Le parabole di Tirana

Lasciare il villaggio dell’interno dove manca tutto per andare a Tirana, la capitale. E poi da qui tentare il salto verso «Lamerica». È il sogno di moltissimi albanesi. Un sogno diffuso anche attraverso le illusioni proposte dalla televisione (italiana). Un sogno che può diventare realtà. O incubo.

«Il paese dove non si muore mai»: così ha intitolato il suo primo libro la fotografa e pittrice albanese Oela Vorpsi, riferendosi ad un’Albania che forgia corpi robusti e vigorosi, pronti ad affrontare qualsiasi prova. Gli uomini e le donne albanesi, infatti, hanno ossa forti e mani grandi, capaci di dissodare terreni con l’ausilio della sola zappa, e lavare per una vita lenzuola ed asciugamani nella fontana del cortile, con l’acqua gelida, con qualsiasi tempo. Il corpo albanese è un involucro resistente, certo, ma sicuramente non può proteggere l’animo dall’angoscia di vivere sentendosi oppressi, senza libertà, schiacciati da tradizioni forti e radicate, dalla povertà, dal mito dell’Occidente «libero» rispetto alla rigidità della mentalità albanese. Anche in Albania si muore. Di suicidio.
Nel marzo dello scorso anno, nel paese si sono susseguiti a breve tempo i suicidi di 4 adolescenti, 3 dei quali erano ragazze, in una zona in cui il numero dei suicidi era già alto. Le statistiche riferirono di circa 200 persone che si suicidano ogni anno, e di circa 400 tentativi falliti. Un numero rilevante, per un paese di 3 milioni di abitanti. I giornali albanesi di allora additarono, tra le possibili cause, lo stress e la povertà, situazioni familiari difficili, la disoccupazione, l’indifferenza della società e la forte pressione per raggiungere il successo.
Avendo lavorato per un anno, nel 2002, a Gramsh, una cittadina di 15.000 abitanti dell’Albania centro-meridionale, ed avendo sentito, allora, di numerosi casi di suicidio nella zona, posso dire di aver toccato con mano il dramma dei e delle giovani albanesi, la loro perdita della speranza, la mancanza di un lavoro, i salari troppo bassi, come l’incomunicabilità con genitori e insegnanti. Un ulteriore fattore grava, però, sulle loro coscienze: l’opinione della gente, che non perdona, che condanna, e contribuisce così a rendere la realtà soffocante e, quindi, un luogo da cui fuggire. Ad ogni costo.

NEL CUORE ANTICO

Allontanandosi dalla capitale, ci si addentra sempre più nella vera Albania, quella dei villaggi e delle piccole città, dove la cultura e le tradizioni albanesi sono ancora ben radicate in ogni gesto della vita quotidiana. Sono i luoghi che il governo sembra aver dimenticato, o meglio, che conosce ma ignora. Gramsh è uno di questi. Piccola città nascosta tra le montagne (per giungervi da Tirana si percorrono circa tre ore di strade tortuose che attraversano una natura bellissima, fra monti e colline dai colori dell’autunno), dove bambini e vecchi portano al pascolo pecore e mucche, mentre uomini e donne, a piedi, a dorso di un asino o su un furgone, trasportano uova, frutta, verdura e polli vivi dai villaggi, per venderli al mercato. Il disagio e l’emarginazione, tra i giovani, è molto forte, a causa delle notevoli difficoltà sociali ed economiche che incontrano. Dopo la scuola (sempre che ci vadano), hanno ben poche prospettive: dedicarsi alla pastorizia, all’agricoltura, o trovare qualche lavoretto saltuario.
Al tempo del regime, tutta la zona di Gramsh fu scelta dal governo per mandarvi al confino chi non condivideva le idee del Partito. L’economia della città si basava sulla produzione di kalashnikov e di batterie, ma successivamente le fabbriche hanno chiuso ed oggi non c’è più lavoro per nessuno. I ragazzi e gli uomini passano parte delle loro giornate a bere al bar (i casi di violenza in famiglia causati dall’alcolismo sono purtroppo all’ordine del giorno), a giocare al biliardo o al bingo, spendendo quel poco che hanno in un gioco senza fine. Tutti tentano la fortuna con la lotteria americana, che fa vincere ai pochi fortunati un visto per gli Stati Uniti. La maggior parte delle famiglie cerca di sopravvivere con un sussidio economico statale di 3000 lek al mese – circa 25 euro – con il quale riesce a malapena a comprare la farina, il latte e poco altro. La carne si mangia una volta alla settimana, se va bene. In alternativa, formaggio, uova, pomodori, cetrioli, fagioli e byrek, una pasta a sfoglia sottile ripiena di formaggio, carne o verdure.

