CHIAMATEMI LADINIA

Per quasi 2 mila anni i ladini hanno sviluppato la propria cultura nelle valli dolomitiche, un’area geografica che dovrebbe chiamarsi Ladinia.
Le vicende storiche dell’ultimo secolo hanno frantumato la loro coesione sociale e culturale, per assimilarli ai dominatori di tuo. Lingua e religione cementano ancora la loro identità. Il frutto illustre di tale identità cristiana è san Giuseppe Freinademetz, per 30 anni missionario in Cina.

Grande cultura, quella ladina, che si incunea tra le cinque vallate della Val Gardena, Badia, Fassa, Livinallongo e del cadorino, raggruppando 30 mila persone.
Grande cultura se si tiene presente che è riuscita a sopravvivere nonostante sia sempre più stritolata tra il ceppo italiano e quello germanico; nonostante la storia, tra cui si insinuano due guerre mondiali, l’abbia sempre vista sconfitta; nonostante Austria, Germania e Italia abbiano cercato in tutti i modi di scaificare il tessuto culturale, per utilizzarlo come cuscinetto che oliasse le frizioni tra le etnie principali: quella tedesca del Tirolo a nord e quella italiana del Trentino a sud.

Lingua e religione:
identità della Ladinia

La cultura ladina si è mantenuta viva grazie alla lingua, derivata dalla trasformazione del latino volgare, portato da Tiberio nel 15 a.C., mischiandosi con la parlata dei reti, prendendo corpo tra l’viii e il ix secolo d.C., apparentandosi con l’occitano e il catalano.
«Lingua ladina, dunque, non dialetto alpino» scrisse il regista Pierpaolo Pasolini, ladino friulano anch’egli.
«Essendo ladino, ci tengo a parlare ladino, anche se le mie radici sono inserite in un contesto che mi impone di parlare altre lingue, che imparo comunque volentieri» dice Leander Moroder, direttore dell’Istituto ladino di San Martino in Badia, interpretando il pensiero aperto e accogliente della maggioranza dei ladini.
Ma la sopravvivenza della ladinità, si esplica anche attraverso un secondo elemento fondamentale: la religione. Fu il sacerdote badiota Micurà de Ru a elaborare la prima grammatica ladina. E la religiosità cattolica ladina, da sempre cemento di coesione tra le diverse vallate, si è sempre contraddistinta per un forte senso comunitario tipico delle vallate montane.
«La tradizione religiosa accomuna i ladini di tutte le cinque valli e non è un caso che, per separare il nostro popolo, si è pensato di dividere le cinque vallate tra le diocesi di Bressanone, Trento e Belluno» afferma Hilda Pizzinini, figura storica per tutto il popolo ladino e, fino al 2004, presidente dell’Union Generela di Ladins dles Dolomites.
Le feste cristiane diventano così eventi di comunione e di incontro tra le popolazioni, ma sprizzano anche di influssi germanici, più che italiani. La festa di San Nicola, la predilezione per i santi e gli ordini monastici nordici si riconducono a uno stretto legame tra le popolazioni ladine e quelle tirolesi; legame non sempre pacifico e rispettoso.
Se nel xii secolo il ladino era parlato in quasi tutto l’arco alpino centro orientale, nel xvii secolo, con la germanizzazione dell’Alta Val Venosta, la lingua e le tradizioni ladine vennero prima vietate e poi represse con violenza.

Lavaggi… linguistici

Da parte italiana la colonizzazione non fu meno feroce e brutale. Il fascista Ettore Tolomei, definito da Gaetano Salvemini «l’uomo che escogitò gli strumenti più raffinati per tormentare le minoranze nazionali in Italia», gettò le basi politiche e ideologiche per la creazione della regione Trentino Alto Adige, scatenando l’irredentismo sudtirolese.
La data che fa da spartiacque di questa colonizzazione è il 10 ottobre 1920, quando l’annessione del Trentino e dell’Alto Adige al regno d’Italia venne sancita in sede diplomatica. La violenza e la determinazione con cui fu attuata l’italianizzazione, può essere evidenziata con un solo dato: in soli due anni, gli italiani residenti nelle valli sudtirolesi quintuplicarono, passando da 8.000 a 37.000.
La tesi ufficiale che diede inizio alla nazionalizzazione tricolore, il 29 settembre 1923, fu che «la maggior parte della popolazione del Tirolo meridionale è costituita da latini, i quali hanno dimenticato la loro origine e sono diventati tedeschi. Bisogna quindi “recuperarli”, riscoprendo il “sostrato” latino più antico e genuino per ogni nome locale tedesco e ladino». Brixen divenne Bressanone, La Ila si trasformò in La Villa, Cianacei in Canazei, Gherdeina in Gardena…
Per i ladini non fu il primo «lavacro dei cognomi», dato che già dal 1700, sotto il dominio tedesco e asburgico, molte famiglie furono costrette ad adottare cognomi tedeschi. Qualche esempio? Zanon in Senoner, Ruac in Rubatscher, Murena in Moroder (Giorgio Moroder, il famoso compositore di musica per film è ladino di Ortisei).

