanee: una a Gerusalemme per i cristiani di origine ebraica (Vangelo dei dodici) e una ad Antiochia per i cristiani di origine greca (Vangelo degli ellenisti).
La chiesa intanto si espande in Grecia attraverso i viaggi apostolici di Paolo. Nelle comunità fondate da Paolo come Filippi, Efeso, Corinto, Tessalonica, avviene lo stesso fenomeno di Antiochia: il Vangelo dei dodici è utilizzato come fonte base, ma integrato da altre fonti vicine a Paolo, che sottolineano l’universalità della salvezza e il culto spirituale. Anche qui, forse a Efeso intorno agli anni 55/56, nasce un altro vangelo: il Vangelo di Paolo.

I vangeli sinottici dopo i primi tre vangeli
Intoo agli anni 30/40 a Cesarea sul Mediterraneo nasce una comunità particolare, formata da cristiani provenienti dal paganesimo (quindi dal mondo greco), ma sono al tempo stesso simpatizzanti del giudaismo, stanno a mezza strada: non sono del tutto greci come non sono del tutto giudei. Questo gruppo, forse presieduto dal diacono greco Filippo, che gli Atti chiamano spesso «evangelizzante» (cf At 8,12.35), genera un quarto vangelo, comunemente censito come Vangelo dei timorati di Dio, che raccoglie materiale sparso fuori di ogni contesto storico o narrativo.
Gli studiosi sono soliti chiamare questa ipotesi come «fonte Q» (prima lettera del termine tedesco quelle, pronuncia kèlle, che significa fonte). I vangeli sono, dunque, tutti scritti occasionali, nati ed elaborati per illuminare con l’insegnamento del Signore la vita vissuta e le nuove situazioni che le comunità cristiane delle origini incontravano.
Intoo all’anno 50 d.C., dunque, nelle comunità cristiane, sparse in Palestina, in Siria, in Grecia e in Anatolia (attuale Turchia) circolano almeno quattro vangeli (dei dodici, degli ellenisti, di Paolo e dei timorati di Dio) e liste autonome di «detti» del Signore (es.: parabole) e racconti di miracoli. È un immenso materiale sparso, ma ancora fluttuante. A questo punto avviene il passaggio determinante, che corrisponde alla «redazione finale», che la tradizione attribuisce agli evangelisti sinottici: Marco, Matteo e Luca. Essi non sono solo collettori di tradizioni che assemblano insieme materiale raccolto, ma al contrario, raccolgono il materiale esistente e lo dispongono secondo un piano personale che persegue un fine specifico. Essi sono autori a tutti gli effetti.

I vangeli definitivi
L’evangelista Marco che non è discepolo di Gesù, ma lo ha conosciuto, è l’inventore dello schema del vangelo come lo possediamo (si dice genere letterario del vangelo). Egli fonde il Vangelo degli ellenisti e quello di Paolo, rielaborandoli di sana pianta e facendone un nuovo vangelo come strumento di una catechesi catecumenale: un aiuto a chi non conosce nulla di Gesù e si accosta a lui per la prima volta.
Matteo scrive un vangelo per i catechisti/maestri, quindi per coloro che già seguono Gesù, provenienti dal mondo giudaico. Nella redazione del suo vangelo si basa su Marco, che integra con materiale della «fonte Q» e con altro materiale a lui proprio, che gli arriva da fonti sconosciute agli altri.
Anche Luca, come Marco, non è discepolo di Gesù e, a differenza di Marco, non l’ha nemmeno conosciuto. Per redigere il suo vangelo, da studioso fa ricerche appropriate. Partendo da Marco, dal materiale comune con Matteo e dalla «fonte Q», egli aggiunge fonti proprie che gli derivano dalle tradizioni tramandate nella famiglia/parentela di Gesù o da fonti a noi sconosciute. Al terzo vangelo, Lc fa seguire il libro degli Atti degli Apostoli, che potremmo chiamare il «Vangelo dello Spirito Santo e/o della chiesa», perché racconta lo sviluppo e il diffondersi della chiesa del primo secolo fino alla prigionia di Paolo a Roma (a. 67).
I vangeli di Marco, Matteo e Luca sono redatti tra gli anni 60 e 80 d.C. Qualche decennio più tardi Gv, un autore dell’ambiente dell’apostolo Giovanni, tenendo presente questi vangeli «sinottici» scrive il iv vangelo, detto il vangelo del presbitero o spirituale, perché accompagna alla contemplazione di Cristo nella sua «Gloria» di Figlio di Dio e di Lògos incarnato.
In conclusione, alla domanda da dove arriva la parabola del «figliol prodigo» a Luca, possiamo rispondere: poiché non si trova nel materiale comune, Lc non l’ha ricevuta dalla tradizione sinottica perché Mc e Mt la conoscerebbero. Lc con ogni probabilità la riceve da una fonte particolare (famiglia?) non conosciuta dagli altri e nemmeno da noi. D’altra parte nel prologo (1,1-5) egli ci dice che fece ricerche accurate e sicuramente è venuto a contatto con materiale che solo lui poté avere a disposizione.
Dal prossimo numero cominceremo a presentare la parabola e a commentarla.

Paolo Farinella
(continua-1)

Paolo Farinella