LA SCUOLA DI ARTAN

La corruzione è alta a tutti i livelli.
Artan, un ragazzo di 26 anni, mi raccontò: «Per passare gli esami alla scuola per corrispondenza, si deve pagare ogni esame. Ho dovuto mettere i soldi dentro al foglio ogni volta che ho sostenuto un esame scritto, e pagato l’insegnante sottobanco per gli orali. L’insegnante prende da parte uno studente e gli dice: “Oggi devi pagare 1.000 lek”. Poi lui lo riferisce agli altri esaminandi. Niente soldi, niente possibilità di passare l’esame. Qui siamo tutti uguali, sia i poveri sia i ricchi, quelli che noi chiamiamo intellettuali e che guardano dall’alto in basso chi, come me, non ha fatto la scuola».
Per chi si chiedesse dove possa trovare la gente comune tutti quei soldi per pagare l’istruzione come le cure mediche, dato che uno stipendio medio si aggira intorno ai 150 euro mensili, la risposta sta nel fatto che la gran parte vive grazie alle rimesse dei numerosi albanesi che vivono all’estero. D’estate, l’unica strada che taglia la città è tutta un viavai di macchine di grossa cilindrata e con targa straniera: sono gli albanesi che tornano a casa per le vacanze, che non possono fare a meno di dare sfoggio del cambiamento di status sociale raggiunto all’estero. Alcuni vengono solo per il periodo necessario per effettuare un matrimonio combinato, per poi ripartire con la fede al dito e l’attesa che la moglie (conosciuta e scelta in due giorni) abbia i documenti necessari per il visto per «Lamerica».
Emigrare resta il sogno di molti giovani, sia che provengano dalle città che dai villaggi. Quasi tutti quelli che ho incontrato, sia ragazzi che ragazze, mi dicevano spesso di voler rimanere in Albania, «per fare qualcosa per il mio paese, per la mia patria, per il futuro dei nostri bambini». Ma poi, parlando, rivelavano sempre il loro desiderio nascosto: quello di partire. Lasciarsi tutto alle spalle, cominciare una vita nuova. O meglio: cominciare finalmente a vivere.