Identità disgregata

Ma il fascismo, con l’intento di debellare ogni forma di ribellione politica e culturale, attuò una ben più profonda cesura: la tripartizione della comunità ladina, prendendo spunto dalla precedente divisione napoleonica del 1810. Tra il 1923 e il 1927 i ladini vennero divisi in tre province: l’Ampezzo, Livinallongo e Colle Santa Lucia passarono alla provincia di Belluno, la Val di Fassa a quella di Trento e la Val Badia e Gardena a quella di Bolzano. Una disgregazione dittatoriale che dura tuttora e nell’estate scorsa i comuni cadorini di Cortina, Livinallongo e Colle Santa Lucia hanno tentato di annullare chiedendo l’unione con la provincia di Trento. Quella fascista non fu solo una mossa amministrativa, ma un tentativo, in parte perfettamente riuscito, di dividere politicamente l’identità ladina.
Ancora nel 1939, con l’accordo italo-tedesco sull’opzione, si lasciò ai sudtirolesi la possibilità di scegliere tra restare in Sud Tirolo, diventando italiani a tutti gli effetti, o emigrare nella Germania nazista. Per i ladini, la cui identità è differente sia da quella tedesca che da quella italiana, non venne concessa una terza opzione: o si era Dableiber, sudtirolesi italiani fascisti o Auswanderer, sudtirolesi tedeschi nazisti.
Neppure la fine della Seconda guerra mondiale, con l’appoggio di Stati Uniti e Francia all’autodeterminazione tirolese e, in separata sede, anche a quella ladina, per creare una potenziale nazione che avrebbe dovuto fungere da stato cuscinetto tra Italia e Germania, fu liberatoria per il popolo ladino. In questo caso fu Alcide De Gasperi a vanificare tutte le speranze di autodeterminazione. Con il pugno di ferro ritirò le promesse fatte a Parigi di un’autonomia ladina e, anzi, suggellò definitivamente lo status quo fascista: tripartizione e istituzione della regione Trentino Alto Adige.
Secondo De Gasperi il movimento politico ladino, Zent ladina, fondato nel 1946 al passo Gardena con l’obiettivo di riunificare le cinque vallate ladine, era un’accozzaglia di «austricanti». I mezzi per sconfiggere questa «marmaglia» anti italiana furono subdoli e infidi: le Olimpiadi invernali del 1956 a Cortina servirono da pretesto a Roma per ridurre del 40% la presenza ladina sul territorio, favorendo l’immigrazione di italiani.
E se i sudtirolesi di lingua tedesca reagirono alla colonizzazione italiana, dando vita a un movimento separatista, i ladini scelsero la strada della politica, con la fondazione dell’Union Generela di Ladins dles Dolomites e del Movimento politico ladino.
La risposta italiana non si fece attendere. Sul fronte religioso, nel dicembre 1964, Livinallongo, Colle Santa Lucia e Ampezzo vennero staccate dalle diocesi di Bressanone; su quello politico, per non aprire un terzo fronte in Sud Tirolo, Roma lasciò che a giocare la questione ladina fosse la Sud Tiroler Volkspartei.

Senza voce in capitolo

La mossa fu azzeccata, tanto è vero che il gruppo tedesco ancora oggi soggioga quello ladino, escludendolo da ogni decisione politica. «Se voi avete Berlusconi, noi abbiamo la Svp – dice Giovanni Mischi, presidente del Movimento Ladins -. Subiamo forti repressioni derivanti dagli accordi tra la vecchia Dc e la Svp e che vengono mantenuti ancora oggi. Non abbiamo potere decisionale».
«Il Movimento politico ladino in Val Gardena e Val Badia ha retto per 10 anni – spiega Hilda Pizzinini -; poi la pressione della Svp ha schiacciato il partito e ora, nonostante i ladini rappresentino demograficamente il 4,8% della popolazione sudtirolese, abbiamo solo un rappresentante in provincia. E la gente si chiede quale contributo può dare alla causa ladina».
Neppure l’indotto economico che le valli ladine garantiscono alla regione Trentino Alto Adige, di gran lunga superiore al loro peso demografico, è riuscito a dare una svolta alla politica regionale. «Noi ladini non siamo riusciti a metterci d’accordo e questo è uno dei motivi per cui noi non contiamo nulla a livello amministrativo provinciale e regionale – lamenta Leander Morder -. Val Badia e Val Gardena, anziché creare un comprensorio unico ladino, hanno preferito aggregarsi a due entità economiche diverse: quelle dello Sciliar e della Pusteria».
Come spesso avviene, il successo economico, se da una parte ha giocato un ruolo positivo nel limitare l’emigrazione verso i centri più sviluppati, dall’altro ha sradicato la cultura. Dagli anni ‘70 la cementificazione ha imperato, snaturando (in senso letterale) la regione, in particolare la Val Gardena, Val di Fassa e Ampezzano. Non occorre essere un ambientalista per inorridire di fronte agli enormi complessi alberghieri costruiti per soddisfare le esigenze di un turismo d’élite, che una classe speculativa, formata da amministratori e impresari, ha voluto trascinare in queste valli. Un turismo d’élite che non ha nulla a che fare con la cultura contadina, che per secoli ha abitato masi e villaggi. Un turismo d’élite che ben poco conosce della cultura che li ospita e che, quando parla di cavalli, il pensiero viene rivolto allo stilista e non ai quadrupedi che un tempo popolavano le verdi vallate ladine.

Piergiorgio Pescali