I SOGNI DI XHON

Xhon (pron.Gion), un ragazzo di 30 anni di un villaggio del distretto di Gramsh, un giorno mi ha spiegato cosa volesse dire, per lui, essere albanese: «Tu puoi sperare di viaggiare, di fare esperienze in giro per il mondo, e sai che lo potresti fare, se lo volessi. Qui no. In Albania nessuno può attendersi una vita così, perché per tutta la vita si è come chiusi dentro a un guscio da cui non si può uscire. I sogni restano sogni, e questa mancanza di libertà crea la violenza, la dipendenza dall’alcornol, la spinta a partire clandestinamente per l’Italia, dove però tutto sarà diverso da come noi sogniamo, io lo so, me lo raccontano i miei amici che vivono là. Il problema a trovare una casa ed un lavoro perché albanesi; la difficoltà ad ottenere il permesso di soggiorno. Ma, nonostante questo, preferirei subire tutto questo, piuttosto che vivere morto dentro».
Xhon è uno dei tanti ragazzi che ha cercato di fuggire da una realtà soffocante, in cui non c’era lavoro e si faceva la fame. La sua prima meta è stata la Grecia. «La prima volta che ho cercato di passare il confine avevo 18 anni, nel 1995. Mio padre era sempre ubriaco ed io volevo i soldi per comprare la televisione ed i mobili per la casa. Dopo aver camminato a piedi per 3 o 4 giorni, siamo riusciti a passare il confine di nascosto. Vicino al confine c’era un monastero di suore ortodosse, dove mi avevano detto che ci avrebbero dato dei soldi se avessimo acconsentito di farci battezzare. Loro davano soldi a tutti quelli che si sarebbero fatti battezzare. E così fui battezzato in due giorni, io che non credevo manco in Dio.« Xhon è poi stato subito catturato dalla polizia greca di frontiera e rimandato in Albania. Ha poi tentato di tornarci una seconda volta, dormendo al gelo in mezzo alle tombe di chi, prima di lui, non era riuscito a passare il confine, e rischiando a sua volta di morire sulle montagne che lo separavano dalla sua «vita nuova». Riuscì a rimanere in Grecia un po’ di tempo per guadagnare qualcosa, prima di ritornare in Albania. Dopo aver lavorato per qualche anno per un’ong straniera della sua città, oggi sta tentando di andare in Italia. Dovrà trovare 3.000 euro per pagare qualcuno che, da intermediario, gli procurerà un visto falso (o vero, di un mese) per il Belpaese, «dove finalmente potrò sentirmi libero. Sono disposto a fare qualsiasi lavoro, l’importante è riuscire ad andare via da questo posto in cui non ho speranze di costruirmi un futuro. E poi penso che voi italiani siate più buoni, più aperti di noi, più umani. Noi albanesi siamo razzisti, abbiamo un razzismo interiore, una gelosia gli uni per gli altri che ci divide e ci ammazza, i bianchi dai neri (le persone di etnia rom, ndr), la gente del nord dalla gente del sud, gli intellettuali dagli ignoranti, i ricchi dai poveri. Sì, penso che voi siate più buoni».

«NON È LA RAI»

Spostandosi nella capitale, Tirana, si potrebbe avere l’illusione che per i giovani, qui, tutto sia diverso: le aspettative di vita, il lavoro, il modo di trascorrere il tempo libero, l’apertura mentale delle persone. Le vie brulicano di locali alla moda, molto simili a quelli europei. Passeggiando lungo il lago artificiale della capitale, di domenica pomeriggio, si incontrano numerose famiglie che vanno a spasso con i bambini (tanti), fra chioschetti che vendono pop-co, zucchero filato e semi di girasole, o si sdraiano su coperte adagiate sull’erba, mentre i più piccoli giocano a pallone. Sembra una bella immagine uscita dai miei ricordi di bambina, quando la domenica si andava a fare i pic-nic in montagna con i parenti. Di giorno Tirana sembra un arazzo, con quelle file di palazzi tinteggiati di rosa, verde intenso, giallo, blu e rosso porpora, a portare una ventata di allegria dove prima c’era un susseguirsi monotono di palazzoni del colore del cemento, tipici di tutte le città albanesi. Le immancabili parabole fanno capolino, maestose, dalle finestre e dai balconi di ogni palazzo, anche da quello più fatiscente, o dalla baracca del più povero, a ricordarci che qui il mito dell’Occidente passa attraverso la televisione italiana fin dagli anni ‘80, dai tempi di «Non è la Rai». Non a caso, molti hanno chiamato i loro figli con nomi italiani: Albano (Al Bano e Romina Power riscuotono ancora un enorme successo), Adriano, Raffaella, Gigliola. Ma anche Edison, Cristo e Sandokan. Nomi lontani da quelli dei loro nonni, che evocavano eroi nazionali, fiori e allegria: Mimosa, Rosa, Bellezza, Gioiello, Libertà.
La vita scorre veloce per le strade ancora piene di buche, il fango ti inzacchera le scarpe ad ogni stagione, e la polvere, insieme ad uno smog spaventoso, è capace di toglierti il respiro mentre attendi alla fermata un autobus che giungerà, come sempre, strapieno.
Il costo della vita è equiparabile a quello italiano, nonostante i salari siano notevolmente più bassi rispetto ai nostri. Eppure, la vita nottua dei giovani tiranesi, confinata soprattutto al block, è viva e intensa, con locali di tendenza in cui sorseggiare una bibita alcolica può costare una follia, se paragonata al salario medio del paese.

I VIAGGI DI MANDI

In meno di dieci anni, la popolazione della capitale è passata da 200.000 a 700.000 abitanti. Molte famiglie contadine provenienti dalle zone più povere del Nord si sono riversate qui, nella speranza di poter offrire un futuro migliore ai propri figli. Che invece continuano a sognare di scappare all’estero. Nel gennaio del 2004, nelle acque dell’Adriatico al largo di Valona affondò un gommone carico di disperati che provenivano soprattutto dal nord del paese. In Albania si respirava un clima di grande tensione ed indignazione. Gli albanesi erano stanchi di non avere la possibilità di ottenere un visto per espatriare regolarmente, e di veder morire la propria gente che per sfuggire alla miseria era disposta a rischiare la vita, mettendola nelle mani degli scafisti. A caro prezzo, davvero in tutti i sensi.
Mandi ha 22 anni. Già a 17 ha provato ad andare in Italia col gommone, pagando 700 euro trovati chissà come. «Era fine marzo. Sono dovuto stare in un hotel di Valona per un mese e mezzo prima di partire, perché per gli scafisti non giungeva mai il momento buono per partire. Poi una notte, alle 2 meno 10, siamo partiti. Avevo dato i soldi ad un socio dello scafista, loro si sarebbero poi divisi il compenso. Se il viaggio non fosse andato a buon fine, avrei avuto la possibilità di riprovare ancora 3 volte, prima di avere i miei soldi indietro. Erano presenti dei poliziotti, quando ci siamo imbarcati. Eravamo proprio scortati! Sul gommone eravamo in 37, un mio amico ed io, e delle prostitute accompagnate da alcuni ragazzi. Le ragazze non hanno mai aperto bocca, parlavano solo gli uomini. Uno di loro accompagnava la moglie del fratello. Alle 4 del mattino eravamo a Lecce. Sul gommone con noi viaggiava anche un uomo con il permesso di soggiorno italiano, che, una volta sbarcati, ci ha condotti, a piedi, in un villaggio lì vicino. Ma poi qualcosa dev’essere andato storto perché è arrivata la polizia, che ci ha caricati su un autobus e portati a Bari in una struttura per clandestini. Poi siamo stati tutti imbarcati su un traghetto che ci ha riportati a Valona, dove ci attendeva la polizia». Mandi è stato in Albania per circa un anno, poi ha provato ad andare in Grecia pagando 100.000 lek (800 euro), ma la Grecia non gli piaceva. Così ha provato ad andare in Inghilterra, pagando circa 2.000 euro per un visto Shenghen. «Non so se il visto che mi fecero sul passaporto fosse vero o falso, ma non mi importava, volevo solo partire». Non ce la fece ad entrare in Inghilterra, così dovette tornare. Volle ritentare un’altra volta, pagando 4.000 euro, ma i suoi genitori lo convinsero a restare. «Oggi andare in Gran Bretagna costa 8.000 euro, perché è molto difficile entrare». Mandi, oggi, lavora come tuttofare presso una missione cattolica da circa 4 anni. «Essendo entrato come clandestino, non ho il permesso per tornare in Europa fino al 2007. Mi piace il mio lavoro, ma io voglio fare i soldi, la vita qui costa cara ed i soldi non bastano mai. E quando incontro dei miei amici che invece sono riusciti ad andare all’estero, hanno lavorato e sono tornati, sono invidioso perché loro sono riusciti ed io no. Ma il prossimo anno potrò tentare di nuovo».
Ognuno con la propria storia, con il desiderio di raccontarsi, di condividere con me un pezzo della loro vita spesso sofferente. I ragazzi mi raccontavano della vita di Tirana, delle ragazze più libere di quelle di campagna, dell’opportunità di studiare, dell’ossessione di diventare qualcuno. Ma non tutti desiderano partire per sempre. Durante la sessione di esami per la certificazione della lingua italiana, il primo passo verso il sogno italiano, molti dei ragazzi e delle ragazze mi dissero di volersi iscrivere alle facoltà di giurisprudenza, oppure a quella di scienze politiche, «così poi too e faccio qualcosa per cambiare il mio paese». Chissà se poi toeranno davvero? È stato bello, però, sentire con quanto entusiasmo pronunciavano queste parole, con quanta voglia di combattere una corruzione che va avanti da anni, un sistema che invece di avanzare arretra, che lascia senza luce interi villaggi anche per 12 ore al giorno. Erano quasi tutti diciassettenni, dunque carichi di desiderio di cambiamento, sicuramente meno stanchi dei genitori, che ancora risentono dell’appiattimento perpetrato dal regime comunista e dei periodi che sono seguiti. In Italia bisognerebbe cercare di distruggere il pregiudizio dell’albanese dunque delinquente, oppure ballerino (sulla scia di una nota trasmissione televisiva).
In realtà, ho incontrato molte persone, con cultura, conoscenze, educazione e desiderio di fare qualcosa per la loro patria. Non a caso, le canzoni dei giovani rapper albanesi cantano di amor patrio, bandiera, orgoglio di essere nato albanese. O di aprire le braccia, mettere le ali e volare via. I giovani vogliono agire con i fatti, non solamente a parole. La loro carica interiore, i loro ideali sono solo un inizio, ma da qualche parte bisognerà pur cominciare per cambiare un paese. E chi meglio dei giovani lo può fare? Sicuramente il supporto dei «grandi» non deve mancare, solo loro possono aiutare i giovani a risollevare un paese.

CHE FARANNO I GIOVANI?

Nel 2004 ebbi occasione di partecipare, a Tirana, ad una tavola rotonda dal titolo «Giovani: problema o risorsa?». Mi rimase impresso l’intervento del rappresentante del parlamento dei Giovani, Endri Shabani. Dapprima affermò con rabbia che quando i giovani vengono maltrattati nelle ambasciate, o affogano nei mari tentando una traversata col gommone perché non c’è possibilità di ottenere un visto, essi non avranno mai la possibilità di fare confronti tra la loro società e quella europea, impedendo così alla loro di progredire. Infine concluse raccontando una storiella tipica albanese. Due giovani, giocando con una fionda nel bosco, colpirono un uccellino. Quando lo presero in mano, videro che questo era in agonia, ossia non era né vivo né morto. In quel momento giunse nel bosco un vecchio, che era considerato il saggio del villaggio.
Uno dei ragazzi, per infastidirlo, nascose l’uccellino dietro la schiena e gli chiese: «Dicci, o vecchio saggio, questo uccellino è vivo o morto?». Se il vecchio avesse detto che era morto, il ragazzo gli avrebbe dimostrato che era ancora vivo. Ma se il vecchio gli avesse detto che era ancora vivo, al ragazzo sarebbe bastato stringere un po’ le mani perché l’uccellino morisse. In entrambi i casi, il vecchio non sarebbe più stato considerato il più saggio del villaggio.
Il vecchio, però, nella sua saggezza rispose loro: «Il suo destino è nelle vostre mani». Endri Shabani terminò così il suo intervento: «Insegnanti, direttori, politici e chiunque abbia a che fare con i giovani, considerate il futuro dei giovani come un uccello in agonia, il suo destino si trova nelle vostre mani».

Elisabetta Borda